a=ioni e politiche delle a8tonomie locali pe5 la
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$=,21,(32/,7,&+('(//($872120,( /2&$/,3(5/$&203(7,7,9,7$¶'(,6,67(0, (&2120,&,7(55,725,$/, )RUXPGHOOH$XWRQRPLHORFDOLSHUOD &RPSHWLWLYLWjGHO6LVWHPD3DHVH 1 ,1',&( 3 , 4 6 , ! "# %$&'() / * !+,$ -&.!/( ¶ & 16 di Marino Cavallo e Piergiorgio Degli Esposti 1. Economia e globalizzazione 2. I sistemi produttivi locali 3. Lo sviluppo sostenibile 4. La JRYHUQDQFH locale dello sviluppo e la promozione territoriale 5. Sviluppo e nuovi servizi alle imprese: il caso delle aree produttive ecologicamente attrezzate (Apea) 6. Progettare un’Apea: audit, assessment, azioni di supporto 7. Realizzare un’Apea: i fabbisogni di servizi e le forme di gestione 8. Capitale sociale, beni comuni, sostenibilità e qualità dello sviluppo 16 20 22 24 26 30 32 34 0 ,, $$ %$(1 $2, .'$/$ 2$ 0 5 $$2$ & 38 di Luca Correani ed Elisabetta Neri 1. Scopo e contenuti della ricerca 2. Sistema Italia e forme di coordinamento della ricerca 3. Modelli organizzativi di ricerca condivisa 4. Consorzi tecnologici e ruolo delle istituzioni locali: i risultati del modello e le implicazioni di policy 0RGHOORGLEDVH 38 40 43 47 48 51 57 60 61 63 67 ,QWHUD]LRQLRQHWRPDQ\ODFUHD]LRQHGHLFRQVRU]LWHFQRORJLFL ,QWHUD]LRQLULSHWXWHODULFHUFDGLOXQJRSHULRGR Appendice 1 Appendice 2 Appendice 3 0 ,,, " %-&'!+,$ . (3$&' / & di Alessandro Natalini, Siriana Salvi e Francesco Sarpi 1. I risultati della semplificazione: dimensione nazionale e dimensione locale 67 2 2. La crisi della semplificazione: le ragioni 3. La semplificazione pianificata: il livello statale e quello comunitario 4. Le semplificazioni pianificate: il livello locale 5. La semplificazione comunale: il capacity building 6. Il ciclo di gestione dei procedimenti amministrativi 7. La semplificazione dei procedimenti amministrativi 0 ,9 4 $ 5!6 #31!0 / '-&. %-( 71 74 79 81 84 87 & 91 di Andrea Ganzaroli e Luisa Tiraoro 1. Introduzione 2. La competitività del territorio nella Knowledge-based economy 3. Il ruolo dell’associazionismo nel sostenere la competitività del territorio: gli indirizzi di policy 91 92 98 99 100 ,QWHUYHQWLDVXSSRUWRGHOODULPR]LRQHGHLIDWWRULGLORFNLQ ,QWHUYHQWLDVXSSRUWRGHOO¶LVSHVVLPHQWRRUJDQL]]DWLYR 100 102 102 108 111 113 114 115 116 118 119 124 ,QWHUYHQWLDVXSSRUWRGHOUDIIRU]DPHQWRGHOOD FRRSHUD]LRQHQHOFRQWHVWRORFDOH 4. La cooperazione interistituzionale per lo sviluppo economico locale ,OFRQWHVWRQRUPDWLYRHWHUULWRULDOHGLGLIIXVLRQHGHOOHIRUPH GLFRRSHUD]LRQHLQWHUFRPXQDOH /¶$JJORPpUDWLRQGH5RXHQ /D&RPPXQDXWp8UEDLQH*UDQG/\RQ&285/< 9DQWDJJLHSXQWLGLIRU]DGHOODFRRSHUD]LRQHLQWHULVWLWX]LRQDOHIUDQFHVH $VSHWWLFULWLFLGHOO¶LQWHUFRPXQDOLWjIUDQFHVH /DFRRSHUD]LRQHLQWHULVWLWX]LRQDOHLQ,WDOLD /DFRRSHUD]LRQHLQWHULVWLWX]LRQDOHQHLVHUYL]LSXEEOLFLORFDOL ,OSURJHWWRGLULIRUPDGHOOHDXWRQRPLHORFDOL 5. Problematiche ed opportunità delle partnership pubblico-privato 6. Conclusioni Appendice - Riferimenti normativi alle gestioni associate e agli accordi tra enti nell’attuale disegno di riforma delle autonomie locali 130 0 9 6%$ & 132 & 6 (0 / $ di Antonio Mastrogiorgio e Vitataliano Andrea Barberio 1. Inquadramento teorico della problematica ,QWURGX]LRQH &XOWXUDHGHYROX]LRQHFXOWXUDOH 2. Sviluppo delle metodologie /¶XVRGLFHOOXODUDXWRPDWDSHUORVWXGLRGHOO¶HYROX]LRQH 3. Derivazione di implicazioni normative /RVWXGLRGHLFDVL /DORJLFDGHOO¶LQWHUYHQWR 132 132 134 139 139 144 144 146 3 9, $72. !6!&4$ 3 31!04$&$ #!+$ "&8,!$ #! & &', ( & 150 di Arturo Capasso, Rosalba Loffredo, Pasquale Russiello 1. Introduzione 2. Programmazione negoziata e strumenti di agevolazioni 3. Obiettivi e metodologia 4. I risultati delle iniziative (analisi complessiva) 5. L’analisi dei casi ,O3DWWRWHUULWRULDOHGHOOD3HQLVROD6RUUHQWLQD ,O3DWWRWHUULWRULDOHGHL&DPSL)OHJUHL $JHYROD]LRQLH[/QQHOO¶DUHDPHWURSROLWDQDGL1DSROL 6. Conclusioni e implicazioni 150 151 154 158 159 157 160 159 161 4 3 Nell’attuale contesto economico internazionale, caratterizzato dalla continua crescita della concorrenza dei paesi emergenti, molti territori sono chiamati a sostenere azioni di innovazione a sostegno del tessuto produttivo e a ripensare le strategie legate agli obiettivi di efficienza, efficacia e competitività dei sistemi economici locali. Per le singole aziende, soprattutto per quelle di piccola e media dimensione, questo significa fare leva sempre di più sul territorio, sia in termini relazionali, sia in termini di competenze disponibili. La concorrenza tra imprese si trasforma, perciò, in concorrenza tra aree: è necessario accrescere la performance di tutti quei fattori esterni alle aziende che contribuiscono a favorire l’innovazione, l’internazionalizzazione, e più in generale i processi di rafforzamento del sistema economico nel suo complesso. La capacità di sostenere la nuova sfida della competitività dipende, in modo crescente, dal supporto offerto da tutti gli attori, pubblici e privati, coinvolti nei processi di sviluppo, e in particolar modo dai servizi e dagli strumenti che le Autonomie locali mettono a disposizione delle imprese, con l’obiettivo di assicurare tempi rapidi e modalità efficienti di erogazione degli adempimenti burocratici necessari allo svolgimento della propria attività. Si rivela fondamentale la performance istituzionale locale, intesa come l’abilità delle Autonomie locali di usare in maniera efficiente ed efficace le risorse a disposizione per lo sviluppo delle economie territoriali. In tale contesto, il )RUXP GHOOH $XWRQRPLH ORFDOL SHU OD &RPSHWLWLYLWj GHO 6LVWHPD 3DHVH , promosso da FormAutonomie e Formez, in collaborazione con l’ANCI, all’interno del progetto Reti degli Sportelli per lo Sviluppo del Dipartimento della Funzione Pubblica, intende rappresentare un importante momento di riflessione tra gli attori pubblici e privati riguardo le politiche, i servizi e gli strumenti per la competitività dei territori. Semplificazione, innovazione, internazionalizzazione, politiche del lavoro e degli incentivi, economie distrettuali e marketing territoriale, gestione delle competenze tra i diversi livelli di governo, sono le priorità affrontate attraverso il Forum e nel presente rapporto di ricerca. Obiettivo, quindi, è quello di evidenziare le più immediate criticità che gravano sui processi di sviluppo della competitività locale, individuabili nella difficile e onerosa gestione del rapporto tra le Amministrazioni locali e i sistemi produttivi territoriali, e costruire un insieme coordinato di azioni volte a realizzare una strategia partecipata di identificazione, progettazione, gestione e valutazione degli interventi per la competitività dei singoli territori. 5 Il presente rapporto di ricerca raccoglie e mette a sistema i contributi a carattere interdisciplinare di esperti delle tematiche trattate e di ricercatori universitari, impegnanti da tempo nella ricerca di soluzioni di innovazione per rendere il tessuto economico italiano competitivo, attraverso il miglioramento del rapporto con le Autonomie locali. Semplificazione, innovazione, finanza locale e gestione delle competenze tra i diversi livelli di governo divengono i temi principali su cui si sono espressi esperti e ricercatori per la realizzazione di questo documento, che vuole essere uno strumento conoscitivo importante per il sistema delle Autonomie Locali, contenente indicazioni di indirizzo verso azioni di programmazione, efficienti ed efficaci nel lungo periodo, per la competitività e lo sviluppo economico locale. Marco Bonamico Direttore Generale Formez 6 , L’interesse ad analizzare il ruolo della Pubblica Amministrazione, e delle Autonomie Locali in particolare, nello sviluppo competitivo del Paese deriva dalla consapevolezza che la modernizzazione di un sistema produttivo ed il conseguente innalzamento del livello di competitività dipende sia dalle capacità e dagli sforzi degli imprenditori sia da un contesto ambientale capace di sostenere il ciclo di vita di un’impresa. La competitività del sistema Paese è legata in misura crescente dai fattori che determinano in prima istanza la competitività delle economie locali e che come tali contribuiscono all’attrazione degli investimenti sul territorio. La capacità competitiva degli enti locali è così intesa come l’abilità di stimolare i processi di sviluppo attraverso politiche e servizi specifici: politiche di semplificazione, di innovazione e di internazionalizzazione, politiche del lavoro e degli incentivi, economie distrettuali e promozione dello sviluppo territoriale. Si intende, nel presente rapporto, presentare alcuni contributi realizzati da esperti e ricercatori universitari in materia di competitività e sviluppo dei tessuti produttivi locali, con l’intento di fornire ai policy maker uno strumento conoscitivo importante per contribuire al rafforzamento delle azioni delle Autonomie Locali, ovvero un documento programmatico contenente le priorità di intervento in materia di competitività. Il rapporto intende, pertanto, riportare alcuni contributi scientifici che analizzano separatamente i principali driver di innovazione per il tessuto produttivo italiano. Si sottolinea il ruolo giocato dagli attori pubblici e privati del territorio nei processi di innovazione afferenti a ciascuna delle politiche di sviluppo proposte nei contributi scientifici realizzati: servizi d’area per le imprese, sviluppo di politiche di ricerca condivisa, semplificazione e cooperazione interistituzionale, cluster culturali per lo sviluppo e analisi empiriche riferite alla progettazione integrata già realizzata nel precedente periodo di programmazione divengono le leve su cui costruire un’efficace politica delle Autonomie locali per la competitività dei sistemi produttivi. Viene di seguito riportata una breve presentazione di ciascun contributo e dei principali argomenti trattati. 0 '1( ¶ 40" 9$&()% * !+,$ 8 % -&'!/! , GL 0DULQR &DYDOOR IDFROWj GL (FRQRPLD GHOO¶8QLYHUVLWj GL %RORJQD H / IDFROWj GL 6FLHQ]H GHOOD &RPXQLFD]LRQH H &RPXQLFD]LRQH 3XEEOLFD GHOO¶8QLYHUVLWj GL )HUUDUD H 3LHUJLRUJLR'HJOL(VSRVWL8QLYHUVLWjGL%RORJQD Per molto tempo l’economia italiana è stata caratterizzata da insieme alle istituzioni locali e alle associazioni di categoria FOXVWHU di imprese che formavano VLVWHPL D UHWH identificabili come distretti produttivi locali. In questo modo la connotazione reticolare in cui erano incardinati i vari 7 soggetti economico produttivi creavano una singolare ed efficacissima forma organizzativa in grado di misurarsi a livello internazionale con altri FRPSHWLWRU e imprese di ben maggiore dimensione e strutturazione. Nella prima parte del lavoro sono illustrati i cambiamenti in atto nell’economia europea. La globalizzazione, fenomeni di spinta alla delocalizzazione, la smaterializzazione dell’economia e una nuova logistica in grado addirittura di ridefinire i connotati stessi della produzione hanno reso obsoleti o comunque insufficienti i modelli competitivi basati puramente su distretti produttivi di contiguità. Si analizza come le possibilità di ricollocare adeguatamente il sistema economico produttivo del nostro paese e di mantenere un livello di competitività adeguato alle sfide della globalizzazione passano per forti investimenti sugli elementi di qualità dello sviluppo, di eccellenza delle aree produttive, di creazione di valore attraverso la mobilitazione congiunta di capitale economico, capitale sociale e capitale istituzionale nei sistemi locali di riferimento. In termini strategici sembra opportuno ridefinire un nuovo concetto di grado di fornire il quadro di azione, il IUDPH LVWLWX]LRQDOH VRVWHQLELOLWj VRFLDOH in in cui collocare gli elementi operativi di una nuova competitività basata su elementi di alta qualità e di innovazione. Da questo punto di vista il contributo prende in considerazione la governance locale dello sviluppo e spiega come il sistema delle Autonomie locali gioca un ruolo decisivo: Regioni, Province, Comuni e Comunità montane costituiscono, infatti, un sistema locale in grado di mettere in campo efficaci VWUDWHJLHUHJRODWLYHed iQFLVLYL SURFHVVL LQFOXVLYL , anche a livello economico, specie in un momento di grande trasformazione come quello attuale. Il Decreto legislativo 112/98 (cosiddetto Decreto Bassanini) prevede l’istituzione di SURGXWWLYH HFRORJLFDPHQWH DWWUH]]DWH DUHH (Apea) quali strumenti per aumentare la competitività dei sistemi economici locali, sperimentare forme avanzate di semplificazione e istituire servizi SDSHU , quindi, si propone come vero e proprio innovativi sul territorio. Il SURJHWWD]LRQHH SURSRVWD ODERUDWRULR GL per innovativi servizi d’area a supporto delle filiere produttive locali. Per questo motivo, oltre a un puntuale inquadramento teorico metodologico delle tematiche sopra richiamate, il lavoro è focalizzato sulle seguentikey issues: • studio delle azioni e dei servizi orientati a definire gli VWDQGDUG GL SURJHWWD]LRQH H GL UHDOL]]D]LRQH di aree produttive ecologicamente attrezzate; • approfondimento degli elementi che contraddistinguono azioni improntate alla UHVSRQVDELOLWjVRFLDOHG¶DUHD , con le linee progettuali per la realizzazione di sondaggi deliberativi e processi partecipativi inclusivi su scala territoriale; 8 • possibili azioni di orientamento della domanda locale di beni e servizi attraverso iniziative di LQIRUPD]LRQHHFRPXQLFD]LRQHVXOFRQVXPRUHVSRQVDELOH , etico e critico. Si definiscono, successivamente, le progettualità possibili ed i servizi concretamente erogabili da parte del sistema delle autonomie locali a supporto dello sviluppo economico, delle filiere produttive e della competitività. In particolare, si delineano gli elementi per nuovi servizi d’area in grado di connettersi in reti di opportunità e di asset territoriali. Il lavoro è incentrato sugli insediamenti industriali e sul processo di pianificazione di nuovi insediamenti o ampliamenti di insediamenti industriali esistenti. I servizi d’area per la competitività delle filiere industriali locali rappresentano un’evoluzione degli interventi della pubblica amministrazione a favore delle imprese; proprio per caratterizzare adeguatamente il pacchetto di servizi/funzioni si pone l’accento sulla fase di analisi dei fabbisogni potenziali di una filiera locale produttiva industriale (prendendo come riferimento il caso concreto dell’area produttiva di Ponte Rizzoli). In particolare, si elaborano gli esiti che stanno emergendo da questa sperimentazione locale effettuata dalla Provincia di Bologna. Si dimostra come l’esperienza rappresenta, infatti, un case study pilota a livello regionale e nazionale utile per definire standard e prestazioni necessarie per la qualificazione ambientale di un insediamento produttivo (e il rapporto tra certificazione di qualità di un sito e certificazione d’ambito produttivo omogeneo). $$ :$(1 $2 ;<$$ =2$ > ?@$ $2$ , GL/XFD&RUUHDQL(FRQRPLD3ROLWLFD HG(FRQRPLDLQGXVWULDOHSUHVVRODIDFROWjGL 5 (FRQRPLD8QLYHUVLWjGHOOD7XVFLDHG(OLVDEHWWD1HUL8QLYHUVLWj/D6DSLHQ]DGL5RPD Il contributo nasce dall’assunto che capacità d’innovare e capacità di competere sono strettamente interrelate. Per essere competitivo un Paese deve sviluppare progetti che possano spingere le imprese non solo ad avvicinarsi alle nuove tecnologie, ma anche al miglior sfruttamento di ogni condizione generata da queste. Il lavoro di ricerca proposto è dedicato allo sviluppo di un modello di crescita locale basato sulle interazioni strategiche, in ambito di attività di ricerca condivisa, a livello locale evidenziando, in termini teorici, gli effetti che tale attività può avere sulla produzione di ricchezza e sui livelli di benessere. L’approccio metodologico è prevalentemente basato sull’integrazione tra giochi evolutivi e la tradizionale modellistica sulla crescita economica. Nella prima parte del lavoro è spiegato come, data la centralità delle piccole e medie imprese nel tessuto economico italiano, un comportamento di chiusura all’innovazione, spesso dovuto a 9 problemi finanziari, nonché culturali, pregiudica la competitività del Paese. Si dimostra come l’elevato costo dell’innovazione spesso rappresenta un forte deterrente all’aumento della competitività delle piccole imprese e come le autonomie locali devono promuovere e sostenere le attività innovative agevolando la diffusione e lo sfruttamento dei risultati della ricerca. La strategia che si propone nel contributo per superare questo handicap prevede la creazione di strutture di ricerca e sviluppo locali “condivise”, che interagiscono con le imprese presenti sul territorio, per migliorare i processi ed i prodotti, puntando principalmente sulla qualità e l’innovazione. Attraverso la descrizione delle principali problematiche incontrate dalle imprese italiane nei processi di innovazione, si spiega come attraverso consorzi di tipo tecnologico le imprese riducono notevolmente i problemi finanziari legati all’allestimento di un centro di ricerca e sviluppo interno alla singola impresa, senza compromettere il valore aggiunto prodotto. Successivamente sono analizzati i modelli organizzativi di ricerca condivisa e come i centri di ricerca locali eseguano un’analisi del “capitale territoriale”, vale a dire il complesso degli elementi (materiali e immateriali) a disposizione del territorio, per far emergere i punti di forza o i vincoli su cui puntare per intraprendere la loro attività di promotori dell’innovazione locale. L’attività dei centri è basata sul coinvolgimento di tutti i possibili stake-holders delle imprese locali, che interpreteranno le future tendenze del mercato. Le strutture di ricerca occupano personale con competenze generali, permettendo la focalizzazione su specifici progetti dei team più opportuni. Si analizza come gli organismi “condivisi” accompagnino il trasferimento delle innovazioni tecnologiche alle imprese che operano sul territorio, con processi di formazione avanzata e servizi specialistici. In tal senso stimolano nuove attività produttive, sia generando un output ad alto valore aggiunto, sia attirando imprese già attive verso il territorio nel quale operano. Le imprese ad alta crescita possono così produrre opportunità che, potenziali imprenditori possono cogliere instaurando un meccanismo di spin-off a livello territoriale. La strategia proposta nel contributo è di tipo abilitante nel senso che fornisce un servizio al sistema produttivo locale affinché le imprese perseguano un percorso strategico sistematico. Si assume pertanto che gli assi principali di sviluppo siano l’accesso all’innovazione, la connettività e nuovi modelli di HOHDUQLQJ per le imprese e, contestualmente, si sottolinea la necessità di ovviare ad alcuni dei vincoli che la piccola dimensione pone allo sviluppo: accesso al credito per finanziare l’attività innovativa; intraprendere strategie di internazionalizzazione; migliorare la competitività dei prodotti. 10 / A B-&!+,$ C A(D$& GL $OHVVDQGUR 1DWDOLQL 6FLHQ]D GHOO DPPLQLVWUD]LRQHGHOODIDFROWjGL6FLHQ]H3ROLWLFKHSUHVVRO 8QLYHUVLWjGHOOD7XVFLDGL9LWHUER 6LULDQD6DOYL8QLWj SHUODVHPSOLILFD]LRQHHOD TXDOLWjGHOODUHJROD]LRQHSUHVVROD3UHVLGHQ]D GHO &RQVLJOLR GHL 0LQLVWUL H )UDQFHVFR 6DUSL 7DVN IRUFH SHU OD PLVXUD]LRQH H ULGX]LRQH GHJOL RQHUL DPPLQLVWUDWLYLLVWLWXLWDSUHVVROD6FXROD6XSHULRUHGHOOD3XEEOLFD$PPLQLVWUD]LRQH Il contributo parte dall’assunto che le politiche di semplificazione realizzate a partire dall’inizio degli anni novanta non hanno consentito al Paese di recuperare i ritardi accumulati negli anni precedenti nei confronti degli altri paesi avanzati. Attraverso l’analisi delle risultanze delle indagini a carattere comparativo disponibili si evidenzia come gli interventi posti in essere non hanno alleviato il carico burocratico gravante sul sistema produttivo né tantomeno ridotto il gap esistente tra l’Italia e i paesi con cui essa è in competizione per attrarre gli investimenti delle imprese. Mettendo a confronto Italia, Francia, Germania e Spagna in relazione ad alcuni indicatori che concorrono al punteggio finale attribuito dalla Banca Mondiale, si analizza il gap competitivo del sistema economico italiano in relazione al livello di efficienza delle burocrazie dei singoli paesi. Si mostra la necessità di ulteriori ed incisivi interventi di semplificazione. Il contributo presenta le modifiche intervenute nel quadro generale delle politiche di semplificazione per mettere in luce il nuovo ruolo che dovrebbe essere svolto dai comuni. Si propone, infine una revisione del modo di progettare e di realizzare gli interventi di riduzione degli oneri e dei tempi burocratici in ambito locale, in sintonia con le linee di tendenza che stanno emergendo a livello statale e comunitario. In questo contesto, la realizzazione delle nuove politiche viene collegata al presupposto che le amministrazioni comunali siano dotate di precise caratteristiche: una leadership politica in grado di dare impulso, coerenza complessiva e continuità alle azioni intraprese; un sistema di governance interna che renda possibile progettare e realizzare un programma pluriennale a carattere trasversale; un sistema di governance verticale e orizzontale che consenta di sviluppare le necessarie sinergie con le altre amministrazioni pubbliche; una capacità di impostare su basi nuove i rapporti di collaborazione con i privati. Viene specificato come, a livello comunale, sia utile prevedere l’elaborazione di un piano d’azione per la semplificazione; documento, con un orizzonte pluriennale (correlato alla durata del mandato del vertice politico), che dovrebbe contenere l’indicazione degli obiettivi perseguiti annualmente – più stringenti nel primo anno, in modo da assicurare la necessaria spinta iniziale e comunicare una decisa volontà di cambiamento – e degli ambiti su cui si intende intervenire. Infine si sottolinea che, oltre a monitorare continuamente la realizzazione dei piani, alle amministrazioni pubbliche spetta di monitorare gli effetti generati dall’intervento semplificatorio sotto tre profili: la 11 riduzione effettiva dei tempi di realizzazione del procedimento nel suo complesso e delle fasi che lo compongono; la diminuzione degli oneri amministrativi gravanti sui destinatari; il grado di apprezzamento dell’intervento di semplificazione da parte dei beneficiari dell’intervento, e spetta anche di implementare analisi di customer satisfaction sulle utenze finali. E$2 F!/ G0HI1!JK1L&. MN! / GL $QGUHD *DQ]DUROL (FRQRPLD H *HVWLRQH GHOO¶LQQRYD]LRQHLPSUHVD 8QLYHUVLWj VWDWDOH GL 0LODQR H /XLVD 7LUDRURIDFROWjGL6FLHQ]H3ROLWLFKH8QLYHUVLWjVWDWDOHGL0LODQR Il contributo definisce il percorso logico attraverso cui, per essere competitivo, un sistema di servizi sia il risultato di un progetto di cooperazione tra enti, al quale poi deve poter seguire un processo di supporto agli attori per lo sviluppo economico locale che attiene principalmente alle scelte di localizzazione, alle modalità di finanziamento, allo sviluppo dei sistemi di Information & Communication Technology, all’erogazione dei servizi pubblici di mobilità, ambientali, energetici, ecc., per i soggetti imprenditori e per tutta la collettività di riferimento. La competitività dei servizi viene sostenuta a partire dalla ricerca della massima collaborazione possibile tra enti e soggetti a vario titolo coinvolti su un’area territoriale: si focalizza l’analisi sulla comparazione degli strumenti di cooperazione, a partire proprio dall’approfondimento su quali e quante sono attualmente in Italia le modalità di cooperazione in atto, obbligatorie per legge e su base volontaria, per comprendere su quali linee di sviluppo tale cooperazione possa svilupparsi e con quali effetti sul sistema imprenditoriale dei servizi. Si concentra l’attenzione, quindi, sul tema della governance interistituzionale, e si prende spunto dal caso francese del &RQWUDW G¶$JJORPHUDWLRQ , quale forma di cooperazione volontaria tra enti prevista dalla normativa francese. Il Contrat si elabora a partire da una fase di concertazione e di consultazione con tutti i comuni aderenti, oltre che con le differenti associazioni e membri della società civile; a tal fine viene di sovente costituito un Comitato di Sviluppo con il compito di aprire il dialogo tra i differenti attori coinvolti che giocano un ruolo nello sviluppo dell’Agglomération. L’esperienza delle realtà intercomunali francesi che hanno portato a termine tale percorso, ha consentito di porre l’attenzione su alcuni aspetti quali la dimensione interurbana e interregionale del contratto ed i rapporti tra aree urbane contigue, o il contenuto stesso del contratto che non può definirsi standard, poiché deve adattarsi alle esigenze locali. Si analizza come, nell’esperienza francese, il contrat d’agglomération riesce a dare maggiore peso al progetto di cooperazione intercomunale, perché attraverso la contrattualizzazione si riesce 12 ad esprimere chiaramente le politiche dell’agglomération: gli strumenti, le azioni, le modalità di finanziamento. Con riferimento alla situazione italiana e per comprendere più a fondo come gli enti possano mediante la cooperazione effettivamente promuovere uno sviluppo delle imprese di servizi, si richiamano le tematiche del marketing territoriale, o meglio più in generale, del marketing relazionale e delle reti tra imprese ed istituzioni. Il contributo analizza come le relazioni possano esprimersi a diversi livelli: le imprese possono essere rappresentate dalle proprie associazioni di categoria, o possono svolgere direttamente funzione consultiva, così come le differenti forme intermedie della società civile (ad esempio associazioni dei consumatori e sindacati). Inoltre divengono partner privilegiati proprio in virtù dell’apporto di capitale di rischio nelle imprese a capitale pubblico-privato. Si dimostra come un’ulteriore opportunità di sviluppo del sistema competitivo locale di servizi a supporto del processo di cooperazione interistituzionale è data dallo sviluppo di partnership pubblico-privato: in tal caso i soggetti privati collaborano fattivamente con le istituzioni e le Università per promuovere imprese operanti nel campo della ricerca (ad esempio i Parchi Scientifici e Tecnologici) o attività di sviluppo del territorio (turismo, cultura, sistemi informativi, servizi sociali). A supporto di tale visione allargata di cooperazione assurgono a ruolo primario due funzioni fondamentali per lo sviluppo economico locale: la pianificazione e i finanziamenti alle imprese. Il processo di pianificazione partecipata prevede il diretto coinvolgimento dei differenti enti locali, delle organizzazioni per lo sviluppo (agenzie, patti, gal) e delle imprese. In tal senso, si dimostra come necessario mettere a punto una serie di strumenti per lo sviluppo del sistema competitivo locale; innanzitutto il Piano Strategico, che si spiega come divenga l’elemento centrale per un dialogo tra istituzioni e differenti soggetti di un territorio. Infine, si approfondiscono la modalità di costruzione del Piano Strategico e le modalità di coinvolgimento dei differenti attori che entrano in gioco nel processo di pianificazione (imprese pubbliche e private, associazioni di categoria, ecc.). & 6M$ O 6 ( / 2$ GL $QWRQLR 0DVWURJLRUJLR 'LSDUWLPHQWR GL 6FLHQ]H $]LHQGDOL 8QLYHUVLWj GL%RORJQD H 9LWDOLDQR $QGUHD %DUEHULR IDFROWj GL (FRQRPLD 8QLYHUVLWj GL%RORJQD Il contributo propone una riflessione sul ruolo dei cluster culturali attraverso una discussione critica di come, in Italia in questi ultimi anni, l’interesse per la cultura è andato aumentando, ma 13 all’interno di una concezione unilaterale e riduttiva: quella del turismo culturale, ovvero di attività confinate nel contesto dell’intrattenimento e del tempo libero. Si analizza come da questa concezione è maturata una rivisitazione del modello distrettuale industriale, il cosiddetto distretto culturale, che vorrebbe applicare alle filiere dei comparti culturali la stessa logica che ha fatto il successo delle PMI italiane manifatturiere, con l’obiettivo di trasformare il territorio italiano in una galassia di città d’arte che vendano al turista bellezze storiche e prodotti tipici. Si assume che i beni culturali siano estremamente importanti da un punto di vista strumentale per sviluppare delle alternative di scelta e, di conseguenza, siano fondamentali per ottenere delle ricadute positive di tipo economico (reddito, consumi, spesa), soprattutto in riferimento allo sviluppo di un territorio. Tuttavia si assume che una lettura superficiale di tale impostazione porta con sé il rischio di una visione oggettivizzante della cultura: una cultura che appare, sempre di più, un mero bene di consumo. E’ spiegato come questo paradigma risulti inadeguato a produrre una riqualificazione territoriale fondata sulla componente socio-culturale dei suoi abitanti. Muovendo da tali premesse, il contributo individua lo scollamento logico tra la dimensione fenomenica della cultura (gli artefatti) e quella ontologica secondo la quale la cultura rappresenta il referente di un discorso tra attori privilegiati: la prevalenza della dimensione ontologica ha portato alla costruzione del concetto accademico di cultura intesa come qualcosa di esterno, di oggettivo, al punto da porlo come referente di un discorso che prescinde dalla “località” che caratterizza le dinamiche sociali nelle quali la cultura è (o dovrebbe essere) radicata. Nel contributo la cultura viene intesa come il codice genetico di un popolo, si dimostra come la prospettiva che i policy maker dovrebbero adottare differisce notevolmente da quella attualmente vigente; si spiega come passare da una logica top down (di supervisione e costruzione delle condizioni di contorno) ad una bottom up (di partecipazione effettiva ai singoli fenomeni puntualmente emergenti); si vuole indirizzare allo sviluppo, non di un modello di distretto culturale (caratterizzato da integrazione verticale) ma, di cluster culturale nel quale siano le stesse istanze locali ad auto-organizzarsi secondo una logica bottom up ed a generare le stesse grammatiche che regolano la fruizione degli artefatti prodotti (e quindi la stessa cultura). Si dimostra come i policy maker attuino il coinvolgimento della popolazione nel processo di creazione culturale perché allarga lo spettro di scelte disponibili. Il contributo pone l’accento sulla necessità di crescere culturalmente al fine di poter apprezzare realmente, in modo disinteressato e non finalizzato, gli accadimenti e gli artefatti che dovrebbero 14 comporre quello che si vuole definire come cultura: condizione necessaria per uno sviluppo del territorio basato sulla cultura. Si dimostra, infine, attraverso studio di casi come generare un ritorno economico rilevante ed innestare sviluppo, senza prescindere dalla necessità di conoscere, apprezzare, vivere realmente, profondamente ed accuratamente il prodotto (culturale) del territorio. $724 %!