Il cinema russo contemporaneo Norris PDF

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STEPHEN M. NORRIS
LA GUERRA NEL CINEMA RUSSO CONTEMPORANEO
Nel maggio del 1985 Lev Anninskij, noto critico russo-sovietico,
pubblicava su «Iskusstvo kino» il seminale articolo Tichie vzryvy:
polemičeskie zametki (t.l.: Tranquille esplosioni: appunti polemici), nel
quale sosteneva che i film sovietici ricreano della guerra «non cos’era,
ma cosa viene ricordato [corsivo dell’autore]». Dal momento che il
cinema ha incoraggiato questo lavoro della memoria, trasformando
la Grande guerra patriottica in un mito che potesse essere sfruttato
dallo stato sovietico, Anninskij invitava gli artisti a rompere con questa tradizione e «a cantare la propria canzone sulla guerra». Ciò che
era necessario, per l’influente critico, era una serie di «tranquille
esplosioni», appunto, che scuotessero le memorie prodotte dallo
schermo1.
Come nota lo stesso Anninskij, il film bellico ha ricoperto un ruolo
significativo nel cinema sovietico. L’esperimento socialista comincia
nel corso di una guerra (la Grande guerra), rinforza la propria identità durante un’altra (la Seconda guerra mondiale) e vede cominciare
la propria dissoluzione a causa di una terza (la guerra in Afghanistan).
I film bellici sovietici hanno fornito allo spettatore una fondamentale
narrazione storica, per identificare eroi e nemici, divenendo anche
fonte di notevoli discussioni politiche2. In breve, hanno contribuito a
definire quale fosse stata la storia sovietica e come andasse ricordata,
un aspetto che Anninskij sottolinea con forza.
Non è per niente sorprendente, dunque, che dopo il collasso del
comunismo i film di guerra siano tornati d’attualità. Nel 2000 l’allora
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presidente Vladimir Putin ha sostenuto che la Russia necessitava di
nuovi eroi e nuove forme di patriottismo. Considerato il posto occupato dalla Grande guerra patriottica nell’elaborazione della memoria
sovietica e russa, è altrettanto poco sorprendente che proprio ad essa
si richiamasse Putin come fonte dell’unità nazionale anche per il
nuovo patriottismo. Allo stesso tempo, i film sul conflitto ceceno
hanno assunto il consueto cliché riguardo alle guerre caucasiche. Il
film di guerra e il suo specifico significato sono dunque tornati d’attualità.
Il ritorno alla Grande guerra patriottica
Per il popolo sovietico, nessun evento del XX secolo ha avuto maggior significato della Grande guerra patriottica (nome comunemente
usato per indicare la guerra del 1941-45 contro la Germania nazista).
La vittoria ha servito da potente mito per il governo sovietico e da
solida fonte di memoria per il popolo. Come ha ben argomentato
Stephen Lovell, il sentimento patriottico sovietico, inclusa la convinzione che l’URSS abbia salvato l’Europa dal nazismo, «ha senz’altro
mantenuto in vita il socialismo sovietico come sistema, più a lungo di
quanto altrimenti si sarebbe potuto garantire»3. Il culto della guerra
– con i suoi riti annuali e il ricordo della vittoria e del sacrificio del
popolo sovietico – ha funzionato da solido collante sociale4. I racconti
cinematografici della Grande guerra patriottica sono stati tra i più
significativi elementi di questo processo di costruzione della memoria. Classici come resta Letjat žuravli/The Cranes Are Flying (Quando
volano le cicogne, 1957) di Michail Kalatozov, Ballada o soldate/Ballad
of a Soldier (La ballata di un soldato, 1959) di Grigorij Cˇ uchraj, e Oni
sražalis’ za rodinu/ They Fought for Their Motherland (t.l.: Combatterono per la loro Madrepatria, 1975) di Sergej Bondarčuk hanno
provveduto a sottolineare il lato umano dell’esperienza bellica.
Tra le conseguenze del terremoto socio-politico del 1991 va annoverato anche il collasso del culto della Grande guerra patriottica.
Mentre vari sondaggi confermavano che la vittoria del secondo conflitto mondiale restava motivo d’orgoglio per la maggioranza dei russi,
la realtà economica e sociale degli anni novanta dimostrava come nessuno avesse tempo ed energie da dedicare al significato della Grande
guerra patriottica per la nuova Russia. Il cinquantesimo anniversario,
infatti, passa sotto silenzio e nessun film sembra celebrarlo.
Arriva poi la ripresa economica del 2000 e con essa l’era Putin,
con la sua ossessione per l’orgoglio patriottico. Lo shock sismico degli
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anni novanta è passato e il terreno è pronto per un rinnovato impiego
della vittoria come fondamento di un nuovo patriottismo. Nella prima
ricorrenza della Vvittoria a cui partecipa come presidente della Russia, nel 2000, Putin dichiara che il ricordo del trionfo sul nazismo
«sarà d’aiuto alla nostra generazione per costruire una nazione forte
e prosperosa». Dal 2002 i cineasti russi s’avviano a seguire le indicazioni del governo. Di più, i film recenti hanno contribuito a ricostruire
una cultura patriottica del culto della guerra destabilizzando, al
tempo stesso, la versione mitica della Grande guerra patriottica. Di
conseguenza, questi film hanno contribuito a riaffermare l’importanza della guerra come evento e insieme modificato la percezione
della guerra nella società russa.
