DOCUMENTO DI STORIA (CLASSI IV F, IV G) LE

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DOCUMENTO DI STORIA (CLASSI IV F, IV G) LE
DOCUMENTO DI STORIA (CLASSI IV F, IV G)
LE ORIGINI DEL CAPITALISMO
Sebbene il termine capitalismo sia stato coniato nel XX secolo, in particolare per
distinguerlo dal sistema socialista, esso ha un’origine lontana. Nasce tra il tardo
Medioevo e le soglie dell’età moderna, soprattutto in un contesto italiano, nelle
repubbliche marinare e in quei comuni a spiccata vocazione mercantile, per poi
consolidarsi tra ‘500 e ‘600, a seguito dell’espansione dei commerci internazionali
conseguenti la scoperta dell’America. Va subito precisato, tuttavia, che gli storici sono
più propensi a parlare, in modo particolare riguardo alla fase cinque – seicentesca, di
proto capitalismo, per indicare appunto le origini di un fenomeno che avrà poi
caratteristiche ben precise e consolidate solo dalla rivoluzione industriale della metà
del ‘700.
Prima di capire il motivo di tale distinzione, è il caso di fornire una definizione di
capitalismo. Esso è quella teoria e prassi economica che si fonda sul capitale, ossia
l’insieme dei mezzi di produzione, sia mobili (vale a dire denaro, titoli, azioni) che
immobili (terre, case, banche, oggetti di valore). Nel sistema capitalistico la proprietà
dei mezzi di produzione è notoriamente in mano ai privati. In secondo luogo, tali mezzi
vengono investiti in un processo produttivo finalizzato alla realizzazione di un valore
superiore a quello di partenza, un surplus. Tale surplus, tolte le spese necessarie a
produrre e commercializzare i prodotti, si divide in due parti fondamentali: il profitto (la
remunerazione di chi investe capitale) e il salario (la remunerazione della forza –
lavoro impiegata nel processo produttivo). Il capitalismo è così quel modo di
organizzazione dell’economia e della società fondato sull’investimento del capitale al
fine di ottenere profitti. Inoltre, tale sistema si basa sulla libertà di iniziativa
economica e su un sistema di mercato, contesto in cui si scambiano le merci e si
fissano i prezzi. La modalità di fissazione dei prezzi sarà la legge della domanda e
dell’offerta, per cui i prezzi saranno destinati a salire se la domanda sarà più alta
dell’offerta e a scendere nel caso contrario.
Nel corso dei secoli (a partire dalla prima rivoluzione industriale), il capitalismo ha una
sua priorità nella continua ricerca di innovazioni tecnologiche finalizzate a valorizzare al
massimo la possibilità del profitto.
Torniamo adesso al nostro contesto storico. Qui possiamo rilevare una differenza
fondamentale tra il protocapitalismo cinque – seicentesco, di natura commerciale e
finanziaria, da quello relativo alla prima rivoluzione industriale che sfocia poi nell’800: il
primo non dà ancora vita ad una industrializzazione intensiva e non crea ancora beni di
consumo su vasta scala, ma si fonda sulla ricerca di profitti da parte delle grandi
banche, i Fugger in Germania o le famiglie genovesi, fiorentine e fiamminghe. Non
solo, ma questo primo capitalismo non domina ancora il mercato in modo globale,
come accadrà in seguito, ma convive ancora con forme di autoconsumo e di
sussistenza economica, come il villaggio contadino. Resta il fatto che è proprio in
seguito alle scoperte geografiche che ha inizio quel lento processo, che conduce
l’uomo bianco a colonizzare, con tappe e modalità differenti, il resto del pianeta; in
esso si possono ravvisare i prodromi della globalizzazione, che caratterizza il nostro
tempo. Un nuovo stile di vita, quello borghese, comincia ad imporsi, anche se in modo
decisamente diverso a seconda dei paesi. I banchieri assumono un ruolo decisivo: i
Fugger finanziano l’imperatore Carlo V, i genovesi sono legati in modo strettissimo alle
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avventure ( e disavventure) della monarchia spagnola di Filippo II (il periodo che va dai
primi decenni del ‘500 al 1620 circa è stato definito ‘secolo dei genovesi’). Le fiere della
prima età moderna vengono sostituite, come centro di scambi, dalle borse, luogo dove
si incontrano banchieri, mercanti, e tutte quelle persone legate in qualche modo al
capitale. Qui si scambiano merci, titoli, informazioni, diritti di proprietà, si costituiscono
compagnie commerciali, come vedremo. Si ritiene che la prima borsa possa essere
nata addirittura nel XII secolo a Lucca (sebbene l’etimo venga fatto risalire ad un
mercante fiammingo) e in seguito prima Venezia, poi in forme più organizzate e in
quantità superiore, ad Amsterdam, che dalla metà del ‘600 verrà lentamente sostituita
da Londra.