/!&4P2$ K1! 3 $&.$ 9!+0$ 3&!$ 9! & &' ( , GL$UWXUR&DSDVVR RUGLQDULRGL (FRQRPLD H JHVWLRQH GHOOH LPSUHVH H ILQDQ]D D]LHQGDOH SUHVVR OD IDFROWj GL (FRQRPLD 8QLYHUVLWj GHJOL 6WXGL GHO6DQQLRHRUGLQDULRGL(FRQRPLDHJHVWLRQHGHOOHLPSUHVHIDFROWjGL(FRQRPLD8QLYHUVLWjGHJOL VWXGL GL 1DSROL )HGHULFR ,, 5RVDOED /RIIUHGR FXOWRUH GHOOD PDWHULD SUHVVR LO '$6(6 'LSDUWLPHQWR GL $QDOLVL GHL 6LVWHPL (FRQRPLFL H 6RFLDOL 8QLYHUVLWj GHO 6DQQLR H 3DVTXDOH 5XVVLHOOR FXOWRUH GHOOD PDWHULD SUHVVR LO '$6(6 'LSDUWLPHQWR GL $QDOLVL GHL 6LVWHPL (FRQRPLFL H 6RFLDOL8QLYHUVLWjGHO6DQQLR Nel corso degli ultimi anni, le politiche di attrazione degli investimenti attuate dai sistemi territoriali si sono avvalsi dell’introduzione di una nuova famiglia di strumenti conosciuta come “Programmazione Negoziata” che in particolare in due declinazioni – Contratti d’Area e Patti territoriali – ha visto assumere un ruolo più incisivo e determinante da parte degli enti locali. Nel contributo si analizza, attraverso studi di caso e dati empirici puntualmente riportati, la concreta attuazione e i risultati conseguiti, tanto dei Patti territoriali tanto degli interventi realizzati mediante gli strumenti agevolativi di cui alla L. n. 266/1997. A tal fine, si è in primo luogo provveduto a calcolare alcuni parametri di riferimento: il totale delle risorse impegnate (RI), rappresentate dall’ammontare delle risorse formalmente destinate al finanziamento degli interventi, sulla base di appositi provvedimenti, che costituiscono un vincolo sugli stanziamenti di bilancio; le risorse stanziate(RS), risultanti dai valori indicati nei documenti di programmazione e dalle eventuali variazioni intervenute nel corso degli anni e le risorse erogate (RE), rappresentate dall’ammontare di risorse finanziarie accreditate ai soggetti beneficiari. Si analizza in seguito la distribuzione territoriale e settoriale delle iniziative, la dimensione media degli interventi e successivamente si è calcolato il rapporto tra le risorse impegnate e quelle stanziate, nonché il rapporto tra le risorse erogate e quelle erogabili o riconosciute (RR), pari alle risorse impegnate al netto delle revoche e rinunce. 15 L’analisi svolta ha evidenziato i differenziali in termini relativi di efficacia dei contributi gestiti con impianti procedurali semplificati, quanto meno sotto il profilo del soggetto proponente e, di conseguenza, è emersa la necessità di definire un modello nel quale il potere di attrazione degli incentivi debba influire in modo sinergico con le caratteristiche del territorio. Si evidenzia come i Patti abbiano fornito soluzioni adeguate nel velocizzare alcuni processi amministrativi connessi all’attività di investimento - in primis i problemi urbanistici - e di aver stimolato occupazione e indotto. Le considerazioni svolte inducono, infine, ad alcune riflessioni sul ruolo degli enti pubblici territoriali nei processi di attrazione e supporto degli investimenti produttivi. Si sottolinea, a tal proposito, come gli enti pubblici territoriali, e in particolare i comuni, potrebbero fornire strumenti e mezzi di potenziamento dell’attività di recupero di efficienza, intesi come gestione diretta di strumenti di incentivazione alle amministrazioni stesse in primis e, quindi, come ulteriori leve da distribuire all’esterno a supporto delle politiche di attrazione e sviluppo locale. 16 & 0 , 0 '1( ¶ 40" 9$&()% * !+,$ 8 % / -&!/( di Marino Cavallo Q e Piergiorgio Degli Esposti QQ (FRQRPLDHJOREDOL]]D]LRQH Viviamo ormai una realtà dove tutto è presente: la Tv, internet, i quotidiani, il sistema dei media trasformano ciò che è lontano in vicino e ciò che è vicino in lontano. Le merci e gli scambi sono sempre più di portata transnazionale, L3RG , 1LNH o 6WDUEXFNV spopolano a livello planetario indifferentemente dal contesto culturale in cui si vanno ad inserire, i cittadini del mondo vivono ormai un sentimento comune, tanto che i linguisti teorizzano la nascita di una nuova lingua, il JORELVK una sorta di inglese esperanto del cittadino del mondo. Voli aerei, telefonate, e-mail, spostamenti di capitali da un paese all’altro, aziende che delocalizzano, RXWVRXUFLQJ , prodotti disegnati in Usa o Ue e fabbricati in Cina (per poi tornare in occidente), format di trasmissioni televisive identici in tutto il mondo producono un processo di omogeneizzazione culturale che si può generalmente definire come JOREDOL]]D]LRQH. Volendo fornire una definizione del termine in oggetto, la globalizzazione può essere spiegata come la «diffusione mondiale di pratiche, come ad esempio l’ampliamento delle relazioni fra i continenti, l’organizzazione della vita sociale su scala globale e la crescita di una consapevolezza globale condivisa»1. Il concetto di “globalizzazione” si è esteso fino a comprendere tutta una serie di processi transnazionali che, benché abbiano una portata mondiale, sono separabili gli uni dagli altri. Per comprendere appieno il fenomeno “globalizzazione” è quindi necessaria una analisi ad ampio raggio che sconfina nel terreno della politica, della sociologia dell’economia e della storia. Interessante appare anche la definizione che ne dà wikipedia, enciclopedia collaborativa simbolo a livello culturale di questo processo: «Con il termine globalizzazione si indica il fenomeno di crescita progressiva delle relazioni e degli scambi di diverso tipo a livello mondiale in diversi ambiti osservato a partire dalla fine del XX secolo. Sebbene con questo termine ci si riferisca prevalentemente agli aspetti economici delle relazioni fra popoli e grandi aziende, il fenomeno va inquadrato anche nel contesto dei cambiamenti sociali, tecnologici e politici, e delle complesse ∗ Università di Ferrara, ha scritto i paragrafi 2,4,5,6,7, 8. Università di Bologna, ha scritto i paragrafi 1 e 3. 1. F. Lechner, *OREDOL]DWLRQ in Ritzer G. (a cura di), (QF\FORSHGLDRI6RFLDO7KHRU\Thousand Oaks, CA, Sage, 2005. ∗∗ 17 interazioni su scala mondiale che, soprattutto a partire dagli anni 80, in questi ambiti hanno subito una sensibile accelerazione»2. Storicamente parlando sarebbe però un errore pensare che l’umanità si trovi per la prima volta di fronte ad un fenomeno di questo tipo, come sostiene infatti Amartya Sen, per migliaia di anni, viaggi o migrazioni, scambi di merci o di conoscenze acquisite hanno rappresentato una forma di globalizzazione, che ha contribuito a far progredire l’umanità attraverso lo scambio reciproco di conoscenze3, anche l’impero Romano per certi versi, attraverso la diffusione di scambi commerciali e la espansione di un modello politico può essere assimilato ad un processo di globalizzazione. Se la fenomenologia in questione si è quindi già presentata cosa la rende peculiare ai giorni nostri? La caratteristica peculiare della globalizzazione contemporanea è data dall’esasperata accelerazione delle istanze economiche su quelle sociali, accelerazione favorita da un’evoluzione tecnologica mai verificatasi prima nella storia. In particolare i trasporti e le comunicazioni hanno vissuto un’evoluzione senza precedenti permettendo lo stravolgimento dei concetti di spazio e di tempo. La dilatazione del tempo, le possibilità di multipresenza che ci consentono gli strumenti tecnologici, il multitasking, la rapidissima obsolescenza dei beni ci portano a vivere in un continuo presente dove l’orizzonte temporale e la programmazione futura si sono ridotte ai minimi termini. Anche da un punto di vista spaziale la velocità dei mezzi di trasporto, o il proliferare degli strumenti di comunicazione, permette rapidi spostamenti di merci persone e capitali, rendendo il pianeta un unico luogo. La novità dell’era globale, secondo Bauman, è che proprio a causa della globalizzazione va perso il nesso tra povertà e ricchezza. Infatti, essa spacca la popolazione mondiale in ricchi globalizzati, che superano lo spazio e non hanno tempo, e in poveri localizzati, che sono incatenati allo spazio. Bauman parte dal presupposto che la globalizzazione economica e la frammentazione politica non sono due ossimori che si escludono vicendevolmente, ma sostiene che sono due processi complementari. La così detta glocalizzazione di cui parla Robertson viene rivisitata da Bauman per raffigurare l’attuale società mondiale e in particolare per interrogarsi sulle più importanti ed inquietanti conseguenze che derivano dalle disuguaglianze globali. Globalizzazione e localizzazione non sono solo due momenti, due facce di una stessa medaglia. Al tempo stesso sono forze motrici e forme di espressione di una nuova polarizzazione e stratificazione della popolazione mondiale in ricchi globalizzati e poveri localizzati4. 2. www.wikipedia.it 3. A.K. Sen, *OREDOL]]D]LRQHHOLEHUWj, Mondatori, Milano, 2002, pag. 11. 4. Cfr. Z. Bauman, /D VRFLHWj GHOO¶LQFHUWH]]D, il Mulino, Bologna, 1999; ID. JOREDOL]]D]LRQHOHFRQVHJXHQ]HVXOODSHUVRQD, Laterza, 2000. 'HQWUR OD 18 Da un punto di vista teorico sono molti gli studiosi che sostengono che l’innesco dell’attuale processo di globalizzazione sia dovuto innanzitutto all’evoluzione tecnologica5. Secondo Castells «la tecnologia dell’informazione sta a questa rivoluzione come le nuove fonti di energia stavano alle precedenti rivoluzioni industriali»6, lo studioso sostiene poi che vi sono state almeno due rivoluzioni industriali, antecedenti alla nuova rivoluzione tecnologica che dà l’avvio al più recente processo di globalizzazione. Alla luce di queste osservazioni non si può non prendere in considerazione la tesi di Giddens secondo cui “la modernità è di per sé globalizzante”, riferendosi al processo di “stiramento” che conduce diversi contesti sociali o regioni a divenire una rete che avvolge l’intero pianeta, per cui «l’intensificazione di relazioni sociali mondiali che collegano tra loro località distanti (fanno) sì che gli eventi lontani vengano modellati da eventi che si verificano a migliaia di chilometri di distanza e viceversa»7. Etimologicamente il termine “globalizzazione” fu introdotto come neologismo dal guru del marketing Theodore Levitt, che nel 1983 scrisse: «la globalizzazione del mercato è a portata di mano», facendo esplicito riferimento all’evoluzione dei consumi e del marketing. Politicamente parlando poi il trionfo della globalizzazione nella sua accezione contemporanea è il 1990, che vede nell’evento della caduta del muro di Berlino e nella crisi dell’Unione Sovietica i momenti che rappresentano il crollo anche a livello metaforico di un sistema e la fine dell’unico modello ideologicamente antagonista al capitalismo. Secondo la tesi sostenuta da Castells, per cui la globalizzazione è in qualche modo connessa con la ristrutturazione globale del capitalismo, la tecnologia è stata uno strumento essenziale a determinare la dinamica in atto. Tecnologia che ha permesso ed accelerato il processo di integrazione economica già in atto secondo dinamiche che hanno fatto avanzare la globalizzazione capitalista del mondo occidentale sotto forma di una “triadizzazione” – Stati Uniti, Europa Occidentale e Giappone – dell’economia. In questo senso, globalizzazione significa: una intensificazione dell’internazionalizzazione degli scambi commerciali, dei mezzi di trasporto e delle comunicazioni; della multinazionalizzazione crescente delle imprese e delle strutture di produzione8. Il concetto di globalizzazione non va però confuso con quello di LQWHUQD]LRQDOL]]D]LRQH – che indica il carattere dei rapporti economici, politici, giuridici e culturali che una comunità o uno Stato stabiliscono con altri Paesi: si può allora parlare di internazionalizzazione mercantile (di merci), produttiva (investimenti all’estero), finanziaria (movimenti di capitali), tecnologica (trasferimento 5. M. Castells, /D QDVFLWD GHOOD VRFLHWjLQ UHWH 0LODQR, Università Bocconi, 2002; M. Castells, Milano, Università Bocconi, 2003. 6. M. Castells, /DQDVFLWDGHOODVRFLHWjLQUHWHRSFLW pag. 135. 7 A. Giddens, /HFRQVHJXHQ]HGHOODPRGHUQLWj, Il Mulino, Bologna, 1994, pag. 70. 8 R. Paltrinieri, &RQVXPRHJOREDOL]]D]LRQH, Carocci, Roma, 2004, pag. 17. ,OSRWHUH GHOOH LGHQWLWj , 19 di tecnologie), culturale (rapporti culturali), oppure legata a movimenti di persone (migrazioni) – e PRQGLDOL]]D]LRQH – che indica il complesso di problemi i cui effetti si manifestano a livello mondiale, e le cui soluzioni sono possibili solo attraverso la creazione di organismi internazionali e la cooperazione tra Stati nazionali. La globalizzazione così come la intendiamo oggi, secondo Paltrinieri (2004) si struttura nella sua sostanza secondo le seguenti otto caratteristiche chiave: 1) formazione di un mercato finanziario globale che, in linea di massima, implica una sovrastima della struttura finanziaria dell’impresa rispetto alla struttura economica, ovvero la produzione di beni e servizi, ed una conseguente smaterializzazione dell’economia; 2) transnazionalizzazione ed aumento dell’incidenza della tecnologia, con la relativa distinzione tra conoscenza tecnologica e capacità tecnologica che contraddistingue la nuova tecnologia del sapere (dell’informazione), nonché la relativa velocizzazione del tasso di obsolescenza delle stesse tecnologie; 3) iperconcorrenza tra le imprese, ovvero un’accentuata competitività agevolata da processi di liberalizzazione, di privatizzazione e di deregulation che hanno, come diretta conseguenza, un relativo aumento del GXPSLQJ sociale (per vincere la gara sui mercati si abbattono i costi del lavoro); 4) sviluppo di un’informazione che, insieme al progresso dei mezzi di trasporto e allo spostamento massiccio di migranti e turisti, unifica il mondo, riducendolo alla dimensione di “villaggio”; 5) perdita di rilevanza dello Stato o del sistema nazionale come principio regolatore e punto di riferimento fondamentale nello scenario economico e politico nel nuovo assetto globale, nonché relativa perdita di legittimità della politica; 6) affermarsi di un ordinamento militare mondiale, che non riguarda più solo gli armamenti e le alleanze tra le forze armate dei diversi paesi, bensì la guerra stessa, che si fa preventiva e totale; 7) formazione di una società civile transnazionale, che si fa portatrice di una richiesta di giustizia globale come piattaforma per la formulazione di linee politiche basate sugli standard dei diritti umani; 8) diffusione di una cultura globale, che produce un immaginario comune diffuso su scala planetaria9. 9. R. Paltrinieri, RSFLW 20 ,VLVWHPLSURGXWWLYLORFDOL Il modello italiano di sviluppo economico presenta dinamiche peculiari e mette in luce percorsi che richiedono una rivisitazione degli strumenti interpretativi propri dell’analisi economica tradizionale. Nella ricostruzione storico-sociale proposta da Paul Ginsborg10 relativamente ai fenomeni che hanno connotato in modo specifico lo sviluppo nazionale infatti balza agli occhi immediatamente il ruolo fondamentale che hanno giocato nel contesto economico e sociale del nostro paese le piccole aziende e la microimprenditoria. Lo stretto intreccio tra economie locali, ambito territoriale e valori socioculturali può anzi considerarsi uno degli elementi più illuminanti per spiegare il fortissimo dinamismo che ha portato nel dopoguerra l’Italia a passare in brevissimo tempo da una struttura produttiva agricola a una moderna economia industriale. Questo forte legame tra piccole imprese, territorio e ambiente socioculturale ha trovato la sua sistematizzazione negli studi intrapresi attorno ai distretti industriali. È Giacomo Becattini, uno dei maggiori economisti e studiosi italiani di fenomeni distrettuali, a fornirci le coordinate che identificano lo sviluppo dell’impresa nei distretti produttivi. Egli sostiene che esistono «imprese nucleolo», costruite attorno a un blocco di capitali in cerca di valorizzazione attraverso la strada dell’impiego produttivo, ed esistono le imprese «progetto di vita» basate sulla forte determinazione e sulla convinta motivazione di un soggetto che immagina e progetta la combinazione di fattori produttivi per generare valore e innovazione. I distretti sono i luoghi d’elezione privilegiati delle «imprese progetto»11. Sostiene Becattini: il distretto industriale – autentica «piccola economia sociale di mercato» –, lungi dall’essere un residuo del passato precapitalistico o una «mostruosità» del capitalismo, come alcuni pensano, è l’espressione paradigmatica, embrionale, simbolica, del capitalismo «dal volto umano», un capitalismo più reale che finanziario, in cui lo sviluppo delle forze economiche e quello delle relazioni socioculturali procedono sincronicamente12. Nel caso dei distretti produttivi, è il modo in cui si combinano progettualità imprenditoriali e risorse locali (istituzioni, mercati del lavoro attivi nella specifica area, strutture formative) a determinare «posizioni di preminenza» o, seguendo i concetti di M. Porter, i «vantaggi competitivi» di un territorio. , Einaudi, Torino, 1998, (ID.), /¶,WDOLD GHO WHPSR , Einaudi, Torino, 1998. 11. G. Becattini, 'DO GLVWUHWWR LQGXVWULDOH DOOR VYLOXSSR ORFDOH 6YROJLPHQWR H GLIHVD GL XQD LGHD, Bollati Boringhieri, Torino, 2000. (ID.) ,OGLVWUHWWRLQGXVWULDOH, Rosenberg & Sellier, Torino, 1999. 12. G. Becattini [2000], p. 21. 10. P. Ginsborg, 6WRULD G ,WDOLD IDPLJOLD VRFLHWj 6WDWR SUHVHQWHIDPLJOLDVRFLHWjFLYLOH6WDWR 21 E del resto, proprio a M. Porter dobbiamo la consacrazione del modello dei distretti italiani quale EHQFKPDUN di riferimento per lo sviluppo economico comparato13. La via italiana all’innovazione produttiva passa infatti dalla specializzazione flessibile dei distretti territoriali e, nel corso degli anni 80, il fenomeno diventa un FDVHVWXG\ a livello internazionale14. Nel celebre «diamante» di Porter15, i fattori che determinano il vantaggio competitivo di una nazione sono dati dalla combinazione ottimale dei seguenti elementi: • &RQGL]LRQL GHL IDWWRUL definite dal livello di base delle risorse necessarie per competere (risorse umane, infrastrutture, ecc.); • &RQGL]LRQL GHOOD GRPDQGD identificate dal tipo di richiesta interna per i prodotti o i servizi di uno specifico settore industriale o commerciale; • 6HWWRUL LQGXVWULDOL FRUUHODWL H GL VRVWHJQR tutti i segmenti della filiera produttiva che, a monte o a valle, sono necessari per produrre i beni di quel settore industriale e il loro livello di competitività internazionale; • 6WUDWHJLD VWUXWWXUD H ULYDOLWj GHOO¶LPSUHVD le caratteristiche organizzative e le forme della concorrenza interna tra imprese e sistemi produttivi del settore. Infine, ma assolutamente centrale nel modello strategico di Porter, il ruolo che rivestono nel sistema altri due fattori: il «governo» e il «caso». Questi due ulteriori elementi inseriti nel sistema analitico-concettuale dello studioso infatti puntualizzano i contributi che derivano da specifiche politiche di incentivazione e supporto (le attività delle istituzioni) e l’essenziale ma imponderabile parte che giocano nel modello variabili quali la motivazione imprenditoriale e l’invenzione applicate alla produzione industriale. Esaminiamo però più da vicino i distretti produttivi. I distretti sono definiti da G. Viesti come «un insieme di imprese e di istituzioni, geograficamente prossime ed economicamente interconnesse»16. Per comprendere lo sviluppo territoriale sono essenziali i modelli interpretativi proposti dalla «nuova geografia economica», che ha l’obiettivo di «spiegare le concentrazioni di popolazione e attività economica: la distinzione tra sistemi territoriali manifatturieri e agricoli, l’esistenza delle città»17. I modelli interpretativi della nuova geografia economica mettono chiaramente in evidenza i possibili squilibri nello sviluppo regionale, che sono determinati da tre 13. M. Porter, ,OYDQWDJJLRFRPSHWLWLYRGHOOHQD]LRQL, Mondadori, Milano, 1991. Ediz. orig. 1989. 14. M. J. Piore, C.F. Sabel, /H GXH YLH GHOOR VYLOXSSR LQGXVWULDOH SURGX]LRQH GL PDVVD H SURGX]LRQH IOHVVLELOH Isedi, Milano, 1987. Ediz. orig. 1984. (id), «Italian Small Business Development: Lesson for U.S. Policy», in $PHULFDQ ,QGXVWU\LQ,QWHUQDWLRQDO &RPSHWLWLRQ*RYHUQPHQW3ROLFLHVDQG&RUSRUDWH6WUDWHJLHV, a cura di J. Zysman e L. Tyson, Cornell University, Ithaca, 1983. 15. M. Porter [1991], pp. 95-165. 16. G. Viesti, &RPHQDVFRQRLGLVWUHWWLLQGXVWULDOL, Laterza, Roma-Bari, 2000, p. VII. 17. M. Fujita, P. Krugman, Venables A. J., 7KH 6SDWLDO (FRQRP\&LWLHV 5HJLRQVDQG,QWHUQDWLRQDO7UDGH, MIT Press, Cambridge (Mass.), 1999, p. 4. 22 fattori principali: la quota di occupazione che può essere impiegata in nuovi settori produttivi (non vincolata a settori tradizionali, agricoltura per esempio), il livello dei costi di trasporto, le economie di scala possibili in un determinato territorio 18. L’eleganza algida delle teorie della nuova geografia economica però non sempre è in grado di spiegare la nascita e le condizioni necessarie per lo sviluppo di distretti industriali, specie in aree in ritardo di sviluppo o economicamente marginali. Per Viesti i fattori che concorrono, in modo integrato, alla crescita di distretti produttivi sono i seguenti: Un distretto nasce: D combinando fattori produttivi presenti nella regione o acquisibili dall’esterno; E attraverso un’adeguata tecnologia; F per l’azione di una o più imprese motrici e di altre imprese che nascono conseguentemente; G se è in grado di raggiungere una soglia critica di domanda e quindi di produzione; H se nella regione vi è una generale situazione socio-economica che non impedisce lo sviluppo e vi sono istituzioni che possono sostenerlo; I se diventa competitivo. L’ipotesi che qui si avanza è che se queste sei condizioni sono soddisfatte, può nascere un nuovo distretto: cioè si generano «economie esterne» pecuniarie e non pecuniarie, e si innesca un circolo di sviluppo che diviene cumulativo, basato su interazioni virtuose, automatiche, spontanee19. È difficile ricreare in vitro le condizioni per lo sviluppo artificiale di economie distrettuali. È però altrettanto evidente che sono essenziali gli impegni e le politiche pubbliche di sostegno allo sviluppo economico produttivo, specie per la creazione delle infrastrutture materiali e immateriali di base che, oggi più che mai, nell’era della globalizzazione economica e dei mercati, contraddistinguono il livello della competitività dei territori e il grado di attrattività delle economie locali. /RVYLOXSSRVRVWHQLELOH Il dibattito sullo sviluppo poggia su ambiguità e fraintendimenti teorici che solo negli ultimi anni sono diventati oggetto di un profondo ripensamento. Anzitutto si sono poste le basi per una chiarificazione concettuale tesa a distinguere tra crescita e sviluppo e a porre così finalmente le basi per mettere seriamente in discussione i connotati essenzialmente quantitativi della crescita20. Con le crisi energetiche degli ultimi decenni del secolo scorso è infatti emersa la consapevolezza che il benessere sociale e l’aumento dei consumi (e quindi il conseguente impiego crescente delle risorse) 18. G. Viesti, RSFLW, pp. 14-15. 19. ,ELGHP, p. 25. 20. D. Meadows HWDO, ,OLPLWLGHOORVYLOXSSR, Mondadori, Milano, 1972. 23 non dovevano necessariamente crescere in parallelo. Che era dunque possibile vivere in una VRFLHWj VWD]LRQDULD dove l’attenzione poteva concentrarsi sull’aumento di trasformazione delle risorse, su ciò che avveniva tra gli RXWSXW LQSXW HIILFLHQ]D nei processi di di fattori produttivi ed energia e gli di un prodotto o di un servizio21. Anche sulla scorta di queste teorie, negli ultimi anni ha preso piede un profondo ripensamento sugli imperativi dello sviluppo. Da un lato si sono colti gli innumerevoli abusi e le stridenti ingiustizie compiute in nome dello sviluppo (o del PDOVYLOXSSR ) nelle diverse aree geografiche del mondo: azioni che hanno ridotto questo concetto a una mera misurazione della crescita economica tra i diversi paesi del sud e del nord del pianeta22. Dall’altro hanno ripreso vigore teorie che diffondono l’idea di GHFUHVFLWD come esito possibile e auspicabile di un sistema economico che sempre più spesso sperpera risorse e inquina irrimediabilmente l’ambiente23 . Lo sviluppo sostenibile è una forma di sviluppo che non compromette la possibilità delle future generazioni di perdurare nello sviluppo preservando la qualità e la quantità del patrimonio e delle risorse naturali. L' obiettivo è quello di mantenere uno sviluppo economico compatibile con l' equità sociale e gli ecosistemi, in regime di equilibrio ambientale. Storicamente la prima definizione del concetto risale al rapporto Brundtland24 del 1987, poi ripresa dalla Commissione Mondiale sull' Ambiente e lo Sviluppo dell' ONU: «lo sviluppo sostenibile è uno sviluppo che garantisce i bisogni delle generazioni attuali senza compromettere la possibilità che le generazioni future riescano a soddisfare i propri». Questa definizione sintetizza alcuni aspetti importanti del rapporto tra sviluppo economico, equità sociale, rispetto dell' ambiente, sulla base della cosiddetta regola dell' equilibrio delle tre "E": ecologia, equità, economia. Da un punto di vista analitico la definizione tiene presente tre elementi cardine dello sviluppo sostenibile, ovvero: • il tasso di utilizzo delle risorse rinnovabili non deve essere superiore al loro tasso di rigenerazione; • l' immissione di sostanze inquinanti e di scorie nell' ambiente non deve superare la capacità di carico dell' ambiente stesso; • lo stock di risorse non rinnovabili deve restare costante nel tempo. Il concetto di sviluppo sostenibile si può quindi intendere come forma di sviluppo che fornisce elementi ecologici, sociali ed opportunità economiche a tutti gli abitanti di una comunità, senza 21. H. Daly, /RVWDWRVWD]LRQDULR, Sansoni, Firenze, 1981. 22. W. Sachs, 'L]LRQDULRGHOORVYLOXSSR, EGA, Torino, 2004. 23. M. Bonaiuti, 2ELHWWLYRGHFUHVFLWD, EMI, Bologna, 2004. 24. Dal nome della presidente della Commissione, la norvegese Gro Harlem Brundtland. 