Karen Šachnazarov, direttore del Mosfilm, ha svolto un ruolo
chiave nel rinnovato interesse riguardo la guerra, seguendo lo sviluppo, per circa quindici anni, del primo grande film sulla seconda
guerra mondiale. Adattato da una novella del 1947 e prodotto dallo
stesso Mosfilm, Zvezda/Star (t.l.: Stella) si è rivelato un evento sin dalla
sua uscita nel 2002, aprendo la strada alla marea di film che sarebbero seguiti. Come più tardi avrebbe dichiarato Šachnazarov, «era
ovvio che avessimo bisogno di un film simile» anche per contrastare
«i film americani con la loro visione della guerra che sistematicamente
si impone alla nostra»5. Ciò che ha spinto Šachnazarov a produrre un
nuovo film di guerra è stata proprio la necessità di questo modo di
raccontarla – come ha avuto modo di dire: la sua generazione «non
aveva due opinioni sulla guerra» e «il fardello maggiore cadeva sul
nostro popolo»6. In ogni caso, adattando una storia dell’epoca sovietica alla società post-sovietica, Star e i film che lo hanno seguito hanno
infranto due punti cruciali del mito sovietico sulla guerra. In primo
luogo, i nuovi film suggerirono che i cittadini sovietici non ebbero a
soffrire solo per mano nazista. Al contrario, i film dell’era Putin spesso
attribuivano ad ufficiali sovietici le sofferenze dei singoli cittadini.
Inoltre, lo stile recitativo post-sovietico mette in scena i tedeschi, nei
film sovietici dipinti esclusivamente sotto forma di bestie feroci, come
esseri umani ai quali la guerra causava le stesse sofferenze degli altri7.
Nikolaj Lebedev ha dato la stura a questa revisione del passato.
Šachnazarov lo aveva scelto per girare la nuova versione di Star8 convinto che il giovane regista avrebbe immesso nuova linfa al genere.
Una volta sullo schermo, il film è stato visto da critici e spettatori come
la risposta russa a Saving Private Ryan (Salvate il soldato Ryan, 1998,
Steven Spielberg) e agli altri film americani di guerra. Uscito il 6 mag128
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gio, appena prima della ricorrenza della vittoria, il film segue le
vicende di un gruppo di esploratori in missione per spiare le truppe
tedesche. La pattuglia raccoglie una varietà significativa di patrioti
russi impegnati a combattere per difendere la madrepatria. Indossano
uniformi sovietiche, ma non invocano il nome di Stalin, piuttosto
combattono l’uno per l’altro e per la Russia. Dopo una serie di fughe
eroiche, scoprono i piani di una massiccia offensiva tedesca. La distruzione della radio li costringe a rubarne una ai tedeschi con la quale il
protagonista, il Tenente Travkin, tenta disperatamente di trasmettere
le informazioni. Ci riesce all’ultimo momento, prima dell’attacco
tedesco che annienta l’intera pattuglia.
Sebbene il racconto segua fedelmente il testo di Emmanuil Genrichovič Kazakevič, il finale si presenta come una revisione del racconto tradizionale sovietico, focalizzandosi sulla morte dei soldati e
sugli effetti della guerra sulla popolazione. La morte dei soldati, poi,
è ulteriormente affrontata nelle parole che chiudono il film:
La pattuglia di Travkin è stata a lungo considerata dispersa e le domande
dei familiari dei soldati hanno ricevuto tutte la stessa risposta – non si sa
niente del loro destino. Solo nel 1964 tutti gli esploratori sono stati insigniti alla memoria dell’Ordine della Guerra Patriottica di Primo Grado.
Mentre le parole vengono lette, la macchina da presa indugia sui
volti dei giovani soldati. Piuttosto che finire in trionfo, il film sceglie
di mettere a fuoco le loro sconcertanti morti in guerra. Più ancora,
Star suggerisce che il governo sovietico, rifiutandosi di riconoscere il
loro sacrificio, li abbia malamente bistrattati.
Aleksandr Rogožkin va ancora più avanti nel rivedere il racconto
sovietico della guerra: il suo Kukuška/The Cuckoo (Kukushka – Disertare non è reato) esce nel settembre del 2002 e deve il titolo dal termine che i soldati sovietici usavano per indicare i cecchini finlandesi.
Dal canto suo, Rogožkin ha dichiarato di aver realizzato il film perché convinto che il mito della Grande guerra patriottica avesse oscurato il vero orrore della guerra. Ambientato nel nord della Finlandia,
nelle settimane precedenti l’armistizio del 1944 che pose fine alla partecipazione nel conflitto dei finlandesi, Kukushka – Disertare non è
reato si sviluppa intorno a tre personaggi, ciascuno dei quali rappresenta una differente cultura coinvolta nella guerra. Il primo eroe è un
cecchino finlandese che è stato trascinato nell’esercito tedesco e viene
incatenato a una roccia. Il secondo è un ufficiale sovietico condan129
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nato per attività anti sovietiche in attesa del processo e dell’esecuzione. Entrambi vorrebbero sfuggire al loro destino e finire nelle cure
di Anni, una donna lappone il cui marito è stato arruolato a forza ed
è morto in guerra, e che si batte per procacciarsi da vivere. Il film
segue le interazioni tra i tre personaggi, nessuno dei quali parla la lingua dell’altro e hanno tutti forti pregiudizi reciproci. Alla fine, i due
soldati stringono amicizia e riescono a partire sani e salvi per le loro
rispettive patrie. Tanto il nemico esterno (il soldato finnico che combatte per i nazisti) quanto quello interno (il soldato russo colpevole
di attività anti-sovietiche) finiscono per emergere nella loro qualità di
esseri umani. Mentre Anni, il cui modo di vivere è stato spazzato via
da una guerra che non riesce a comprendere, s’impone come la vera
vittima del conflitto e come la fonte di redenzione.
