Opere di misericordia corporali
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Opere di misericordia corporali
16 Parrocchia Maria Ss. Immacolata Pontecagnano - Faiano (Sa) Opere di misericordia corporali 2 Quest’anno in occasione del Giubileo della Misericordia indetto da Papa Francesco dal 08 dicembre 2015 al 20 novembre 2016, mediteremo sulle opere di Misericordia, corporali e spirituali. Esse sono: Opere di misericordia corporali: 1. Dare da mangiare agli affamati; 2. Dare da bere agli assetati; 3. Vestire gli ignudi; 4. Ospitare i pellegrini; 5. Visitare gli infermi; 6. Redimere o riscattare i prigionieri; 7. Seppellire i morti; Opere di misericordia spirituali: 1. Insegnare gli ignoranti; 2. Consigliare i dubbiosi; 3. Consolare i mesti; 4. Correggere i peccatori; 5. Perdonare chi ha offeso; 6. Sopportare le persone moleste; 7. Pregare Dio per i vivi e per i morti; 15 14 MISERICORDIOSI COME IL PADRE Il logo e il motto offrono insieme una sintesi felice dell’Anno giubilare. Nel motto Misericordiosi come il Padre (tratto dal Vangelo di Luca 6,36) si propone di vivere la misericordia sull’esempio del Padre che chiede di non giudicare e di non condannare, ma di perdonare e di donare amore e perdono senza misura (cfr. Lc 6,37-38). Il logo – opera del gesuita Padre Marko I. Rupnik – si presenta come una piccola summa teologica del tema della misericordia. Mostra, infatti, il Figlio che si carica sulle spalle l’uomo smarrito, recuperando un’immagine molto cara alla Chiesa antica, perché indica l’amore di Cristo che porta a compimento il mistero della sua incarnazione con la redenzione. Il disegno è realizzato in modo tale da far emergere che il Buon Pastore tocca in profondità la carne dell’uomo, e lo fa con amore tale da cambiargli la vita. Un particolare, inoltre, non può sfuggire: il Buon Pastore con estrema misericordia carica su di sé l’umanità, ma i suoi occhi si confondono con quelli dell’uomo. Cristo vede con l’occhio di Adamo e questi con l’occhio di Cristo. Ogni uomo scopre così in Cristo, nuovo Adamo, la propria umanità e il futuro che lo attende, contemplando nel Suo sguardo l’amore del Padre. La scena si colloca all’interno della mandorla, anch’essa figura cara all’iconografia antica e medioevale che richiama la compresenza delle due nature, divina e umana, in Cristo. I tre ovali concentrici, di colore progressivamente più chiaro verso l’esterno, suggeriscono il movimento di Cristo che porta l’uomo fuori dalla notte del peccato e della morte. D’altra parte, la profondità del colore più scuro suggerisce anche l’imperscrutabilità dell’amore del Padre che tutto perdona. 3 Nel 1606 il Caravaggio, su commissione della congregazione del Pio Monte di Napoli, dedita alle opere caritative, realizzò questa grande opera ad olio su tela (390 x 260 cm) che venne disposta sopra la pala dell'altare centrale. Dopo secoli i governatori del Pio Monte della Misericordia continuano la loro opera di beneficenza (naturalmente adattandosi al mutare dei tempi) così come l’opera del Caravaggio continua ad impreziosire la chiesa del complesso, legata ad essa da un vincolo che ne vieta lo spostamento o la rimozione. L'opera ha una composizione serrata, che concentra in una visione d'insieme diversi personaggi, ma può essere confusa con una semplice scena di genere, tant'è vero che sembra ambientata in un tipico vicolo popolare di Napoli. Sulla parte superiore del dipinto, a supervisionare l'intera scena che si svolge nella parte bassa, vi è la Madonna con Gesù Bambino accompagnata da due angeli, un insieme a dir poco stupendo.... Le sette opere di misericordia sono nella tela del Caravaggio così raffigurate: 1) "Seppellire i morti": è raffigurato sulla destra con il trasporto di un cadavere di cui si vedono solo i piedi, da parte di un diacono che regge la fiaccola e un portatore. 2-3)"Visitare i carcerati" e "Dar da mangiare agli affamati": sono concentrati in un singolo episodio: quello di Cimone, che condannato a morte per fame in carcere, fu nutrito dal seno della figlia Pero e per questo fu graziato dai magistrati che fecero erigere nello stesso luogo un tempio dedicato alla Dea Pietà. 