Nel ‘500, insomma, si assiste in Europa ad un maggior benessere, che porta ad una
consistente ripresa demografica e ad un aumento della richiesta di beni di consumo (la
cosiddetta domanda). Tuttavia, l’Europa della seconda metà del ‘500, primi del ‘600 fu
costretta ad attraversare un problema assai rilevante: la cosiddetta rivoluzione dei
prezzi. Ci fu infatti un consistente aumento dei prezzi dei vari prodotti, che riguardò la
Spagna in primo luogo ma coinvolse anche gli altri stati. L’interpretazione tradizionale
spiegava questo fenomeno con l’ingente afflusso di metalli preziosi (oro e argento) che
dalle miniere dell’America latina invasero i mercati spagnolo e portoghese. Essi,
utilizzati soprattutto per il conio delle monete, portarono ad un consistente aumento
della circolazione monetaria (superiore alla stessa produzione) e dunque ad una
diminuzione del loro valore. I prezzi aumentarono e la moneta fu fortemente svalutata
(il cosiddetto fenomeno dell’inflazione), per cui il potere d’acquisto del denaro si
abbassò drasticamente e per acquistare la stessa quantità di prodotto occorreva una
maggiore quantità di moneta. Tuttavia, accanto a questo motivo che non può
certamente essere disconosciuto, la storiografia più recente ne ha individuato un altro,
ben più decisivo e peraltro legato all’afflusso di metalli preziosi.
Abbiamo già sostenuto che ci fu un importante aumento demografico in Europa, il che
significò aumento della domanda dei prodotti, soprattutto di prima necessità. Sappiamo
del resto, dallo studio della crisi del Trecento, che le società preindustriali soffrono tutte
di un problema strutturale: l’offerta non è mai in grado di sopperire all’aumento della
domanda, per l’insufficiente livello tecnologico di queste società, e ciò si riflette
soprattutto nell’agricoltura, che non è in grado di far fronte al fabbisogno alimentare di
un consistente aumento della popolazione. (come sostenevamo sopra, il proto
capitalismo non crea beni di consumo su vasta scala, anche perché non ancora
sufficientemente saldato alla tecnica). Dunque, la domanda supera di molto l’offerta
e i prezzi salgono. Questo fenomeno riguardò un po’ tutto il continente, ma in modo
più drammatico Spagna e Portogallo, perché paesi poco propensi alla produzione.
Legati ad una vecchia mentalità, spagnoli e portoghesi ritenevano che la ricchezza
fosse legata (questo, a dire il vero, è caratteristica tipica dell’uomo del ‘600, come
vedremo più avanti) alla quantità di moneta in possesso da parte di un paese.
Derivando la ricchezza dai metalli preziosi, essi non si preoccupavano di produrre,
anche perché per gli hidalgos, i nobili spagnoli, ciò era disonorevole: i produttori erano i
discendenti dei laboratores, l’ultimo gradino della società tripartita del Medioevo. In tal
modo, con il passare del tempo, i metalli preziosi andarono a rafforzare sia i banchieri
genovesi e fiamminghi, con cui i sovrani iberici pagavano i finanziamenti richiesti, che
paesi produttori, come Olanda e Inghilterra, i quali si ripresero ben presto dalla crisi, in
virtù del loro efficace sistema produttivo, a cui Spagna e Portogallo dovevano gran
parte delle loro importazioni e la monarchia di Filippo II, esportando molto poco ed
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importando tanto (oltre a dissanguare le casse dello stato con continue guerre), andò
incontro a frequenti bancarotte.
Con la spiegazione delle cause della rivoluzione dei prezzi, che si affievolì nei primi
decenni del ‘600, abbiamo illustrato le cause di un fenomeno ed una delle
contraddizioni più emblematiche del protocapitalismo.