Due film del 2003 presentano ritratti favorevoli di soldati tedeschi.
V sozvezdii byka/ Under the Sign of Taurus (t.l.: Sotto il segno del toro)
di Petr Todorovskij e Poslednij Poezd/The Last Train (t.l. L’ultimo
treno) di Aleksej German jr., riformulano radicalmente la narrazione
della Grande guerra patriottica. Ambientato in un villaggio nei pressi
di Stalingrado, il film di Todorovskij mette in scena una guerra che
suscita sì azioni eroiche, ma che vede anche gli abitanti del villaggio
combattersi l’un l’altro ben più duramente di quanto non combattano il nemico. Quando i nazisti occupano il villaggio, si salvano due
giovani bloccati nella steppa dai rigori dell’inverno. In quella landa
ghiacciata catturano un soldato tedesco e uno di essi, sebbene sia stato
ferito dal soldato, si rifiuta di uccidere il prigioniero perché, afferma,
«dopotutto è un essere umano anche lui». Il prigioniero tedesco si
rivela essere un infermiere e si presta a curare il ragazzo ferito. Nella
visione della guerra di Todorovskij, l’umanità trionfa sull’odio, e si
riconoscono le sofferenze che anche i tedeschi hanno patito nella battaglia di Stalingrado. Il regista riconosce che quella raccontata dal film
è una storia autobiografica, di fatto una storia che ha tenuto per sé
per oltre vent’anni a causa del ritratto che ne emerge di «una tranquilla popolazione contadina oppressa». Dopo il 1991 gli è stato possibile girare un film che mostra dei cittadini sovietici oppressi dal proprio governo e dei soldati tedeschi che, in fin dei conti, si rivelano
umani.
Mentre in Under the Sign of Taurus i tedeschi sono personaggi di
secondo piano, The Last Train ha fatto storia essendo il primo film
russo a schierare come protagonista principale un tedesco9. Aleksej
German jr. s’è avvalso di vicende familiari per raccontare un fatto che
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non si sarebbe potuto raccontare ai tempi dell’Unione Sovietica – la
storia alla base del film, infatti, è quella della sua nonna russa che
venne presa su un treno mentre cercava di scappare dall’invasione,
nello stesso momento in cui il nonno tedesco veniva ucciso al fronte.
German jr., inoltre, ha inteso realizzare il film anche come parziale
riscatto per il bando, da parte della censura sovietica, ai film che il
padre aveva dedicato all’esplorazione di un tabù quale quello del collaborazionismo. Presentato in prima mondiale alla Mostra del
Cinema di Venezia nel 2003, The Last Train racconta la storia di un
medico militare di nome Fischbach impegnato in un ospedale di
prima linea sul fronte sovietico. Con l’avanzare dell’Armata Rossa,
Fischbach viene crudelmente abbandonato mentre l’esercito nazista
arretra dal fronte. Il medico incontra il postino Kreutzer ed insieme
vagano tra il caos e la carneficina che regnava sul fronte orientale. I
due non indossano divise e questo gli consente di assistere alle uccisioni insensate e agli atti di crudeltà che accompagnano la guerra – in
una sequenza, i partigiani sovietici che avevano risparmiato Fischbach e Kreutzer vengono colpiti da una pattuglia tedesca, a sua volta
annientata da un vendicativo distaccamento dell’Armata Rossa. Sconvolti dagli avvenimenti, il dottore e il postino muoiono nell’implacabile inverno russo.
Sull’onda delle attenzioni positive ricevute dall’opera precedente,
Dmitrij Meschiev, nel 2004, intitola provocatoriamente con un ironico acronimo il suo film Svoi/Our Own[t.l.: I nostri]. Di “solito”,
però, c’era ben poco nel racconto di Our Own, primo film russo interamente ambientato in una zona occupata, che ha ricevuto il Gran
Premio e una sfilza di premi minori al Festival di Mosca del 2004. Our
Own s’ingegna a confondere i modi con cui la cultura sovietica in
generale, e quella del periodo di guerra in particolare, definiva l’appartenenza individuale ad una data comunità. Il film si apre con un
attacco nazista ad una postazione in prima linea dell’Armata Rossa e
prosegue seguendo le vicende di due sopravvissuti – un’ufficiale del
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NKVD ed un commissario ebreo. Una volta catturati, i due nascondono le proprie identità ai nazisti e incontrano, in una colonia di prigionieri, un soldato dell’Armata Rossa che li convince a scappare per
raggiungere il suo vicino paese natio. Una volta giunti al paese, il film
rivela il suo vero oggetto – il padre del cecchino sovietico è il capo
cosacco del villaggio e ha cercato di stabilire una tregua tra i partigiani che pattugliano la foresta e i soldati nazisti che occupano il suo
villaggio. Inoltre, è solo da poco ritornato da un campo di prigionia
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siberiano dove era stato internato perché kulak11. A questo punto,
deve decidere definitivamente chi sono “i suoi”: suo figlio, i suoi
seguaci del villaggio, gli occupanti o le autorità sovietiche impersonate dai due fuggitivi? Il film di Meschiev non fornisce alcuna risposta, è però significativa l’inversione che subisce l’eroe tradizionale:
come il soldato russo Ivan in Kukushka – Disertare non è reato, il capo
del villaggio non rappresenta il classico protagonista dei racconti
mitizzanti sovietici, piuttosto somiglia al tipico nemico interno
dipinto dal cinema staliniano. In Our Own lo spettatore è costretto a
prendere coscienza dell’universo concentrazionario prodotto da due
stati totalitari mentre il regista suggerisce l’idea che l’ideologia conti
davvero poco per i singoli e che il proprio nemico potrebbe essere
altrettanto facilmente “dei nostri” o di un esercito invasore.