24 costituire di contro una minaccia alla vitalità del sistema naturale, urbano e sociale che da queste opportunità dipendono. Una posizione più drastica viene assunta dai teorici della decrescita Goeorgescu Roegen e Serge Latouche25. Il primo, fondatore della bioeconomia,26 afferma che a livello economico lo stato maggiormente desiderabile non è quello stazionario, a cui può portare lo sviluppo sostenibile, ma piuttosto la GHFUHVFLWD , ovvero l’inversione di tendenza rispetto al modello di crescita attuale. In questo senso il termine decrescita indica un sistema economico basato su principi differenti da quelli che regolano i sistemi vincolati alla crescita economica. Latouche osserva poi come una crescita infinita sia incompatibile con un mondo finito; la società della crescita si può definire come una società dominata da un economicismo dal quale tende a lasciarsi fagocitare. La crescita fine a se stessa diventa così l' obiettivo primario – se non addirittura il solo – della vita. Ma una società di questo tipo non può essere sostenibile, in quanto si scontra con i limiti della biosfera. /DJRYHUQDQFHORFDOHGHOORVYLOXSSRHODSURPR]LRQHWHUULWRULDOH Nei sistemi economici locali sempre più spesso assumono rilievo i processi di JRYHUQDQFHEssa può essere definita come: l’evoluzione di un sistema o regime secondo una traiettoria desiderata o desiderabile. Comprende sia la soddisfazione degli scopi degli attori, sia la “realizzazione” dei fini normativi e regolativi. La governance (in quanto distinta dal governo ottenuto tramite strutture di comando e controllo gerarchiche e utilizzanti media generalizzati quali la legge e il denaro) si ottiene con il concorso di tutte le risorse disponibili che sono: capitale sociale+politiche+ecologie di giochi regolati+strategie degli attori autointeressati+reti […]27 In questo modo si tenta, tra l’altro, di risolvere il problema della FRPSOHVVLWj dei sistemi che operano in modo convergente su un territorio generando azioni e priorità che possono essere anche fortemente differenziati tra loro. La componente territoriale è decisiva, perché nel WHUULWRULR troviamo distribuiti spazialmente e materialmente presenti beni e risorse per lo sviluppo, mentre il carattere altamente antropizzato dei luoghi è fonte di identificazione, di culture, di piccole e grandi differenze che possono pesare nella dinamica dello sviluppo.28 25. S. Latouche, &RPHVRSUDYYLYHUHDOORVYLOXSSRGDOODGHFRORQL]]D]LRQHGHOO LPPDJLQDULRHFRQRPLFRDOODFRVWUX]LRQH , Bollati Boringhieri, Torino, 2005. 26. N. Georgescu-Roegen, (QHUJLDHPLWLHFRQRPLFL, Conferenza alla Yale University, 8 novembre 1972. 27. C. Donolo, ,OGLVWUHWWRVRVWHQLELOH*RYHUQDUHLEHQLFRPXQLSHUORVYLOXSSR, Franco Angeli, Milano, 2003, pp. 23-4. 28. ,ELGHP, p. 28. GLXQDVRFLHWjDOWHUQDWLYD 25 La JRYHUQDQFH territoriale locale, proprio perché rappresenta la sintesi e l’intreccio di molti sistemi d’azione concreti, richiede l’impiego di molteplici tipologie di risorse orientate allo sviluppo: arene e mercati ben regolati, pratiche negoziali, regole e standard condivisi, efficaci sistemi di incentivi, adeguati sistemi di allocazione delle responsabilità, presenza e disponibilità di beni comuni, circolazione di conoscenze e informazioni, diffuso ethos pubblico e istituzionale, disponibilità a costruire reti e comunità di pratiche, percorsi equi di redistribuzione dei costi e dei benefici, sviluppo di una visione strategica condivisa sulle politiche e sullo sviluppo locale29. L’approccio alla JRYHUQDQFH territoriale dello sviluppo implica problemi con risvolti operativi di non facile soluzione; la gestione della partecipazione e i processi inclusivi concomitanti infatti richiedono tecniche molto raffinate di coordinamento degli attori e dei soggetti coinvolti. Del resto non è affatto semplice mantenere un equilibrio tra informazione distribuita e orizzontale, percorsi di HPSRZHUPHQW degli VWDNHKROGHU , informazione libera da manipolazioni e strumentalismi sempre possibili da parte degli attori più forti del sistema (interessi economici prevalenti, istituzioni consolidate, ecc). Per questo motivo si stanno sviluppando delle vere e proprie IDPLJOLH di tecniche da utilizzare in relazione alle diverse tipologie di intervento sul territorio; una prima sistematica catalogazione di questi strumenti prevede le seguenti suddivisioni30: WHFQLFKH SHU O¶DVFROWR , da impiegare soprattutto nella fase iniziale dei processi e utili per mettere a fuoco i fabbisogni; WHFQLFKH SHU IDYRULUH O¶LQWHUD]LRQH H OD SDUWHFLSD]LRQH DL SURFHVVL GHFLVLRQDOL , da utilizzare prevalentemente in itinere per rendere efficace e fluida la partecipazione alle scelte; WHFQLFKH SHU OD ULVROX]LRQH GHL FRQIOLWWL , dispositivi idonei a sbloccare situazioni di impasse originate da contrasti, anche molto aspri, tra i partecipanti e gli attori coinvolti nel processo. Gli ambiti delle politiche di sviluppo locale si prestano molto bene all’impiego di metodi partecipativi ed inclusivi; sia nelle azioni concertative sia negli approcci sistemici integrati allo sviluppo troviamo infatti spunti per applicare tecniche e metodi di partecipazione inclusivi finalizzati a rendere più efficaci e pervasive le azioni di supporto al sistema produttivo locale. I processi diventano più difficili quando si tratta di negoziare visioni diverse dello sviluppo, interventi che toccano aspetti economici ma anche in modo più ampio funzioni territoriali e impatti ambientali. Passiamo ora ad esaminare le condizioni che determinano un’offerta territoriale insediativa in grado di attrarre investimenti e imprese. Le risorse di un territorio sono sia PDWHULDOL che 29. ,ELGHP, pp. 31-32. 30. L. Bobbio (a cura di), $SLYRFL, Edizioni Scientifiche, Napoli, 2004, pp. 55. 26 LPPDWHULDOL ; esempi del primo tipo sono i servizi pubblici locali, i centri di trasferimento della conoscenza, la pubblica amministrazione, il tessuto produttivo. Sempre in questa tipologia sono comprese le GRWD]LRQL VWUXWWXUDOL del luogo: posizione geografica, infrastrutture, struttura urbanistica, mercato, istituzioni, ecc. Le risorse immateriali o intangibili, sempre a titolo di esempio e quindi certamente in modo non esaustivo, sono invece i valori, lo VSLULWR del luogo, la qualità delle risorse umane e più in generale della vita31. Le modalità operative per rendere OHJJLELOH e peculiare l’offerta insediativa di un territorio passa attraverso alcune azioni basilari: SURJHWWD]LRQHGLRSSRUWXQLWjORFDOL]]DWLYHSHUOHLPSUHVH , che comprende la preparazione dei lotti per l’edificazione degli stabilimenti ma anche la rete dei servizi che qualificano quella specifica area produttiva; UHDOL]]D]LRQH GL SURJHWWL LQQRYDWLYL , intesi sia come programmi infrastrutturali e logistici in grado di aumentare la competitività di un insediamento produttivo (o di una filiera di imprese), sia come realizzazioni in grado di fungere da traino per il territorio amplificandone le occasioni di visibilità e di diffusione GHO PDUFKLR presso una platea più ampia di pubblici specialistici (strutture esemplari come fiere, musei, complessi sportivi, oppure eventi culturali, sportivi, o spettacoli di grande risonanza); RIIHUWDGLVHUYL]LVSHFLDOLVWLFL (soprattutto consulenza direzionale e servizi professionali), che solitamente si distribuisce in una o più fasi del processo insediativo: analisi delle alternative, esame delle opportunità localizzative, effettuazione della scelta e realizzazione dell’insediamento, valutazione degli esiti della scelta insediativa ed evoluzioni del sito produttivo32. 6YLOXSSRHQXRYLVHUYL]LDOOHLPSUHVHLOFDVRGHOOHDUHHSURGXWWLYHHFRORJLFDPHQWHDWWUH]]DWH $SHD Negli ultimi tempi si sono diffuse esperienze e sperimentazioni per rendere operativi i principi alla base dei concetti di VYLOXSSR VRVWHQLELOH e di qXDOLWj GHOOR VYLOXSSR HFRQRPLFR WHUULWRULDOH. Un insieme molto efficace di strumenti è costituito dalle ,QWHJUDWHG SURGXFW SROLF\ (Ipp); esse si fondano sul OLIH F\FOHWKLQNLQJ: 31. M. G. Caroli, ,O PDUNHWLQJ WHUULWRULDOH 6WUDWHJLH SHU OD FRPSHWLWLYLWj VRVWHQLELOH GHO WHUULWRULR, Franco Angeli, Milano, 2006, pp. 126-7. 32. ,ELGHP, pp. 254-280. Si tratta di una selezione non esaustiva degli elementi proposti da Caroli. 27 In estrema sintesi il Lyfe Cycle Thinking può essere definito come un approccio “culturale” avente l’obiettivo di focalizzare tutti gli aspetti legati alla gestione di un prodotto attraverso un’unica lente di ingrandimento: il suo ciclo di vita. Secondo questo approccio, gli impatti ambientali (reali o potenziali) generati nel corso del ciclo di vita, dovrebbero essere considerati in modo integrato al momento della progettazione, realizzazione e gestione del prodotto33. Le politiche integrate di prodotto sono costituite da molteplici ed eterogenei interventi rivolti sia alla singola impresa che a filiere produttive nei diversi momenti cruciali del ciclo di realizzazione del manufatto industriale: progettazione, produzione, distribuzione, consumo e smaltimento. Le attività principali, riconducibili a politiche integrate di prodotto, sono le seguenti: HFRGHVLJQ , con accorgimenti di progettazione in grado di favorire i processi di riutilizzo e recupero dei materiali e degli imballaggi di un prodotto o manufatto; OLIHF\FOHDVVHVVPHQW che comprende le valutazionidegli impatti di un prodotto e individua i consumi di materie ed energia stimandone i carichi e i fabbisogni nelle fasi di produzione, distribuzione e smaltimento, ecc.; VLVWHPL YRORQWDUL GL JHVWLRQH DPELHQWDOH , basati principalmente sull’Emas e sulla certificazione Iso 14001 dei processi industriali di un sito produttivo o di un’impresa e finalizzati al miglioramento dei processi ambientali all’interno dell’azienda; HFRODEHOHFHUWLILFD]LRQLGLSURGRWWR , che consistono in etichette e marchi apposti sulle merci (rivolti principalmente al consumatore) e sono finalizzati in primo luogo ad informare, pur essendo efficaci anche per raggiungere obiettivi di marketing del prodotto e per promuovere la qualità presso il mercato di riferimento del bene o del servizio; JUHHQ SURFXUHPHQW che prevede la promozione degli acquisti di prodotti e servizi ecocompatibili o con più elevata attenzione agli impatti ambientali da parte degli enti pubblici. In questo modo, tra l’altro, si stimolano gli investimenti in ricerca e l’offerta di prodotti e servizi a minor impatto ambientale.34 La logica della FKLXVXUD GHL FLFOL all’interno di sistemi e aree produttive implica passare da processi lineari a processi tendenzialmente chiusi, peculiari dell’HFRORJLD LQGXVWULDOH. L’ecologia industriale infatti si basa sui principi della ELRFRPSDWLELOLWj , della QRQ LQWHUIHUHQ]D dei cicli di produzione con i cicli naturali, della GHPDWHULDOL]]D]LRQH basata sul riorientamento della domanda di beni (favorendo i servizi oppure i prodotti che minimizzano gli impatti ambientali)35. 33. G. Carnimeo, M. Frey, F. Iraldo, *HVWLRQHGHOSURGRWWRHVRVWHQLELOLWj, Franco Angeli, Milano, 2002, p. 20. 34. ,ELGHP, pp. 111-85. 35. M. Franco, , SDUFKL HFRLQGXVWULDOL 9HUVR XQD VLPELRVL WUD DUFKLWHWWXUD SURGX]LRQH H DPELHQWH, Franco Angeli, Milano, 2005, pp. 22-3. 28 Le strategie impiegate dall’ecologia industriale, oltre alle logiche di chiusura dei cicli, sono fondate sulla progettazione sistemica di processi GLVLPELRVLLQGXVWULDOH. Sviluppare queste forme di simbiosi sollecita puntuali analisi degli input e degli output produttivi dei diversi processi produttivi con l’obiettivo di riutilizzare materie di scarto di un processo come risorse per altre produzioni presenti in un’area industriale. Questo richiede forme inusuali di cooperazione tra imprese e la circolazione rapida ed efficace dell’informazione sui fabbisogni di materiale ed energia nel sito produttivo. Forme simbiotiche di rapporto tra imprese possono favorire FOXVWHU e filiere produttive basate sull’ottimizzazione e il miglioramento ambientale dei cicli di produzione industriale. Aree produttive organizzate su queste basi richiedono inevitabilmente forme molto evolute di governo e gestione dei servizi. Si tratta di progettare veri e propri SDUFKL HFRLQGXVWULDOL , di cui stanno emergendo negli ultimi anni connotati e caratteristiche salienti, con definizioni che si consolidano anche a livello internazionale: Un parco eco-industriale è una comunità di imprese che cooperano l’una con l’altra e con la comunità locale per dividere in maniera efficiente le risorse (informazioni, materiali, acqua, energia, infrastrutture ed habitat naturale), mirando alla qualità economica ed ambientale, e ad una gestione equa delle risorse umane36. Gli elementi che rendono fattibile un parco ecoindustriale richiamano quella UHJRODWLYD FRRSHUD]LRQH a cui abbiamo fatto riferimento nei paragrafi precedenti; esistono perciò nei progetti più avanzati di parchi ecoindustriali le seguenti spinte concomitanti: valutazioni positive sulla fattibilità economica del parco, presenza di politiche pubbliche di incentivazione e di sviluppo dei servizi, reti solide di legami relazionali ed organizzativi tra imprese ed investitori presenti sull’area. Cominciano ad emergere diverse esperienze internazionali di parchi ecoindustriali funzionanti, in grado di rappresentare dei punti di riferimento per i soggetti che desiderano intraprendere questa strada. A Kalundborg, in Danimarca, esiste un parco di questo tipo, che rappresenta quasi un PDQLIHVWR della simbiosi industriale. Diverse industrie infatti cooperano utilizzando reciprocamente prodotti di scarto e ricoprendo di volta in volta il ruolo di produttori e consumatori di risorse e materie prime. Il parco di Londonderry-New Hampshire prevede invece al suo interno: l’implementazione di scambi simbiotici tra aziende, lo sviluppo di un sistema di gestione ambientale comune, il rispetto dell’integrità ecologica dell’area37. Un caso interessante, basato sulla riconversione di un’area industriale, è quello canadese del Burnside Industrial Park, che ospita 1200 imprese. Grazie al ruolo promozionale del Centro per le tecnologie pulite, si sono conseguiti miglioramenti sia 36. E. Lowe, S. Moran, D. Holmes, Research Triangle Institute, 1996. 37. M. Franco, RSFLW, pp. 38-53. $ )LHOGERRN IRU WKH 'HYHORSPHQW RI (FRLQGXVWULDO 3DUNV )LQDO 5HSRUW , N.C., 29 nell’efficienza ecologica dei processi, sia nell’efficienza economica e nella competitività delle imprese insediate. Di rilievo l’esperienza del parco ecoindustriale giapponese Fujisawa Factory, dove accorgimenti innovativi sono stati impiegati per il risparmio energetico e per il riutilizzo delle risorse (acque, scarti di lavorazione, ecc.). Negli Stati Uniti, infine, il parco agroindustriale di Burlington si caratterizza per l’uso di bio-energie e di tecniche di depurazione naturale delle acque. Per favorire la realizzazione del parco, l’Epa (l’ente nazionale per la protezione ambientale degli Stati Uniti) ha anche predisposto specifici software in grado di supportare i progettisti e i pianificatori. Tutti questi progetti, seppure frutto di contesti internazionali molto diversi dal punto di vista della legislazione, della tipologia di imprese, dei processi di pianificazione, rappresentano dei concreti esempi di progettazione ambientalmente compatibile delle aree industriali. Anche in Italia, negli ultimi anni, si sono sviluppate iniziative interessanti nell’ambito della qualificazione ambientale delle aree industriali38. In particolare, la Regione Marche ha prodotto per prima linee delle guide sperimentali per le aree ecologicamente attrezzate e diffuso standard e buone pratiche nell’ambito del miglioramento ambientale dei siti industriali39. La Provincia di Torino ha invece investito su progetti di miglioramento della qualità ambientale creando un vero e proprio atlante georeferenziato dei siti produttivi e favorendo esperienze di qualificazione ambientale delle aree presenti sul territorio. Peraltro a Torino è attiva una delle esperienze più interessanti e note a questo riguardo: il parco scientifico e tecnologico per l’ambiente40. L’(QYLURQPHQWDO SDUN tra l’altro ha prodotto negli ultimi anni manuali e guide utili alla progettazione e gestione delle aree ecologicamente attrezzate41, anche traducendo e rendendo disponibili i materiali internazionali dell’Unep (United Nations Environment Programme)42. Tra le esperienze concrete più avanzate di area produttiva ecologicamente attrezzata (Apea) segnaliamo il corposo e impegnativo percorso intrapreso dal Consorzio che gestisce il Macrolotto produttivo di Prato. Le iniziative sono state molteplici: la realizzazione del più grande impianto europeo di riciclo centralizzato delle acque reflue con annesso acquedotto industriale, l’apertura del primo ufficio di PRELOLW\PDQDJHPHQW d’ambito, la pubblicazione di linee guida per la registrazione Emas di un’area industriale e per la registrazione semplificata di piccole e medie imprese43. Altre esperienze rilevanti sono quelle del Consorzio Ponte Rosso, nell’area di Pordenone, centrate sullo 38. M. Cavallo, V. Stacchini (a cura di), /D TXDOLILFD]LRQH GHJOL LQVHGLDPHQWL LQGXVWULDOL 9HUVR OD FRVWUX]LRQH GL DUHH , Clueb, Bologna, 2007. 39. Regione Marche, %XRQHSUDWLFKHSHUODJHVWLRQHDPELHQWDOHGHOOHDUHHLQGXVWULDOL, Swer Multimedia, Torino, 2005. 40. www.envipark.com 41. Environment Park/Dossier 5, a cura di R. Starkey, *XLGD DJOL VWUXPHQWL GL JHVWLRQH DPELHQWDOH SHU OH SLFFROH H PHGLHLPSUHVH, Cuneo, 2001. 42. Environment Park/Dossier 4, *HVWLRQH DPELHQWDOH GHOOH DUHH LQGXVWULDOL HGL] LWDOLDQD VX OLFHQ]D 81(3, Cuneo, 2000. 43. M. Cavallo, V. Stacchini, RSFLW, pp. 9-13. SURGXWWLYHHFRORJLFDPHQWHDWWUH]]DWH 30 sviluppo di sistemi integrati di qualità totale (Iso 9001) e qualità ambientale (Iso 14001) e le azioni finalizzate a sviluppare esperienze di Emas di distretto dell’Agenzia di servizi Lumetel, localizzata nel bresciano. 3URJHWWDUHXQ¶$SHDDXGLWDVVHVVPHQWD]LRQLGLVXSSRUWR Il tema delle aree industriali ecologicamente attrezzate ha trovato specifici richiami anche a livello legislativo; il D.lgs. n. 112 del 1998 (il cosiddetto Decreto Bassanini) prevede infatti che siano le Regioni a disciplinare le caratteristiche e le forme di gestione di queste aree. Sono però già evidenziati nel decreto alcuni punti chiave, che contraddistinguono questa tipologia di aree: la presenza di infrastrutture e sistemi per garantire la tutela della salute, della sicurezza e dell’ambiente; la gestione unitaria delle infrastrutture e dei servizi; forme di semplificazione nei processi di autorizzazione amministrativa degli impianti. Per approfondire le modalità operative che permettono di progettare e sviluppare aree produttive con queste innovative caratteristiche, consideriamo ora le iniziative sperimentali intraprese negli ultimi anni da alcuni enti locali e territoriali44. L’intento è estrarre da questi casi specifici, particolarmente emblematici e rappresentativi, spunti di riflessione e tracce di lavoro utili a individuare VHUYL]L DYDQ]DWL D VXSSRUWR GHOOR VYLOXSSR ORFDOH . La normativa regionale dell’Emilia- Romagna ha previsto specifici requisiti per le aree produttive ecologicamente attrezzate (Apea), elementi in grado di fornire elevate prestazioni su diverse componenti: salubrità e igiene dei luoghi di lavoro; prevenzione e riduzione dell’inquinamento dell’aria e del terreno; smaltimento e recupero dei rifiuti; trattamento delle acque reflue; contenimento del consumo di energia ed efficace utilizzo; prevenzione e controllo dei rischi da incidenti rilevanti; adeguata e razionale accessibilità delle persone e delle merci. E’ inoltre essenziale garantire all’interno dell’area produttiva elevata qualità urbanistica, territoriale, ambientale e prevedere un soggetto gestore delle reti e dei servizi45. In definitiva, le $SHD si caratterizzano come esempio paradigmatico – caso concreto – in grado di rappresentare adeguatamente gli elementi teorici e metodologici sullo sviluppo locale delineati nei precedenti paragrafi in quanto: 44. I riferimenti, in questo e nei prossimi paragrafi, sono alle esperienze della Regione Emilia-Romagna e alla Provincia di Bologna. 45. M. Bergami, M. Cavallo, E. Cancila, A. Bosso, $UHHLQGXVWULDOLHFRORJLFDPHQWHDWWUH]]DWHGDOO¶(PLOLD5RPDJQDXQ SURJHWWR, in Ambiente&Sviluppo, n. 12/2006, pp. 1143-1149. 31 mettono in gioco QXRYH IXQ]LRQL GL VHUYL]LR GHO VLVWHPD GHOOH DXWRQRPLH ORFDOL complessivamente inteso (gli attori sono infatti comuni, province, regioni); rappresentano un tentativo di giocare WHUULWRULDOH OD TXDOLWj GHOOR VYLOXSSR FRPH HOHPHQWR GL PDUNHWLQJ per attrarre e selezionare investimenti su filiere economico produttive SUHJLDWH (alta tecnologia, produzione energetica, industrie ad alta intensità di ricerca e sviluppo); attivano VLVWHPL GL JHVWLRQH PLVWD SXEEOLFR SULYDWR (aziende insediate, enti locali e associazioni di categoria); richiedono una SURJHWWD]LRQH LQQRYDWLYD GHOOH IRUPH JHVWLRQDOL H GHO SDFFKHWWR GL VHUYL]L attraverso la definizione di compiti e funzioni di un VRJJHWWRXQLWDULRJHVWRUHGHOO¶DUHD. La progettazione di un’$SHD comporta soprattutto la riformulazione delle modalità con cui è percepito il rapporto tra imprese e ambiente, mettendo in primo piano le opportunità piuttosto che i vincoli. Nei sondaggi svolti presso le aziende, purtroppo, non sempre vengono colte le occasioni collegate con i miglioramenti dei processi di gestione ambientale in un sito o in uno stabilimento46. Del resto la ULGHILQL]LRQH del rapporto tra ambiente e imprese, oltre ad essere un tema di cultura organizzativa lenta a modificarsi, costituisce un ambito in cui per cambiare gli atteggiamenti degli attori coinvolti è necessario avviare azioni incisive in alcuni ambiti prioritari: HIIHWWXDUH DXGLW GHL VHUYL]L presenti mappando lo stato dell’arte dell’area e individuando i soggetti pubblici, associativi e privati che a vario titolo erogano servizi o prestazioni rivolte al tessuto produttivo; DQDOL]]DUHLIDEELVRJQLGLVHUYL]L ponendo l’accento sia sulle esigenze espresse ed esplicitate dalle imprese, sia sui fabbisogni potenziali in grado di svilupparsi appartenendo ad un’area in cui sono possibili innovative soluzioni localizzative; IDYRULUH SURFHVVL GL SURJHWWD]LRQH SDUWHFLSDWD coinvolgendo tutti, o la maggior parte dei soggetti, che a diverso titolo rappresentano il sistema locale di sviluppo: imprese, associazionismo economico e del lavoro, istituzioni pubbliche, istituzioni finanziarie e del terzo settore, ecc.; SURJHWWDUH IRUPH JHVWLRQDOL LQ JUDGR GL HOHYDUH OD TXDOLWj GHOO¶HURJD]LRQH GHL VHUYL]L , stimolando la domanda di servizi sulle fasce avanzate di offerta e garantendo economie di scala tramite la centralizzazione delle scelte di acquisto e di fornitura; DWWLYDUH UHWL GL FROODERUD]LRQH FRQ L VRJJHWWL FKH VL RFFXSDQR GHO FRQWUROOR H GHOOH DXWRUL]]D]LRQL DPPLQLVWUDWLYH , in particolare sviluppando forme condivise di semplificazioni che possano coinvolgere sportelli unici per le imprese ed enti esterni con compiti di controllo e 46. M. Cavallo, E. Fabbri, A. Rizzo (a cura di), /DFRPXQLFD]LRQHDPELHQWDOH, Clueb, Bologna, 2005. 32 monitoraggio nei diversi ambiti collegati con le autorizzazioni all’avvio dell’impresa (Aziende sanitarie, Agenzie per l’ambiente, Vigili del fuoco, ecc.). 5HDOL]]DUHXQ¶$SHDLIDEELVRJQLGLVHUYL]LHOHIRUPHGLJHVWLRQH La realizzazione di un’$SHD richiede il coinvolgimento di innumerevoli soggetti e un lavoro che passa attraverso fasi articolate che, se correttamente condotte, determinano il conseguimento di quei requisiti di qualità che contraddistinguono un’$SHD. Nell’esperienza pilota bolognese dell’area produttiva di Ponte Rizzoli si sono compiuti alcuni passi fondamentali: UHDOL]]D]LRQHGLXQ¶DQDOLVLDPELHQWDOH , che ha toccato le diverse e innumerevoli componenti urbanistiche e ambientali del territorio: insediative, trasporti, aria, rumore, acqua, suolo e sottosuolo, rifiuti, paesaggio, energia, elettromagnetismo, reti tecnologiche, qualità degli ambienti e degli spazi, gestione delle emergenze. In questa fase si sono individuate le criticità esistenti e ciò ha consentito di evidenziare gli elementi prioritari d’intervento per la gestione ambientale dell’area e gli ambiti di miglioramento da prevedere nel programma ambientale; SUHGLVSRVL]LRQHGLOLQHHJXLGDSHUOH$SHD , si tratta di uno strumento innovativo di supporto agli operatori economici e istituzionali che nei territori intendono intraprendere il percorso di realizzazione di un’$SHD. Le linee guida rappresentano un riferimento tecnico per la definizione delle caratteristiche di $SHD e nel contempo servono ad orientare la progettazione dei nuovi insediamenti produttivi e la riqualificazione di quelli esistenti. Sono presenti nelle linee guida orientamenti per l’aggiornamento tecnologico delle infrastrutture dell’area, per la definizione del OD\ RXW urbano e degli involucri edilizi, per la gestione unitaria dei servizi e delle infrastrutture presenti nell’ambito47. Le linee guida servono per definire gli obiettivi prestazionali da raggiungere nell’area; per indicare i criteri e le azioni da seguire nella progettazione urbanistica, ambientale ed edilizia; per evidenziare le modalità di un’efficace gestione di servizi e infrastrutture comuni all’interno dell’ambito. Esse costituiscono inoltre un supporto per valutare se un’area territoriale ha effettivamente le caratteristiche per conseguire lo VWDWXV di Apea48. Le linee sono organizzate in schede che contengono i seguenti tematismi: sistema socioeconomico e insediativo, trasporti e mobilità, acqua, suolo e sottosuolo, habitat e paesaggio, aria, elettromagnetismo, energia, materiali/rifiuti e rumore. 47. G. Bollini, L. Borsari, V. Stacchini, , Alinea, Firenze, 2007. 48. ,ELGHP /LQHH JXLGD SHU OD UHDOL]]D]LRQH GHOOH DUHH SURGXWWLYH HFRORJLFDPHQWH DWWUH]]DWH 33 VWXGLR SHU DWWXDUH OH VHPSOLILFD]LRQL SUHYLVWH GDOOD QRUPDWLYD che si è indirizzato verso le seguenti linee prioritarie di approfondimento: definizioni delle condizioni per arrivare all’autorizzazione insediativa unica (o unificata) e a forme semplificate di autorizzazione o di rinnovo autorizzatorio per le imprese localizzate; snellimento dei processi amministrativi attraverso lo sfoltimento della mole dei documenti e dei pareri necessari per l’avvio dell’attività; predisposizione di modulistiche semplificate per tipologie omogenee di attività49. Una parte importante del lavoro sull’area di Ponte Rizzoli ha riguardato la raccolta empirica di informazioni: si è infatti predisposto un vero e proprio percorso di ULFHUFD LQWHUYHQWR WHUULWRULDOH suddiviso in due tempi. In un primo momento si sono svolti IRFXVJURXS tematici con le imprese già insediate, in seguito si sono effettuate rilevazioni quantitative utilizzando questionari somministrati agli imprenditori. Le fasi della ricerca intervento sono state le seguenti: socializzazione e discussione degli obiettivi dello studio, selezione di un SDQHO qualitativo di imprese scelto in base alle caratteristiche strutturali delle unità produttive, elaborazione dei dati emersi e costruzione di indicatori di sintesi utili come strumenti di supporto agli attori locali per la progettazione e la decisione50. I risultati della ricerca hanno evidenziato gli ambiti più importanti di miglioramento dei servizi nell’area industriale: trasporto pubblico, reti tecnologiche per la comunicazione, raccolta dei rifiuti. Le indicazioni sui nuovi servizi da realizzare prioritariamente e con urgenza invece sono state queste: manutenzione delle strade interne, servizi di vigilanza, trasporto collettivo e mensa. Ma, oltre ai servizi di base, sono emersi utilissimi spunti sui fabbisogni di servizi avanzati: assistenza per la preparazione di documentazione amministrativa ambientale, gruppi di acquisto per la fornitura di energia, formazione, borsa rifiuti. Anche nell’ambito della realizzazione di impianti per l’area sono venuti alla luce suggerimenti interessanti concentrati sulle seguenti opere: impianto centralizzato per la produzione di energia, area di stoccaggio dei rifiuti, piccoli impianti di produzione energetica. L’analisi ha fatto risaltare con chiarezza il problema dei trasporti all’interno dell’area, mostrando percentuali scarsissime di utilizzo del trasporto pubblico, e pure sulla logistica industriale si sono palesate difficoltà che suggeriscono di intraprendere azioni incisive per razionalizzare e ottimizzare i flussi delle merci, sia di quelli interni all’area che di quelli esterni rivolti ai mercati di destinazione dei prodotti. La ricerca sul campo, unitamente alle ricognizioni e a una sorta di EHQFKPDUNLQJ intrapreso sulle esperienze eccellenti a livello internazionale, ha inoltre permesso di focalizzare le caratteristiche del VRJJHWWR JHVWRUH dell’area. Si sono così abbozzati i primi ambiti di potenziali offerte di servizi, 49. M. Bergami HWDO, RSFLW 50. E. Cancila, M. Cavallo, G. Croce, 5LFHUFDVXLIDEELVRJQLGLVHUYL]LGHOOHLPSUHVH$QDOLVLVZRW VXOO¶DUHDSURGXWWLYD GL3RQWH5L]]ROL, in M. Cavallo, V. Stacchini (a cura di), pp. 137-156. 