LA CRISI DEL SEICENTO
1. Fu vera crisi?
A lungo gli storici hanno parlato, a proposito di quello che Manzoni definì “il secolo
sudicio e sfarzoso”, di ‘crisi’ o di ‘recessione economica’, nel senso di una
depressione e di un forte arretramento nell’ambito delle attività produttive e
commerciali. In effetti, come vedremo tra poco, il Seicento presenta obiettivamente
la fine di un periodo di crescita economica e demografica iniziato nella seconda
metà del Quattrocento e che vede il suo arresto proprio negli ultimi decenni del XVII
secolo. Crisi agrarie, carestie, epidemie, rivolte, guerre, prima fra tutte la
spaventosa Guerra dei Trent’anni. Tutti avvenimenti che non possono essere
certamente disconosciuti. Ora, quale fu la causa di tale crisi, che non fu affatto
congiunturale (ossia, di breve periodo e in quanto tale risolvibile nel giro di pochi
anni), bensì strutturale (che implica cioè cambiamenti profondi nella struttura del
sistema produttivo europeo)? La tesi classica si rifà alla teoria maltusiana, dal nome
dell’economista inglese Thomas Robert Malthus (1766-1834). Secondo questo
modello interpretativo, alla fine del Cinquecento in Europa si sarebbe venuta a
creare una situazione, tipica delle società preindustriali, di eccesso della
popolazione rispetto alle risorse disponibili, senza che la società del tempo
mettesse in atto in tempo dei comportamenti in grado di prevenire o rimediare a tali
squilibri (per esempio, limitando le nascite). Sarebbero allora scattati a catena
meccanismi distruttivi del sistema demografico ed economico: carestie, epidemie,
guerre, che avrebbero ridotto la popolazione e ristabilito quell’equilibrio tra bocche
da sfamare e cibo a disposizione. Malthus fa un discorso che a noi può apparire
cinico: tale meccanismo distruttivo sarebbe salutare per le società, perché nel
momento in cui il rapporto risorse – popolazione si incrina, solo l’effetto domino che
ne deriva può essere in grado di ristabilire l’equilibrio precedente e impedire
conseguenze ancora più disastrose. Ne va della sopravvivenza del genere umano.
La rivoluzione industriale che inizia intorno alla metà del Settecento permise di
aumentare le risorse disponibili più di quanto aumentasse la popolazione, dando
vita ad una crescita demografica che non si è più arrestata fino ai giorni nostri, cosa
che Malthus non poteva immaginare. Senonché, negli ultimi venti anni tale
interpretazione, così come l’idea di una crisi ‘generale’ del Seicento, è stata messa
in discussione dalla recente riflessione storiografica. Sicuramente, quanto
sostenuto dall’economista inglese ha un fondo di verità, che può infatti essere
applicato anche a periodi storici precedenti, come la crisi del Trecento. Tuttavia,
l’errore consiste nell’impossibilità di spiegare un complesso di fenomeni con
una causa unica (lo squilibrio tra risorse e popolazione). Guardiamo di analizzare
allora il fenomeno per rintracciare una spiegazione policausale della cosiddetta crisi
del Seicento. E scopriremo che l’immagine di un Seicento a senso unico, sotto il
segno di una involuzione drammatica, non corrisponde pienamente al vero.
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2. Una spiegazione policausale della crisi
Analizziamo dunque i vari aspetti di una crisi che non presenta un’unica causa.
Sicuramente, ci furono dalla fine del Cinquecento frequenti crisi agrarie,
particolarmente gravi nelle società preindustriali, perché colpivano il settore chiave
della produzione economica. Cause di un peggioramento drastico dei raccolti sono
da rintracciare in cattive condizioni metereologiche: in effetti, recenti studi hanno
rilevato come, proprio a partire da questi anni, il continente europeo sarebbe
entrato in una sorta di piccola età glaciale, durata fin verso il 1850, e
contraddistinta da un abbassamento delle temperature medie e da un aumento
delle precipitazioni, il che avrebbe provocato un avanzamento dei ghiacciai in
montagna e uno spostamento in avanti delle vendemmie per consentire la
maturazione dell’uva, nelle zone più a sud. Di certo, la crisi agraria e la diminuzione
dei raccolti causò paurose carestie, nonché un rialzo considerevole dei prezzi
agricoli, troppo alti per le disponibilità economiche dei contadini. Di qui, aumento
della mortalità, specie tra i più poveri, soprattutto infantile, a causa della
malnutrizione o sottonutrizione. E in organismi debilitati fu più facile il proliferare di
epidemie, quali la terribile peste nera, del biennio 1629-1631, una vera e propria
pandemia, preceduta non a caso da due anni di carestia.
Comunque sia, il peggioramento dei raccolti fu dovuto anche ad un altro fenomeno,
tipico del Cinquecento, la cosiddetta cerealizzazione: i terreni vennero adibiti, in
molte zone europee nel corso del ‘500, a grano, il che consentì certamente di
sfamare una popolazione in costante aumento in quegli anni. Tuttavia, con il tempo
si assistette anche al rovescio della medaglia: un terreno adibito ad una sola coltura
lo impoverisce e rende più probabile che le variazioni climatiche danneggino poi
tutta la produzione. Questo comportò un impoverimento dei suoli e una diminuzione
dell’allevamento. Non va però dimenticato che tra Sei e Settecento vennero
bonificate notevoli estensioni di terreno, il che comprova le notevoli potenzialità
ancora inespresse dall’economia di questo periodo. Non solo, ma nella stessa
Italia, uno degli stati che risentirono maggiormente della crisi, vi furono importanti
trasformazioni nell’agricoltura, come bonifiche e disboscamenti che fecero posto ad
un’estensione delle colture arative, o l’inserimento di colture come mais e riso (in
pianura padana e più in generale nel centro-nord), che hanno rese superiori rispetto
al grano.
