east20_Istanbul,_ultima_frontiera_dell

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east20_Istanbul,_ultima_frontiera_dell
È l’avamposto fortificato dell’Unione Europea, nella quale a loro volta i
turchi cercano di entrare. Gendarme di Bruxelles, Istanbul lotta con determinazione contro l’immigrazione illegale, respingendo, deportando,
Istanbul, ultima frontiera
dell’Europa verso est
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testo e fotografie di Emiliano Bos
rimpatriando i clandestini. Ma così facendo corre il rischio di snaturare
se stessa e la propria storia. Che tutti riconoscono ricca di capacità di
confronto e accoglienza
e acque torbide del Corno d’Oro mulinano in un via-vai incessante di traghetti. I
riverberi di luci metalliche sembrano
incendiare le cupole delle moschee dell’antica
Bisanzio, mentre le ombre si allungano sulla
banchina di pietra bianca. Da questa posizione
si scorgono migliaia di scarpe d’ogni foggia
correre rapide verso l’imbarcadero per la sponda asiatica di Istanbul. Si avvicina il tramonto.
La metropoli ha il ritmo ronzante di un alveare laborioso. Davanti a Kadikoy Iskelesi, il
molo dei traghetti per la breve traversata
intercontinentale, staziona ancora il venditore
di simit, con il carretto carico dei tipici anelli
di pane cosparsi di sesamo. L’Asia Minor si
trova a 15 minuti di navigazione. L’Europa
Maior è qui. Lahat Ndaye c’è arrivato: questo
senegalese dinoccolato ha messo piede nel vecchio continente ormai cinque anni fa, senza
più muoversi. E si è scelto un angolo di grande
passaggio per offrire le sue mercanzie agli
avventori. Passaggi di uomini e merci, quest’incredibile città, ne vede da secoli. Come ai
tempi della Sublime Porta. Solo che adesso la
Turchia è davvero la porta d’Europa. Non più
sublime, ma solo chiusa. È l’avamposto fortificato dell’Unione Europea, di cui i turchi a loro
volta cercano l’ingresso. Gendarme di
Bruxelles sul fronte orientale, il governo di
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Ankara vigila sulle frontiere dei 27 con controverse politiche di lotta all’immigrazione
illegale: respinge, deporta, rimpatria i clandestini. Talvolta, di rado, li tollera. I ruoli di pattugliamento – come accade anche tra
Mediterraneo e Oceano Atlantico – sono delegati ormai all’esterno dell’Ue, polo catalizzatore di una moltitudine di migranti da ogni
direzione. La Turchia “accetta di fare il cane da
guardia degli europei”, sostiene la sociologa
Didem Danis, docente di Nuove migrazioni e
flussi transnazionali all’Università Galatasaray
di Istanbul. Non ci sono più mercanti veneziani, combattenti mamelucchi o commercianti
persiani. La Nuova Costantinopoli è (ed è
sempre stata) un caleidoscopio di popoli: al
composito mosaico locale di turchi, curdi,
greci, armeni s’aggiunge il crogiuolo di genti
che si incrociano su questa rotta alternativa
dell’emigrazione. Suo malgrado, la Turchia, e
Istanbul in particolare, è ormai un crocevia di
somali, georgiani, etiopi, iracheni, azeri, ucraini, iraniani, georgiani, nigeriani, afghani, ivo-
riani. “Diventeremo un cimitero di migranti e
rifugiati”, dice un funzionario del ministero
dell’Interno che non vuole né può fornire il
suo nome. “Non vogliamo restare a guardare
questo grande flusso”. Intanto questo flusso
s’alimenta ininterrottamente ma sfugge ai
visitatori. Rapiti dalla magnificenza della
Moschea Blu di Sultan Ahmet e dei mosaici di
Aya Sofia, i turisti spesso non s’accorgono dell’altra Istanbul. Una città nella città, dove
invece degli splendidi monumenti carichi del
passato ci sono quartieri che raccontano il presente. Abbiamo provato a percorrerla, senza la
Lonely Planet.
Kumkapi, ghetto d’Africa
Il nostro viaggio inizia a un centinaio di
metri dalla fermata del moderno tram che
taglia il centro di Istanbul. Si scende per una
viuzza in forte pendenza, tra hotel dall’aspetto
poco invitante e grandi magazzini tessili. Il
ventre molle di Istanbul si spalanca all’improvviso: un formicaio di case con balconi
diroccati, panni stesi con un filo tra un edificio
e l’altro, bambini che giocano scalzi per strada.