4-5) "Vestire gli ignudi": appare sulla parte sinistra concentrato in una figura di giovane cavaliere, San Martino che fa dono del mantello ad un uomo a dorso nudo visto di spalle; allo stesso santo è legata la figura dello storpio in basso nell'angolo più a sinistra: anche questo episodio è un riferimento alla agiografia di Martino, un emblema del "Curare gli infermi". 4 6) "Dar da bere agli assetati": è rappresentato da un uomo che beve da una mascella d'asino, Sansone, perché nel deserto bevve l’acqua fatta sgorgare miracolosamente dal Signore. 7) "Ospitare i pellegrini": è riassunto da due figure: l'uomo in piedi all'estrema sinistra che indica un punto verso l'esterno, ed un altro che per l'attributo della conchiglia sul cappello (segno del pellegrinaggio a Santiago di Compostela ) è facilmente identificabile con un pellegrino. 13 abito bianco. La nudità gloriosa del Cristo morto (e sulla croce il condannato era nella totale nudità per significare la sua indegnità) e risorto riveste e protegge il neobattezzato che si sa ormai immerso in una vita nuova avendo “rivestito Cristo”: “Battezzati in Cristo, voi avete rivestito Cristo” (Gal 3,27). Rivestiti di Cristo, nel battesimo, a partire dalla nudità della propria condizione umana limitata e fragile, i cristiani si sanno immersi nella misericordia di Dio (Tt 2,4-5), coperti e avvolti da essa, sicché la loro Alcuni particolari di notevole fattura da notare sono: la goccia di latte sulla barba del vecchio (dar da mangiare agli affamati); i piedi lividi del cadavere che spuntano dall'angolo (seppellire i morti); degna di nota anche l'ombra che le figure celesti proiettano sulla prigione, a indicare una presenza concreta e terrena, ma nonostante ciò nessuno dei personaggi sottostanti sembra accorgersene. Su tutte queste azioni di misericordia corporali si stende il manto della Madonna. Caravaggio modifica con il genio che gli è tipico l’iconografia più diffusa, che ci fa vedere la Mater misericordiae in piedi, che distende il Suo manto sui partecipanti alla confraternita che abitualmente ne commissionavano la rappresentazione pittorica o scultorea. È un manto che tutela, protegge, accoglie prendendosi cura nella totalità del bisogno dell’altro. È insomma il gesto della cura nella sua radice più profonda e totale. Caravaggio fa letteralmente scendere dal cielo alla terra questa tutela della mater omnium, facendola continuare con il gesto laico e quotidiano dell’azione caritatevole verso il bisogno dell’uomo. Infatti il manto bluastro della Vergine si continua nel suo andamento elicoidale con quello rosso porpora di S. Martino, che mentre “veste gli ignudi”, soccorre anche i malati e tiene la sua spada all’altezza del collo di una figura di cui intravvediamo solo il volto, richiamati dal bagliore della lama, in un ennesimo autoritratto di Caravaggio. prassi di carità verso chi è nella nudità e nella vergogna, nell’impotenza e nella miseria, nell’umiliazione e nella privazione della dignità, non sarà che un riflesso e una testimonianza della misericordia divina. 12 Ci sono nudità da intendersi in senso letterale come impossibilità, cioè, di coprirsi per difendersi dal freddo, e per presentarsi dignitosamente agli altri: è la nudità più umiliante, segno e frutto di estrema povertà. E' opera di misericordia donare un vestito, indumenti intimi, calzature a chi ne è privo. E' misericordia vera se gli indumenti donati sono in ottimo 5 Il pittore, scappato da Roma dopo la condanna di omicidio, guarda Martino di Tours, come per chiedere la grazia dalla condanna che grava sulla sua testa affidandosi alla misericordia umana, continuazione di quella Divina, così necessaria alla convivenza civile. stato, possibilmente nuovi, acquistati con nostro sacrificio, magari risparmiando sui nostri vestiti, evitando l'esibizionismo del capo firmato. Pellegrini, infermi o carcerati, santi o delinquenti, ricchi o poveri, simboli del Certa carità, fatta con vestiti vecchi e rattoppati, liberandoci di cose inutili passato o fuggiaschi anonimi nascosti nell’ombra, tutto l’uomo può star dentro che noi non indosseremmo mai, viene identificata dalla gente