Tornando alla peste, essa mieteva innumerevoli vittime sia tra i poveri che tra i
ricchi, ma questi ultimi avevano la possibilità di fuggire dalle città per rifugiarsi nelle
loro residenze di campagna e sfuggire così al contagio, mentre i primi, anche negli
stessi lazzaretti (luoghi di raccolta dei malati), non avevano in genere scampo.
Riguardo alla questione del calo demografico, tuttavia, proprio a smentire l’idea di
una crisi generalizzata, la tendenza demografica è piuttosto differenziata: tra il 1600
e il 1650 il paesi del Mediterraneo paiono statici o in leggero calo, che è invece
drastico in Germania, non a caso principale teatro della Guerra dei Trent’anni,
mentre quelli dell’Europa nord-occidentale (Scandinavia, Inghilterra, Francia) fanno
registrare una discreta crescita demografica. Nella seconda metà del secolo
viceversa il fenomeno invertì la sua tendenza, con un progressivo aumento
demografico (seppur contenuto) per l’Europa del sud e un leggero calo per il nord.
Attenzione, dunque, a tesi monocordi o troppo affrettate. Le guerre avallarono
ulteriormente un quadro già deficitario, diventando un vero e proprio flagello a
causa delle devastazioni dei terreni e del contagio, di cui gli eserciti erano veicolo.
A livello economico, alla fine del Cinquecento l’afflusso di oro e argento dalle
Americhe diminuì fortemente, portando ad un pauroso sbandamento del sistema
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monetario europeo: scarsa quantità di moneta, crisi delle attività commerciali, crollo
dei prezzi (ossia, il quadro opposto a quello delineato nel paragrafo precedente,
inerente al ‘500). Dunque, crisi strutturale dell’economia. Ma fu veramente così?
3. Conseguenze della crisi
Alcune delle conseguenze della crisi sono già state evidenziate, almeno a livello
demografico e agricolo (calo della popolazione e riconversione produttiva).
Soffermiamoci ora sugli aspetti strettamente economici. La reazione signorile alla
recessione economica fu di tipo diverso a seconda delle aree geografiche:
nell’Europa centro-settentrionale e nell’Italia del nord vi fu un potenziamento degli
investimenti di tipo capitalistico, perché parte della nobiltà fondiaria si trasformò,
nel senso che molti suoi membri diventarono imprenditori, sfruttando le terre in loro
possesso non più vivendo di rendita, ma investendo poi il denaro guadagnato in
attività spesso di carattere commerciale o industriale. Viceversa, nell’Italia del
centro-sud, in Spagna e nel’Europa dell’est si assiste ad un fenomeno chiamato
rifeudalizzazione: ricompaiono o si rafforzano antichi diritti signorili, quali l’aumento
dei canoni d’affitto e delle corvees, prestazioni gratuite che i contadini dovevano ai
signori in virtù delle antiche consuetudini feudali. Per i contadini, specie negli ultimi
paesi ricordati, vi furono dure conseguenze: molti si impoverirono, riducendosi a
mendicanti, braccianti o vagabondi, oppure si trasferirono nelle città, ricevendo
nuove forme di sfruttamento imprenditoriale.
Il Mediterraneo perse definitivamente la propria centralità, a favore di stati quali
Olanda e Inghilterra, che riuscirono a far fronte alla crisi mediante una vera e
propria riconversione produttiva. Questi due paesi svilupparono una fiorente
industria di tessuti di lana di tipo nuovo, più leggeri, colorati e dal costo inferiore,
stoffe cioè che sostituirono le vecchie, più pesanti e costose, riscuotendo un grande
successo in Europa e Asia minore. A livello commerciale, grazie ai loro moderni
sistemi di costruzione delle navi e alla loro intraprendenza, Olanda e Inghilterra
conquistarono l’egemonia sui mari: gli Olandesi, con la creazione della Compagnia
delle Indie orientali, società di capitali privati ma protetta dallo stato, subentrò al
Portogallo nella gestione dei commerci con l’Estremo oriente. Gli Inglesi, con una
compagnia dallo stesso nome, allargarono i loro traffici nell’Oceano indiano, ma
soprattutto divennero padroni dell’Atlantico grazie anche alla guerra dei corsari e si
impadronrono definitivamente del commercio di schiavi tra America e Africa (il
cosiddetto commercio triangolare).
Essenziale, poi, un cenno alle rivolte sociali, che investono il continente europeo,
fattore ulteriore che aggrava la crisi e dipende dal peggioramento generale della
situazione. Le rivolte, conflitti dalla dimensione pubblica e allargata, ma non tali da
dar luogo a cambiamenti profondi nella società (a differenza delle rivoluzioni)
avvennero in Francia (le Fronde nobiliari e le rivolte dei contadini contro l’aumento
fiscale da parte dello Stato), in Inghilterra (contadini che protestano contro le già a
suo tempo menzionate enclosures, oltre alla lotta contro Londra di Scozia e
Irlanda), in Spagna, con l’insurrezione di Catalogna e Aragona contro il processo di
accentramento politico in atto, in Portogallo e Olanda, che divengono
definitivamente indipendenti dalla Spagna nel 1640 e 1648 (dell’Italia, parleremo poi
a parte). Come si può notare, un quadro variegato e complesso.