34 alcune centrate sulle classiche offerte dei consorzi di supporto alla localizzazione insediativa, altre invece peculiari delle agenzie di sviluppo territoriale: coordinamento del programma ambientale dell’$SHD, ZDVWH PDQDJHPHQW d’area, HQHUJ\ PDQDJHPHQW d’area, PRELOLW\ PDQDJHPHQW d’area, gestione delle forniture di servizi, gestione delle reti fognarie e approvvigionamento idrico, manutenzione delle strade e del verde, servizio di vigilanza, supporto amministrativo alle imprese, formazione e supporto tecnico, gestione degli ampliamenti dell’ambito. Poiché il VRJJHWWR JHVWRUH dell’area avrà una struttura operativa snella e flessibile sono previsti accordi e convenzioni per affidare a terzi l’erogazione di molti di questi servizi51. Certamente però il FRUH EXVLQHVV di questo organismo di gestione sarà costituito dalla efficace realizzazione dei punti previsti dal SURJUDPPD DPELHQWDOH GHOO¶DUHD ; è infatti su questo innovativo e stringente strumento di miglioramento della qualità ambientale dell’$SHD che si giocano la credibilità e l’autorevolezza della struttura di governo del sito industriale. &DSLWDOHVRFLDOHEHQLFRPXQLVRVWHQLELOLWjHTXDOLWjGHOORVYLOXSSR ©%RZOLQJ DORQH"ª Il bel titolo del libro di Robert Putnam52 sintetizza bene il dilemma che i decisori che operano nei sistemi sociali complessi si trovano a dover fronteggiare oggi. I beni relazionali si assottigliano e il rischio è proprio quello di HVVHUH FRVWUHWWL D JLRFDUH D ERZOLQJ GD VROL , e la preoccupazione non è certo per lo scadere della qualità delle partite a bocce. Il problema – ben più grave e drammatico –, seguendo la metafora di Putnam, riguarda la perdita del prezioso FDSLWDOHVRFLDOH che rende alta la qualità della vita e mantiene elevate le risorse di comunità. I nuovi servizi territoriali di cui abbiamo delineato le caratteristiche in questo saggio assumono integralmente la UHVSRQVDELOLWj VRFLDOH come paradigma di gestione del territorio. Le lasciano intravedere una possibile VLPELRVL $SHD infatti tra economia e ambiente e suggeriscono di lasciare da parte logiche superate di opposizione tra ecologia e sviluppo. Le aree insediative produttive sono infatti EHQL FRPXQL che concorrono a preservare quella risorsa finita e preziosa rappresentata dal territorio. Lo sviluppo economico diventa, in questo modo, parte di un più complessivo concetto di VRVWHQLELOLWj VRFLDOH , dove le variabili economiche, sociali e ambientali si collegano – anche qui iQ PRGRVLPELRWLFR – e mettono in luce dinamiche e domande per uno sviluppo equilibrato, come nelle evoluzioni evidenziate di seguito: 51 M. Bergami HWDO, p. 1148. 52. R. Putnam, &DSLWDOHVRFLDOHHLQGLYLGXDOLVPRFULVLHULQDVFLWDGHOODFXOWXUDFLYLFDLQ$PHULFD, Il Mulino, Bologna, 2004. ediz. originale: %RZOLQJ DORQ WKH FROODSVH DQG UHYLYDO RI $PHULFDQ FRPPXQLW\, New York, Simon & Schuster, 2000. 35 il globalismo economico, basato sullo sfruttamento intensivo delle nuove tecnologie della comunicazione e sulla possibilità di accelerare notevolmente i flussi di trasferimento delle merci, della conoscenza e delle risorse finanziarie, deve fare i conti nella società contemporanea con nuove domande di globalizzazione dei diritti e con le molteplici forme che assume la cittadinanza sociale; nel contempo l’economia della conoscenza e lo sviluppo di forme di economia civile propongono prospettive originali entro le quali inserire ipotesi e scenari di sviluppo economico nelle società avanzate, con un ruolo crescente del terzo settore e del non profit; gli stessi principi che fondano i comportamenti aziendali possono essere visti in una nuova logica, oggi necessariamente più attenta alle variabili cooperative e di FRHYROX]LRQH proprie dei soggetti economici. Diventa plausibile parlare di veri e propri WHUULWRULDOL delle strategie HFRVLVWHPL HFRQRPLFR in cui convivono forme plurali di organizzazione e orientamento al mercato; in questo contesto diventa quanto mai essenziale individuare i collegamenti e i percorsi in grado di identificare le variabili che connotano lo sviluppo territoriale socialmente sostenibile. Parallelamente allo sviluppo sostenibile ambientale, che prende in considerazione risorse naturali e diritti delle generazioni future, esiste infatti l’esigenza di stabilire una sorta di UHSHUWRULRGLSHUFRUVL HGLSURJHWWXDOLWj per migliorare la sostenibilità sociale del tessuto produttivo locale. Su queste linee è possibile rintracciare i tratti distintivi dei nuovi servizi per i distretti e gli ecosistemi territoriali industriali e i progetti per le economie locali basate sulla qualità dello sviluppo. Inoltre, sul terreno del coinvolgimento sociale e della partecipazione si incontrano oggi fenomeni nuovi di attenzione all’eticità delle scelte economiche. I consumatori «votano» non più semplicemente con l’arma classica della defezione53, del mancato acquisto di un prodotto, ma si organizzano per inserire il momento del consumo in un contesto di esperienza sociale con implicazioni politiche e partecipative. Commercio equo e solidale, boicottaggio di determinati prodotti e servizi, gruppi di acquisto solidali, finanza etica, sono ormai più che semplici segnali e avvisaglie di nuove consapevolezze e responsabilità54. Questi comportamenti rappresentano piuttosto strumenti concreti di azione, impegni collettivi in grado di influenzare addirittura le sorti di grandi imprese, di decretare il successo o il fallimento di prodotti e, soprattutto, di imporre alle istituzioni locali nuove responsabilità e precisi doveri per favorire un migliore rapporto tra sviluppo, ambiente e società. Progettare oggi nuovi servizi per il sistema produttivo locale significa saper tenere uniti questi sistemi e tentare, ancora una volta, di FKLXGHUH LO FHUFKLR tra economia ed 55 ecologia . 53. A. O. Hirschman, /HDOWj GHIH]LRQH SURWHVWD ULPHGL DOOD FULVL GHOOH LPSUHVH GHL SDUWLWL H GHOOR VWDWR, Bompiani, Milano, 1982. 54. R. Paltrinieri, &RQVXPRHJOREDOL]]D]LRQH, Carocci, Roma, 2004. 55. B. Commoner, ,OFHUFKLRGDFKLXGHUHODQDWXUDO XRPRHODWHFQRORJLD, Milano, Garzanti, 1973. 36 5 R(STUR!VTWXRYR!YZR[\U]S,R^R Bardi A., Bertini S., 'LQDPLFKHWHUULWRULDOLHQXRYDLQGXVWULD'DLGLVWUHWWLDOOHILOLHUH, Maggioli, Rimini, 2005. Bauman Z., /DVRFLHWjGHOO¶LQFHUWH]]D, il Mulino, Bologna, 1999. Bauman Z., 'HQWURODJOREDOL]]D]LRQHOHFRQVHJXHQ]HVXOODSHUVRQD, Laterza, 2000. Becattini G., ,OGLVWUHWWRLQGXVWULDOH, Rosenberg & Sellier, Torino, 1999. Becattini G., 'DO GLVWUHWWR LQGXVWULDOH DOOR VYLOXSSR ORFDOH 6YROJLPHQWR H GLIHVD GL XQD LGHD , Bollati Boringhieri, Torino, 2000. 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Fino ad oggi la realtà produttiva italiana è stata caratterizzata da un’attività di innovazione per lo più di natura incrementale nella quale le PMI hanno dimostrato di eccellere, grazie alla loro lunga esperienza nell’utilizzo di tecniche e procedure sviluppate da altri, e grazie alla fitta rete di relazioni e scambi di informazioni che per lungo tempo ha costituito la caratteristica distintiva e il punto di forza dei sistemi locali (primi fra tutti i distretti industriali). Tuttavia tale tipologia di innovazione si è recentemente dimostrata insufficiente a raccogliere la sfida del mutato scenario concorrenziale; per continuare a prosperare, ma in molti casi anche solo per sopravvivere, le PMI devono essere in grado di produrre innovazioni di natura radicale, arrivando anche, in alcuni casi, a riconvertire l’intero sistema produttivo verso produzioni a maggiore contenuto tecnologico. Una simile attività di ricerca difficilmente può essere portata avanti dalla singola impresa isolatamente dalle altre, dal momento che necessita di capacità complementari spesso possedute da soggetti diversi. Tale attività, dunque, deve avvenire sulla base di modelli cooperativi e di condivisione delle informazioni, modelli che difficilmente si sviluppano spontaneamente in un ambiente fortemente competitivo: il fenomeno del IUHHULGLQJ e la QRQULYDOLWjQRQHVFOXGLELOLWj dell’attività innovativa rappresentano infatti un serio ostacolo all’organizzazione coordinata degli investimenti in conoscenza, soprattutto in sistemi locali in cui le imprese sono in stretto contatto tra ♠ Contributi nella fase di impostazione di questo lavoro sono stati forniti da Alessandra Smerilli (Università Cattolica “S. Cuore”) e da Arianna Moschetti (Università della Tuscia). ♣ # Università della Tuscia, Facoltà di Economia. Università di Roma “La Sapienza”, Facoltà di Economia. 39 loro. Paradossalmente l’elevato grado di VSLOORYHU della conoscenza tipico delle PMI che operano in contesti spaziali ristretti, che fino ad ora ha rappresentato uno dei loro maggiori elementi di vantaggio, rischia oggi di diventare un impedimento ad un loro ulteriore sviluppo. Sebbene da tempo sia maturata la consapevolezza che il rendimento economico di un’area è in relazione con fattori come la natura e l’intensità delle relazioni fra gli operatori, il grado di fiducia che intercorre tra di loro, la loro propensione all’azione collettiva, per un lungo periodo si è continuato a credere che tali fattori dipendessero da eredità storico culturali come tradizioni di associazionismo economico, valori morali condivisi, norme di comportamento e prassi consolidate. Una simile convinzione ha precluso a lungo l’intervento delle istituzioni locali ritenuto incapace di modificare comportamenti così radicati nella psiche degli operatori. Recentemente questo approccio è stato sostituito da un altro, definibile “sistematico”, che ritiene che i comportamenti individuali dipendono dal contesto in cui sono inseriti i soggetti nel presente, e che valori come la fiducia e la propensione a collaborare sono più volatili di quanto comunemente si creda, e risultano sensibili a modifiche nella struttura degli incentivi (si veda, tra gli altri, Cersosimo, Wolleb, 2001). La scommessa dunque è quella di indurre un cambiamento nei comportamenti degli agenti inducendoli a superare logiche individualistiche, a riconoscere interessi comuni e ad avere una maggiore propensione all’azione collettiva. Un importante tentativo in questa direzione è stato fatto con i patti territoriali, i quali sebbene in molti casi abbiano riportato risultati positivi, in molti altri hanno fallito trasformando l’attività collettiva in forme di collusione volte a drenare i fondi pubblici (Cersosimo, Wolleb, 2001). Come sarà evidenziato nei paragrafi successivi, l’intervento delle istituzioni pubbliche deve avere natura prevalentemente TXDOLWDWLYD , nel senso di farsi promotore della cooperazione tra imprese, mettendo in secondo piano il ruolo classico di erogatore di sussidi e finanziamenti pubblici alla ricerca. La principale forma di intervento da noi proposta ed analizzata è la creazione di consorzi tecnologici tra le imprese per la condivisione dei risultati delle attività di ricerca. Oltre a questa proponiamo altre linee di intervento quali: - lancio di un nuovo prodotto con un marchio comune - implementazione di nuove tecnologie - riconversione del processo produttivo verso produzioni a maggiore contenuto tecnologico - partecipazione ad attività di ricerca di base - condivisione di progetti sociali e per le comunità locali 40 Le soluzioni proposte si basano sui risultati ottenuti attraverso JLRFKL HYROXWLYL in grado di simulare i comportamenti strategici di una popolazione di imprese interagenti, e di fare luce sui meccanismi che favoriscono la diffusione della cooperazione tra di loro. Il lavoro è sviluppato in tre diverse sezioni: nella prima si discutono le principali caratteristiche del sistema economico italiano, mettendone in evidenza i principali limiti, soprattutto in ambito di ricerca e innovazione, e proponendo un modello di organizzazione dell’attività di ricerca condivisa basato sui FRQVRU]L WHFQRORJLFL (Baumol, 2001). Nella seconda sezione l’analisi si concentra sul ruolo delle istituzioni locali nella promozione di strategie cooperative: i vantaggi della creazione di consorzi tecnologici vengono visti in contrapposizione con altre forme organizzative, le -RLQW YHQWXUHV di ricerca (RJV) e il FURVVOLFHQVLQJ. La terza e ultima parte sviluppa il modello teorico (il dettaglio degli esercizi proposti è riportato nelle tre Appendici) e definisce le linee di intervento da parte delle istituzioni locali che discendono dalla nostra analisi. 6LVWHPD,WDOLDHIRUPHGLFRRUGLQDPHQWRGHOODULFHUFD Il sistema produttivo e imprenditoriale italiano è caratterizzato dalla massiccia presenza di PMI, per lo più concentrate in distretti industriali e in sistemi locali. Per molto tempo questo particolare modello produttivo è stato il motore della crescita economica italiana. Le PMI localizzate in uno specifico territorio hanno dato vita ad una intensa rete di relazioni che ha permesso di ridurre asimmetrie informative e di sostituibilità56, di aumentare la fiducia tra gli agenti economici grazie all’effetto reputazione generato da rapporti continui e duraturi, di contenere i costi di transazione e di disporre di beni relazionali e conoscenze strutturate nel territorio di appartenenza. Negli ultimi tempi, tuttavia, il contesto competitivo in cui operano i sistemi locali di PMI è cambiato radicalmente a causa della crescente concorrenza delle economie emergenti e dei processi di delocalizzazione da essa provocati. Come nota Malerba (2005), il modello italiano delle PMI presenta alcuni seri difetti che lo rendono vulnerabile di fronte ai nuovi scenari dell’economia mondiale: 1. specializzazione delle imprese italiane in settori a bassa intensità di R&S; 2. elevati rapporti di concentrazione dell’attività di R&S rispetto agli altri paesi industrializzati; 3. debole interfaccia tra Università, istituti di ricerca pubblica e industria; 56 Per asimmetrie di sostituibilità si intende la situazione in cui uno dei contraenti ha una notevole forza contrattuale dovuta alla sua insostituibilità nella contrattazione. 41 4. frammentazione dell’attività di ricerca ed elevata variabilità dell’output specifico; 5. limitata (anche se crescente) internazionalizzazione del sistema produttivo, per lo più concentrata nei settori ad alta intensità di scala piuttosto che in quelli basati su conoscenza e tecnologie avanzate. Una delle principali debolezze del sistema italiano risiede nella sua scarsa capacità innovativa e, in particolare, nell’evidente difficoltà ad organizzare una valida rete di diffusione delle conoscenze avanzate, basata sulla cooperazione tra imprese, prima all’interno dei singoli sistemi locali, poi tra sistemi locali differenti. Sembra una considerazione che contraddice quanto detto in precedenza, soprattutto se si pensa che i punti di forza dei sistemi locali di PMI (dei distretti in particolare) sono sempre stati riconosciuti nella loro capacità di mettere a disposizione delle imprese le risorse culturali, fisiche e istituzionali presenti sul territorio di appartenenza, facendo della cooperazione un fattore determinante di competitività. La cooperazione di cui stiamo parlando è tuttavia di natura diversa da quella appena descritta. Si tratta di fare un notevole salto di qualità nella gestione delle conoscenze specifiche di un’industria, e soprattutto di rivedere le politiche di investimento in R&S passando da una “cooperazione passiva” basata su processi di OHDUQLQJ E\ GRLQJ, imitazione e diffusione di conoscenza tacita, ad una “cooperazione attiva” che comporti una esplicita condivisione di NQRZKRZ, risorse ed esperienze in grado di produrre innovazioni radicali utili all’intera industria. E’ infatti evidente che la singola impresa non può né affrontare né organizzare una politica di investimento in R&S in grado di mantenerla competitiva di fronte alla crescente concorrenza internazionale. Dovrebbe infatti, da sola, riconvertire i propri processi produttivi verso ambiti a maggiore contenuto tecnologico e finanziare le necessarie spese di ricerca assumendosene tutti i rischi. E’ ben noto in letteratura come, in un sistema di mercato, esistano incentivi subottimali alla produzione di conoscenza (Nelson, 1959; Arrow, 1962) a causa della sua HVFOXGLELOLWj QRQULYDOLWj e QRQ e come la singola impresa possa non avere la giusta spinta ad intraprendere investimenti rischiosi nella ricerca, proprio per la facilità con la quale le imprese rivali possono appropriarsi dei risultati di tali investimenti senza sostenerne i costi57. 57 La conoscenza è un bene QRQULYDOH in quanto il suo utilizzo da parte di un soggetto non impedisce ad altri di utilizzarla a loro volta. La QRQHVFOXGLELOLWj consiste invece nel fatto che, una volta creata l’innovazione, la conoscenza in essa contenuta può essere utilizzata anche da altri soggetti, a meno che non esistano norme contrattuali o diritti di proprietà che vietino questo utilizzo. Inoltre, pur in presenza di divieti espliciti all’utilizzo dell’innovazione altrui, terzi soggetti possono lo stesso trarne vantaggio utilizzandola per produrre altre innovazioni verso le quali il primo innovatore non può vantare nessun diritto di proprietà. Anche se questo può avere conseguenze positive per il benessere 42 A partire dal lavoro di d’Aspremont-Jacquemin, 1988 è stato dimostrato che questo fenomeno è particolarmente evidente in quelle economie caratterizzate da una forte presenza di VSLOORYHU della 58 conoscenza . Il “problema” degli VSLOORYHU è molto forte nelle economie locali italiane in quanto costituite principalmente da piccole imprese che operano in un numero limitato di settori e, proprio per questo, non sono in grado di internalizzare un volume elevato di VSLOORYHU generati investendo in R&S. Le grandi imprese invece, in quanto capaci di diversificare le loro attività su più mercati, risentono in misura minore dell’effetto VSLOORYHU e, per questo, sono maggiormente incentivate ad intraprendere investimenti nell’attività di ricerca. Si delinea quindi, per il sistema italiano, l’esigenza di un ampio spettro di politiche pubbliche a sostegno della produzione di nuove conoscenze scientifiche e tecnologiche, soprattutto nella forma di incentivi alla cooperazione in attività di R&S tra imprese di uno stesso sistema locale, al fine di superare gli ostacoli legati all’alto grado di trasferibilità e scarsa appropriabilità degli investimenti in conoscenza. La politica finora adottata più comunemente consiste nel finanziamento pubblico della ricerca (attraverso sussidi e sgravi fiscali alle imprese). La nostra convinzione è che tale tipo di intervento abbia in sé notevoli problemi applicativi, soprattutto a causa di forme di D]]DUGR PRUDOH da parte delle imprese destinatarie dei finanziamenti, e della scarsa competenza dell’autorità pubblica nella valutazione dei progetti da finanziare, nell’osservabilità del comportamento delle imprese e nella capacità di gestire e coordinare nuove e complesse traiettorie tecnologiche (Malerba, Torrisi, 2005)59. La nostra idea è invece che obiettivo primario delle politiche di sviluppo economico locale debba essere quello di promuovere la cooperazione attiva tra imprese nell’ambito della ricerca avanzata. E’ un obiettivo complesso in quanto si tratta di andare ad agire su aspetti strutturali dell’economia locale e su modelli comportamentali consolidati, in un contesto dove la cooperazione appare in tutta evidenza una strategia GRPLQDWD. sociale, è tuttavia un freno notevole all’investimento iniziale in ricerca, in quanto il rischio di avvantaggiare la concorrenza è alto. 58 Si hanno VSLOORYHU in quanto i benefici generati dalla produzione di conoscenza ricadono ben al di là dei soggetti che hanno investito per produrla a causa, ad esempio, della mobilità di manodopera specializzata, UHYHUVHHQJLQHHULQJ o prossimità geografica delle imprese concorrenti. 59 Nei modelli sviluppati nell’ultima parte dimostreremo come un finanziamento pubblico alle imprese può produrre un effettivo aumento della cooperazione in attività di R&S solo se l’autorità è perfettamente in grado di osservare il comportamento cooperativo e quindi destinare il finanziamento alle sole imprese cooperative; anche in questo caso il sussidio necessario può essere eccessivamente alto, in quanto deve più che controbilanciare i benefici derivanti da comportamenti opportunistici. Diversamente, se il finanziamento è destinato indiscriminatamente a tutte le imprese, non si produce nessun miglioramento alla performance cooperativa del sistema. 43 0RGHOOLRUJDQL]]DWLYLGLULFHUFDFRQGLYLVD L’attività innovativa cooperativa può assumere varie forme, dalle -RLQWYHQWXUHV di ricerca (RJV) al FURVV OLFHQVLQJ , alla creazione di FRQVRU]L WHFQRORJLFL . Le differenze tra le varie modalità organizzative sono sostanziali: con la RJV le imprese decidono di creare un comune organismo di ricerca con l’obiettivo di sfruttarne le scoperte; le imprese “fondatrici” continueranno comunque a farsi concorrenza nel mercato dei prodotti. Con gli accordi di FURVVOLFHQVLQJ due imprese che hanno cospicui portafogli di brevetti e che operano nello stesso settore, o in settori molto vicini, si concedono reciprocamente l’utilizzo della propria tecnologia coperta dai brevetti. Con il consorzio invece l’obiettivo perseguito è il trasferimento di informazioni e tecnologia (sviluppate in proprio) da un’impresa all’altra; tale trasferimento può avvenire in base ad un prezzo di vendita, che permette di LQWHUQDOL]]DUH le esternalità generate dalla ricerca, o con lo scambio reciproco di tecnologia. E’ nostra convinzione che la forma cooperativa del FURVV OLFHQVLQJ non si adatti alle caratteristiche del nostro apparato produttivo ma a realtà costituite da grandi imprese operanti in mercati oligopolistici con portafogli di brevetti molto cospicui, le quali, per scongiurare la reciproca violazione dei diritti di proprietà intellettuale e le probabili costose cause che ne seguirebbero, preferiscono concedersi l’uso delle proprie tecnologie. Se escludiamo questa pratica di condivisione, vediamo quale delle due forme rimaste si adatta meglio alle caratteristiche del sistema produttivo italiano. Malerba (2005) mostra come le PMI italiane spendano preferibilmente per l’acquisto di tecnologie incorporate in beni capitali e impianti, alle quali poi applicano innovazioni di tipo incrementale, grazie al OHDUQLQJ E\ GRLQJ . Queste imprese dimostrano nel tempo di avere una notevole capacità di assorbimento, miglioramento e ottimizzazione delle tecnologie acquisite all’esterno. Le innovazioni da esse prodotte quindi non sono tanto il frutto di attività di R&S strutturata, ma derivano in misura prevalente da un apprendimento informale collegato all’esperienza. Va da sé che la capacità delle PMI italiane di assorbire le tecnologie esterne non è connaturata in loro, ma è senza dubbio anch’essa frutto di un certo grado di attività di R&S. Diciamo che finora le PMI si sono limitate a fare l’indispensabile che permettesse loro di sfruttare i risultati altrui; la sfida ora è quella di stimolarle a mettere in piedi un proprio apparato di R&S in grado, non solo di migliorare le innovazioni altrui, ma anche di produrne di proprie. I principali ostacoli che finora hanno intralciato questa attività si sono rivelati quelli di natura economico-finanziaria: le PMI infatti spesso non possono permettersi di aspettare i tempi, tipicamente lunghi, di recupero degli investimenti in R&S, né di sostenere in proprio i costi, 44 normalmente molto elevati, di tale attività. E’ solo con questo salto di qualità nell’attività di innovazione però che le PMI riusciranno a reggere la concorrenza dei mutati scenari internazionali. E’ nostra opinione che la forma di cooperazione più adatta a fornire da trampolino di lancio non sia, nonostante gli innegabili vantaggi e l’indubbia attrattiva di questa forma di associazione tra imprese, la RJV, ma, piuttosto, il consorzio tecnologico. Questa forma di associazione infatti meglio si adatta ad una realtà composta di numerose entità produttive di dimensioni limitate, in quanto non solo permette alle singole imprese di avere accesso alle tecnologie sviluppate dagli altri membri dando in cambio le proprie, oppure tramite il pagamento di UR\DOWLHV, ma fornisce loro anche un valido incentivo a condurre in proprio attività di R&S: avere una “merce di scambio” di valore con cui fare accordi. Tali accordi sono conclusi separatamente con ciascuno (o anche solo alcuni) degli altri membri del consorzio e possono pertanto assumere forme ed avere contenuti anche molto diversi fra loro. Baumol (2001), dopo aver proposto alcuni esempi significativi di consorzi tecnologici, sottolinea come lo scambio reciproco di tecnologia permetta il diffondersi della conoscenza all’interno di un sistema economico, con un evidente vantaggio sul benessere sociale. Egli dimostra come i benefici del consorzio siano maggiormente evidenti nel caso in cui le innovazioni sviluppate in proprio dalle imprese abbiano la caratteristica della complementarità. Nei distretti industriali questa complementarità è ancora più importante, visto che di solito ogni impresa si specializza su una singola fase del processo produttivo. In tal senso, per i nostri scopi, più della MRLQWYHQWXUH è indicato il consorzio perché in esso ogni impresa può continuare a lavorare sulle innovazioni della sua fase di produzione (allocando in modo efficiente le risorse); diffondendo alle altre le sue scoperte, può permettere loro di allinearsi sui suoi standard così da far scivolare “a valle” il miglioramento lungo tutto il processo produttivo. Allo stesso modo può essa stessa allinearsi quando viene a conoscenza delle innovazioni realizzate “a monte”. Simili circoli virtuosi di natura verticale non sono nuovi alle realtà distrettuali: la presenza di una impresa innovatrice stimola le altre che si occupano delle fasi di produzione a monte a innovare per rispondere alle sue esigenze; le innovazioni prodotte a monte, ricadendo a valle, stimolano ulteriormente l’innovatività della prima impresa. La presenza del consorzio come luogo di scambio di tecnologie e di conoscenze, e di incontro delle reciproche istanze agevola la messa in moto di questi meccanismi non solo in entrambe le direzioni della filiera produttiva (WRSGRZQ e ERWWRPXS ), ma anche lungo una dimensione orizzontale tra imprese situate allo stesso stadio della catena del valore. 45 Il consorzio infine previene la creazione di circoli viziosi (anch’essi rinvenibili nella realtà storica italiana) che si innescano quando la mancanza di competitività o di conoscenze tecnologiche avanzate di un elemento della catena blocca l’introduzione di innovazioni. Al contrario del consorzio, in una MRLQW YHQWXUH , c’è una struttura di ricerca comune, co- finanziata e co-gestita che crea notevoli problemi relativi a comportamenti opportunistici e a elevati costi di transazione. In questa forma di cooperazione, infatti, ciò che viene messo in comune è soprattutto il NQRZ KRZ , risorsa chiave per l’attività di R&S, che è una conoscenza tacita e non codificata, una cosiddetta risorsa VRIW delle singole imprese; queste ultime, consapevoli della sua importanza, sono restie a diffonderla, soprattutto se i partner della MRLQWYHQWXUH sono imprese con le quali si troveranno a competere su altri mercati (mercati dei prodotti o future attività di R&S). Di questa risorsa è molto difficile non solo misurare l’effettivo apporto da parte di ciascun membro della MRLQW YHQWXUH , ma anche creare l’opportuno sistema di incentivi per agevolare la diffusione. Tali incentivi infatti diminuiranno all’aumentare del grado di competitività delle imprese coinvolte sul mercato dei beni e all’aumentare della loro capacità di assorbimento di innovazioni esterne, che, nel caso delle imprese italiane, abbiamo evidenziato essere molto alta. Va da sé che una YHQWXUH MRLQW è di più facile gestione in un contesto oligopolistico dove il ristretto numero di imprese riduce i costi di transazione, facilita il coordinamento, rende più facile accorgersi di un’eventuale defezione e mettere in atto una qualche forma efficace di ritorsione. Nel consorzio invece la condivisione delle tecnologie, o di informazioni tecnologiche sviluppate in proprio è più facilmente regolabile attraverso uno schema di UR\DOWLHV tra i partner, o attraverso un sistema di scambio di innovazioni con un conguaglio in denaro in caso di differente valore delle “merci” scambiate. Ci sono due pericoli per la concorrenza tra le imprese di un consorzio, riconosciuti dallo stesso Baumol: dietro accordi di innovazione si possono celare tentativi di fissazione del prezzo, oppure le imprese che nel consorzio dovrebbero investire in R&S più di quanto farebbero se agissero in modo indipendente potrebbero formare accordi con le altre in cui si impegnano ad investire di meno se le altre faranno altrettanto (una sorta di mutuo “disarmo tecnologico”). Entrambi i rischi però possono essere scongiurati. Un accordo di prezzo che coinvolga tutte le imprese è difficile che si formi dal momento che all’interno del consorzio ogni impresa stipula accordi separati con ciascuna delle altre, i quali possono assumere forme e contenuti anche molto diversi tra di loro. Un accordo finalizzato a ridurre l’attività di R&S invece non sarebbe profittevole nel consorzio, dal momento che cedere le proprie innovazioni agli altri, in cambio di altre innovazioni o di denaro, permette di internalizzare le esternalità dell’innovazione, contribuendo a ridurre l’inefficienza che si 46 ha di solito sulla quantità di investimenti fatti in R&S. Inoltre per poter accedere alle innovazioni degli altri è necessario avere qualcosa da offrire in cambio. Questi due meccanismi creano all’interno del consorzio un incentivo ad incrementare gli investimenti in R&S, non a ridurli. Questi rischi appaiono più elevati nella MRLQW YHQWXUH : il ristretto numero di imprese e la condivisione di tutte le attività di ricerca, infatti, facilitano gli accordi riguardanti anche la fissazione del prezzo, tanto più che il nuovo prodotto creato dalla MRLQW YHQWXUH (se la sua costituzione è finalizzata ad introdurre un nuovo prodotto) è omogeneo per tutte le imprese. Inoltre, come dimostra Martin (1995), si può avere collusione sul mercato dei beni o, comunque, un aumento del potere di mercato delle imprese, anche nel caso in cui la MRLQWYHQWXUH non permetta la commercializzazione congiunta del bene; se infatti lo svolgimento di attività di ricerca in maniera congiunta è più profittevole dell’alternativa individuale, la minaccia di interrompere l’accordo in caso di mancato rispetto della collusione può essere un utile strumento nelle mani di un’impresa per rafforzare la collusione sul mercato dei beni. Anche il rischio di disarmo tecnologico è maggiore con le MRLQW YHQWXUH , soprattutto nei casi in cui emerge il cosiddetto “paradosso del costo” proposto da Kline (2000). Quando le imprese fanno attività di R&S in modo indipendente allo scopo di ridurre i costi di produzione, i loro sforzi, a causa dell’effetto VSLOORYHU , possono essere sfruttati anche dai concorrenti per ridurre i propri costi. E’ questo il cosiddetto “ULYDO FRVW HIIHFW”, un effetto del quale le imprese non tengono conto nel decidere il proprio livello ottimo di attività di R&S, con la conseguenza di attuare un livello troppo basso rispetto a quello che sarebbe socialmente ottimo. D’altro canto, la riduzione dei costi delle rivali dovuta agli VSLOORYHUV porterà alla riduzione dei prezzi, quindi delle entrate e dei profitti delle imprese concorrenti. Questo secondo effetto è definito “ULYDO UHYHQXH HIIHFW” ed è anch’esso ignorato dall’impresa che decide il proprio livello di attività di ricerca, con il risultato che tale livello si rivelerà troppo alto rispetto all’ottimo sociale. La RJV permette alle imprese di scegliere congiuntamente il livello di attività di ricerca, e quindi di internalizzare entrambi gli effetti; se il livello di ricerca scelto in sede cooperativa è maggiore o minore di quello scelto in sede non cooperativa dipende da quale dei due effetti prevale. Kline analizza l’effetto di questo paradosso confrontando i livelli di ricerca scelti cooperativamente in una MRLQW YHQWXUH e quelli scelti in modo autonomo. Il risultato sorprendente che ottiene è che, ipotizzando una ragionevole restrizione circa il livello di riduzione dei costi (cioè che, quando un’impresa aumenta al margine il livello di ricerca, l’effetto che questo aumento produce sui suoi costi è almeno altrettanto significativo di quello che produce sui costi delle rivali), le imprese cooperative preferiranno ridurre al margine la ricerca ai livelli non cooperativi ogni volta che emerge il paradosso del costo. 