semplice questo gesto di accoglienza ben chiaro alla pietas cristiana e capace di come "carità pelosa". Solo nella misura in cui il “vestire gli ignudi” è incontro di nudità, la nudità del volto di chi dona e del volto di chi riceve, e soprattutto la nudità degli occhi, che sono la parte più esposta del volto, tale gesto sfugge al rischio di essere umiliante e avviene nel solo spazio che conferisce verità a ogni gesto di carità: l’incontro con l’altro. Nella tradizione cristiana occidentale il gesto di vestire chi è nudo è espresso in modo a tutti noto dall’episodio in cui Martino di Tours taglia il proprio mantello per farne parte a un povero indifeso contro i rigori di un gelido inverno. Scrive Venanzio Fortunato nella sua Vita di san Martino di Tours: “Ad un povero incontrato sulla porta di Amiens, che si era rivolto a lui, Martino divide in parti uguali il riparo della clamide e con fede fervente lo mette sulle membra intirizzite. L’uno prende una parte del freddo, l’altro prende una parte del tepore, fra ambedue i poveri è diviso il calore e il freddo, il freddo e il caldo diventano un nuovo oggetto di scambio e una sola povertà è sufficiente divisa a due persone ”. La vestizione della nudità non si trova solo agli inizi della vita umana e del passaggio dalla natura alla cultura, ma ha anche un’importanza notevole nell’iniziazione cristiana, come appare dalla prassi battesimale antica (dal III fino al VI secolo). Alla fine del IV secolo in area siriaca lo svolgimento del rito battesimale comprendeva l’atto con cui il (o la) neofita si spogliava dei propri abiti e li calpestava; l’unzione del suo corpo nudo; l’immersione (sempre nella totale nudità) nelle acque battesimali; e infine l’atto con cui, risalito dalla vasca, il neobattezzato compassione per il dolore dell’uomo, quale che ne sia la natura o l’origine. 6 Vestire gli ignudi… 11 Ecco dunque nascere la paura dell’altro e la vergogna davanti all’altro, vergogna che nel testo di Genesi non ha a che fare direttamente con la sfera sessuale. È così che Adamo ed Eva “intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture” (Gen 3,7). Ma sarà solo nel momento in cui Dio stesso farà tuniche di pelli e li vestirà (cfr Gen 3,21) che essi si vedranno reintegrati nella loro dignità, vedranno la loro fragilità avvolta dalla misericordia divina, i loro limiti protetti e coperti. A differenza di una cintura, la tunica è un vero vestito che copre tutta la persona; se le cinture sono state intrecciate dagli uomini, le tuniche che sono fatte da un altro, da Dio; se le cinture erano state indossate direttamente da Adamo ed Eva, invece è un altro, Dio stesso, che riveste i due con tuniche. Dio veste chi è nudo: ovvero, egli ama e protegge la creatura umana accogliendola in tutti i suoi limiti e le sue fragilità. Condividere gli abiti con il povero è gesto di intimità che richiede delicatezza, discrezione e tenerezza, perché ha a che fare in modo diretto con il corpo dell’altro, con la sua unicità che si cristallizza al massimo grado nel volto, che resta nudo, scoperto, e che con la sua vulnerabilità ricorda la fragilità di tutto il corpo, di tutta la persona umana, e rinvia ad essa. Condividere gli abiti con il povero - non nel modo impersonale e efficiente della raccolta di aiuti da spedire ai poveri del terzo mondo, ma nell’incontro faccia a faccia con il povero - diviene allora narrazione concreta di carità, celebrazione di gratuità, scambio in cui chi si priva di qualcosa non si impoverisce ma si arricchisce della gioia dell’incontro, e 14 E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità. (Gv 1, 14) chi fruisce del dono non è umiliato perché fatto di essere vestito introduce in una relazione ed egli si sente accolto nel suo bisogno come persona, cioè nella sua unicità, non come anonimo destinatario di una spedizione di abiti dismessi dai ricchi. 