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4. Il ruolo dello stato nell’economia
Parlando del periodo storico che stiamo esaminando, è indispensabile fare cenno alla
crescita costante del ruolo e della presenza dello stato nell’economia, impostazione tipica
del Seicento. Il mercantilismo è la dottrina e prassi economica che si sviluppa nel
secolo in questione. Il suo principio chiave può essere espresso in questi termini: la
ricchezza di una nazione dipende dalla quantità di moneta che circola al suo interno e
dunque si basa sulla quantità di metalli preziosi che servono per coniare le monete. Su
questa base, occorre far in modo che le esportazioni siano il più possibile alte, affinché
i pagamenti facciano affluire nel paese la maggiore quantità possibile di moneta, mentre è
necessario tenere al livello più basso possibile importazioni, che implicano pagamento in
moneta.
All’interno, lo stato attua un rigido protezionismo, con dazi doganali sulle merci
provenienti da paesi esteri, il cui pagamento faceva correre il rischio di portare la bilancia
dei pagamenti ad un saldo negativo (che nella logica mercantilistica doveva invece restare
il più possibile in attivo). Lo stato attua anche una politica di incentivazione della
produzione nazionale, per soddisfare il mercato interno e per far sì che il paese sia
dotato di merci da imporre sui mercati esteri, al fine di rendere come sempre attiva la
bilancia dei pagamenti. Lo stato controlla dunque l’economia, finanziando anche la nascita
di industrie. A questo punto, una domanda si impone: ma se tutti gli stati fanno un
ragionamento di tal genere, cioè se tutti credono che sia necessario esportare e tutti
mettono dazi doganali sulle merci di importazione, come e dove esporteranno le proprie
merci? La risposta è molto semplice: le guerre commerciali, viste come normale
strumento di politica economica finalizzato ad aprire nuovi mercati per acquisire materie
prime o commerciare prodotti finiti. Le varie nazioni si dotano di compagnie commerciali,
che, finanziate dallo stato, dovrebbero detenere il monopolio del commercio tra un certo
stato europeo e un mercato asiatico (visto che questo fu il teatro principale di scontro, oltre
all’Atlantico); alla lunga, questo porta a far acquisire al proprio paese la quota più alta
possibile del commercio mondiale con la guerra. Solo così si spiega i già ricordati conflitti
tra Inglesi e Spagnoli nell’Atlantico, Olandesi, Portoghesi e Inglesi in Estremo Oriente, a
cui si aggiungerà la stessa Francia. Il mercantilismo, in conclusione, evidenzia uno stretto
rapporto tra politica ed economia.
5. Conclusioni e puntualizzazioni
Il quadro che emerge è dunque quello di un periodo storico non tanto di
depressione, quanto di ristrutturazione economica e sociale, che vide profonde
trasformazioni. Anche a livello demografico, è più corretto parlare di rallentamento
anziché di regressione. A conferma di quanto affermato, proviamo a fare un
sommario paragone con la crisi del Trecento: quest’ultima registrò un crollo della
popolazione, nel Seicento ravvisabile solo in Germania (specie a causa della guerra
dei Trent’anni), rimedi irrazionali contro la peste, mentre nel periodo esaminato
vennero messi in atto provvedimenti quanto meno dettati dall’esperienza, come
quarantene o respingimenti di persone provenienti da paesi ritenuti a rischio. Poi,
nel Trecento la crisi fu generalizzata, mentre nel Seicento Olanda e Inghilterra
furono toccate marginalmente da essa, e anzi trovarono poi occasione per divenire
le maggiori potenze economiche del secolo. Non ci dimentichiamo l’importanza che
assunse la Borsa di Amsterdam, vero e proprio epicentro del mercato finanziario
europeo.
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Sull’Olanda, è opportuno approfondire un attimo la questione. Essa è al centro in
questo periodo di una rete mondiale di traffici, che lo storico Braudel ha chiamato
economia-mondo: questo sistema ha al centro l’Olanda, che importa dalla periferia
(India, Americhe, Mar Baltico) prodotti grezzi a basso costo (come grano, spezie,
canna da zucchero, legname), li lavora in patria (il centro) e li esporta poi in Europa
(zone di smistamento) a prezzi decisamente più alti (si noti che economia-mondo
non significa economia mondiale o globalizzata, fenomeno che riguarderà la storia
successiva, almeno dalla metà dell’Ottocento in poi, ma proprio questo tipo di
sistema economico-produttivo, che ha un centro, una periferia e zone di
smistamento).