47 I casi in cui quest’ultimo emerge sono piuttosto comuni; sotto certe condizioni60 la probabilità dell’emergere del paradosso aumenta all’aumentare del numero di imprese. Ciò è piuttosto intuitivo se si considera che un numero elevato di imprese è coerente con un’elevata competitività e quindi un “ULYDO UHYHQXH HIIHFW” relativamente maggiore. In un mercato altamente competitivo, con un elevato numero di imprese, il paradosso del costo emerge con maggiore probabilità; in tali circostanze dunque le imprese possono usare una RJV per ridurre la competizione e il livello di ricerca, piuttosto che per ridurre i costi. In un consorzio tecnologico è molto improbabile che tale paradosso possa emergere, proprio perché la tecnologia e la conoscenza sono la moneta di scambio per ottenere altra conoscenza e permettere all’impresa innovatrice di ottenere un profitto dai propri sforzi innovativi, sotto forma di accesso più veloce e meno costoso alle tecnologie e alle innovazioni sviluppate da altre. Si dimostra inoltre che l’investimento innovativo e l’output dell’intero sistema di imprese sono tanto più elevati quanto maggiore è il numero delle imprese partecipanti al consorzio (Baumol, 2001). &RQVRU]LWHFQRORJLFLHUXRORGHOOHLVWLWX]LRQLORFDOLLULVXOWDWLGHOPRGHOORHOHLPSOLFD]LRQLGL SROLF\ Nella prima parte del nostro lavoro abbiamo discusso i problemi e gli ostacoli incontrati dalle PMI che caratterizzano il panorama imprenditoriale italiano ad implementare in modo cooperativo un’attività di R&S che le metta in grado di fronteggiare con successo la moderna sfida posta dalla mondializzazione e dalla concorrenza delle economie emergenti. Abbiamo anche individuato quello che a nostro giudizio è, tra i molti a disposizione, lo strumento più adatto a raccogliere la sfida, il consorzio tecnologico, del quale abbiamo evidenziato i notevoli vantaggi ed esposto i potenziali rischi. In questa seconda parte presentiamo il modello che descrive lo schema di interazione degli agenti coinvolti in attività di ricerca condivisa e sul quale fondiamo le nostre proposte di politica economica e di intervento delle istituzioni locali al fine di favorire la spontanea emersione di comportamenti cooperativi da parte delle imprese. 60 Le ipotesi sono di costi marginali lineari e di curve di domanda lineari. 48 0RGHOORGLEDVH L’interazione tra un gruppo di imprese di numerosità 1 (che possono essere quelle appartenenti ad un distretto industriale o ad un’altra realtà locale) coinvolte in attività di R&S può essere efficacemente modellata da uno schema di GLOHPPD GHO SULJLRQLHUR con la seguente matrice dei SD\RII * 1 *2 / Cooperare Non cooperare Cooperare α ;α β ;γ Non γ;β δ ;δ cooperare dove la relazione tra i SD\RII è: γ > α > δ > β . Si evidenzia chiaramente come la non cooperazione, se viene scelta da parte di entrambi gli agenti chiamati ad interagire, dia luogo ad un risultato minore del caso in cui entrambi gli agenti scelgano la cooperazione. Ciò riflette le considerazioni fatte sopra circa il livello di attività di R&S scelto in ambito cooperativo e quello scelto indipendentemente; se l’agente sceglie in modo indipendente, sceglierà un livello più basso e socialmente inefficiente rispetto al caso in cui la decisione venga presa a livello cooperativo, perché in tale contesto si internalizzano gli effetti di VSLOORYHU tipici dell’attività di R&S. Nel caso di scelta discordante tra i due agenti, la struttura dei SD\RIIevidenzia la presenza di un notevole effetto VSLOORYHU: infatti l’individuo che non ha cooperato alla realizzazione dell’attività di R&S ottiene un SD\RII maggiore di quello che, invece, ha cooperato, in quanto può appropriarsi (in misura notevole) dei risultati dell’attività svolta dall’altro senza sostenerne i costi. In tale contesto è evidente come la strategia FRRSHUDUH FRRSHUDUH risulti dominata dalla strategia QRQ , il che si traduce in una razionale mancanza di attività di ricerca nell’area considerata, dal momento che sulla base dei calcoli personali la possibilità di comportamenti opportunistici da parte dei rivali rende razionale rinunciare ad un’attività potenzialmente vantaggiosa per tutti. La nostra analisi utilizza lo strumento della teoria evolutiva dei giochi61 che ben si adatta a rappresentare popolazioni numerose. Assumiamo che tra le 1 imprese che compongono la popolazione vi sia una frazione [ di imprese disposte a cooperare (magari perché hanno una cultura 61 Per un approfondimento si veda Weibull (1998). 49 aziendale diversa, o perché hanno sviluppato in altri settori o con altri partner una tradizione di associazionismo): esse, quando sono chiamate ad un’interazione casuale con un altro soggetto, si assumono il rischio di imbattersi in un concorrente che sia portato a non cooperare e di ottenere un SD\RII molto basso. La restante quota della popolazione invece è formata da imprese che non sono predisposte alla cooperazione. Possiamo pensare che la natura di queste imprese sia una caratteristica, suscettibile di cambiamenti nel tempo, dovuta alle esperienze passate e a calcoli di convenienza; così, se un’impresa che era di natura cooperativa in molte delle passate interazioni si trova di fronte rivali non cooperativi inferendone (seppure in modo imperfetto) che siano in numero maggiore nella popolazione, sulla base del confronto tra il SD\RII ottenuto in media dalla strategia cooperativa e quello ottenuto in media dalla strategia non cooperativa può cambiare le proprie convinzioni, la propria natura e quindi le proprie scelte nelle interazioni successive. La composizione della popolazione quindi cambia nel tempo sulla base dei risultati delle interazioni. Queste considerazioni ci portano a definire l’equazione dinamica del UHSOLFDWRUH, che è il cuore del modello evolutivo qui presentato, e che spiega le variazioni nel tempo della quota di popolazione cooperativa. Seguendo Weibull (1998) l’equazione del replicatore è data da: = [(1 − [)[[(α + δ − β − γ ) + β − δ ] [ con [ = ∂[ ∂W . È facile dimostrare che [ < 0 ∀[ ∈ [0,1]; essendo la cooperazione una strategia strettamente GRPLQDWD , la quota di cooperativi tenderà a ridursi nel tempo fino alla sua totale scomparsa. La dinamica del replicatore applicata allo schema del dilemma del prigioniero mostra quindi che la quota di imprese non cooperative tenderà nel lungo periodo a diffondersi nella popolazione fino a far scomparire ogni predisposizione alla cooperazione, con il risultato che le attività di ricerca condivisa non avranno più luogo con le ripercussioni negative sulla competitività delle imprese interessate che abbiamo evidenziato prima. È quindi necessario un intervento attivo delle istituzioni pubbliche (principalmente quelle locali) con l’obiettivo di stimolare la diffusione di atteggiamenti cooperativi, così da condizionare positivamente, in termini evolutivi, la naturale predisposizione delle imprese di un intero sistema locale. Come accennato nell’introduzione, tali interventi devono essere principalmente di natura qualitativa e puntare a cambiare la natura stessa del comportamento delle imprese, piuttosto che di natura quantitativa cioè basata sul classico modello di finanziamenti pubblici alla ricerca. 50 Se infatti ipotizzassimo l’erogazione alle imprese del sistema locale di un sussidio ε > 0 al fine di finanziare i loro investimenti in R&S e favorire l’emergere della cooperazione, l’equazione del replicatore non subirebbe alcuna modifica in quanto i SD\RIIdelle imprese, indipendentemente dalla strategia scelta, aumenterebbero dello stesso fattore ε > 0 . In pratica la quota di imprese cooperative continuerebbe a ridursi nel tempo. Se tuttavia il finanziatore pubblico avesse la perfetta possibilità di monitorare l’operato delle imprese, potrebbe concedere il finanziamento solo a quelle che hanno realizzato accordi di cooperazione reciproca. In tal caso la matrice dei SD\RIIsi modificherebbe nel seguente modo: * 1 *2 / Cooperare Non cooperare Cooperare α + ε ;α + ε β ;γ Non γ ;β δ ;δ cooperare ed il replicatore diventerebbe: = [(1 − [)[[(α + ε + δ − β − γ ) + β − δ ]. [ Lo studio di questa equazione di replicazione (si veda l’Appendice 1) mostra che esiste la possibilità di diffusione della cooperazione tra le imprese, ma anche che questo risultato richiede che siano soddisfatti due requisiti62: 1) il finanziamento pubblico deve essere di un ammontare tale da superare gli incentivi alla non cooperazione, cioè ε > γ − α ; 2) la quota di cooperativi deve essere sufficientemente alta, altrimenti anche con un finanziamento sufficientemente elevato la cooperazione tenderà a scomparire. E’ chiaro quindi che in un sistema locale dove la predisposizione alla cooperazione non è particolarmente sviluppata, il finanziamento necessario al rilancio della cooperazione può essere tendenzialmente infinito. Quanto detto ci porta ad escludere gli interventi basati esclusivamente su un finanziamento pubblico della ricerca, quantomeno a non considerarli centrali, e a spostare l’attenzione su altri tipi di approcci. 62 In realtà ai due requisiti riportati nel testo se ne aggiunge un terzo: quello di perfetta informazione e capacità di monitoraggio da parte delle autorità locali. Tale condizione è chiaramente difficilmente sostenibile, soprattutto se le istituzioni locali hanno a che fare con sistemi economici costituiti da una folta popolazione di PMI. 51 Un primo modo per far emergere la cooperazione in questo contesto è l’introduzione ad ogni round del gioco della possibilità di scegliere non più la tradizionale interazione RQHWRRQH ma una interazione RQHWRPDQ\ È infatti ragionevole supporre che le imprese cooperative siano per loro natura spinte a creare non un legame per volta, ma molti legami con le imprese appartenenti al loro stesso sistema economico; l’idea di fondo è che esse siano delle FUHDWULFLGLUHOD]LRQL In questo modo il SD\RII atteso dell’impresa cooperativa aumenta e, per quote iniziali di imprese cooperative sufficientemente alte, diventa maggiore del SD\RII medio della popolazione, rendendo profittevole la strategia cooperativa. L’interazione RQHWRPDQ\ si traduce in pratica nella partecipazione ad un consorzio, ovvero nella condivisione della propria tecnologia con un numero Q di imprese invece che con una sola, ricevendo in cambio la tecnologia delle altre. Le autorità locali hanno l’importantissimo compito di proporre e pubblicizzare progetti propri o di altre imprese per permettere agli agenti cooperativi di aderirvi e di allargare il proprio numero di contatti. Un secondo modo per far emergere la cooperazione consiste nel favorire le interazioni ripetute. Si tratta di un risultato standard della teoria dei giochi, che non presenta gli stessi elementi di originalità dell’ipotesi di interazioni RQHWRPDQ\ . Può tuttavia fornire importanti intuizioni sul ruolo che le autonomie locali sono chiamate a ricoprire per il rilancio di una economia locale. Le due prossime sezioni analizzano nel dettaglio le due ipotesi appena introdotte. ,QWHUD]LRQLRQHWRPDQ\ODFUHD]LRQHGHLFRQVRU]LWHFQRORJLFL Riprendiamo lo schema di base presentato nel precedente paragrafo e ipotizziamo che ogni impresa cooperativa interagisca contemporaneamente con Q > 1 imprese. Con ognuna di queste imprese instaura uno scambio bilaterale di informazioni e tecnologia: tale scambio è per lei profittevole solo se avviene con un’altra impresa cooperativa (SD\RIIpari a α ); altrimenti ottiene il SD\RII più basso di quelli riportati nella matrice ( β ). Le imprese non cooperative non attivano nessun consorzio, ma possono farne parte se coinvolte da un’impresa cooperativa. Lo schema riportato nella figura 1 rende più chiara l’idea della rete di consorzi creata dall’iniziativa di imprese cooperative. Nella figura ogni impresa cooperativa ha attivato legami con altre tre imprese del sistema di cui essa fa parte. Come si vede, le imprese non cooperative sono coinvolte solo in un legame. Sulla base di queste ipotesi l’equazione del replicatore diventa: 52 = [(1 − [){[[Q(α − β ) + δ − γ ]+ Qβ − δ }. [ Si dimostra che dati i SD\RII, per valori di Q sufficientemente alti, la cooperazione può emergere spontaneamente, [ > 0 , anche se la quota di imprese cooperative è inizialmente molto bassa (si veda l’Appendice 2). In pratica le poche imprese cooperative, se hanno a disposizione gli strumenti istituzionali, legali e tecnologici per creare una rete di relazioni di reciproco scambio tecnologico e informativo, possono produrre un importante mutamento delle dinamiche e contribuire in modo determinante alla diffusione della cooperazione. Per un’impresa può sembrare innaturale decidere di condividere le proprie innovazioni tecnologiche (tipicamente fonti di vantaggio competitivo) con i propri competitori; tuttavia ci sono casi in cui l’impresa che sviluppa l’innovazione o detiene l’informazione tecnologica può avere convenienza a concederla in licenza alle altre. L’impresa infatti può sfruttare la propria posizione di monopolista per mettere in vendita un input che entra nella funzione di produzione delle sue concorrenti per estrarre dal mercato tutto il profitto di monopolio. Se essa riesce a imporre come prezzo per la sua innovazione esattamente quello che si aspettava di guadagnare applicandola nel proprio processo produttivo, quello che perde sotto forma di diminuzione delle vendite lo recupera con il prezzo praticato per concedere la licenza. k k lLk k lLk k k lLk k lLk lLk lLk lLk lLk )LJXUD Rete di consorzi tecnologici tra le imprese di una stessa economia; n=3. Nel caso in cui vi sia complementarità tra i risultati dell’attività di R&S di ciascuna impresa, c’è un ulteriore incentivo all’adesione al consorzio: rimanerne fuori infatti significa incorporare nei propri prodotti solo le proprie innovazioni, rinunciando allo sfruttamento di tutte le innovazioni 53 prodotte dagli altri membri, con il rischio che i prodotti concorrenti, che invece sfruttano tutte le innovazioni, estromettano dal mercato il proprio. L’aspettativa di vantaggi consistenti derivanti dalla cooperazione però non è sufficiente per assicurare che il progetto collettivo vada in porto. Si rende necessario un intervento esterno che aumenti i benefici attesi positivi generati dalle risorse che i soggetti apportano all’iniziativa comune (Arrighetti, 2000, 2001). Come osserva Kenworthy (1995), la variabile decisiva per dar vita ad iniziative di cooperazione tra imprese è la presenza di incentivi di natura istituzionale. Sakakibara (1997) fornisce evidenza empirica sul ruolo giocato in Giappone da organismi governativi nella formazione di consorzi di ricerca: essi creano incentivi al momento della nascita dei consorzi e durante il loro sviluppo. Anche in Europa l’azione istituzionale è essenziale nella promozione di progetti cooperativi e sovranazionali (Ormala, 1993; Mothe e Quelin, 2000). Il primo ostacolo che si presenta nella fase di progettazione di una qualsiasi attività collettiva è costituito dalla difficoltà e dall’onerosità di raccogliere e analizzare le informazioni provenienti dai vari attori coinvolti per indirizzare gli interessi individuali, le capacità specifiche e le risorse peculiari al raggiungimento dello scopo comune. Prima ancora di pensare all’organizzazione delle attività, è necessario un coordinamento anche sull’obiettivo da raggiungere: la complementarità strategica degli agenti coinvolti, infatti, produce una molteplicità di equilibri possibili, tanto maggiore quanto più è elevato il numero dei soggetti coinvolti, dal momento che aumenta la disponibilità di tecnologie alternative, che ampliano la gamma delle soluzioni possibili (Arrighetti, Seravalli, 1999). Si presenta quindi la necessità di scegliere tra tali alternative quella ottima, anche se l’ottimalità collettiva talvolta può confliggere con quella individuale. La fase di coordinamento iniziale è dunque tanto importante quanto costosa e problematica. In una fase così delicata e difficile del processo, l’introduzione di un soggetto esterno, una terza parte istituzionale, può risolvere la maggior parte dei problemi di coordinamento, dal momento che il ruolo istituzionale di enti come Camere di Commercio, Associazioni di categoria, Amministrazioni Locali, prevede già una certa attività di indirizzo e coordinamento delle attività dei propri membri, nonché una fase di raccolta delle informazioni. Inoltre, ma non meno importante, sull’attore istituzionale “si può contare”: esso infatti non ha alcun incentivo alla defezione (al contrario delle imprese private nel contesto interattivo da noi ipotizzato che è quello del dilemma del prigioniero). Non è solo nella fase iniziale che l’apporto della parte istituzionale è determinante, ma lo è anche nel prosieguo del progetto. Come dimostra l’evidenza empirica (Arrighetti, 2000), il vantaggio dell’azione collettiva derivante dalla complementarità, di fatto, tende ad erodersi nel 54 tempo, magari perché la nuova tecnologia sviluppata è stata sfruttata completamente, oppure perché è stata superata da altre, o anche perché le condizioni competitive si sono modificate; il contributo dell’attore istituzionale diventa quindi necessario per rivedere periodicamente, e all’occorrenza diversificare, le attività del consorzio e, se necessario, l’obiettivo stesso di fondo. La riduzione dei costi di coordinamento da parte delle istituzioni può essere operata attraverso una loro partecipazione al consorzio, oppure attraverso l’incentivazione della sua formazione. Quest’ultima forma non vincola le istituzioni ad entrare direttamente nell’organizzazione, ma è ugualmente efficace. Gli incentivi possono assumere diverse forme, tra le quali l’assunzione di parte dei costi della creazione e successiva gestione del consorzio, l’accesso a particolari risorse concesso non a singole imprese ma solo al consorzio, la priorità di evasione delle pratiche riguardanti il consorzio rispetto a quelle riguardanti le singole imprese. Tutte queste forme di agevolazione prevedono un consorzio già formato e possono essere senz’altro utili nel prosieguo della sua vita; in realtà dove il consorzio deve essere costituito per la prima volta, è necessario concentrarsi sui giusti incentivi da dare alle imprese per far emergere la propria natura cooperativa. Se l’ente locale non vuole entrare direttamente nel consorzio, può tuttavia promuoverne la creazione agevolando la comunicazione tra le imprese così da tradurre in iniziative concrete la disponibilità a cooperare di alcune di loro. Le imprese cooperative, infatti, non hanno modo di mettere a frutto la propria LQGROH cooperativa se non entrano in contatto con altri cooperativi. Un modo concreto per favorire questa reciproca conoscenza può essere la creazione da parte delle istituzioni locali di un supporto informatico (un sito internet), liberamente consultabile da tutti, nel quale proporre progetti di ricerca di ampio respiro che richiedano l’apporto di una pluralità di competenze possedute da diverse imprese. Grazie a questo strumento tutte le imprese verranno a conoscenza delle proposte fatte dalle istituzioni locali e decideranno se aderirvi o meno valutandone la profittabilità attesa, gli ambiti di applicazione e la vicinanza alle proprie realtà produttive. In questo punto di incontro virtuale delle attività di R&S possono essere le imprese stesse a pubblicizzare progetti che hanno intrapreso o che vorrebbero intraprendere e per i quali hanno bisogno della collaborazione di altri che magari hanno conoscenze e capacità complementari, o anche solo risorse finanziarie disponibili. In questa “sede” virtuale del consorzio la singola impresa potrà esporre le problematiche che emergono dall’esperienza quotidiana nell’utilizzo di apparecchiature, tecnologie e macchinari; mettendo sul piatto un problema da risolvere offrirà in 55 cambio della soluzione proprie scoperte fatte in precedenza (di qui l’incentivo alla R&S per tutte le imprese, sia per chi chiede soluzioni sia per chi cerca di darne). Saranno poi le imprese stesse a valutare e scegliere quali progetti tra quelli proposti si avvicinano alle attività che stanno svolgendo, o quali potrebbero essere utili per ulteriori sviluppi, o ancora che cosa hanno da offrire come contropartita per partecipare a queste iniziative. Di fronte alle offerte presenti su questo sito ciascuna impresa si comporterà secondo la propria natura: le imprese non cooperative potranno accettare un invito specificatamente rivolto a loro (nel senso di rivolto alle tecnologie e alle risorse che possiedono in esclusiva), e quindi intavolare un accordo ma solo con l’impresa che glielo ha proposto (l’interazione rimane per loro del tipo RQHWR RQH ), mentre le imprese cooperative, per loro naturale predisposizione, non si limiteranno a rispondere agli annunci, ma ne pubblicheranno di propri creando una rete di relazioni con diversi partner (conducendo quindi un’interazione RQHWRPDQ\). Su questo sito poi le imprese possono dichiarare i progetti andati a buon fine, con quali partner sono stati realizzati, quanto sono durati, quale era il loro ambito di applicazione, e quali invece non sono andati a buon fine, quali imprese non hanno mantenuto gli impegni presi, così da fornire un IHHGEDFN utile a tutti quelli che in futuro volessero interagire con la data impresa. Un’iniziativa che si avvicina alla nostra proposta è stata posta in essere da un sito (www.innocentive.com) che si propone come punto di incontro tra imprese che lanciano le proprie sfide di innovazione ad altre imprese o studiosi che rispondono fornendo le proprie soluzioni. Questo sito ha allargato il bacino di utenza al di fuori della categoria delle imprese e ne ha esteso i confini a tutta la rete. Per lo scopo che ci siamo prefissi, di affermare il ruolo propulsivo delle realtà locali per favorire la creazione di un consorzio e invogliare le imprese a parteciparvi, può essere sufficiente mettere in contatto anche solo le imprese interessate, sebbene, essendo un sito uno strumento accessibile a tutti, non è da escludere l’intervento di soggetti esterni all’ambito locale. Tra le istituzioni locali un ruolo certamente non secondario è svolto dalle università presenti sul territorio. Uno dei punti di forza del sistema locale infatti spesso è la presenza di un sistema di formazione che fornisce alle imprese forza lavoro qualificata. La presenza delle università costituisce una leva molto utile nelle mani delle istituzioni locali che può essere usata per sviluppare ricerca di base nell’ambito del settore di appartenenza (finanziata sia dalle università stesse con propri fondi che dalle amministrazioni locali e associazioni di categoria); i risultati di tale ricerca, messi a disposizione di tutte le imprese, costituiscono un prerequisito indispensabile per future attività di R&S. Ma questo non è l’unico modo in cui la presenza delle università può essere sfruttata. Al loro interno infatti può essere istituito un apposito sportello, finanziato dalle autonomie 56 locali, con il compito di informare e coinvolgere tutte le aziende locali nei progetti di ricerca portati avanti dal team di ricercatori: in questo modo è l’università a svolgere il ruolo di promotore del consorzio tecnologico. Un’impresa privata, anche nell’ipotesi che fosse interessata alla cooperazione, non avrebbe comunque convenienza a farsi promotrice, da sola, della formazione del consorzio, in quanto dovrebbe sostenere notevoli costi per contattare tutte le aziende e sondare la loro disponibilità allo scambio di tecnologie; inoltre dovrebbe avere qualcosa da offrire in cambio a tutte, mentre è possibile che le proprie innovazioni risultino affini solo ad alcune delle altre imprese (si noti come, una volta che il consorzio si è creato, questo non sia più un ostacolo perché l’organizzazione del consorzio stesso prevede il pagamento di UR\DOWLHV per l’acquisto di tecnologie nel caso in cui lo scambio non sia possibile). E’ qui che il ruolo dell’università diviene centrale: infatti essa può far fronte non solo ai costi necessari per mettere in piedi e mantenere una rete di relazioni con tutte le imprese locali, ma anche alle difficoltà di coordinamento che abbiamo evidenziato sopra e che possono emergere nella fase iniziale di un progetto cooperativo. Inoltre l’università offrirà alle imprese i risultati delle proprie ricerche di base (potenzialmente utili a tutte) chiedendo loro di collaborare ai successivi sviluppi delle innovazioni, o anche a progetti completamente nuovi. Dal canto loro le imprese contattate decideranno se accettare o meno la cooperazione, e potranno essere loro stesse a proporre all’università, che poi girerà la loro offerta a tutta la rete di contatti, nuove idee per innovazioni da sviluppare, derivate dalla loro esperienza con tecnologie, materiali e procedure organizzative proprie della loro realtà. Di fronte alle proposte fatte dalle università le imprese non cooperative si limiteranno ad accettare lo scambio proposto per non perdere competitività verso le rivali, mentre quelle cooperative proporranno nuovi piani di ricerca, metteranno sul piatto problemi pratici emersi dall’uso quotidiano di tecniche produttive, materiali, processi, e chiederanno collaborazione per risolverli; l’università avrà il compito di far conoscere questa istanza a tutti gli attori della rete. La struttura della contrattazione propria del consorzio rimarrebbe inalterata: infatti il ruolo dell’università sarebbe solo quello di far conoscere a tutte le imprese le offerte di collaborazione (provenienti dall’università stessa o da altre imprese), lasciando poi ai singoli agenti la scelta dei progetti più allentanti, dei partner più affini e la formalizzazione dell’accordo di scambio. A questo punto l’università potrebbe anche stipulare accordi bilaterali con le singole imprese che sono interessate al progetto e che conducono R&S affine a quella proposta, o hanno risorse o risultati di innovazioni precedenti complementari al progetto proposto, al pari di qualsiasi altra impresa privata63. 63 L’esperienza degli VSLQRII universitari va nella direzione da noi auspicata. 