All’apparire di Our Own, il rinato interesse per una riconsiderazione del periodo di guerra era approdato anche sul piccolo schermo.
La più importante serie televisiva sulla guerra è stata Štrafbat/ The
Penal Battalion (t.l.: Battaglione penale, 2004) di Nikolaj Dostal’,
devastante ritratto della società sovietica in guerra con i nazisti e con
se stessa. The Penal Battalion segue le vicende di Vasilij Tverdochlebov, ufficiale dell’Armata Rossa catturato dai nazisti: dopo essersi
rifiutato di servire il nemico, fugge e si ricongiunge con l’esercito
sovietico, ma viene arrestato come “nemico del popolo”. Per potersi
“riabilitare”, è costretto a comandare un battaglione penale, composto per lo più da criminali a cui è concessa l’opportunità di riscattarsi
delle proprie colpe. L’ufficiale li trasforma in una vera unità da combattimento, ma solo per vederli alla fine tutti massacrati. Nel corso
della serie, Dostal’ mostra i suoi protagonisti combattere su due fronti
– i nazisti e l’NKVD – ma chiarisce anche che questi uomini doppiamente angariati non erano certo degli eroi. Uccidono, violentano,
rapinano, fanno le spie, bevono, il tutto messo in conto negativo dei
valori stalinisti da cui sono stati condizionati. Unici barlumi di redenzione in tempo di guerra sono il patriottismo russo (non sovietico) di
Tverdochlebov che emerge verso la fine e la fede del prete ortodosso,
Padre Michail, che si era aggiunto al battaglione. Terminato il massacro, il sacerdote ha una visione della Vergine Maria e dichiara che
i morti «hanno salvato la terra russa». La lista degli uomini che hanno
servito nel battaglione penale 1049 e sono morti come carne da
macello, chiude la serie.
Subito dopo la conclusione di The Penal Battalion debutta, sul
canale satellitare RTR, la serie in dieci episodi Kursanty/Cadets (t.l.:
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Cadetti, 2004) diretta da Andrej Kavun. Basata sulle memorie di Petr
Todorovskij (il regista di Under the Sign of Taurus), il serial è interamente ambientata a Saratov12 ed è incentrato su un gruppo di giovani
cadetti pieni di spirito patriottico che approdano all’Accademia. Una
volta giunti in loco, però, devono confrontarsi con le incrinature di
una società totalitaria in guerra con il nemico e con se stessa – il mercato nero è fiorente, gli ufficiali del NKVD di stanza all’Accademia che
con freddezza raggiungono le quote stabilite di arresti, cadetti e istruttori che preferiscono nascondere le proprie identità allo stato sovietico, altri istruttori che portano i segni della permanenza al fronte,
mentre furti e frodi sono all’ordine del giorno. Lungo tutto il serial,
un narratore riporta le parole di Todorovskij per commentare il tragico destino dei personaggi e porre domande inquietanti sulla natura
della paura nell’Unione Sovietica staliniana. Todorovskij e Kavun utilizzano la serie per elaborare ulteriormente il nuovo “racconto veridico” di Under the Sign of Taurus e così correggere la versione sovietica della Grande guerra patriottica. Molti dei cadetti e degli abitanti
di Saratov si stagliano dal racconto come eroi, ma l’eroismo che
emerge dalla serie è piuttosto di tipo individuale che non quello collettivo sottolineato nei film sovietici.
Svoloči/Bastards (t.l.:Bastardi, 2006) di Aleksandr Atanesjan
spinge la revisione della narrazione sovietica della guerra al suo punto
massimo. Seguendo il percorso tracciato da The Penal Battalion, il
film focalizza il racconto su un gruppo di adolescenti orfani che
sopravvivono grazie ad attività criminose. Catturati dal NKVD allo
scoppio della guerra, vengono spediti in una prigione in Kazakistan
dove dovranno addestrarsi a prepararsi a servire la patria per poter
essere riabilitati. Bastards si concentra sul loro addestramento e su
due ufficiali che si sforzano di farli uscire dal loro guscio indurito. Il
film non risparmia niente nell’analisi dello stato sovietico e delle pratiche che ha generato – molti dei “bastardi” del film hanno assistito
alla morte dei loro genitori nelle purghe e hanno perso definitivamente la loro umanità nella vita di strada. Uccidono senza alcun
rimorso, rubano e resistono a qualsiasi tentativo di umanizzazione.
Alla fine la “ricompensa” sarà una missione suicida che prevede la
conquista di una base tedesca. Paracadutati in zona di guerra, in molti
muoiono in fase di atterraggio, solo due sopravvivono alla missione.
Gli adolescenti di Bastards hanno perso la propria innocenza per la
violenza dell’apparato staliniano, erano già criminali incalliti allo
scoppio della guerra e sono stati, poi, ulteriormente imbastarditi dagli
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ufficiali sovietici in guerra e dalle leggi staliniste che equiparavano la
criminalità giovanile a quella adulta. Quando un ufficiale tedesco s’attarda ad osservare i corpi inanimati dei ragazzi che hanno fallito la
missione, maledice quel sistema che usa dei bambini come carne da
macello. Nel cinema sovietico i tedeschi erano dipinti come bestie,
adesso si ergono a giudici delle inumane pratiche adottate dal governo
sovietico a tali conclusioni sono giunti anche molti deputati della
Duma (il che ha portato a una interrogazione parlamentare sul
patriottismo del film).