Un ultimo sguardo sulla penetrazione olandese in Oriente, per scoprire le cause
che portarono questa nazione a sostituirsi al Portogallo nel controllo del commercio
asiatico. I due paesi utilizzarono strategie completamente diverse nella loro
penetrazione nei paesi dell’Oceano Indiano e quella olandese si rivelò più efficace
nel lungo periodo, anche se entrambi, certamente, realizzarono profitti tramite il
controllo delle rotte commerciali. Il sistema portoghese era organizzato e controllato
dalla monarchia, mentre quello olandese lasciato alla libera iniziativa privata; i
portoghesi si comportarono in maniera aggressiva e intollerante in materia di
religione, specie nel periodo in cui erano dominati dalla Spagna, esportando anche
l’Inquisizione in quei territori. Gli Olandesi, viceversa, erano solo interessati al
profitto e non entrarono in materia religiosa: l’uso della forza fu messo in atto solo
quando era indispensabile per il loro traffici. L’Olanda, così, riuscì a sfruttare l’odio
che le popolazioni locali nutrivano verso i Portoghesi e ciò facilitò loro il compito. Lo
storico italiano Cipolla ha fatto notare che alla base del miracolo economico
olandese vi furono due essenziali fattori: aver imparato dagli italiani le tecniche
finanziarie e averle poi affinate; aver accolto e integrato materiale umano in fuga
dalle zone meridionali dei Paesi Bassi spagnoli (attuale Belgio) a causa
dell’intolleranza della Spagna a livello religioso e per la sua eccessiva intransigenza
politica e di controllo dell’economia.
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L’ITALIA NEL SEICENTO
Dopo aver parlato della crisi del Seicento a livello europeo, guardiamo ora più da vicino la
situazione italiana. La tesi classica secondo cui, dopo la scoperta dell’America, il
Mediterraneo sarebbe divenuto un mare periferico, perdendo la sua importanza a
vantaggio dell’Atlantico, va decisamente ridimensionata o quanto meno posticipata. Ciò
infatti avvenne solo alcuni decenni dopo, ossia a partire dagli anni 1620-1630, quando
cioè la crisi fece sentire tutto il suo peso anche nel nostro paese. Prova ne sia che
Venezia e Genova continuarono, fino a quel periodo, ad essere i porti più frequentati del
Mediterraneo. Il predominio spagnolo sull’Italia inizia dalla pace di Cateau-Cambresis e
fino al 1620 circa, questo periodo di pace ed economia piuttosto fiorente di cui continuò a
godere la nostra penisola va sotto il nome di Estate di San Martino, definizione che in
genere indica, nell’ambito climatico, un’estate che, sebbene sia terminata dal punto di
vista astronomico, mostra all’atto pratico un sostanziale colpo di coda fin verso Novembre
(S. Martino cade l’11 dello stesso mese). In realtà, gli storici fanno notare come questo
benessere fosse più apparente che reale: mercanti e produttori italiani non si erano mai
preoccupati di trasformare un sistema di produzione ormai obsoleto, che a lungo andare
non consentì loro di fronteggiare la concorrenza anglo-olandese. I prodotti italiani, infatti
(ad esempio i tessuti), avevano un costo alto e risultarono progressivamente fuori moda: il
livello dei nostri salari era più alto che nel resto d’Europa, difesi come erano dalle
organizzazioni corporative di origine comunale che frenavano oltretutto con le loro rigide
regole, ogni innovazione tecnologica. Piano piano le contraddizioni di questo sistema
iniziarono a farsi sentire: del resto, la debolezza economica era da noi un riflesso di quella
politica. Se gli stati europei, che si contraddistinguevano per una unità politica e per stabili
governi centralizzati, avevano così modo di condurre una politica di potenza e di sostenere
militarmente la loro penetrazione economica nei mercati europei ed extraeuropei, i nostri
stati regionali erano direttamente o indirettamente controllati e sottoposti al dominio
spagnolo. La crisi irreversibile della Spagna, che perse il primato politico ed economico sul
continente, coinvolse l’Italia: si verificò un declino dell’industria tessile e un crollo delle
industrie manifatturiere nelle grandi città. La nostra penisola fu dunque costretta ad una
riconversione produttiva: da paese che dominava i traffici ed esportava i tessuti, divenne
rifornitrice delle industrie estere di materie prime (soprattutto seta grezza e filati di seta,
ma anche lana grezza). Va peraltro puntualizzato che la decadenza spagnola, tale da
trascinare indiscutibilmente con sé i domini italiani, fu solo un’aggravante per un paese,
ribadiamo, che soffriva di una cronica debolezza politica ed economica.