57 Infine, ma non meno importante, la rete creata dall’università non solo mette in contatto ciascun agente con tutti gli altri, ma fornisce anche un utile IHHGEDFN sul comportamento degli agenti in progetti passati, che può essere utile in futuro alle imprese per scegliere i propri partner di ricerca. ,QWHUD]LRQLULSHWXWHODULFHUFDGLOXQJRSHULRGR Ipotizziamo che ogni impresa cooperativa ripeta il gioco solo con altri cooperativi. Questo significa che, se le capita di interagire con un non cooperativo, scoprirà immediatamente la sua defezione e interromperà il gioco già al primo turno; in pratica la defezione viene scoperta immediatamente. Le interazioni ripetute tra due cooperativi possono tuttavia interrompersi con probabilità S L’esistenza di questa probabilità dipende dall’incertezza connaturata ai progetti di R&S che possono interrompersi per cause esterne, anche indipendentemente dalla volontà delle parti. La riformulazione del modello base porta alla seguente equazione di replicazione (Appendice 3): = [(1 − [ ) [ α − γ − β + δ + β − δ . [ S E’ subito evidente come riduzioni della probabilità di interruzione della cooperazione reciproca spingano verso una crescita della quota di imprese cooperative. Si tratta ora di capire in cosa deve consistere l’intervento delle istituzioni locali al fine di sfruttare questa potenzialità del sistema. Riteniamo che un modo importante per favorire la reiterazione dei rapporti tra imprese debba basarsi sulla promozione di progetti di ricerca di lungo periodo che coinvolgano le imprese per più round del gioco. Un primo modo per raggiungere questo risultato prevede ancora un ruolo attivo da parte delle università, dato che un’attività che tipicamente richiede un’interazione lunga tra soggetti è la ricerca di base. Normalmente le imprese (con l’eccezione, forse, di quelle di grandi dimensioni) non si imbarcano da sole in attività di ricerca di base, perché quest’ultima per definizione non ha un’immediata applicabilità e quindi non ha un immediato ritorno economico che consenta di remunerare le elevatissime spese che comporta. Per questi motivi la ricerca di base viene normalmente finanziata dallo Stato e svolta da centri di ricerca pubblici e da università. 58 Sono proprio queste ultime ancora una volta a giocare un ruolo importante nel coinvolgere le aziende private, mettendo a disposizione le proprie scoperte e contattando le imprese della propria realtà locale (attraverso lo sportello dedicato di cui abbiamo parlato prima). Le università possono non solo portare a conoscenza delle imprese lo stato di avanzamento delle ricerche in un particolare campo, ma anche proporre loro accordi per il prosieguo delle strade già intraprese, passando dalla ricerca di base a quella applicata. A seconda dello stadio di avanzamento delle ricerche, il raggiungimento della fase di sfruttamento commerciale dei risultati potrà avvenire con un numero di tappe intermedie più o meno elevato, in ognuna delle quali le imprese che hanno aderito avranno avuto modo di conoscersi, di riconoscersi come cooperative o non cooperative, dove alla fine saranno solo le prime che insieme raccoglieranno i frutti di questa attività comune. Ancora una volta, grazie all’intermediazione dell’università, possono essere le imprese stesse (anche qui saranno sempre quelle cooperative) a proporre progetti di ricerca che necessitano di studi lunghi e approfonditi prima di essere tradotti in vantaggi competitivi: grazie alla riconoscibilità immediata dei non cooperativi, questi potranno essere prontamente esclusi. Se la ricerca di base può avere un orizzonte temporale troppo lungo anche per le imprese più lungimiranti, ci sono altre attività che richiedono comunque interazioni ripetute e frequenti tra gli agenti, e che devono essere promosse presso le imprese così da innescare l’emergere della cooperazione. Molti settori in cui operano distretti industriali che in passato hanno avuto performance di successo, oggi stanno attraversando un periodo di crisi per i motivi che abbiamo esposto in apertura. Un modo per superare la crisi può essere la riconversione del distretto stesso verso prodotti che si collocano in segmenti diversi dal mercato, prevalentemente a maggiore contenuto tecnologico. Un esempio da noi analizzato perché insediato nel nostro territorio è costituito dal distretto della ceramica, che finora si è basato sulla produzione di stoviglierie e ceramiche da arredamento, ma che oggi, a causa della concorrenza di paesi stranieri e della facilità di imitazione dei processi produttivi a scarso contenuto innovativo, attraversa un periodo di crisi. Una possibile soluzione della crisi può essere il passaggio alla produzione di ceramica per usi maggiormente tecnologici, in campo medico (protesi), elettronico (ad esempio processori per computer) o aeronautico (rivestimenti per veicoli), dedicando maggiore attenzione alla realizzazione di macchinari tecnologici per la produzione di prodotti finiti. Un tale processo di riconversione impone di riconsiderare completamente tutte le tecniche produttive, i materiali, i processi organizzativi e gestionali mantenuti quasi immutati per anni; è un processo che coinvolge tutte le imprese interessate per un arco temporale piuttosto lungo, e richiede frequenti scambi di informazioni, tecniche e procedure. I superiori livelli tecnologici e la 59 mancanza di esperienza richiedono necessariamente una stretta collaborazione tra imprese, soprattutto perché il prodotto finito richiederà lo svolgimento di un numero elevato di attività complementari, difficilmente organizzabili in un’unica impresa. L’input per questo cambiamento strutturale dovrà necessariamente venire dalle istituzioni locali, anche se la maggior parte delle imprese non potrà non vederne le potenzialità positive. L’iniziativa non può essere presa da una singola impresa; dovranno essere istituzioni come camere di commercio, associazioni di categoria, enti locali a promuovere il cambiamento e ad agevolarlo coinvolgendo centri di ricerca pubblici e università che possano condividere con le imprese i propri risultati delle attività di R&S. A partire da questa base comune saranno poi le imprese a portare avanti l’attività di ricerca, interagendo con le altre e proseguendo ad interagire solo con quelle che si sono dimostrate cooperative nelle prime fasi (ricordiamo che la conoscibilità della defezione è immediata). Senza arrivare alla ristrutturazione dell’intero settore ci sono anche altre opportunità utili per rilanciare settori in crisi e al tempo stesso coinvolgere le imprese in rapporti di lungo periodo. Una di queste può essere il lancio di un nuovo prodotto, magari con un marchio comune, di cui possano fregiarsi solo le imprese che hanno partecipato a tutto il processo. Lo sviluppo di un nuovo prodotto richiede un processo lungo, dalla fase di progettazione fino alla sua commercializzazione con fasi ben distinte e riconoscibili, ciascuna delle quali è uno stadio di interazione tra due soggetti coinvolti: al termine di ognuna è possibile vedere l’esito dell’interazione (se l’altro ha cooperato o no) e decidere, di conseguenza, se continuare ad interagire con lui o interrompere il gioco. L’iniziativa dell’introduzione di un nuovo prodotto deve essere presa dalle istituzioni locali, le quali dovranno pubblicizzarla (magari attraverso un supporto informatico simile a quello visto in precedenza) presso le imprese e incentivarle ad aderirvi garantendo ad esempio la copertura delle spese pubblicitarie oppure sgravi fiscali sugli introiti derivanti dal prodotto sviluppato in comune, o ancora con commesse pubbliche per le imprese che partecipano all’iniziativa. La prima fase che le imprese dovranno affrontare in comune sarà quella della ricerca preliminare per la progettazione del prodotto, al termine della quale è noto ad entrambi gli agenti l’esito dell’interazione e il comportamento dell’altro: se le imprese si sono reciprocamente riconosciute come cooperative, porteranno avanti insieme le fasi successive del processo e le ulteriori ricerche; altrimenti interromperanno il rapporto e condurranno da sole o, eventualmente, con altri partner le ricerche successive per arrivare allo sviluppo del nuovo prodotto. Anche l’introduzione di una nuova tecnologia che permetta di produrre a costi più bassi e che sia radicalmente diversa dalle precedenti e non un loro semplice miglioramento è un’attività che richiede tempi lunghi e collaborazioni ripetute. In questo caso l’input di promozione e 60 coinvolgimento potrebbe arrivare ancora una volta dalle università che fornirebbero la loro ricerca di base e svolgerebbero le attività, viste sopra, di collegamento e coordinamento tra le imprese private interessate. Le istituzioni locali possono coinvolgere i soggetti in altre interazioni sociali al di fuori dell’ambito strettamente produttivo, come ad esempio il portare avanti un progetto “politico”, nel senso che riguarda la SD\RII SROLV , comune (Cersosimo, Nisticò, 2005); in questo modo il calcolo del atteso da parte di ciascun soggetto include, nel caso di defezione dagli accordi produttivi, anche la perdita che può subire nelle future interazioni sociali; ciò può condurre ad un atteggiamento cooperativo anche nell’attività di R&S con rinuncia al comportamento opportunistico. Oltre al progetto politico possono essere molteplici le iniziative sociali a cui le istituzioni locali possono invitare a partecipare le imprese: tra queste un progetto di formazione dei dipendenti finanziato e gestito dalle istituzioni locali le quali però vi fanno partecipare tutte le imprese chiamate a condividere le proprie esperienze e le professionalità maturate al proprio interno. Anche in questo caso le singole imprese possono avere la tentazione di non partecipare limitandosi a raccogliere i frutti in futuro con l’assunzione dei lavoratori già formati, ma nel calcolo della convenienza del comportamento opportunistico queste imprese dovranno inserire anche il fatto che le altre imprese, essendosi accorte del loro comportamento nel primo round del gioco, in futuro non vorranno intraprendere con loro altre iniziative in comune. $ mmnopqrn ±/¶HIIHWWRGHLVXVVLGL Seguendo Weibull (1998) i SD\RII attesi dei due tipi di imprese sono: su Π = Π st(u = [ (α + ε )+ (1 − )β γ + (1 − )δ [ [ [ ( vx L’equazione del replicatore è data da [ = [(1 − [ ) Π − Π SD\RII vw(x ), che, sostituendo le espressioni dei attesi, diventa: = [(1 − [ ){[(α + ε + δ − β − γ ) + β − δ }. [ 61 3URSRVL]LRQH ,SXQWLILVVLGHOVLVWHPDGHVFULWWRGDOO¶HTXD]LRQHGHOUHSOLFDWRUHVRQR [ = 0 [ = 1 [ - 6H [ * = * δ −β ε +α +δ − β −γ < 0 R [ * > 1 LOVLVWHPDFRQYHUJHYHUVRO¶XQLFR SXQWRILVVRVWDELOH [ = 0 ODTXRWDGL FRRSHUDWLYLWHQGHDVFRPSDULUH - 6H 0< [ * < 1 LO VLVWHPD FRQYHUJH YHUVR [ = 0 VH [ < [ H YHUVR [ * = 1 VH [ > [ * OD FRRSHUD]LRQHSXzSUHYDOHUHQHOWHPSRVHODTXRWDGLLPSUHVHFRRSHUDWLYHqVXIILFLHQWHPHQWHDOWD 3URYD condizione Quanto stabilito dalla proposizione 1 può essere direttamente verificato a partire dalla [ (α + ε + δ − γ − β )+ β − δ = 0. Dalla proposizione 1 è chiaro come un valore di ε (sussidio) sufficientemente alto sia in grado di verificare le condizioni 0 < [ * < 1 e [ > [ * e dare il via alla convergenza verso la totale cooperazione. È altrettanto chiaro, tuttavia, come per bassi valori iniziali della quota cooperative, l’ammontare del sussidio ε tende ad essere elevatissimo. Al limite, per [ [ di imprese → 0 si ha che ε → ∞ . In contesti scarsamente cooperativi il valore che deve assumere il sussidio per favorire la spontanea emersione della cooperazione può risultare irrealisticamente alto. $ yyz{|}~z ±/HLQWHUD]LRQLRQHWRPDQ\ Ipotizziamo che ogni impresa cooperativa interagisca contemporaneamente con Q > 1 imprese. Con ognuna di queste imprese instaura uno scambio bilaterale di informazioni e tecnologia; tale scambio è per lei profittevole solo se avviene con un’altra impresa cooperativa (SD\RII pari a α ); altrimenti ottiene il SD\RII più basso di quelli riportati nella matrice ( β ). Le imprese non cooperative non attivano nessun consorzio, ma possono farne parte se coinvolti da un’impresa cooperativa. La composizione del gruppo di imprese che costituisce il consorzio è casuale: al momento dello scambio l’impresa cooperativa non conosce la natura dei propri interlocutori. Indicando con \ il 62 numero dei cooperativi nel gruppo degli Q partner del consorzio, è facile constatare che tale numero [ ]= ( \ è una variabile aleatoria ipergeometrica con valore atteso Q[ . I SD\RII attesi dei due tipi di imprese sono Π = αQ[ + βQ(1 − [) Π ( = γ[ + δ (1 − [) Da questi otteniamo l’equazione dinamica del replicatore: = [(1 − [){[[Q(α − β ) + δ − γ ]+ Qβ − δ }. [ 3URSRVL]LRQH ,SXQWLILVVLGHOVLVWHPDGHVFULWWRGDOO¶HTXD]LRQHGHOUHSOLFDWRUHVRQR [ = 0 [ = 1 [ * 0 < [ * = = δ −β Q (α − β ) + δ − γ 'DWD O¶HTXD]LRQH δ − Qβ Q(α − β ) + δ − γ YHUVRLOSXQWRILVVR [ - 6H Q > δ β GLIIHUHQ]LDOH γ δ < 1 VH < Q < α β GHO UHSOLFDWRUH ,Q TXHVWR FDVR VH [ HVLVWH 0 > [ * XQ SXQWR ILVVR LO VLVWHPD FRQYHUJHUj = 1 HODFRRSHUD]LRQHVLDIIHUPHUjFRPHVWUDWHJLDGRPLQDQWHJUDILFR H Q > γ −δ α −β OH GLQDPLFKH FRQYHUJHUDQQR YHUVR LO SXQWR ILVVR [ = 1 ∀[ ∈ [0,1]ODFRRSHUD]LRQHVLGLIIRQGHUjDWXWWRLOVLVWHPDLQGLSHQGHQWHPHQWHGDOODTXRWDLQL]LDOHGL FRRSHUDWLYLJUDILFR - 6H δ <Q< γ β α HVLVWH XQ SXQWR ILVVR 0 < [ * = δ − Qβ Q(α − β ) + δ − γ < 1 JOREDOPHQWH VWDELOH JUDILFR - ,QWXWWLJOLDOWULFDVLLOVLVWHPDFRQYHUJHYHUVRLOSXQWRILVVR [ 3URYD la dimostrazione della proposizione 2 è immediata a partire dalla condizione [ (α − β )+ δ − γ ]+ [ Q = 0 β −δ = 0. Q 63 <0 [ [ β −δ >0 [ !L ! : Con 0< 1 * [ <1 e 1 * !L (H- < δ β il comportamento del sistema dipende dalla quota iniziale di imprese cooperative presenti nell’economia. Se tale quota è * >0 [ β −δ > δ β la cooperazione prevale nel lungo periodo, indipendentemente dalla quota iniziale di imprese cooperative. Con * <0 e superiore al valore allora la [ cooperazione si diffonderà a tutte le imprese. * *UDILFR : Con 0< * β −δ <1 e δ β < <γ α esiste un equilibrio interno stabile. Nel lungo periodo entrambe le strategie sopravvivranno. >0 [ <0 [ [ $ * 1 ±/HLQWHUD]LRQLULSHWXWH Ipotizziamo che ogni impresa cooperativa ripeta il gioco solo con altri cooperativi. Questo significa che, se le capita di interagire con un non cooperativo, scoprirà immediatamente la sua defezione e interromperà il gioco già al primo turno; in pratica la defezione viene scoperta immediatamente. Le interazioni ripetute tra due cooperativi possono tuttavia interrompersi con probabilità S Tale interruzione può, ad esempio, avvenire perché il progetto sviluppato in comune si è concluso, oppure per sopraggiunta impraticabilità del progetto stesso64. 64 Quando si decide di investire risorse in un progetto di ricerca si ha sempre un certo margine di incertezza circa la sua effettiva realizzazione, in quanto possono sopraggiungere problemi che non erano stati considerati in fase di progettazione: si pensi, ad esempio, agli investimenti nella ricerca di un nuovo farmaco o di un nuovo materiale. 64 Indichiamo con P il numero medio di ripetizioni del gioco prima che la relazione si interrompa definitivamente (almeno con riferimento al progetto di ricerca intrapreso). }= (1 − ) −1 , cioè la variabile £ distribuzione geometrica. Il suo valore atteso è [¢ ] = 1 ¡ . Possiamo quindi scrivere che { = P è aleatoria con Senza considerare la rete di consorzi analizzata nel paragrafo precedente, costruiamo i SD\RII attesi dei due tipi di imprese: ¤¦ Π = Π ¤¥(¦ α[ S + β (1 − [ ) = γ[ + δ (1 − [ ) da cui otteniamo il replicatore = [(1 − [ ) [ α − γ − β + δ + β − δ [ S 3URSRVL]LRQH 'DWD O¶HTXD]LRQH GLIIHUHQ]LDOH GHOUHSOLFDWRUH VH S <α γ DOORUDHVLVWH XQ SXQWR ILVVR LQVWDELOH δ −β ¨ * < 1 WDOHFKH 0< = α −γ − β +δ § LO VLVWHPD FRQYHUJH D VLVWHPDFRQYHUJHD 3URYD « © = 0 VH ª < ª = 1 VH * ª >ª * OD FRRSHUD]LRQH VL GLIIRQGH D WXWWR LO VLVWHPD LO ODFRRSHUD]LRQHWHQGHDVFRPSDULUH la dimostrazione della proposizione 3 è immediata a partire dalla condizione α¬ − γ − β + δ + β − δ = 0 . 5 ®(¯°±®!²°³´®µ®!µ¶®·¸±¹¯,®º® Arrow K.J. (1962), “Economic welfare and the allocation of resources for invention”, in R.R. Nelson (ed.), 7KH UDWH DQG GLUHFWLRQ RI LQYHQWLYH DFWLYLW\ (FRQRPLF DQG VRFLDO IDFWRUV Princeton university Press, Princeton, pp.609-625. Arrighetti A., Guenzi A. 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A questa conclusione si giunge analizzando le risultanze delle indagini a carattere comparativo disponibili a cui (occorre precisare) è necessario riferirsi con estrema cautela: differenze nei modelli istituzionali, negli ordinamenti giuridici vigenti e nelle caratteristiche della struttura economica aumentano i rischi di ignorare l’esistenza o il peso di variabili determinanti. Sul tema specifico del livello di complicazione burocratica, l’indagine più significativa prodotta a livello internazionale è probabilmente quella del World Bank Institute nell’ambito del progetto 'RLQJ %XVLQHVV ÀÀ , il quale analizza la “facilità del fare impresa” in un ampio campione di paesi, stilando annualmente una graduatoria complessiva67. Nel 2006 l’Italia è all’82° posto sul totale del ∗ Scienza dell'amministrazione della facoltà di Scienze Politiche presso l'Università della Tuscia di Viterbo. Unità per la semplificazione e la qualità della regolazione presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri ∗∗∗ Task force per la misurazione e riduzione degli oneri amministrativi istituita presso la Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione. 65 La L. n. 537/93 trova un immediato antecedente nella legge 7 agosto 1990, n. 241, la quale ha disciplinato alcuni degli istituti di maggior rilievo della semplificazione come la conferenza di servizi, il silenzio-assenso, la denuncia di inizio attività e gli accordi. In materia di semplificazione procedimentale si veda: Presidenza del consiglio dei ministri Dipartimento della funzione pubblica, /¶DWWXD]LRQH GHOOD OHJJH DJRVWR Q H OD VHPSOLILFD]LRQH GHL SURFHGLPHQWL DPPLQLVWUDWLYL, Ipzs, Roma 1994; ID. , SURFHGLPHQWL DPPLQLVWUDWLYL VWDWDOL, Ipzs, Roma 1994; G. Vesperini, /D VHPSOLILFD]LRQH GHL SURFHGLPHQWL DPPLQLVWUDWLYL Riv. trim. dir. pubbl. n. 3/1998, p. 675 e ss.; ID. /H QXRYH PLVXUH GL VHPSOLILFD]LRQH, in Giornale di diritto amministrativo, 1997, p. 431 e ss.; D. Sorace, /H ULIRUPH GHO IXQ]LRQDPHQWRHGHOOHSURFHGXUHGHOODSXEEOLFDDPPLQLVWUD]LRQHLOSURJHWWRHOHFRQGL]LRQLSHUODVXDUHDOL]]D]LRQH, in Le Regioni, XXIII, n. 3, 1995, p. 499 e ss.; L. Torchia, 7HQGHQ]H UHFHQWL GHOOD VHPSOLILFD]LRQH DPPLQLVWUDWLYD, Dir. amm., 1998, pp. 385 e ss.; ID. /DFRQIHUHQ]DGLVHUYL]LHO DFFRUGRGLSURJUDPPDRYYHURGHOODGLIILFLOHVHPSOLILFD]LRQH, in Giornale di diritto amministrativo, 1997, p. 675 e ss.; A. Sandulli, /D VHPSOLILFD]LRQH DPPLQLVWUDWLYD WUD ULIRUPD H UHVWDXUD]LRQH, in Giornale di diritto amministrativo, 1997, pp. 989 e ss.; ID. /DVHPSOLILFD]LRQH, in Riv. trim. dir. pubbl., n. 3/1999, pp. 757 e ss.; S. Battini, /D VHPSOLILFD]LRQH DPPLQLVWUDWLYD in , *RYHUQL GHO PDJJLRULWDULR, a cura di G. Vesperini, Donzelli, Roma, 1998, p. 63 e ss.; A. Natalini, /HVHPSOLILFD]LRQLDPPLQLVWUDWLYH, Il Mulino, Bologna, 2002. 66 Informazioni sulla ricerca, i risultati e la metodologia utilizzata sono disponibili sul sito www.doingbusiness.org. 67 Il rapporto 'RLQJ %XVLQHVV presenta indicatori quantitativi sulla regolazione delle imprese e dei diritti di proprietà. Nell’ultima edizione, il rapporto copre 175 Paesi. La graduatoria viene stilata in base alle performance che ogni Paese presenta rispetto a dieci indicatori: avviare un’impresa; ottenere le autorizzazioni; assumere e licenziare; registrare la ∗∗ 68 campione (175 Paesi), posizionandosi a metà della classifica generale e perdendo 13 posizioni rispetto all’anno precedente. Questo dato mette in luce per intero i problemi che incontra il nostro paese all’interno della competizione globale. Tuttavia, è evidente che esso è influenzato profondamente anche dai differenti gradi di tutela che i singoli ordinamenti prestano ai diritti dei cittadini e delle imprese. Per questa ragione, sembra essere particolarmente interessante concentrare l’attenzione sul sottoinsieme dei paesi dell’UE inclusi nell’indagine (Tab. 1), non solo per la maggiore omogeneità del contesto sociale ed istituzionale delle realtà considerate, ma anche perché buona parte della regolazione di questi paesi proviene dalla medesima fonte: le istituzioni comunitarie. 7DE)DFLOLWjQHOIDUHLPSUHVDLQDOFXQL3DHVL8( 3DHVH Regno Unito Danimarca Irlanda Svezia Finlandia Svizzera Lituania Estonia Belgio Germania Olanda Lettonia Austria Francia Slovacchia Spagna Portogallo Repubblica Ceca Slovenia Ungheria Polonia ,WDOLD Grecia 5DQNLQJWRW 5DQNLQJWRW 9DUVX 6 7 10 13 14 15 16 17 20 21 22 24 30 35 36 39 40 52 61 66 75 82 109 7 5 10 13 14 15 17 16 20 21 22 31 38 30 34 38 45 47 60 74 56 69 111 +1 -2 +1 -1 +7 +8 -5 -2 -1 +5 -5 -1 +8 -18 -13 +2 )RQWH:%'RLQJEXVLQHVVGDWDEDVH All’interno di questo più specifico campione, la posizione dell’Italia è particolarmente critica. Nelle ultime due rilevazioni disponibili siamo fermi al penultimo posto (peggio di noi fa solo la Grecia che, comunque, segna un miglioramento); inoltre, al di là del prevedibile dinamismo dei proprietà; ottenere credito; protezione degli investitori; pagamento delle imposte; commerciare oltre frontiera; far valere gli impegni contrattuali; chiudere un’impresa WUDGX]LRQH OLEHUD D FXUD GHOO¶DXWRUH. Al fine di garantire la comparabilità dei dati, gli indicatori si riferiscono generalmente ad imprese a responsabilità limitata operanti nelle più grandi città. 69 nuovi paesi membri (dal 2005 al 2006 miglioramenti notevoli, almeno nella classifica totale, sono stati registrati da Lettonia e Ungheria), colpiscono i successi conseguiti dall’Austria e, limitatamente alla graduatoria europea, dalla Francia (quest’ultima è, tra l’altro, inclusa tra i WRSWHQ UHIRUPHUV del 2006); infine, va segnalato l’elevato campo di variazione delle posizioni in graduatoria dei diversi paesi membri: tra l’Italia ed il Regno Unito intercorre un divario di ben 76 posizioni. Mettendo a confronto Italia, Francia, Germania e Spagna in relazione ad alcuni indicatori che concorrono al punteggio finale attribuito dalla Banca Mondiale, è possibile osservare che: a) per quanto riguarda il commercio estero, le imprese italiane devono ottenere 8 documenti per l’export a fronte dei 4 richiesti negli altri tre paesi; b) i documenti richiesti per l’import sono 16, a fronte dei 4 o 5 dei nostri concorrenti; che il tempo di attesa medio per l’export è di 15 giorni (come la Francia, ma più di Germania e Spagna); c) il numero di procedure da attivare per ottenere le autorizzazioni necessarie alla vita di un’impresa (inclusi permessi, notificazioni, collegamenti alle utilities) è di 17 giorni per l’Italia contro i 10-11 giorni degli altri tre paesi considerati; ciò si traduce in un tempo di attesa per le imprese operanti sul nostro territorio di 284 giorni, paragonabile solo a quello della Spagna e decisamente superiore rispetto al dato di Francia (155 giorni) e Germania (133 giorni). Da questa sintetica analisi comparata risulta, dunque, chiaramente che il JDS competitivo del sistema economico italiano può essere almeno in parte spiegato dal livello di efficienza delle burocrazie dei singoli paesi. Si mostra, dunque, con chiarezza ed urgenza la necessità di ulteriori ed incisivi interventi di semplificazione. La valutazione del sistema italiano che emerge dalle comparazioni internazionali cela, naturalmente, le (anche vistose) differenze delle specifiche realtà territoriali che lo compongono. E ciò a dispetto del fatto che, come vedremo meglio nei successivi paragrafi, le politiche di semplificazione sono state promosse soprattutto dal livello statale. A questo proposito, è necessario premettere che le informazioni ad oggi disponibili non consentono di restituire più che un quadro impressionistico dei risultati conseguiti dalle politiche di semplificazione a livello locale in termini di interventi realizzati e, soprattutto, di esiti68. Un esercizio di costruzione di un sistema di indicatori regionali sulle politiche di semplificazione a favore delle imprese è stato realizzato, ad esempio, dal Formez69. Rispetto ai livelli di introduzione dello Suap i dati disponibili evidenziano, in primo 68 Nel nostro paese, infatti, non sono stati sinora messi a regime sistemi di comparazione riferiti alle politiche di semplificazione che, analogamente alla banca dati realizzata dal World Bank Institute, consentano di operare un confronto delle performance delle diverse amministrazioni territoriali nel tempo e nello spazio sulla base di un set di indicatori oggettivi. I dati prodotti sulla qualità dell’ambiente regolativo a livello sub-nazionale sono quindi frutto di rilevazioni sporadiche; inoltre, essi permettono per lo più di verificare il grado di attuazione degli istituti di semplificazione introdotti dalle previsioni normative piuttosto che i loro effetti. 69 Cfr. Formez, /HPLVXUHGHOFDPELDPHQWRQHOOD3$,QGLFDWRULGLSHUIRUPDQFH, Roma, 2006. Il sistema di indicatori, riferito in particolare al funzionamento dello Suap e agli interventi legislativi regionali in materia di impianti produttivi, 70 luogo, una forte disparità tra le diverse realtà regionali. Il grado di operatività degli sportelli mostra, in effetti, una variabilità piuttosto ampia, passando da percentuali pari o prossime allo zero (Trentino Alto-Adige, Valle d’Aosta, Lazio, Friuli-Venezia Giulia, Sardegna) a quote molto vicine al 40% (Emilia-Romagna e Toscana)70. In secondo luogo, l’indagine evidenzia come i livelli di funzionamento dello Suap rappresentino il risultato congiunto di spinte provenienti dal livello regionale (sotto forma di concessione di finanziamenti, di fornitura di infrastrutture tecnologiche, di realizzazione di interventi di formazione, ecc.) e di azioni più direttamente imputabili alle amministrazioni locali71. La rilevanza della dimensione locale nel determinare il successo degli interventi di semplificazione, anche laddove derivanti dalla mera attuazione della normativa statale, è confermata da un’indagine sullo stato di attuazione della legge 241/90 condotta dall’Istat72. Infatti, la rilevazione mostra una notevole eterogeneità nella tempistica e nelle modalità adottate dalle diverse amministrazioni nell’attuazione degli istituiti di semplificazione previsti da questo provvedimento normativo. Questa analisi mette in luce, in particolare, che il comportamento delle diverse amministrazioni è determinato in misura non trascurabile dalla localizzazione geografica, come dimostra il fatto che gli enti operanti nelle regioni settentrionali presentano un grado di applicazione delle diverse tipologie di istituti disciplinati dalla l. n. 241/1990 sistematicamente più elevato73. Nel complesso, sembra possibile affermare che laddove si ritenga che per favorire lo sviluppo economico dell’Italia (o per contrastarne il declino)74 sia importante semplificare, abbia estremo rilievo la dimensione locale del processo di cambiamento. A ciò occorre aggiungere che questa rilevanza è stata accresciuta (almeno potenzialmente) dalla modifica del Titolo V della Costituzione, che ha riconosciuto l’autonomia organizzativa dei comuni. Per questa ragione essi possono contare su uno spazio di intervento di semplificazione, almeno sulla carta, molto maggiore è stato elaborato nell’ambito di uno studio diretto a misurare la qualità delle azioni delle amministrazioni territoriali a favore della competitività e dello sviluppo economico attraverso l’osservazione di tre fattori: semplificazione amministrativa, politiche di promozione, ricerca e sviluppo e politiche attive del lavoro. 70 I dati sono riferiti al 2002. 71 Ciò emerge dall’osservazione congiunta dei dati relativi all’operatività degli Suap e di quelli relativi alle azioni regionali a favore degli stessi. Infatti, sebbene questi appaiono in genere correlati (si veda in particolare la tabella 2.1 ), si rilevano importanti eccezioni, costituite da territori in cui, a fronte di un forte intervento della regione, i livelli di operatività si attestano su valori relativamente bassi (Campania, Trentino-Alto Adige, Veneto) o in cui, viceversa, a fronte di un intervento di modesta entità messo in atto dall’amministrazione regionale, si registrano discreti livelli di funzionamento (Calabria, Molise). 72 Cfr. Istat, 6WDWLVWLFKHGHOOHDPPLQLVWUD]LRQLSXEEOLFKH$QQR, Roma, 2006. 73 L’analisi realizzata dall’Istat considera separatamente gli istituiti di “trasparenza amministrativa” (emanazione del regolamento per l’esercizio del diritto di accesso alla documentazione amministrativa, emanazione del regolamento per la fissazione dei termini e l’individuazione del responsabile del procedimento) quelli di “semplificazione amministrativa” (emanazione di provvedimenti di semplificazione per procedimenti di propria competenza, ricorso alla denuncia di inizio di attività, ecc.) e quelli relativi all’autocertificazione e alla gestione dei flussi documentali. 