10 Essere sprovvisti di vestiti o a malapena vestiti o coperti di stracci è dunque una condizione che ha rilevanti connotazioni psicologiche e spirituali: è interessante, a questo proposito, il fatto che buona parte della valenza simbolica della nudità nella Bibbia sia negativa. Si tratta della nudità che toglie identità, la nudità dell’anonimo, del senza -dignità: lo schiavo che viene venduto (Gen 37,23), il carcerato privato della libertà (Is 20,4; At 12,8), la prostituta esposta agli sguardi di chiunque (Ger 13,26-27; Os 2,4-6), il malato di mente che vive una condizione di alienazione (Mc 5,1-20). La Bibbia mostra particolare interesse per la nudità innocente e umiliata del povero, della vittima, dell’emarginato. Il semplice narrarla significa già dare voce a chi non ha voce e tende a suscitare l’attiva compassione di chi incontra tali situazioni. Si dice nel libro di Giobbe a proposito dei poveri: “Nudi passano la notte, senza abiti, non hanno da coprirsi contro il freddo. Sono resi fradici dagli scrosci della montagna, senza riparo si rannicchiano sotto una roccia.., vanno in giro nudi, senza vestiti, sono affamati” (Gb 24,7-8.10). La Scrittura elabora così una compassione per il corpo che si esprime in comandi (“Fa’ parte dei tuoi vestiti a chi è nudo”: Tb 4,16), che rientra fra gli attributi della giustizia (“il giusto... copre di vesti chi è nudo”: Ez 18,5. 7.16), che sta al cuore di una prassi di digiuno autentica (“Questo è il digiuno che voglio:.., vestire uno che vedi nudo”: Is 58,7). L’atto umano di vestire chi è nudo si fonda per la Bibbia sul gesto originario di Dio stesso che ricoprì la nudità umana preparando gli abiti e poi vestendo Adamo ed Eva dopo la loro trasgressione: “Il Signore Dio fece all’uomo e alla donna tuniche di pelli e li vestì” (Gen 3,21). La trasgressione dell’uomo nel giardino dell’in-principio ha fatto sì che gli umani siano usciti dallo spazio della comunione e si siano resi conto della loro “nudità”, cioè della loro condizione creaturale limitata e fragile, che abbiano cominciato a sentire diffidenza e timore l’uno dell’altro, che l’alterità abbia cominciato ad essere vissuta come minaccia. 7 La parola “Carne” (in greco sàrx) definisce l’uomo nella sua condizione di debolezza e di destino mortale. È intenzionalmente evidenziato il contrasto tra Lògos, nella sua condizione divina e la sàrx, nella sua condizione umana. Colui che esisteva da tutta l’eternità è entrato nel tempo e nella storia umana. Questo è il tremendo mistero dell’Incarnazione per cui la Parola eterna assunse la nostra identica natura umana, divenendo in tutto simile a noi, fatta eccezione per il peccato (Eb 4,15). Cioè in tutto, escluso ciò che era incomprensibile con la divinità. Questa è una delle affermazioni più incisive di tutto il vangelo. “Si fece” non divenne, perché non avvenne una trasformazione, ma, rimanendo il Lògos che era, cominciò a vivere nella sua nuova condizione debole e temporale. Il progetto divino si è realizzato in una esistenza umana; la pienezza della vita splende in un uomo, è visibile, accessibile, palpabile (cfr 1 Gv 1,1-3). Per la prima volta si manifesta quale sia la meta della creazione di Dio: portare l’uomo alla condizione divina. Per esprimere questo mistero (“e venne ad abitare”), Giovanni ha deliberatamente scelto l’immagine biblica della tenda: “Ha posto la sua tenda in mezzo a noi”, oppure eskenosen, “Si fece tenda per noi”. Il Lògos si accampò, alzò la sua tenda. Il vocabolo evoca la tenda (skenè) del deserto (Es 25, 8-9) costruita perché Dio potesse “abitare in mezzo a loro”. Il tempio di pietra di Sion (come si dirà esplicitamente in Gv 2, 18-22) è ora sostituito dalla “carne” di Gesù, cioè dalla sua corporeità e dalla sua esistenza storica che condivide con noi. La tenda richiama anche il tema della Sapienza che ebbe l’ordine: “Fissa la tenda in Giacobbe” (Sir 24,8). La “carne” del Lògos è indicata come il nuovo tabernacolo, quello della Nuova Alleanza. In Ap 21,35 anche la situazione finale è descritta con espressioni simili: “Dio abiterà (si accamperà) nella nuova Gerusalemme”. “Abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come di unigenito del Padre…”. Nell’Antico Testamento si chiamava “gloria di JHWH” lo splendore della presenza divina. Appariva in particolare sul Santuario o Tenda; durante la sua inaugurazione, essa si riempì della gloria di Dio (cfr Es 40,34-38; 1Re 8,10ss). “Pieno