Riguardo al commercio, Venezia e Genova, dopo l’Estate di San Martino, persero l’antico
monopolio delle spezie e le attività portuali, oltre alle flotte commerciali, entrarono in crisi
anche per lo spostamento dei traffici nell’Atlantico, con la rilevante eccezione di Livorno,
che nasce come città vera e propria solo nel 1600 e godette di significative esenzioni
fiscali, essendo lo scalo privilegiato nel Mediterraneo per le navi olandesi e inglesi.
L’agricoltura risentì meno della crisi ed essa fu più accentuata al sud: l’Italia del nord,
soprattutto in pianura padana, riuscì a riconvertire la produzione a nuove colture, come
mais e riso; inoltre, il declino dei commerci indusse i mercanti a spostare i loro capitali nel
settore agricolo. A Venezia il patriziato mercantile acquistò proprietà nell’entroterra e si
assistette anche da noi al fenomeno della rifeudalizzazione, di cui ci siamo già occupati
nella parte generale, che in Italia si accompagnò ad un altro fenomeno, la ruralizzazione,
per cui le campagne divennero a poco a poco più importanti delle città. La pastorizia
sostituì a sua volta la cerealicoltura, mentre altre colture si fecero via via strada, come il
gelso (in tutta la penisola), la vigna (in Toscana), lino e canapa (al nord). A riprova che non
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si può solo parlare di crisi per questo periodo così complesso, tale diversificazione
produttiva fu un aspetto positivo e potenziò nuove colture che offrivano redditi non inferiori
al grano. La conseguenza negativa fu la frammentazione dei mercati, nel senso che la
crisi produttiva del grano ridusse drasticamente l’esportazione dello stesso dalla Sicilia al
nord Italia.
A livello culturale, il nostro paese risentì fortemente del pesante clima di austerità e
repressione dovuto alla Controriforma, aggravato dal fatto che la Spagna era un baluardo
dell’ortodossia cattolica. Il Seicento è il periodo del Barocco, che in Italia ebbe grande
risonanza. Il termine, la cui origine è piuttosto controversa, fa probabilmente riferimento ad
un modo di ragionare artificioso o ad un tipo di perla dalla forma irregolare e bizzarra. In
effetti, il barocco è una fase della sensibilità collettiva che manifesta un marcato gusto del
bizzarro e dello stravagante, una tendenza alla spettacolarità e all’invenzione, alla
scenografia. Non dimentichiamoci che il Seicento è il secolo in cui il teatro ebbe grande
sviluppo: basti ricordare nomi come Calderon de la Barca, Lope de Vega, Racine, Moliere.
Certamente, è un periodo di forti luci ed ombre, emblematicamente espresso dalla pittura
di Caravaggio. La cultura controriformistica portò un senso di insicurezza, di minaccia
anche per gli stessi artisti; resta però il fatto che l’Italia riaffermò il proprio primato culturale
ed artistico, che perderà solo nel Settecento: si pensi soltanto alla Roma barocca di
Bernini, Borromini e Maderno o alla stessa rivoluzione scientifica, che ha in Galileo Galilei
il suo uomo di punta.
Come ricordato sopra, la nostra penisola fu direttamente o indirettamente, fino al 1714,
anno delle paci di Utrecht e Rastadt, che concluderanno questa lunga fase, sottoposta alla
dominazione spagnola. In senso generale, possiamo dire che se negli stati signorili si
consolida in senso assolutistico il potere del signore, nelle repubbliche si accentua il
carattere oligarchico degli ordinamenti cittadini, visto che si restringe la cerchia delle
famiglie ammesse al potere.
Gli stati italiani direttamente governati da Madrid, attraverso il Consiglio d’Italia e l’azione
dei vicerè e governatori inviati dalla capitale spagnola, sono il ducato di Milano, il regno di
Napoli, la Sicilia e la Sardegna. Per controllare la vita politica dei regni italiani, la Spagna
si avvaleva appunto di questi funzionari che avevano il compito di ispezionare
periodicamente i governi locali. In Sicilia e Sardegna questa funzione era svolta
dall’Inquisizione spagnola, mentre i ceti dirigenti di Milano e Napoli riuscirono ad evitarla,
sottoponendosi a quella romana, ritenuta meno severa. La stabilità del dominio spagnolo
fu dovuta alla indubbia capacità che Madrid ebbe di coinvolgere nel governo di queste
zone i ceti dirigenti locali, cioè i baroni del sud e il patriziato milanese, che furono
perfettamente integrati nel sistema di dominio spagnolo: la corona di Spagna offrì a questi
ceti feudi, onori e cariche, in cambio del loro appoggio politico. Resta il fatto che l’esosa
pressione fiscale a cui questi territori furono sottoposti, a causa delle ingenti spese militari
che la Spagna dovette sostenere nell’ambito della guerra dei trent’anni, condusse a rivolte,
tensioni sociali e al fenomeno, soprattutto al sud, del banditismo. La rivolta antispagnola
più famosa fu sicuramente quella capeggiata nel Regno di Napoli dal pescivendolo
Masaniello, nel 1647; essa, appoggiata dal popolo e da borghesi e intellettuali, aveva
l’obiettivo di condurre ad una riforma dell’ordinamento militare, all’abolizione delle forti
imposte e a porre fine allo strapotere dei baroni. Essa portò alla proclamazione di una
repubblica, che ebbe però breve durata, visto che tale rivolta fu repressa nel sangue.