È una Mergellina d’Oriente, dove pure i rifiuti
accumulati sull’acciottolato sconnesso rendono
i vicoli così simili alla Napoli di questi mesi. In
fondo al dedalo di viottoli sbuca il Mar di
Marmara, coi suoi flutti “color piombo”
descritti da Orhan Pamuk. Per molti migranti
africani, l’alternativa al Mediterraneo è la
ricerca di un pertugio tra i Dardanelli e il
Bosforo. Anzi, l’approdo sul Bosforo.
Penultima tappa dell’interminabile itinerario
che nelle loro intenzioni dovrebbe terminare
in Europa. E che invece spesso s’arresta con
un arresto da parte della polizia e la deportazione in un centro di detenzione in strutture
finanziate dall’Ue o con il trasferimento forzato in una città-satellite dell’Anatolia. Migliaia
di migranti sono comunque arrivati qui a
Istanbul. Li trovi quasi tutti a Kumkapi, ghetto d’Africa nella Bisanzio dei popoli. Michael,
nigeriano con indosso una maglietta di
Beckam, esce da un internet-cafè che rappresenta l’indispensabile cordone ombelicale per i
senza-patria come lui. Moussa Noura Duali,
35 anni, per raggiungere il lembo d’Europa è
arrivato a piedi dalla Somalia. A piedi? “Sì”,
conferma il moderno pellegrino della postglobalizzazione, qualche ricciolo di barba già
bianco e un cappellino di lana in testa. “Dopo
anni di guerra cercavo un’alternativa. A ottobre dell’anno scorso ho lasciato a Mogadiscio
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ISTANBUL, ULTIMA FRONTIERA DELL’EUROPA VERSO EST
mia moglie e due figli”, ci racconta Moussa,
laurea in Agronomia e inglese fluente. La sua
odissea ha dell’incredibile: è partito dalla costa
somala di Bosasso sfidando la rischiosissima
traversata del Golfo di Aden sui barconi della
disperazione, simili a quelli che approdano a
Lampedusa. Poi lo sbarco in Yemen. Quindi in
cammino attraverso l’Arabia Saudita, il passaggio in Iraq e l’arresto della polizia turca al
confine. Quasi due mesi di carcere e poi qui a
Istanbul. “Di questa città conosco solo i cento
metri della strada dove vivo ora”, sorride
amaro. Africa street, la si potrebbe chiamare.
Congolesi, nigeriani, somali, camerunensi
condividono – divisi per comunità d’apparte-
nenza – qualche squallida stanza presa in
affitto nel quartiere di Kumkapi. “L’obiettivo
è l’Europa”, aggiunge Moussa, che però non
ha soldi per proseguire né per pagare qualche
passeur disposto a traghettarlo su un’isola
greca per parecchie centinaia di euro. Viene da
Mogadiscio anche Abdelkader Sheick, 29
anni, che prima di arrivare alla periferia
d’Europa è rimasto quattro anni in un campo
profughi dell’Onu in Yemen. “Noi somali ci
spariamo perfino di casa in casa, questo è davvero troppo. Perciò sono partito”, sbotta.
Quando ha incontrato Moussa nella penisola
arabica, l’ha seguito fin qui. Ora condivide
con lui l’assurda attesa di un futuro che
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potrebbe non arrivare mai. “La polizia non ci
espelle, ci sopporta. In carcere ci hanno dato
un documento che attesta la nostra provenienza”, spiega Abdelkader. “Se ci fermano,
gli agenti ce lo chiedono. E qualche volta pretendono pure denaro... ma non con noi, forse
hanno compassione dei somali. Tutto sommato ci hanno accolto”, riflette Moussa. Che
trova persino la forza di uno slancio ironico:
“Siamo sfuggiti alla guerra passando per
l’Iraq. Be’, là non è poi così male come dicono... è persino meglio della Somalia”.
Sveta e le valigie di Mosca
Ma Kumkapi non è solo una little Africa.
È popolata anche da migliaia di immigrati
provenienti dalle ex-repubbliche sovietiche.
Che di solito lavorano in Turchia per qualche
anno e poi tornano nel loro Paese d’orgine.