di grazia e di verità”. La frase è una traduzione diretta di Es 34,6, dove Dio proclama come suoi tali attributi, che servono da base all’Alleanza. A partire dal versetto 14 la parola “Verbo” sparisce dal Vangelo. Ora che Giovanni ha definitivamente raggiunto il punto culminante della sua introduzione parlando della Parola divenuta carne, non la chiama più la Parola ma Gesù: il Vangelo è una testimonianza non alla Parola eterna ma alla Parola fatta carne, Gesù Cristo, il Figlio di Dio. 8 Nudo uscii dal seno di mia madre e nudo vi ritornerò (Gb 1,21) La vita umana si svolge tra due nudità: quella dell’inizio della vita e quella della fine della vita. Due nudità differenti perché nel mezzo avviene il processo di soggettivazione: se si nasce nudi, alla fine della vita ci si spoglia. Ovviamente si tratta di un processo fisico che ha a che fare con la nudità del neonato e la nudità del morto, ma ha anche una valenza psicologica e simbolica: alla fine della vita si abbandona ciò a cui ci si era attaccati, si smette ciò a cui si era abituati, si elabora un lutto. In questo processo la carne che il neonato è, diviene corpo, e il corpo, con la morte, diviene cadavere. E la nudità del neonato e del cadavere è sempre rivestita da altri, mentre nella fase della soggettività l’uomo veste se stesso, tranne nei casi di impossibilità dovuti a malattia o handicap. L’atto di vestire la nudità dell’inizio e della fine della vita pone l’intera esistenza umana sotto il segno della cura che un altro (a partire dalla madre) ha e manifesta per noi. l’anziano poi deve spesso farsi aiutare a vestirsi e a svestirsi. E durante l’esistenza sono le situazioni di povertà e di miseria che possono spogliare dei beni e ridurre alla nudità. Una nudità che significa non solo esposizione alle inclemenze del tempo, ma anche umiliazione, indegnità, inermità, assenza di difese, pericolo. La nudità è abbandono allo stato di natura, mentre il vestito è opera di cultura e distingue l’uomo dagli animali. Questo passaggio dalla natura alla cultura è ben espresso nel di Daniel Defoe “Gli feci capire che gli avrei dato qualche vestito.. perché era tutto nudo.., In primo luogo gli diedi un paio di calzoni di tela,.., poi gli feci un giubbotto di pelle di capra; poi gli diedi un cappello. Vero è che al principio si muoveva molto a disagio in questi panni; indossare i calzoni era molto disagevole per lui, e le maniche della giubba gli scorticavano la pelle all’interno delle braccia; ma dopo averle allargate un po’ nel punto in cui diceva che gli facevano male, e dopo che lui si fu un poco abituato, alla fine se ne trovò benissimo”. L’atto di vestire chi è nudo implica un prendersi cura del suo corpo, un’intimità dunque, un toccare e misurare il corpo per poterlo adeguatamente vestire. Ma implica anche un prendersi cura della sua anima, in quanto il vestito protegge l’interiorità e sottolinea che l’uomo è un’interiorità che necessita di custodia e protezione. Il vestito traduce quel senso di pudore che forse è il più antico gesto che distingue l’uomo dagli animali e che non si limita all’ambito sessuale, ma ha a che fare con la totalità dell’essere umano, e soprattutto con il senso dell’identità e della soggettività. Il vestirsi è un’arte che il bambino impara grazie alla madre che lo veste; romanzo 9 La vita e le avventure di Robinson Crusoe quando il protagonista, dopo aver salvato dai cannibali colui che diventerà il suo servo, Venerdì, provvede a vestirlo. In particolare, il pudore regola il rapporto con l’alterità, mantenendolo nella libertà: “Il pudore costituisce un limite fra gli individui e sta a dimostrare l’esistenza di un luogo interno del soggetto, requisito della sua libertà, ossia del suo pieno sviluppo individuale all’interno della collettività” (Monique Selz). Il pudore poi non è solo un non mostrare, ma anche un non voler vedere ciò che pure potrebbe essere visto (come Sem e Jafet che, a differenza del loro fratello Cam, non vogliono vedere la nudità del loro padre Noè: Gen 9,20-23): “Per salvare la nostra umanità, alcune cose che potremo voler vedere, devono rimanere fuori dalla scena” (John Maxwell Coetze).