Anche My iz buduščego/ We are from the future (t.l.: Noi veniamo
dal futuro, 2008) di Andrej Maljukov si occupa di giovani ed è diventato il più popolare dei film recenti sulla Grande guerra patriottica,
incassando ben 8,2 miliardi di dollari al botteghino. Nel film un
gruppo di cinici giovani della Pietroburgo d’oggi, tra cui uno
skinhead, si trovano trasportati nella Leningrado del 1942. Prima del
viaggio nel tempo, i quattro giovani russi si presentano come cacciatori di tesori, rincorrono cimeli della seconda guerra mondiale e li
vendono al miglior offerente. Per loro la guerra non è che un evento
lontano di un tempo ancor più remoto. Catapultati nel passato assistono all’orrore della guerra, e provano sulla propria pelle violenza,
paura e le difficoltà morali che accompagnano le decisioni dei soldati
sovietici. Non agiscono eroicamente, piuttosto il film, come dice il
regista, «è una favola», un tentativo «di mostrare ciò che lega due epoche differenti, così che il pubblico possa farsi un’idea di ciò che oggi
ha valore e di quanto abbiamo smarrito del passato».
Questo nostro resoconto sulle opere russe contemporanee riguardanti la seconda guerra mondiale vorrebbe mostrare quanto i più
recenti di questi film abbiano smantellato la narrazione sovietica della
Grande guerra patriottica. I titoli qui esaminati non esauriscono certo
la produzione di lungometraggi e di serie televisive dedicati alla
guerra a partire dal 2002, ma tutti i film proiettati in questi anni sul
grande e sul piccolo schermo hanno contribuito a modificare il
canone cinematografico sovietico. Tutti ritraggono lo stato sovietico
come un nemico o i tedeschi come esseri umani e non bestie, a volte
le due cose assieme. Alcuni, come The Last Train, ribaltano l’idea che
il popolo russo fosse il più eroico e quello che più di tutti abbia sofferto il conflitto mondiale. Persino un film come Star, che ha dato il
via alla revisione del genere, amplia i parametri del racconto di guerra
per includervi l’idea che lo stato sovietico abbia inferto ferite alla
memoria dei suoi morti. Questi film offrono alla platea l’occasione di
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ripensare la guerra con gli occhi dell’esperienza che della seconda
guerra mondiale hanno fatto tedeschi “umani”, eroi kulaki, battaglioni di reclusi, bambini angariati.
Per Putin e per gli apparati governativi, il racconto della guerra
serve come un “passato da spendere” che possa contribuire alla
costruzione di un nuovo patriottismo per la Russia. Per gli spettatori,
ancora non poco legati al grande racconto sovietico della guerra, questi film ne sfidano la memoria e a volte provocano rigurgiti di cultura
antipatriottica. Ma altri, specie tra coloro che sono troppo giovani per
avere un ricordo dell’era sovietica, li interpretano in chiave patriottica, tanto sul piano della reazione emotiva scatenata dal messaggio
che arriva dallo schermo, quanto per l’orgoglio di poter affermare che
i “film russi” sono sullo stesso piano di quelli di Hollywood. Anche
la critica ha offerto un’ampia gamma di reazioni a questi film, per
alcuni servono a “risollevare il morale” in un periodo di difficoltà
(specialmente nel contesto dello scontro in atto con la Cecenia) mentre altri vi vedono alle spalle l’influenza sinistra di Putin. In ogni caso,
ben lontani da una semplice “putinizzazione” della cultura russa, i
film sulla guerra consentono di formulare interpretazioni più articolate sul significato della guerra e l’uso che se ne compie oggi.
Il segno più chiaro di come il mito della guerra fosse stato sottoposto a revisione si è avuto, forse, nel 2008 quando Gitler Kaput!/ Hitler’s
Kaput! (t.l.: La fine di Hitler) di Marjus Vajsberg ha incassato 9,7
miliardi di dollari ai botteghini russi. Benché tutt’altro che buono, il
film di Vajsberg è realizzato nello stile di una commedia slapstick americana (il regista ha dichiarato di essersi ispirato a Mel Brooks). Ancora
più significativamente, Hitler’s Kaput! fa il verso all’intero genere dei
film di guerra ed alla sua natura sacra. Come lo stesso regista ha dichiarato, egli voleva «combattere l’assurda nostalgia per la guerra», gettando nuova luce non sulla seconda guerra mondiale, piuttosto su
«come la guerra sia spacciata, oggi, alle masse dai comunisti»13.
Ammaliati dalla gente del Caucaso
Quando, nel dicembre del 1994, la Russia scatena la guerra contro la Cecenia separatista, i cineasti russi dispongono di un mito culturale sviluppato da cui partire. I film recenti sulla Grande guerra
patriottica ne hanno modificato il racconto canonizzato, di contro,
quelli sulla guerra cecena non fanno che riattualizzarlo. C’è in essi una
certa familiarità di sentimenti proprio perché i registi la raccontano
con modalità analoghe.
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Agli inizi del XIX secolo, quando le truppe della Russia imperiale
avevano preso parte al tentativo di pacificare la regione caucasica, gli
scrittori russi avevano dato vita a un’ampia serie di romanzi di prigionia. Il via lo ha dato Aleksandr Puškin con il poema del 1820-21
Kavkazskij plennik (Il prigioniero del Caucaso) in cui un aristocratico
russo è fatto prigioniero dai ribelli ceceni. Durante la prigionia s’innamora di una esotica bellezza locale che, quando il russo fugge, si
getta nel fiume Terk, linea di demarcazione tra la Russia e l’Asia. Il
poema di Puškin, baciato da un successo sensazionale, spinge il lettore a chiedersi chi sia veramente prigioniero nel Caucaso: i montanari ceceni o la Russia stessa? Lev Tolstoj riprende la storia nel suo
omonimo racconto del 1872. La sua versione, in cui i prigionieri sono
due soldati russi, si segnala più per la critica al colonialismo russo che
non come un esotico racconto etnografico. La storia divenne così
popolare da richiedere 28 ristampe, per un totale di 2 milioni di copie
vendute fino alla morte dell’autore (1910).