74 L. Torchia e F.Bassanini (a cura di), 6YLOXSSR R GHFOLQR" ,O UXROR GHOOH LVWLWX]LRQL SHU OD FRPSHWLWLYLWj GHO SDHVH, Passigli, Firenze, 2005. 71 di qualche anno fa. E, nel contempo, il novero dei procedimenti amministrativi di competenza del livello comunale, in base al principio di sussidiarietà, è sempre più ampio. Lo scopo del presente paper è di analizzare le modifiche intervenute nel quadro generale delle politiche di semplificazione per mettere in luce, all’interno di esse, il nuovo (preminente) ruolo che dovrebbe essere svolto dai comuni. A valle di ciò, si intende proporre una revisione del modo di progettare e di realizzare gli interventi di riduzione degli oneri e dei tempi burocratici in ambito locale, in sintonia con le linee di tendenza che stanno emergendo a livello statale e comunitario. /DFULVLGHOODVHPSOLILFD]LRQHOHUDJLRQL Nel corso degli anni Novanta, una serie di disposizioni di legge ha tentato di 75 OD VHPSOLILFD]LRQH PHWWHUH D VLVWHPD Infatti, è stata prevista l' emanazione di una legge annuale di semplificazione. Inoltre, sono state introdotte forme stabili di consultazione delle parti sociali attraverso l' istituzione dell' Osservatorio per le semplificazioni. Infine, le competenze in materia sono state attribuite ad un' apposita struttura denominata Nucleo per la semplificazione delle norme e delle procedure, composto in misura preponderante da esperti esterni all' amministrazione. In questo periodo il miglioramento della qualità della regolazione è stato perseguito essenzialmente dallo Stato, in qualità di "centro" dell' attività normativa. Nell’ultimo quinquennio si è assistito ad un sostanziale ripiegamento delle politiche di semplificazione76, che sembra essere riconducibile a diverse cause77. La prima è che esse si sono scontrate con le resistenze di coloro che all’interno e all’esterno delle amministrazioni pubbliche godono di una rendita derivante dall’inefficienza burocratica. E si è mostrato chiaramente che queste controspinte non sono spontaneamente bilanciate dall’azione dei beneficiari degli interventi posti in essere. Infatti, il vantaggio prodotto dalle semplificazioni è spesso diffuso su ampie categorie di destinatari o scarsamente percepibile dall’utenza, almeno nel 75 Si è trattato, in particolare, delle leggi 15 marzo 1997, n. 59, 15 maggio 1997, n. 127. Si veda anche la Legge di semplificazione 1998, 8 marzo 1999, n. 50, per cui si veda P. Marconi e C. La Cava, /DOHJJHGLVHPSOLILFD]LRQH, in Giornale di diritto amministrativo, 1999, p. 407 e ss., F. Patroni Griffi, &RGLILFD]LRQH GHOHJLILFD]LRQH VHPSOLILFD]LRQH LO SURJUDPPD GHO JRYHUQR, in Giornale di diritto amministrativo, 2000, p. 101 e ss., F. Petricone, 6HPSOLILFD]LRQH DPPLQLVWUDWLYD H OHJLVODWLYD QHOOD OHJJH %DVVDQLQL TXDWHU Q GHOO PDU]R , in Riv. trim. dir. pubbl. 1999, p. 663 e ss., e la Legge di semplificazione 1999, 24 novembre 2000, n. 349, per cui si veda S. Battini, /D OHJJH GL VHPSOLILFD]LRQH , in Giornale di diritto amministrativo, 2001, p. 451 e ss., M. Cartabia, 6HPSOLILFD]LRQH DPPLQLVWUDWLYD ULRUGLQR QRUPDWLYR H GHOHJLILFD]LRQH QHOOD OHJJH DQQXDOH GL VHPSOLILFD]LRQH, in Dir. amm., 2000, p. 385 e ss. 76 G. Vesperini (a cura di), &KHILQHKDIDWWRODVHPSOLILFD]LRQHDPPLQLVWUDWLYD" Giuffrè, Milano, 2006. 77 Per un’analisi più approfondita del percorso evolutivo delle semplificazioni nel più generale contesto della modernizzazione dell’amministrazione pubblica si rimanda a A. Natalini, ,O WHPSR GHOOH ULIRUPH DPPLQLVWUDWLYH Il Mulino, Bologna, 2006. 72 breve termine. Ciò significa che per catalizzare l’interesse dell’opinione pubblica e delle categorie economiche e sociali è necessario realizzare specifiche iniziative di consultazione e di comunicazione. La seconda è che nel nostro ordinamento i procedimenti amministrativi sono numerosissimi, frammentati in tantissime fasi, prevedono un numero molto elevato di adempimenti e sono spesso regolati da una pluralità di norme. A fronte di questa situazione, gli interventi a carattere trasversale, rivolti indistintamente ad ambiti di attività tanto ampi quanto indistinti, finiscono per essere dispersivi. Al contrario, quelli selettivi, focalizzati su specifici procedimenti o su singoli adempimenti di questi procedimenti, finiscono per essere di scarso impatto e, in sostanza, marginali. La terza è che le semplificazioni “sulla carta” hanno prodotto effetti molto limitati. L’introduzione di istituti come il silenzio-assenso, la conferenza dei servizi o gli sportelli unici è una condizione necessaria, ma non sufficiente per diminuire i tempi di attesa dei cittadini o per rendere più lieve il carico degli oneri burocratici. Il termine procedimentale ha finito per rappresentare un semplice monito che alle amministrazioni pubbliche virtuose non serve e che le altre non temono. Una riprova di ciò è che i regolamenti che determinano questi termini nella maggioranza delle amministrazioni non sono stati adottati o non sono stati aggiornati nel corso del tempo78. Questo fenomeno sembra essere dovuto al fatto che, in assenza di incentivi (e disincentivi) collegati ad un sistema di misurazione degli oneri (includendo in essi anche i tempi di attesa) che effettivamente (e non solo all’interno dei testi normativi) comporta ciascun procedimento, è svuotato alla radice ogni sforzo di rendere più cogenti gli standard di qualità dei procedimenti amministrativi. La quarta è che semplificare è un pezzo di un più generale programma di riorganizzazione che dovrebbe comportare interventi di formazione del personale e l’introduzione di tecnologie informatiche. Per cui non basta introdurre nuove strutture o nuove funzioni dedicate alla semplificazione, occorre modificare le competenze e il modo di agire (e la cultura) di quelle esistenti. E non è possibile limitarsi ad introdurre nuove norme, dando per scontato che l’amministrazione si adoprerà per dare ad esse attuazione. Anche perché l’esperienza degli anni passati ha evidenziato la notevole capacità di resistenza degli assetti organizzativi esistenti. L’ulteriore elemento di cui sembra necessario tenere conto è che le politiche di semplificazione avviate negli anni Novanta hanno trovato il loro baricentro fondamentalmente nel livello statale. Nei fatti, questo livello di governo ha operato in funzione di traino delle autonomie territoriali, tentando in diversi modi di intervenire su procedimenti amministrativi che rientravano nella competenza normativa regionale, in aperta contraddizione con i postulati di un sistema 78 Istat, 6WDWLVWLFKHGHOOHDPPLQLVWUD]LRQLSXEEOLFKHDQQR, Roma, 2006. 73 autonomistico79 e spesso con gli stessi principi affermati all’interno delle leggi che, dal 1993 in poi, hanno disciplinato la semplificazione80. Nel 2000 si è cercato di mutare questo assetto81. Infatti, si è affermato che, nelle materie di cui all’art. 117, co. 1 Cost., i regolamenti di delegificazione avrebbero dovuto trovare applicazione solo nei casi in cui la regione non avesse disciplinato autonomamente la procedura medesima (cd. regolamenti cedevoli). In seguito, la riforma del Titolo V della Costituzione ha precluso allo Stato la possibilità di adottare provvedimenti di razionalizzazione normativa e procedimentale nell' ampia area delle materie soggette alla competenza esclusiva della regione. Per quanto riguarda le materie a competenza ripartita, lo Stato sembra ora in grado di dare impulso alla semplificazione solo attraverso norme di principio. In sostanza, in notevole misura lo Stato è ora in grado di realizzare interventi normativi di semplificazione che incidano sull’intero sistema amministrativo esercitando le proprie competenze esclusive in materia di tutela della concorrenza e dei livelli essenziali delle prestazioni82. Il rapporto tra Stato e regioni in materia di qualità della normazione durante la XIV legislatura non sembra avere conseguito un soddisfacente stato di equilibrio. Da un lato, tra le materie oggetto di riassetto normativo ai sensi della l. sempl. 2001, ne sono state incluse alcune che ricadono certamente nella competenza regionale concorrente (sicurezza del lavoro, prodotti alimentari, internazionalizzazione delle imprese)83. Da un altro lato, la l. n. 241/1990, art. 29 (nella versione modificata nel 2005), anche con riferimento alle norme ivi contenute in materia di semplificazione, ha stabilito che “le regioni e gli enti locali, nell’ambito delle rispettive competenze, regolano le materie disciplinate dalla presente legge nel rispetto del sistema costituzionale e delle garanzie del cittadino nei riguardi dell’azione amministrativa, così come definite dai principi stabiliti dalla presente legge”. Da un altro lato ancora, le regioni, a parte alcuni sporadici casi, anche dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, non si sono mostrate particolarmente interessate ad occuparsi di semplificazione e, più in generale, di qualità della regolazione84. 79 In questo senso, G. Vesperini, /DVHPSOLILFD]LRQHGHLSURFHGLPHQWLDPPLQLVWUDWLYL, RSFLW., p. 671. La legge n. 59/1997, art. 20, co. 2 ha stabilito che in sede di attuazione della delegificazione il governo individui, con le modalità di cui al d. lgs. n. 281/97, i procedimenti o gli aspetti del procedimento che possono essere autonomamente disciplinati dalle regioni e dagli enti locali. Il successivo comma 7 stabiliva che le regioni a statuto ordinario avrebbero dovuto regolare le materie indicate nei precedenti sei commi dello stesso articolo nel rispetto dei principi desumibili dalle disposizioni in esse contenute, che costituivano principi generali dell'ordinamento giuridico. Peraltro, le norme contenute nei primi sei commi operano direttamente (e non quindi in via di principio) nei confronti delle regioni fino a quando esse non avranno legiferato in materia. 81 L. n. 340/2000, art. 1, co. 4. 82 Sul rapporto tra Stato e regioni nell'ambito della semplificazione si veda C. Barbati, 'HOHJLILFD]LRQHVHPSOLILFD]LRQH DPPLQLVWUDWLYDHUXRORGHOOHJLVODWRUHUHJLRQDOH, in Le Regioni, 1997, p. 1081 e ss. 83 La materia degli incentivi alle attività produttive, indicata tra quelle da codificare, sembrerebbe rientrare in larga parte addirittura nella competenza esclusiva delle regioni, e in relazione ad essa è previsto espressamente il ricorso alla delegificazione. 84 L’inerzia appare particolarmente pronunciata in materia di semplificazione procedimentale e di Air, come si evince da G. Vesperini (a cura di), /D VHPSOLILFD]LRQH DPPLQLVWUDWLYD QHOOH UHJLRQL, Formez, Roma, 2004 e da Formez, /¶DQDOLVL G¶LPSDWWR GHOOD UHJRODPHQWD]LRQH /H HVSHULHQ]H UHJLRQDOL, Roma, 2003. Le regioni si sono mostrate 80 74 In questo complesso sistema di interazioni tra i livelli di governo non di rado a quello locale è stato attribuito il ruolo di IURQW RIILFH nei confronti dei destinatari dei procedimenti amministrativi nell’ambito di interventi di semplificazione determinati e sospinti dall’amministrazione statale. Questo è parso essere particolarmente vero per i servizi burocratici rivolti alle imprese, almeno da quando, nel 1998, gli Suap sono stati allocati (principalmente) presso i comuni. Non è questa la sede per analizzare la complessa vicenda che ha fatto sì che, come rilevato nel paragrafo introduttivo, la diffusione di queste strutture in molte realtà locali abbia incontrato difficoltà e ritardi. Tuttavia, è interessante rilevare come l’introduzione (spesso mancata) degli Suap sia coincisa con la diffusione di altri sportelli polifunzionali che, con modalità fisiche o virtuali, avrebbero dovuto facilitare l’interazione delle imprese con le pubbliche amministrazioni. Questa proliferazione (spesso incontrollata) delle strutture di IURQW RIILFH (sorte contemporaneamente, spesso presso diversi livelli di governo) ha determinato sovrapposizioni o duplicazioni che, in molti casi, non hanno rappresentato un’occasione di miglioramento del servizio85. /DVHPSOLILFD]LRQHSLDQLILFDWDLOOLYHOORVWDWDOHHTXHOORFRPXQLWDULR Nel complesso, è necessario rilevare che la semplificazione non è mai riuscita a diventare sistema, ma è rimasta il frutto di una serie di interventi a carattere più o meno episodico, che non hanno mutato il modo di amministrare. Le politiche di cambiamento non hanno trovato modo di sedimentarsi neanche a livello statale, al punto che la stessa legge di semplificazione è stata adottata in modo saltuario. Le esperienze avviate nelle amministrazioni pubbliche locali, spesso imposte e/o incentivate dallo Stato, non hanno trovato il terreno su cui attecchire e sono risultate sterili in quanto non hanno favorito la realizzazione di ulteriori passi avanti, mentre i miglioramenti conseguiti sono apparsi sempre precari e, laddove non sospinti dallo Stato, soggetti ad essere repentinamente abbandonati. La risposta che, di recente, lo Stato e l’Unione Europea stanno cercando di offrire al bisogno (insoddisfatto) di semplificazione della nostra economia sembra essere l’adozione di piani pluriennali a carattere selettivo, ma trasversale, e la contaminazione degli interventi di riduzione dei costi e dei tempi burocratici con imponenti programmi di misurazione. Questo sembra essere il segnale che proviene anche dagli altri paesi avanzati, anche a causa della pressione esercitata da maggiormente attive con riferimento al riordino normativo, come evidenziato in Camera dei deputati – Osservatorio sulla legislazione, 5DSSRUWR VXOOR VWDWR GHOOD OHJLVOD]LRQH, Roma, 2004, p. 265 e ss., in cui si illustra una ricerca realizzata dal CNR, Istituto di studi sui sistemi regionali e federali e sulle autonomie Massimo Severo Giannini. 85 Si veda in proposito F. Ferrara (a cura di), /¶DPPLQLVWUD]LRQHSHUVSRUWHOOL, Formez, Roma, 2006. 75 organismi internazionali (in primo luogo, l’Ocse). In particolare, sulla scia dell’esperienza e dei risultati raggiunti dal governo olandese, in cui è stata messa a punto la metodologia di misurazione nota come Standard Cost Model (SCM), molti Stati hanno adottato politiche specificamente rivolte a stimare86 e ridurre i costi generati dagli obblighi informativi; attualmente 17 Paesi dispongono di una strategia di misurazione di tali costi, che spesso prevede la fissazione di obiettivi quantitativi87. In Italia è stato avviato, a metà 2005, un progetto di ricerca sulla misurazione degli oneri amministrativi (condotto dalla Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione-SSPA su mandato del Dipartimento della Funzione Pubblica-DFP), volto a sperimentare l’utilizzo dello SCM nel contesto italiano anche attraverso un’attività di sperimentazione sul campo. Un punto di svolta si è registrato nella fase di avvio della XV legislatura, laddove le azioni di semplificazione intraprese dai singoli ministeri hanno trovato un luogo di impulso e di reciproca fertilizzazione nell’introduzione di un nuovo strumento, denominato Piano di azione per la semplificazione (Pas), che il Consiglio dei ministri dovrebbe approvare annualmente (ogni 31 marzo). Una parte significativa del Pas 2007 è dedicata alla realizzazione di un intervento di riduzione degli oneri amministrativi, condotto dal DFP con la collaborazione dell’Istat e della SSPA, il quale, anche in ragione dell’impulso comunitario, dovrebbe portare alla misurazione degli oneri (derivanti da obblighi informativi) sopportati dalle imprese in alcuni rilevanti ambiti di attività (ancora da individuare), come presupposto per una loro successiva riduzione. L’introduzione del Pas si è inserita, a livello statale, in una complessiva ridefinizione dell’assetto organizzativo della semplificazione, con l’istituzione del Comitato interministeriale per l' indirizzo e la guida strategica delle politiche di semplificazione e di qualità della regolazione88 e 86 La metodologia ovunque utilizzata è quella dello SCM, che, attraverso l’individuazione degli obblighi informativi imposti da una norma e delle relative attività necessarie al loro rispetto, consente di stimare gli oneri amministrativi a carico delle imprese. L’applicazione dello SCM richiede non solo una scrupolosa analisi della regolazione, ma anche il coinvolgimento delle associazioni di categoria – fondamentale per selezionare gli obblighi più onerosi – e l’attiva partecipazione delle imprese, visto che l’attività di rilevazione prevede lo svolgimento di interviste con un campione (non rappresentativo) di imprese. Sebbene le caratteristiche e le regole di base di questa metodologia siano condivise, in diversi Paesi lo SCM è stato per certi versi adattato alle rispettive esigenze, anche per assicurare coerenza con le più generali politiche di semplificazione. Così, ad esempio, il Regno Unito ha deciso di misurare gli oneri amministrativi anche a carico del terzo settore; la Francia ha associato all’attività di misurazione quella di “reingegnerizzazione”, consistente nella definizione e valutazione di politiche di semplificazione dei procedimenti, anche attraverso la stima dei tempi di attesa per i cittadini e le imprese; alcuni Paesi hanno deciso di isolare i soli costi che le imprese non avrebbero sostenuto in assenza di una disposizione normativa, mentre altri includono tutti i costi che derivano dal rispetto degli obblighi informativi. 87 Il livello di avanzamento dei vari Paesi è molto differenziato: i Paesi che hanno iniziato da più tempo ad applicare lo SCM (come Olanda e Danimarca) hanno già ottenuto risultati concreti di riduzione ed hanno avviato una nuova fase di misurazione; altri (in primo luogo, il Regno Unito), sebbene abbiano iniziato dopo, hanno investito molte risorse per raggiungere gli obiettivi prefissi e, nel giro di poco tempo, hanno già raggiunto risultati considerevoli; altri ancora, sono chiaramente lanciati verso una seria strategia di misurazione e riduzione; ci sono Paesi, infine, che hanno iniziato da meno tempo o con minore vigore a porre in essere strategie di riduzione degli oneri amministrativi, a volte a causa della volontà di valutare attentamente pro e contro dello SCM, o di studiarne i necessari adattamenti (è il caso della Francia e della Germania, ma anche, almeno fino ad un certo punto, dell’Italia). 88 Si veda il d.p.c.m. del 12 settembre 2006, in attuazione dell’articolo 1, DL. 10 gennaio 2006, n. 4, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 marzo 2006, n. 80. 76 dell’Unità per la semplificazione e la qualità della regolazione, composta di esperti esterni alle pubbliche amministrazioni89. Si è cercato, quindi, di ricostituire strutture dotate di specifiche competenze che abbiano come propria missione esclusiva quella di portare avanti politiche di miglioramento della qualità della regolazione. Il Pas dovrebbe rappresentare il momento in cui i diversi ambiti di miglioramento della qualità della regolazione (semplificazione procedimentale, analisi di impatto della regolamentazione e codificazione) divengono parte di un’unica politica d’intervento. Dovrebbe anche costituire lo strumento per colmare (questa sembra essere la speranza) il divario che storicamente separa la semplificazione amministrativa (e tecnologica) da quella normativa, adottando una logica di risultato. Infatti, esso dovrebbe contenere gli aspetti attuativi delle disposizioni normative adottate, ma anche dei disegni di legge in materia di semplificazione che, nel momento in cui il Pas è adottato, sono ancora in discussione presso le Camere. All’interno del Pas sono elencate le azioni intraprese dal Governo nei diversi ambiti in cui si esercita l’attività amministrativa statale, individuando, in base ad un approccio selettivo, quelli di maggiore rilevanza e criticità. L’esigenza di mettere insieme i singoli interventi non dovrebbe essere un esercizio fine a se stesso, ma un modo per rendere visibile e coerente la complessiva strategia di semplificazione adottata dal Governo anche attraverso un complesso processo di concertazione. In proposito, è da sottolineare che il Pas è, in primo luogo, il contenitore delle semplificazioni realizzate dal livello statale, ma rappresenta anche il punto di riferimento per il coordinamento tra queste e quelle promosse dagli altri livelli di governo. Infatti, in materia di semplificazione sembra si stia affermando, non senza contraddizioni e incertezze, un approccio di tipo cooperativo, che segue però modalità molto articolate. In particolare, è stato istituito presso la Conferenza unificata un Tavolo permanente per la semplificazione, al quale, al fianco dei rappresentanti delle autonomie regionali e locali, siedono le associazioni produttive, degli utenti e dei consumatori. Inoltre, gli esponenti delle autorità regionali e locali possono essere invitati a partecipare alle riunioni del Comitato interministeriale. Infine, l’Unità di semplificazione può promuovere forme di raccordo con le misure di semplificazione e di miglioramento della qualità della regolazione avviate da organi costituzionali, autorità indipendenti, regioni ed enti locali. Nel contempo, si avvertono i sintomi di un mantenimento (se non di un accrescimento) delle tradizionali prerogative del livello statale in materia di semplificazione. Un segnale di ciò è presente in alcuni disegni di legge governativi attualmente in discussione alle Camere. Infatti, all’interno del recente DDL Nicolais alcuni istituti di semplificazione amministrativa (l’obbligo di concludere il procedimento entro un termine prefissato; la denuncia di inizio attività; il silenzio-assenso) sono 89 DL 18 maggio 2006, n. 181, convertito con legge 17 luglio 2006, n. 233. 77 stati qualificati come livelli essenziali delle prestazioni ai sensi dell’articolo 117, comma 2, lettera m), Cost. Quindi, qualora questo disegno di legge fosse approvato, le autonomie territoriali non potrebbero derogare, per i suddetti profili, alle disposizioni contenute nella L. n. 241/90 se non in senso ampliativo della tutela dell’interesse dei privati. In parallelo, il DDL Bersani, detta principi generali per il procedimento presso lo sportello unico per le attività produttive che, però, nei fatti, si spingono a disciplinare in modo minuto lo svolgimento delle attività amministrative. Al complesso rapporto tra il livello statale e quello regionale si sovrappone la crescente influenza di quello comunitario. La politica di semplificazione intrapresa dalla Commissione Europea rientra nella più ampia strategia di EHWWHU UHJXODWLRQ , che, anche a seguito della pubblicazione del Libro Bianco sulla governance europea del 2001, è stata profondamente rivista a partire dalla metà del 200290. In particolare, nel febbraio 2003 la Commissione ha lanciato, con la comunicazione “Updating and simplifying the Community acquis”91, una serie di azioni volte a semplificare e ridurre lo stock regolativo e ad aumentare il grado di conoscibilità delle norme in vigore92. Nell’ambito di questo programma, durato circa due anni, la Commissione ha messo sotto osservazione la regolazione di più di 40 settori, raggiungendo, però, solo parzialmente gli obiettivi previsti. Un importante punto di svolta nelle politiche comunitarie di miglioramento della qualità della regolazione, in coerenza con la revisione della strategia di Lisbona (incentrata sulla crescita e l’occupazione) è rappresentato dalla comunicazione “Better regulation for growth and jobs” del 16 marzo 200593, che si è posta l’obiettivo di diminuire lo svantaggio competitivo che l’Europa registra rispetto alle altre economie in relazione alla qualità della regolazione94. In particolare, nell’ottobre 2005 è stata avviata una nuova strategia di semplificazione, che si è concentrata sui problemi delle piccole e medie imprese95. Nell’ambito di questa iniziativa è stato adottato un UROOLQJ SURJUDPPH , focalizzato su 100 iniziative di semplificazione (individuate anche grazie alla consultazione con gli Stati Membri e gli VWDNHKROGHUV ), riguardanti 222 norme (corrispondenti a circa 1400 atti) su cui 90 European Commission, (XURSHDQ*RYHUQDQFHEHWWHUODZPDNLQJ, COM(2002) 275 final. COM(2003) 71 final. 92 Gli obiettivi perseguiti erano sei: semplificare la regolazione in vigore; proseguire con l’azione di codificazione, nella doppia accezione di emanazione di testi meramente ricognitivi e non vincolanti (FRQVROLGDWLRQ) e di veri e propri codici (atti aventi forza di legge); rivedere l’organizzazione e la presentazione dell’DFTXLV comunitario, in modo da indicare chiaramente le norme in vigore; aumentare la trasparenza ed il monitoraggio a livello tecnico e politico; porre in essere un’efficace strategia di implementazione, anche attraverso accordi interistituzionali e diffusione di EHVWSUDFWLFHV. 93 COM(2005) 97. 94 Le azioni previste consistevano nel rafforzamento, anche attraverso la definizione di una metodologia per la misurazione degli oneri amministrativi, dell’analisi d’impatto della regolazione; nel maggior coordinamento tra istituzioni comunitarie e tra queste e Stati Membri sul tema della qualità della regolazione; nella revisione degli strumenti rientranti nella generale definizione di “semplificazione”. 95 COM (2005) 535 “Implementing the Community Lisbon programme: A strategy for the simplification of the regulatory environment”. 91 78 intervenire tra il 2005 ed il 200896. Così come previsto dal piano d’azione del 2005, i risultati raggiunti sono stati sottoposti a monitoraggio e valutazione, anche al fine di rivedere gli obiettivi perseguiti97. Parallelamente, la Commissione si è occupata del tema della misurazione degli oneri amministrativi98. In particolare, a gennaio 2007 ha emanato un programma di azione per la loro riduzione, proponendo al Consiglio di fissare un target di riduzione aggregata (da raggiungere, cioè, in modo congiunto tra l’Unione e gli Stati Membri) pari al 25% entro il 2012. Il programma prevede l’avvio di una massiccia attività di misurazione degli oneri amministrativi99 derivanti dagli obblighi informativi contenuti nella legislazione comunitaria e nelle relative norme di trasposizione a livello nazionale, focalizzandosi su 13 aree prioritarie, scelte anche grazie alla consultazione realizzata con le imprese e gli Stati Membri. La Commissione ha anche individuato 11 azioni immediate di misurazione e riduzione degli oneri (IDVW WUDFN DFWLRQV). Il programma comunitario presuppone il coinvolgimento degli Stati Membri e fissa delle scadenze da rispettare; in particolare, la Commissione si attende che i Paesi dell’Unione definiscano e diano avvio già dal 2007 a propri programmi di misurazione degli oneri burocratici e fissino entro l’autunno del 2008 i propri target di riduzione. Dall’analisi di questo complesso quadro sembra emergere una chiara indicazione: occorre pianificare le azioni di semplificazione, rendendole selettive e sistematiche, adottando una logica di risultato e tenendo conto delle necessarie interazioni con gli interventi programmati dagli altri livelli di governo. Questa indicazione può essere tenuta presente anche per impostare le nuove politiche di semplificazione a livello locale, che è quello in cui si manifestano (in notevole misura) le disfunzioni burocratiche. Infatti, è in questa sede che avvengono gran parte delle interazioni dirette tra i privati e le amministrazioni pubbliche, le quali non possono essere interamente predeterminate dalle norme giuridiche emanate da Unione europea, Stato o regione. Per cui occorre che all’interno 96 Gli strumenti d’intervento previsti includevano l’abrogazione, la semplificazione, la codificazione ed un maggior ricorso alla co-regolazione. Da un punto di vista metodologico, è interessante notare il tentativo – ad oggi ancora in via di realizzazione – di stabilire un legame tra vari strumenti di qualità della regolazione: le proposte di semplificazione per i singoli settori si sarebbero basate sulla valutazione d’impatto della regolazione in vigore e delle proposte di modifica. 97 Nel “First progress report on the strategy for the simplification of the regulatory environment”, pubblicato a novembre 2006, la Commissione ha indicato le azioni portate a termine (circa 50 delle 100 previste per il triennio), quelle ancora in corso e le nuove semplificazioni introdotte (pari a 43, di cui 28 da realizzare nel corso del 2007) per il triennio 2006-2009. Inoltre, essa ha identificato i fattori di successo di una strategia di semplificazione, consistenti nella definizione di una solida metodologia, nella cooperazione tra istituzioni europee, nel maggior ricorso alla autoregolazione ed alla co-regolazione e nell’attuazione di politiche di semplificazione anche a livello nazionale. 