Degli altri stati, indirettamente controllati dagli Spagnoli, in virtù di un sistema di alleanze e
parentele, parleremo adesso sommariamente. Lo Stato pontificio rafforzò il suo
assolutismo nei confronti dei territori sottoposti a Roma, che anzi aumento i propri
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possedimenti riottenendo, alla fine del ‘500, Ferrara, suo antico feudo. Nell’opera di
sradicamento dell’eresia protestante va menzionata l’alleanza di ferro con il vicerè
spagnolo di Napoli, braccio armato di questa normalizzazione cattolica, che condusse
alla repressione della comunità valdese in Calabria. A livello europeo, i papi furono però
molto attenti affinché si mantenesse un certo equilibrio tra Spagna e Francia: per esempio,
Clemente VIII riconobbe la legittimità del potere di Enrico IV di Francia contro i cattolici
francesi filospagnoli. Anche in questo periodo di egemonia iberica, la Chiesa non volle
rinunciare ad un ruolo autonomo, evitando di essere schiacciata dal potere dei sovrani di
Spagna. Nel Granducato di Toscana vi fu una restaurazione dell’autorità medicea e anzi
il potere del principe fu rafforzato rispetto alle prerogative delle varie magistrature
cittadine. Da ricordare la conquista di Siena da parte di Firenze, nel 1557 e l’assunzione al
servizio dei Medici di Galilei nel 1610. Con la figura di Emanuele Filiberto, il ducato di
Savoia impresse sempre più un destino italiano a questo stato, spostando la capitale da
Chambèry a Torino. Ci fu una riforma in senso assolutistico e una di carattere militare,
visto che l’esercito fu riorganizzato con la creazione di una milizia permanente reclutata su
base territoriale, distinta dal piccolo nucleo di professionisti alle dipendenze del duca:
questo portò i Savoia a diventare la principale potenza italiana, riprendendo le indicazioni
di Machiavelli, che aveva a suo tempo sostenuto la necessità di sostituire gli eserciti
mercenari con truppe permanenti. A quest’epoca risale inoltre l’istituzione della università
di Torino. La repubblica di Genova rafforzò in senso oligarchico l’ordinamento cittadino,
restringendo l’accesso al potere, riservato solo alle famiglie che facevano capo al banco di
San Giorgio, alleato della corona spagnola e suo finanziatore (ma esposto, così, al rischio
delle ripetute bancarotte della Spagna). Anche a Venezia si assistette ad un
accentramento oligarchico del potere come a Genova e, specie dopo Lepanto, essa
riprese la sua posizione centrale nel commercio con l’oriente, sebbene non potesse
riconquistare lo splendore di un tempo, a causa dello spostarsi sull’Atlantico dei principali
traffici commerciali. Più che altro, va ricordato il fatto che, in un periodo così intransigente
come quello esaminato dal punto di vista della difesa del cattolicesimo, Venezia mantenne
invece la sua immagine di oasi di tolleranza, ben governata qual era da una aristocrazia
illuminata. Si pensi all’Università di Padova, che consentì a Galilei per quasi vent’anni la
necessaria autonomia culturale per potersi dedicare ai propri studi. Emblematica fu la
questione dell’interdetto, che negli anni 1605-07 pose Venezia addirittura in contrasto
con la Chiesa: la ‘Serenissima’ si rifiutò di consegnare a Roma due prelati che si erano
macchiati di delitti comuni all’interno del suo territorio. La chiesa, che pretendeva di
giudicarli secondo i propri codici, rispose con l’interdetto, proibendo nello specifico ai
religiosi di celebrare messa nel territorio veneto. Venezia reagì con forza, espellendo i
gesuiti dal suo territorio. Nella controversia con il papa, le ragioni della repubblica furono
difese dallo storico e giurista Paolo Sarpi (tra l’altro un frate), che distinse in modo assai
moderno la dimensione spirituale da quella politico-temporale, salvaguardando così in un
periodo difficile per l’autonomia della ragione la laicità dello stato. La questione e il dibattito
che si scatenò ebbe risonanza europea, finché si giunse ad un compromesso grazie
all’intervento di Spagna e Francia: Venezia consegnò ai francesi i religiosi arrestati e
Roma ritirò l’interdetto, anche se la questione di fondo del rapporto tra potere religioso e
politico restò irrisolta. Peraltro, la vicenda è sintomatica del clima pesante che all’epoca si
respirava, specie nella nostra penisola.
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