Puškin e Tolstoj stabiliscono una chiave interpretativa attraverso
cui guardare l’incontro della Russia con il Caucaso, trasformando la
regione nell’oriente russo. Nel 1967 Leonid Gajdaj, popolare regista
di commedie farsesche, ha potuto prendersi gioco di questo tropo letterario nel suo Kavkazskaja plennica, ili novye priključenija
Šurika/Kidnapping Caucassian Style14 (t.l.: La prigioniera del Caucaso
ovvero le nuove avventure di Šurik). Nel film un ingenuo uomo qualunque sovietico di nome Šurik (personaggio che tornerà in altre commedie di Gajdaj) viaggia nel Caucaso in cerca delle usanze locali,
come il brindisi e il matrimonio con rapimento della sposa, che, naturalmente, non esistevano più in Unione Sovietica. Šurik, però, viene
incastrato da uno scellerato capo locale nel rapimento di una bellissima ragazza. Nella rielaborazione di Gajdaj, l’uomo sovietico viene
catturato dal mito dei caucasici, imbevuto com’è della mitologia culturale creata da Puškin e Tolstoj.
Nel 1967 questo mito può essere fonte per una farsa, nel 1994,
però, il racconto di prigionia fa da base a film e romanzi seri. Il primo
a rimaneggiare la storia è lo scrittore Vladimir Makanin, che declina
il racconto (sempre con lo stesso titolo) in chiave omosessuale, cambiando anche il prigioniero – che diventa un giovane soldato ceceno
– ma lasciando immutata la trama e il senso dell’opera. Il racconto
ready-made di prigionia è, da sempre e spesso, una tentazione anche
per il cinema. Nel 1996 Sergej Bodrov aggiorna la storia di Tolstoj con
il suo Kavkazskij plennik/ Prisoner of the Mountains (Il prigioniero del
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Caucaso). Girata in Daghestan, la versione di Bodrov segue le vicende
di Saša e Žilin, due soldati russi catturati dai ribelli ceceni. Saša (interpretato da Oleg Menšikov) è il più anziano, un tipo cinico, indifferente alla vita del paese montano e interessato solo a progettare la
fuga, mentre Žilin (Sergej Bodrov jr.) è affascinato dalla cultura locale.
Sarà però quest’ultimo a scappare, non Saša. Alla fine, comunque,
arrivano gli elicotteri russi e distruggono il villaggio. Bodrov suggerisce così che la Russia è rimasta intrappolata nella sua storia. Evocando
il racconto di prigionia di Tolstoj (e attraverso questi quello di Puškin)
e ambientandolo al tempo della prima guerra cecena, il regista dipinge
la guerra come una tragedia contemporanea.
Blokpost/Checkpoint (t.l.: Posto di controllo,1998) di Aleksandr
Rogožkin si svolge in una località non definita dove i soldati russi
devono presidiare un posto di controllo di confine. Girato in Caucaso, il film è una indagine metaforica su come la guerra cecena abbia
creato delle barriere mentali tra i soldati russi che non vorrebbero
essere lì e la popolazione locale che vorrebbe vedere gli invasori imperialisti andare via. Aleksandr Rogožkin (che poi girerà Kukushka –
Disertare non è reato) non si richiama esplicitamente a Puškin o Tolstoj, ma i suoi personaggi restano ugualmente intrappolati, questa
volta nello spazio artificiale prodotto dalla guerra e dal confine.
Altri due film del 2002 si richiamano alla narrativa di prigionia:
Dom durakov/House of Fools (La casa dei matti) di Andrej Končalovskij, ambientato nella prima guerra cecena e basato su un fatto di
cronaca, il coinvolgimento nel conflitto di un ospedale psichiatrico in
Inguscezia, racconta la guerra dal punto di vista degli internati. Di
fatto, Končalovskij mostra la follia della guerra e presenta i “pazzi”
internati come più umani dei russi che l’hanno scatenata (i ceceni sono
dipinti come amichevoli e più eroici). Il film spinge a nuove vette il
racconto di prigionia: la Russia è intrappolata in un manicomio per
la sua ossessione di conquistare il Caucaso.
Al contrario, Vojna/War (t.l.: Guerra, 2002) di Aleksej Balabanov
mette in scena la seconda guerra cecena, scatenata nel 1999 dal Presidente El’cin (Eltsin) e dal suo nuovo primo ministro Vladimir Putin,
rendendola disgustosa e brutale. Il film si apre con la decapitazione
di un soldato russo ad opera dei rapitori ceceni, che a loro volta
riprendono l’esecuzione, e prosegue con una serie di rapimenti e
detenzioni di ostaggi, tra cui un giovane soldato russo, due attori
inglesi catturati in zona di guerra e un brizzolato veterano russo, cui
spetta il compito di trasmettere una desolante, nichilistica filosofia
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della guerra (ed è interpretato da Sergej Bodrov jr., nel suo ultimo
ruolo prima di morire sotto una frana nel Caucaso). Balabanov rielabora la rappresentazione della guerra fornita nei film prima analizzati, rendendo War un inferno governato da un popolo brutale. Come
ha sostenuto Andrew Horton, «i ceceni sono tutti barbari, e la ragione
fondamentale della guerra è individuata nella barbarie radicata nel
loro carattere»15. Pur rifiutando le interpretazioni che caratterizzano
i racconti di prigionia che lo hanno preceduto, il regista ne impiega
ugualmente la struttura narrativa. Il capitano Medvedev (Sergej
Bodrov jr.) giace ferito sul fondo di una cava sin dalla sua prima apparizione. In un certo senso, Balabanov aggiorna Il prigioniero del Caucaso di Bodrov: Medvedev può facilmente essere visto come Žilin
ormai cresciuto, di nuovo intrappolato ma, questa volta, definitivamente disilluso dal conflitto infinito.