Sveta, 32enne ucraina con due figli affidati in
patria ai nonni, abita da queste parti. Ha trovato un impiego al Fimca, emporio di vestiti
quasi all’ingrosso ma di discreta qualità nel
confinante quartiere di Laleli. “Sono una
modella”, è la sua un po’ imprecisa autopresentazione in un francese scolastico. In realtà
è un’indossatrice per i clienti dell’outlet,
soprattutto russi facoltosi. Arrivata qui sei
mesi fa, dice di essere laureata in Letteratura
e Giurisprudenza. Mostra un tesserino della
ISTANBUL, ULTIMA FRONTIERA DELL’EUROPA VERSO EST
polizia: sulla fototessera indossa una divisa
con tre stelle. Anche il suo nome vuole dire
Stella. Ora paga 500 dollari al mese per una
stanza, il resto lo spedisce a casa. Un paio di
strade più in là, le vetrine di vestiti lasciano il
posto ai depositi di piccole società di trasporti.
Scritte in cirillico, furgoncini stracarichi di
pacchi d’ogni misura. “Cargo Moskva” è
dipinto con la vernice rossa su un’insegna. Da
qui ogni giorno partono decine di automezzi
per la Russia. Con a bordo una montagna di
valigie. “Io invece il mio bagaglio lo porto una
volta al mese in aereo”, butta lì Sveta. Non
vuole aggiungere altri dettagli. Non qui,
almeno. Li racconta dieci minuti di cammino
più tardi a un tavolino di un kebab-coffee
davanti alla Moschea di Beyat, al “sicuro” tra
turisti anonimi. Disegna uno schema su un
tovagliolino del bar. Traccia due punti: qui
Istanbul, qui Mosca. Il “capo-cargo”, spiega
Sveta, “compra una decina di biglietti d’aereo
low cost tra le due città, con date fisse e
ampio anticipo, risparmiando centinaia di dollari per tagliando. Ogni ticket garantisce il
diritto a un bagaglio di 34 chilogrammi esentasse. I “viaggiatori” – come Sveta – acquistano il biglietto dal “capo” a un poco più di
cento dollari, con evidente risparmio rispetto
alla tariffa normale. “Una volta al mese devo
necessariamente uscire dalla Turchia per rientrare col visto turistico, altrimenti divento
illegale”, spiega l’ex-poliziotta. Ogni volta
deve portare una valigia nella capitale russa.
Cosa contiene? “Di tutto, immagino. Vestiti
nuovi o altro. Ma non l’ho mai aperta perchè
è sigillata col nastro adesivo”. E se all’interno
ci fosse, per esempio, droga... “Non lo so davvero. Sono consapevole del rischio ma per me
è l’unica possibilità. In cinque viaggi non mi
ha mai controllato nessuno, tantomeno all’aeroporto di Mosca. Funziona perché tutti traggono vantaggio dal sistema”.
La nuova Costantinopoli
Alla fine di ottobre 2007, l’Alto
Commissariato Onu per i rifugiati
(Acnur/Unhcr) aveva censito in Turchia
11.546 “non-europei”, poco più della metà
con lo status di “refugee”, gli altri come
richiedenti asilo. Tra questi, 4457 iracheni.
Cifre “probabilmente sottostimate”, dice
ancora la sociologa Didem Danis durante una
conversazione in un elegante bar all’angolo
della moderna piazza Taksim, epicentro della
Istanbul griffata, dove il dibattito sulla laicità
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dello Stato e sul velo delle donne sembra persino già superato. La Turchia – argomenta
Danis – dovrebbe essere solo un transito temporaneo, soprattutto per chi è fuggito
dall’Iraq. Ma gli iracheni, aggiunge, “sanno
benissimo che non torneranno più a casa e
attendono a lungo prima di partire per un’altra destinazione”. Il governo di Ankara si
mostra relativamente flessibile nei loro confronti: “Non so se sia per indiffierenza deliberata, ma sta di fatto che non vengono deportati”. Tranne nel caso dei curdi: contro questa
minoranza scatta il rimpatrio. Anche perché
la Turchia pone limitazioni geografiche all’applicazione delle convenzioni internazionali:
gli iracheni provenienti dalle tre province del
Kurdistan non hanno gli stessi diritti degli
altri. Chi è scappato da Baghdad o Bassora
può aspirare allo status di “rifugiato”, col
diritto al trasferimento in un Paese terzo, di
solito Stati Uniti, Canada o Australia. Curdi e
africani “restano richiedenti asilo sine die”,
sottolinea l’esperta di flussi migratori. Per
l’ingresso in Europa, l’Ue chiede ad Ankara
(oltre a una maggiore libertà di stampa e