Un ulteriore affinamento del racconto di prigionia si può trovare
in Živoj/Alive (t.l.: Vivo, 2006) di Aleksandr Veledinskij, che racconta
i tentativi di un soldato russo di tornare alla vita civile dopo aver perso
in guerra le gambe e tutti i suoi compagni. Kir, il soldato, è prigioniero dei ricordi e dei fantasmi dei compagni che lo accompagnano
nel suo penoso aggirarsi in una società indifferente al dolore di quanto
ha perso. Alla fine l’uomo, in una società che non vuol prendersi cura
di lui, trova un prete russo ortodosso che gli offre un briciolo di comprensione. Il critico russo Andrej Archangel’skij ha scritto che Alive
rappresenta «il tentativo del regista di parlare ai giovani (a cui il film
è rivolto) di temi seri ed inimmaginabili da cui sono distanti: il patriottismo, la riconoscenza, gli eccessi della guerra e il loro costo»16. Nell’estendere il racconto di prigionia all’intera società, il film mette in
luce come i russi siano intrappolati dall’indifferenza verso la guerra.
Aleksandra (Alexandra, 2007) di Aleksandr Sokurov, evita la maggior parte della topica riguardo la prigionia, raccontando direttamente la storia di una nonna russa (interpretata da Galina Višnevskaja) che va a trovare il nipote sul fronte ceceno. In «KinoKultura»
Nancy Condee ha sostenuto che «abbiamo un ritratto sommesso della
Cecenia, una terra senza spargimenti di sangue, un luogo dove il massimo della violenza è rappresentato da miti rimproveri». E aggiunge:
«Sokurov suggerisce che proprio il passare del tempo che ha creato
questi legami culturali, è lo stesso che li scioglierà. Il ricambio generazionale eliminerà la vecchia donna che aveva tanto in comune, e farà
maturare le nuove generazioni le quali, nella loro lotta per separare e
(così) uccidere l’un l’altra, hanno altrettanto molto in comune»17.
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Sokurov, dunque, rifiuta il racconto di prigionia per perseguire il suo
proposito. In una intervista rilasciata ad un quotidiano russo, ha affermato: «conosco l’orribile prezzo con cui abbiamo pagato, oggi, la
pace in Cecenia. Sono consapevole dei molti crimini e delle brutalità
compiute durante la guerra, ma la guerra è finita e dobbiamo venirne
fuori riconciliandoci, rispettando le perdite subite da entrambi. Il
nostro è un film d’invenzione artistica, non un pezzo di giornalismo
politico»18.
Infine, Plennyj/The Captive (t.l.: Il prigioniero, 2008) di Aleksej
Učitel’ riadatta l’adattamento di Makanin da Tolstoj, che a sua volta
riadattava Puškin. I due personaggi principali, Rubachin e Vovka, catturano un giovane combattente ceceno per farsi aiutare a rientrare
nella loro compagnia intrappolata. I due soldati russi s’imbattono in
due gruppi di combattenti ceceni che si stanno ricongiungendo.
Quando si nascondono dai nemici, il giovane prigioniero ceceno
richiama i suoi compagni e Rubachin gli spara. Il film finisce come
era cominciato, i due soldati russi vengono condotti non si sa dove da
un mezzo di trasporto. Contrariamente al racconto di Sokurov, Učitel’ suggerisce che la Russia resta prigioniera del Caucaso e della continua violenza che affligge la regione.
I cineasti russi, proprio come i loro predecessori letterati del XIX
secolo, restano affascinati e catturati dal Caucaso, e così facendo contribuiscono a «creare un linguaggio popolare del ruolo imperiale
spesso autoreferenziale» offrendo ai russi «la possibilità di vedere in
se stessi il Bene attraverso il sacrificio della prigionia e persino della
morte»19. Molto è cambiato nella regione e nel tipo di guerra che è
stata condotta in Cecenia ma, pur aggiornando questi cambiamenti
sullo schermo, i film russi di guerra sono comunque tornati al vecchio tema di sempre.
Conclusione: la guerra afghana, di nuovo
Forse il modo migliore per concludere questa carrellata sui film
bellici russi è quello di ricordarne due dedicati alla guerra in Afghanistan, entrambi accolti dai media con grandissima attenzione. 9
rota/The 9th Company (t.l.: La nona compagnia) di Fedor Bondarčuk
– un blockbuster che ha sbancato ogni record di incassi nel 2005 –
racconta la storia della difesa sovietica della collina 3234, una delle
ultime battaglie della guerra afghana sostenuta nel 1988. I soldati di
Bondarčuk sembrano evocare il plotone di Star: anch’essi, infatti, si
battono per un patriottismo senza tempo e non per convinzione nelle
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ragioni sovietiche della guerra; anche loro, svolto il lavoro, vengono
abbandonati dal governo, interessato solo a proclamare la propria
“vittoria”. The 9th Company, dunque, riformula il racconto del Vietnam russo infondendogli una forte dose di spirito sovietico da Grande
Guerra Patriottica.
Di contro, Gruz 200 (Cargo 200, 2007), che prende il nome dalle
bare di ritorno dall’ Afghanistan, non è in sé un film sulla guerra, piuttosto, la sua ambientazione nel 1984 intende sottolineare il deterioramento avviatosi nella società sovietica nell’era tardo-socialista, una
decadenza che la guerra ha solo consolidato. Balabanov – con un film
che ha scatenato accesi dibattiti sull’uso della storia e per la sua critica estremamente forte verso la società sovietica – contrasta deliberatamente ogni nostalgia per qualsiasi cosa di sovietico, che sia l’era
Brežnev in particolare o la fede nell’eroismo dei soldati. Al tempo
stesso, il 1984 ritratto da Balabanov non si discosta molto dalle ricostruzioni d’epoca realizzate dai registi post-sovietici che hanno riformulato la memoria cinematografica della Grande guerra patriottica:
il suo film suggerisce che i soldati sovietici in Afghanistan siano stati
doppiamente vittime dello stato che si supponeva servissero20. Presentando in questo modo la vita dell’URSS, Balabanov ha dimostrato
che il cinema bellico potrà continuare nella sua intrapresa, esporre
vecchi miti e creare nuove memorie filmiche. Il cinema di guerra, dunque, prosegue con le sue silenziose esplosioni.
(Traduzione dall’inglese di Dario Minutolo)
1
Lev Anninskij, Tichie vzryvy: polemičeskie zametki (Tranquille esplosioni:
appunti polemici), «Iskusstvo kino», n. 5, maggio 1985, pp. 56-69.
2
Denise Youngblood, Russian War Films: on the Cinema Front, 1914-2005, University of Kansas Press, Lawrence 2007.
3
Stephen Lovell, Destination in Doubt: Russia since 1989, London, Zed Books,
2006, p. 12.
4
Cfr. Nina Tumarkin, The Living and the Dead: The Rise and Fall of the Cult of
World War II in Russia, New York, Basic Books, 1995, e Amir Weiner, Making Sense
of War: The Second World War and the Fate of the Bolshevik Revolution, Princeton,
Princeton University Press, 2000.
5
Karen Šachnazarov, Interv’ju s K. Šachnazarovym, intervista inclusa come extra
nell’edizione in DVD del film edito dal Ruscico (Russian Cinema Council).
6
Ivi.
7
Per ulteriori riflessioni e notizie sull’argomento e sui film usciti tra il 2002 e il
2006, rimando al mio saggio Guiding Stars: The Comet-Like Rise of the War Film in
Putin’s Russia: Recent World War II Films and Historical Memories, in «Studies in
Russian and Soviet Cinema» 2/1, febbraio 2007, pp. 163-189.
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La precedente versione, del 1949, era stata diretta da Aleksandr Ivanov (ndt).
Lo segue, tre anni dopo, Franz+ Polina (2006) di Michail Segal dove un soldato
tedesco ha il ruolo di protagonista del titolo: Franz è un soldato delle SS che diserta
dopo essersi innamorato di Polina, una giovane bielorussa del villaggio occupato dai
nazisti.
10
Il Narodnyj Komissariat Vnutrennich Del (NKVD) era l’organo responsabile
della sicurezza nazionale, comprendente anche funzioni di polizia ordinaria e carceraria, costituito nel corso della rivoluzione. Nella Seconda guerra mondiale aveva
assorbito anche i compiti di spionaggio e controspionaggio militare della disciolta
Eka, per restituirli negli anni cinquanta al neonato KGB (ndt).
11
Nella Russia imperiale, i kulaki erano i contadini benestanti e/o proprietari di
piccoli appezzamenti, che potevano sfruttare dando lavoro ai contadini poveri. La
loro attività venne contrastata da Lenin negli anni della rivoluzione e poi recuperata
negli anni della NEP (Nuova Politica Economica). Con l’avvento di Stalin furono nuovamente perseguiti con eccidi e deportazioni (ndt).
12
Situata sul fiume Volga nella Russia meridionale, Saratov è un’importate snodo
di comunicazione. Nella seconda guerra mondiale vi passava la ferrovia che assicurava i rifornimenti militari e alimentari diretti a Stalingrado.
13
La frase è riportata nella recensione di Elena Prochorova nella rivista on line
«KinoKultura», n. 24, 2009: http://www.kinokultura.com/2009/24r-gitlerkput.shtml.
14
È il titolo con cui il film è stato editato in DVD nel 2002 (ndr).
15
Cfr. Andrew Horton, War, What is It Good For?
http://www.kinoeye.org/02/18/horton18_no3.php.
16
Aleksandr Archangel’skij, Tipa vojna, «Ogonek», 1-7 May 2006:
http://www.ogoniok.com/4943/29/.
17
Cfr. http://www.kinokultura.com/2007/18r-alexandra.shtml.
18
Marina Murzina, Aleksandr Sokurov: ‘U tiranov net ‘režisserov’. Krome naroda
(Aleksandr Sokurov: i tiranni non hanno registi. Eccetto il popolo), in «Argumenty i
fakty», 21 November 2007: http://gazeta.aif.ru/online/aif/1412/03_01.
19
Bruce Grant, The Captive and the Gift: Cultural Histories of Sovereignty in Russia and the Caucasus, Ithaca, Cornell University Press, 2010, p. 158.
20
Gregory Carleton si è soffermato su questo punto nel suo A Tale of Two Wars:
Sex and Death in Ninth Company and Cargo 200, in «Studies in Russian and Soviet
Cinema», n. 3/2, 2009, p. 224.
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