garanzie sui diritti civili) anche la rimozione
di queste clausole di limitazione. Intanto l’aviazione turca bombarda le basi dei ribelli del
PKK nel Kurdistan iracheno mostrando pure
le immagini in tv. Lontano da telecamere e
cronisti, con operazioni silenziose e poco pubblicizzate, la polizia turca invece deporta i
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_Kadikoy Iskelesi è il molo da cui partono i traghetti per
la breve traversata intercontinentale, 15 minuti di navigazione, che porta in Asia Minor. Oggi la Turchia è davvero
la porta d’Europa
clandestini curdi oltrefrontiera. Oppure rinchiude i migranti illegali nei centri di detenzione. “Ospiti indesiderati”, s’intitola l’ultimo
rapporto dell’Helsinki Citizen Assembly,
organizzazione locale che garantisce assistenza legale a profughi e richiedenti asilo. Il
documento denuncia le condizioni dei
migranti, che raccontano di maltrattamenti da
parte della polizia, diritti negati, pessime condizioni igieniche e persino acqua potabile solo
a pagamento. Uno di loro, il 24enne nigeriano
Festus Okey, giocatore dilettante di calcio, nel
2007 è stato pestato a morte dai poliziotti del
commissariato di Beyoglu, a Istanbul. Gli
africani – osserva la sociologa – sono i più
vulnerabili e il loro numero sta aumentando
visto che l’Europa cerca di sigillare le sue
comunque porose frontiere. E allora si cerca il
varco a nord-est, verso la nuova
Costantinopoli.
Kurtulus, periferia di Baghdad
“Per favore non scrivere il mio nome,
temo per la mia famiglia rimasta a
Baghdad”. Lo chiameremo Ali, 28 anni. Una
laurea in Odontoiatria, un impiego precario
e provvisorio come gestore di un internetpoint. Lo incontriamo a metà di una salita
del quartiere Kurtulus: sulla sinistra, palazzine popolari. Sulla destra, la piccola insegna
arancione “Metin internet”. Le tariffe sono
in caratteri arabi. “Qui i clienti sono tutti
iracheni”, spiega Ali, che ha lavorato anche
per il ministero della Sanità di Baghdad.
“Troppi rischi nella mia città, sono scappato
dopo le minacce”. Il resto della sua famiglia
si era sgretolato mentre crollava anche il
regime di Saddam Hussein: un fratello in
Canada, un altro negli Stati Uniti e la sorella
in Svezia. Lui qui, con la speranza di raggiungere presto uno dei suoi congiunti. “Ma
l’attesa media è di 12-15 mesi”, spiega
Georgi Mansur, un cristiano iracheno di origine assira. Arrivato a febbraio 2003, ora
aiuta i connazionali a gestire le pratiche di
richieste di asilo. “Molti passano illegalmente in Grecia”, ci spiega. Ma la maggior parte
attende – anche anni – il ricongiumento con
i parenti fortunati già all’estero. Nelle stradine di saliscendi tra i quartieri di Kurtulus,
Elmadag, Dolapdere e Tarlabasi vivono parecchie migliaia di iracheni, in gran parte cristiani. Come Michael Rami, ingegnere meccanico di 48 anni. Abita in un appartamento
in affitto piccolo ma dignitoso con due figli
adolescenti, moglie e suocera 84enne. “Avevo
un buon giro d’affari grazie al mio negozio di
autoaccessori nel distretto di Karrada a
Baghdad”, racconta invitandoci a pranzo a
casa. “Mi hanno minacciato, ho chiuso la mia
attività e ci siamo trasferiti qui”. L’aereo per
Istanbul è stata la via d’uscita dal delirio iracheno. Per lui era già la seconda guerra. “La
prima è stata quella contro l’Iran, nove anni
prigioniero nella città di Sari”, dice appoggiando la mano sulla fronte, i capelli brizzolati e i baffetti con le stesse sfumature di grigio. Mostra il documento della Croce Rossa,
rilasciato al confine con l’Iraq il 27 agosto
1990. Nella capitale si è rifatto una vita, la
famiglia, l’attività commerciale. Poi la nuova
fuga. “Ho sofferto per la mia terra e l’ho
dovuta abbandonare di nuovo”. Ma Baghdad
resta nel cuore e nella testa, che fa ancora più
male. Tornerete in Iraq? “No, anche se sono
home sick, ho nostalgia. Ma per i miei figli è
troppo pericoloso”. Tutti i giorni comunica
via chat con Jamad, il vicino di casa sunnita,
“un vero amico”. “Se potessi tornerei…
Jamad anche ieri ha innaffiato le piante del
mio giardino”.
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