98 COM (2007) 23. A livello metodologico, la Commissione seguirà lo EU Standard Cost Model, che riprende, in linea di massima, le indicazioni dello SCM, modello di misurazione degli oneri amministrativi derivanti da obblighi informativi attualmente utilizzato da 17 Paesi europei. 99 Obiettivo della Commissione è la misurazione e riduzione degli DGPLQLVWUDWLYH EXUGHQV, ovvero degli oneri amministrativi (derivanti da obblighi informativi) che le imprese non avrebbero sostenuto in assenza di una disposizione normativa. L’attività di misurazione sarà affidata ad un consulente esterno che, nello svolgimento delle sue attività, si avvarrà anche dell’aiuto degli Stati Membri. 79 dell’ampio margine di autonomia organizzativa dei comuni trovino spazio espliciti interventi di semplificazione. È necessario anche che le iniziative avviate dagli altri livelli di governo si fondino su una cooperazione non passiva con le autonomie locali. Sotto questo profilo è bene tenere presente che i piani di riduzione degli oneri amministrativi avviati a livello comunitario e nazionale devono trovare attuazione anche (e, forse, soprattutto) a livello locale, il quale, in molti casi, si occupa proprio di determinare la disciplina procedimentale di dettaglio. /HVHPSOLILFD]LRQLSLDQLILFDWHLOOLYHOORORFDOH La complessità procedimentale affonda le sue radici all’interno di alcuni degli elementi che legano il sistema amministrativo con quello sociale ed economico. Innanzitutto, i procedimenti amministrativi comportano (in misura crescente) la ponderazione di una molteplicità di interessi pubblici (protezione dell’ambiente, sicurezza sul lavoro, ecc.). Inoltre, la partecipazione procedimentale dei privati e degli enti esponenziali degli interessi collettivi e diffusi è una condizione ineliminabile per l’attuazione del principio democratico all’interno delle decisioni amministrative. Infine, l’affermazione della rete come modello di riferimento del sistema amministrativo (implicita nella realizzazione del federalismo) porta ad un aumento della frammentazione del sistema che rende necessario trovare momenti di ricucitura sul piano procedimentale. Ciò significa che la complessità dell’azione burocratica non è una patologia momentanea o localizzata, ma un aspetto fisiologico della configurazione che ha assunto l’amministrazione pubblica, per cui è necessario adottare risposte che non siano contingenti o episodiche. Se la complessità procedimentale si genera “spontaneamente” e se si vuole evitare che essa si tramuti automaticamente in complicazione, occorre introdurre strumenti di governo stabili e di sistema. Per questa ragione, la semplificazione dei procedimenti non può essere l’obiettivo di interventi compiuti XQDWDQWXP, ma è frutto di una modifica stabile del modo di gestire le pubbliche amministrazioni; non può essere una funzione o una struttura che si aggiunge alle altre, ma è un modo diverso di operare. In questa prospettiva occorre però partire dall’assunto che per ristrutturare il processo organizzativo che presiede al funzionamento dei procedimenti amministrativi è necessario adottare una logica di JRYHUQDQFH . Per questo è necessario essere consapevoli che il successo di un intervento di cambiamento non può derivare dalla mera introduzione di una nuova, taumaturgica, tecnica gestionale o da un nuovo istituto giuridico. Infatti, questi strumenti diventano funzionali nel momento in cui si riesce a porre su diverse basi il rapporto (spesso collusivo) che lega tra loro 80 politica, amministrazione, alcuni intermediari e alcuni destinatari privilegiati. L’inefficienza burocratica non sempre è generata da incapacità o da irragionevoli vincoli normativi, ma da un concreto assetto di interessi all’interno del quale resta marginale l’esigenza di rendere più celere e meno onerosa l’azione amministrativa. Per semplificare è allora necessario alterare questo assetto e per far ciò occorre introdurre adeguate controspinte. Da una parte, dovrebbe essere incoraggiato e sostenuto l’impulso dei destinatari dell’azione amministrativa. Da un’altra parte è necessario rendere più nitida la responsabilità politica per gli esiti degli interventi di semplificazione. Da un’altra parte ancora è opportuno immettere forme di incentivo che leghino in modo significativo la retribuzione dei dirigenti anche al contributo dato alla semplificazione e al rispetto di standard prefissati di funzionamento dell’azione amministrativa. Per rispondere alla complessità strutturale dei procedimenti amministrativi occorre immaginare un sistema che agisca sia sul piano orizzontale sia su quello verticale. Da un lato, è necessario introdurre nuove modalità (o valorizzare e rafforzare quelle già introdotte, ma in modo discontinuo) per la progettazione e gestione di tutti i procedimenti di competenza dell’amministrazione comunale, definendo le responsabilità organizzative in merito alla loro qualità ed efficienza, nonché alla definizione dei relativi standard di funzionamento. E’ quindi necessario introdurre sistemi informativi a carattere trasversale che alimentino in modo continuo il processo di valutazione dei livelli di efficienza di ciascun procedimento. Da un altro lato, si dovrebbe introdurre un sistema pianificato di semplificazione che si concentri sui casi di maggior rilievo e criticità. In relazione a ciascuno di essi si dovrebbero identificare gli obiettivi dell’intervento di cambiamento (in termini di riduzione degli oneri o dei tempi di attesa per i destinatari) per poi individuare una molteplicità di opzioni per conseguirlo e, infine, scegliere e porre in essere quella ritenuta più vantaggiosa. Nel far questo è necessario tener conto del ruolo svolto dall’amministrazione comunale in un sistema multilivello (caratterizzato nel modo evidenziato nei paragrafi precedenti), per cui, al fianco degli interventi di semplificazione che essa può realizzare in autonomia, ve ne sono altri che saranno imposti normativamente o incentivati da altri livelli (statale, regionale o comunitario), altri che richiederanno l’eliminazione di vincoli giuridici imposti da norme (irragionevoli o sproporzionate) che spetta all’Unione europea, allo Stato o alla regione rimuovere e, infine, altri ancora che saranno realizzati solo a patto di attivare l’attivazione di rapporti di collaborazione con altre amministrazioni (es. enti locali limitrofi, autonomie funzionali, province, ecc.). Sulla configurazione del sistema semplificazione si ripercuotono le alterazioni che stanno intervenendo nel rapporto tra livelli di governo, ma anche le profonde modificazioni che attraversano il rapporto pubblico-privato. Infatti, si assiste in misura crescente (anche se con modalità non ancora pienamente consolidate) ad una esternalizzazione di compiti tradizionalmente 81 svolti dalla burocrazia. Durante tutto l’arco degli anni Novanta l’obiettivo delle semplificazioni sembrava essere quello di minimizzare l’apporto dei soggetti privati che avrebbero dovuto limitarsi a presentare le proprie istanze alle amministrazioni pubbliche corredate delle eventuali dichiarazioni sostitutive. Sembrava spettare alla burocrazia il compito di accertare la sussistenza degli stati di fatto rilevanti ai fini della decisione pubblica. La prospettiva appare essere ora radicalmente cambiata: il compito di accertare la sussistenza dei requisiti per svolgere determinate attività sembra debba essere attribuito in misura determinante ai soggetti privati, mentre le pubbliche amministrazioni dovrebbero limitarsi ad esercitare un controllo ex post. In questa ottica si devono leggere le proposte contenute nel DDL Bersani sull’avvio delle attività d’impresa attualmente in discussione alla Camera e la generalizzazione del ricorso al silenzio-assenso e alla dia (introdotta, con modalità piuttosto contraddittorie, sul finire della XIV legislatura), ma anche il susseguirsi nella scorsa e nella presente legislatura di proposte (spesso provenienti dagli organismi di rappresentanza delle categorie economiche e sociali) volte ad istituzionalizzare il ruolo dei soggetti che intermediano il rapporto delle imprese e dei cittadini con le burocrazie. Nello stesso senso sembrano andare i tentativi, contenuti nel recente DDL Nicolais, per far sì che i controlli effettuati ai fini delle certificazioni ambientali possano rappresentare, almeno in parte, un sostitutivo di quelli realizzati dalle amministrazioni pubbliche. Nel complesso si può dire che la semplificazione non si distribuisce per strati, ma è una rete che connette tra loro amministrazioni di diverso livello di governo, oltrepassando le tradizionali ripartizioni tra pubblico e privato. In questo contesto il ruolo del comune deve essere riconfigurato: non è più il luogo in cui si applicano le riforme pensate dal centro (che nel modello reticolare perde, almeno in parte, la sua capacità di indirizzo del sistema), ma neanche quello di un soggetto che è in grado di agire in assoluta autonomia. Occorre che l’ente locale si ritagli un proprio spazio all’interno di una fitta maglia di relazioni all’interno delle quali si incontrano vincoli, ma si generano anche opportunità di cambiamento. /DVHPSOLILFD]LRQHFRPXQDOHLOFDSDFLW\EXLOGLQJ In questo contesto, la realizzazione delle nuove politiche di semplificazione rappresenta un obiettivo ambizioso. Infatti, essa presuppone che le amministrazioni siano dotate (o siano in grado di dotarsi attraverso azioni di FDSDFLW\EXLOGLQJ) di precise caratteristiche: una OHDGHUVKLS politica in grado di dare impulso, coerenza complessiva e continuità alle azioni intraprese; un sistema di JRYHUQDQFH interna che renda possibile progettare e realizzare un programma pluriennale a carattere 82 trasversale; un sistema di JRYHUQDQFH verticale e orizzontale che consenta di sviluppare le necessarie sinergie con le altre amministrazioni pubbliche; una capacità di impostare su basi nuove i rapporti di collaborazione con i privati. Per questa ragione programmare e realizzare azioni realmente efficaci non è facile, almeno nella misura in cui si intenda istituzionalizzare le politiche di semplificazione, passando, in altre parole, da un’ottica di breve periodo, estemporanea e caratterizzata da interventi isolati, ad una che inizi a rivedere il modo stesso di progettare e gestire i procedimenti. In primo luogo, una politica di semplificazione che non sia una mera funzione accessoria (ed eventuale) rispetto alle attività “ordinarie” di un’amministrazione richiede necessariamente il rafforzamento dell’impegno politico al massimo livello, con interventi volti a rendere credibile (verso l’esterno dell’amministrazione) l’impegno assunto di riduzione dei tempi e degli oneri procedimentali e ad aumentare (verso l’interno) il grado di FRPPLWPHQW politico. Per far ciò occorre che questa politica sia riconducibile ad un soggetto specifico – un assessore o, meglio ancora, il sindaco – che assuma il ruolo di coordinatore delle azioni avviate, nonché garantisca la coerenza e la continuità delle stesse. Sul versante della JRYHUQDQFH interna del processo, occorre intervenire soprattutto su due fattori: il ruolo della dirigenza e la previsione, all’interno della struttura comunale, di un apposito nucleo operativo dedicato alla semplificazione. In relazione al primo fattore, è importante che la dirigenza del comune contribuisca in modo attivo alla progettazione e realizzazione degli interventi di semplificazione. Proprio per questo il dirigente dovrebbe essere reso effettivamente responsabile, nel limite dell’autonomia che gli è stata conferita e delle risorse disponibili, del livello di efficienza e di qualità dei servizi burocratici offerti dal proprio ufficio. A questo scopo dovrebbe essere istituito un adeguato sistema di incentivi e di monitoraggio del suo operato. In particolare, ai fini della progettazione e realizzazione di un programma di semplificazione a carattere trasversale è necessario che nell’organizzazione sia prevista l’introduzione di un FLW\ PDQDJHU o di altre modalità di coordinamento orizzontale che consentano di rendere identificabile (e possibilmente coesa) la responsabilità della sua attuazione. Riguardo al secondo fattore, il piano d’intervento dovrebbe porsi nel medio termine l’obiettivo di costituire un’unità operativa dedicata alla semplificazione – di supporto ai soggetti politici e amministrativi responsabili della semplificazione – a cui affidare lo sviluppo delle più adeguate metodologie, il monitoraggio delle attività, l’analisi delle EHVW SUDFWLFHV individuate nella propria o in altre amministrazioni locali e il raccordo con le iniziative di semplificazione (anche normative) avviate dagli altri livelli di governo. Richiedendo gli interventi di semplificazione conoscenze variegate, questa unità dovrebbe essere costituita da professionalità diverse, arricchendosi 83 dell’apporto di giuristi, economisti, statistici ed analisti delle politiche pubbliche e adottare un metodo di lavoro collaborativo e non gerarchico, tipico dei WHDP multidisciplinari. Nonostante la centralità di questa struttura nella gestione delle politiche di semplificazione, e l’opportunità di posizionarla in prossimità del vertice amministrativo e politico, occorre evitare la tentazione di introdurre un “ZDWFKGRJ” della semplificazione: l’articolazione e l’estrema settorializzazione delle amministrazioni comunali richiedono necessariamente la realizzazione di un sistema policentrico, in cui, come detto, questa nuova unità deve essere dotata essenzialmente di funzioni di coordinamento più che di comando. In una prima fase, questa struttura dovrebbe assumere una configurazione leggera e flessibile, la quale, a seguito di una sperimentazione, si dovrebbe consolidare in modo graduale. Nella fase di innesco delle iniziative di semplificazione può rivelarsi prezioso il ricorso a consulenti portatori di una “visione” esterna, in alcuni casi necessaria non solo per garantire un apporto di abilità di cui il comune non dispone, ma anche della capacità di affrontare alcune criticità di impostazione che sono in grado di indebolire l’intero percorso di riforma. Al tempo stesso, preme sottolineare che la semplificazione non può essere esternalizzata. Infatti, essa deve essere un’attività essenzialmente interna all’amministrazione: questa è una condizione indispensabile per far sì che la struttura comprenda (e, auspicabilmente, condivida) le politiche poste in essere, le interpreti come non estemporanee e non le viva come un mero servizio appaltato all’esterno. Anche a livello comunale pare utile prevedere l’elaborazione di un “piano d’azione per la semplificazione”. Questo documento, con un orizzonte pluriennale (correlato alla durata del mandato del vertice politico), dovrebbe contenere l’indicazione degli obiettivi perseguiti annualmente – più stringenti nel primo anno, in modo da assicurare la necessaria spinta iniziale e comunicare una decisa volontà di cambiamento – e degli ambiti su cui si intende intervenire. Esso dovrebbe essere elaborato attraverso un confronto con le parti sociali e, per sottolinearne la valenza strategica, andrebbe sottoscritto dal responsabile politico della semplificazione e pubblicato sul sito dell’amministrazione comunale. Il piano dovrebbero includere sia le azioni poste in essere per dare attuazione agli interventi di semplificazione promossi da altri livelli di governo, sia quelle decise autonomamente dall’ente locale nell’ambito della propria autonomia regolamentare e organizzativa. Al fine di assicurare una concreta ed efficace attuazione del piano andrebbero, inoltre, previste sin da subito l’individuazione dei soggetti responsabili delle varie azioni e l’attivazione di una funzione di monitoraggio e valutazione (anche attraverso il ricorso ai giudizi dei diretti destinatari degli interventi di semplificazione) dei processi avviati e dei risultati raggiunti. 84 ,OFLFORGLJHVWLRQHGHLSURFHGLPHQWLDPPLQLVWUDWLYL I procedimenti amministrativi sono (o dovrebbero essere) dotati di una serie di attributi di qualità. In alcuni casi essi sono imposti dalle norme, in particolare dalla legge n. 241/1990 e dal Codice delle amministrazioni digitali. Tra essi troviamo la definizione del termine dell’intero procedimento e di ciascuna delle fasi che lo compongono, la predeterminazione degli adempimenti burocratici e delle scadenze entro le quali essi devono essere posti in essere, l’individuazione dell’unità organizzativa responsabile, quella del responsabile del procedimento, l’indirizzo di posta elettronica a cui rivolgersi nel caso il servizio sia fruibile on line, i moduli e i formulari da compilare, nonché le modalità per l’accesso agli atti procedimentali da parte degli interessati. Un secondo ambito ricomprende gli attributi di qualità che le autonomie locali, almeno al momento, possono o meno decidere di introdurre. Tra questi casi rientrano l’introduzione di forme di indennizzo in caso di inosservanza dei termini procedimentali da parte delle pubbliche amministrazioni, l’individuazione dei procedimenti per cui si applica la disciplina del silenzioassenso o della dia, nonché l’adozione di sistemi di valutazione “oggettivi” dei tempi di ciascun procedimento. Tuttavia, è in corso di discussione presso le Camere il DDL Nicolais che intende imporre per legge alle amministrazioni pubbliche di dotare i procedimenti amministrativi di questi attributi di qualità, anche se la previsione dell’indennizzo, per far sì che essa rientri nella competenza esclusiva statale in materia di ordinamento civile, è stata considerata alla stregua di una sanzione comminata all’amministrazione nei confronti del destinatario del provvedimento. Di particolare rilievo, in prospettiva, potrebbe essere l’entrata in vigore della disposizione, sempre contenuta nel DDL Nicolais, che vorrebbe imporre ai servizi di controllo interno di ciascuna amministrazione di misurare i tempi di conclusione dei procedimenti, individuando il numero e la tipologia dei procedimenti che hanno avuto una durata maggiore di quelli predeterminati. In questo modo sarebbe possibile: selezionare i procedimenti su cui intervenire prioritariamente attraverso un confronto tra i tassi percentuali di rispetto del termine; individuare i casi di relativa inefficienza attraverso un confronto tra procedimenti analoghi svolti da diverse amministrazioni o da una stessa amministrazione in periodi di tempo differenti; a seguito della realizzazione di un intervento di riduzione dei tempi procedimentali, valutare i risultati conseguiti e operare (eventuali) affinamenti e integrazioni. Più al fondo, sarebbe possibile fare un uso più appropriato dell’istituto del termine procedimentale. Infatti, a fronte di un’attività amministrativa che duri mediamente 20 giorni, ma presenti “picchi” di 60 giorni, è corretto che, tenendo conto della necessità di assumere un “margine 85 di rischio”, il termine sia di 80 giorni. Inoltre, nella misura in cui l’inosservanza dei termini procedimentali produca conseguenze anche rilevanti (come nel silenzio-assenso) e la possibilità che, a breve, esse possano essere rese ancor più incisive (con i meccanismi della responsabilità dirigenziale e della sanzione pecuniaria all’amministrazione previsti dal DDL Nicolais) le amministrazioni pubbliche sembrano oggettivamente poco invogliate a restringere i termini procedimentali. In buona sostanza, il termine procedimentale è, per definizione, uno standard che si commisura alle pratiche amministrative più complesse e onerose. Il problema è che, in assenza di incentivi particolari, la burocrazia tende ad adagiarsi spontaneamente su questo limite anche per lo svolgimento dei procedimenti che potrebbero essere risolti in modo più spedito. Per porre rimedio a questo effetto non voluto sarebbe necessario che le amministrazioni comunali attivino forme di incentivo al personale e alla dirigenza basati sul rispetto di tempi medi, magari fissati annualmente con una direttiva del vertice politico, che siano ovviamente più stringenti del termine procedimentale. Gli standard relativi a ciascuna attività dovrebbero essere predeterminati da ciascuna amministrazione nella fase di progettazione del procedimento che dovrà definire da caso a caso l’ufficio preposto, il responsabile del procedimento, i termini, gli adempimenti, i moduli, la possibilità (ed eventualmente la modalità) di utilizzo del servizio on line. Questi standard dovrebbero essere aggiornati, rivisti ed integrati periodicamente attraverso un processo decisionale che dovrebbe muovere, attraverso un confronto con i rappresentanti delle categorie sociali ed economiche interessate, da proposte del vertice burocratico, ma su cui la decisone finale dovrebbe spettare al livello politico. In relazione a questi livelli di funzionamento dovrebbe essere attivata una modalità di monitoraggio che si avvalga di sistemi informativi attraverso i quali acquisire, trattare e far circolare in via continuativa all’interno delle amministrazioni pubblico i dati più rilevanti in modo economico e tempestivo. In particolare, questa valutazione dovrebbe tenere sotto controllo i tempi di realizzazione dei procedimenti (a fronte dei termini previsti) e gli adempimenti richiesti (a fronte di quelli predeterminati). Dovrebbe però basarsi anche sull’utilizzo di tecniche di FXVWRPHU VDWLVIDFWLRQ che servano ad individuare le aree di criticità su cui focalizzare gli sforzi di miglioramento. I risultati di queste rilevazioni dovrebbero essere resi di dominio pubblico anche attraverso una loro pubblicazione sul sito dell’amministrazione comunale. Per poter (auto)valutare le performance dei procedimenti che rientrano nella propria sfera di competenza, ciascun dirigente dovrebbe disporre di informazioni analitiche, attraverso le quali individuare i colli di bottiglia e le disfunzioni che possono rallentare o rendere più oneroso lo svolgimento delle attività amministrative che rientrano nella sua responsabilità organizzativa. Sarebbe quindi necessario che essi possano contare su misurazioni più dettagliate di quelle messe a 86 disposizione del vertice politico (e dei privati) per valutare il funzionamento del procedimento complessivamente inteso. Sulla base di queste valutazioni i responsabili di ciascun servizio, nel caso in cui lo ritengano opportuno e attraverso una consultazione dei rappresentanti delle categorie sociali ed economiche, dovrebbero elaborare piani di miglioramento volti a riconoscere al procedimento nuovi attributi (es. rendendo disponibile il servizio RQ OLQH ) o ad innalzare gli standard di qualità prefissati (es. riducendo il termine procedimentale) o a ridurre la percentuale di casi in cui gli standard non sono rispettati. Questi piani dovrebbero essere sottoposti al vaglio del vertice politico che, dopo averne valutato la sostenibilità e la rispondenza alle esigenze dei cittadini e delle imprese, li dovrebbe adottare con un proprio atto di indirizzo. In questo modo si dovrebbe ottenere un duplice vantaggio: da un lato, si evidenzierebbe la responsabilità del vertice politico sugli esiti degli interventi di miglioramento della funzionalità dei procedimenti; dall’altro lato, si attiverebbe il meccanismo della responsabilità dirigenziale, in base al quale il dirigente potrebbe essere incentivato (in positivo e in negativo) a conseguire gli obiettivi di miglioramento prefissato. La spinta “dall’alto” al miglioramento delle performance procedimentali dovrebbe coniugarsi, come osservato in precedenza, con quella dal basso. In questa ottica le richieste di sanzione presentate dai destinatari rappresentano altrettanti segnalatori di disfunzioni a cui i piani di miglioramento dovrebbero porre rimedio. L’indennizzo (anche nella forma della sanzione prevista dal DDL Nicolais) dovrebbe consentire alle amministrazioni comunali di attivare un meccanismo di controllo incrociato tra le amministrazioni (anche di altro livello di governo) nella misura in cui il relativo onere sia attribuito a quella (o distribuito proporzionalmente tra quelle) che abbia(no) determinato la mancata osservanza dello standard. Una seconda forma di spinta “dal basso” alla semplificazione è costituita dal recente riconoscimento del diritto dei privati “a richiedere ed ottenere l’uso delle tecnologie telematiche nelle comunicazioni con le pubbliche amministrazioni e con i gestori di pubblici servizi statali nei limiti di quanto previsto dal presente codice” (Cad, art. 3, co 1). Questa tutela sembra essere legata alla sussistenza del presupposto che l’amministrazione, disponendo delle necessarie risorse umane e tecnologiche, riorganizzi le proprie strutture e riveda le proprie modalità d’azione. Questa pesante limitazione è sottolineata con particolare vigore nei confronti delle amministrazioni regionali e locali per cui è espressamente previsto che il diritto sia configurabile “nei limiti delle risorse tecnologiche ed organizzative disponibili e nel rispetto della loro autonomia normativa” (art. 3, co. 1 bis, Cad). Per definire confini e contenuti di questo “diritto” è altresì necessario che, per ciascun procedimento, siano individuati i canali di comunicazione attivati, il tipo di prestazioni che possono 87 essere rese (es. scaricare i modelli di istanza o effettuare la transazione on line) e le modalità con cui ciò è realizzabile (es. necessità di smart card, ricorso alla posta certificata, ecc.). Infine, in relazione a ciascun piano di miglioramento elaborato dai dirigenti amministrativi con riferimento ai procedimenti amministrativi di propria competenza dovrebbe essere reso possibile ai soggetti interessati rappresentare le proprie esigenze di cui il vertice politico dovrebbe tener conto nel momento in cui determina gli standard procedimentali. Nel complesso, la gestione dei procedimenti amministrativi dovrebbe assicurare che essi siano soggetti ad una continua manutenzione, in un’ottica di miglioramento continuo e diffuso a carattere incrementale. /DVHPSOLILFD]LRQHGHLSURFHGLPHQWLDPPLQLVWUDWLYL Le semplificazioni, a differenza degli interventi di manutenzione a cui si è fatto riferimento nel precedente paragrafo, non dovrebbero mirare a realizzare un cambiamento a carattere incrementale, ma radicale, puntando ad un pronunciato innalzamento degli standard di qualità dei procedimenti da esse interessati. Ciò significa che esse rappresentano per le amministrazioni comunali un investimento relativamente dispendioso. Per questa ragione esse devono essere realizzate in modo altamente selettivo, individuando anno per anno, in base ad un programma scorrevole di orizzonte pluriennale, gli ambiti su cui concentrare l’attenzione in modo preminente. L’individuazione di questi ambiti è, a sua volta, abbastanza complessa, in quanto deve essere frutto di un’analisi dello stato di funzionamento dei procedimenti in essere, sulla base di una valutazione della loro rilevanza in relazione alle priorità del vertice politico, fissate in base alle aspettative dei soggetti privati su cui direttamente grava il peso delle disfunzioni burocratiche. Questa selezione deve però anche tener conto di fattori esterni, come la presenza di vincoli normativi non rimuovibili o, al contrario, la presenza di disposizioni di legge (che impongono al comune di semplificare un determinato procedimento) o di incentivi introdotti da altri livelli di governo (es. fondi a carattere premiale). Gli obiettivi della semplificazione devono puntare ad un’innovazione radicale del procedimento, ma, nel contempo, devono essere sostenibili per l’amministrazione comunale. Per comporre tra loro queste due esigenze è necessario far sì che essi siano formulati sulla base di una valutazione preliminare del livello di funzionamento del procedimento e dei presupposti finanziari, normativi e organizzativi su cui far poggiare le proposte di cambiamento. Nello stesso tempo, è necessario che gli obiettivi siano determinati avendo come riferimento non solo l’opinione dei vertici burocratici, ma anche quella dei destinatari del provvedimento. Gli obiettivi devono essere rappresentati 88 essenzialmente da una riduzione dei tempi e degli oneri dei procedimenti amministrativi. Quindi devono essere formulati in termini quantitativi e commisurati al raggiungimento di specifici valori obiettivo, il cui conseguimento sia verificabile in modo oggettivo anche attraverso valutazioni indipendenti. Gli interventi di semplificazione dovrebbero focalizzarsi sui procedimenti più che sulle strutture. Infatti, poiché si pongono come obiettivo quello di migliorare il servizio reso dalla burocrazia, hanno ad oggetto tutte le attività che contribuiscono a fornirlo, indipendentemente dai soggetti che le pongono in essere. Nel delineare questo processo si valicano non solo i confini organizzativi interni alle amministrazioni comunali, ma anche le frontiere che separano le diverse istituzioni pubbliche, nonché quelle che dividono il pubblico dal privato. Ciò è necessario per individuare le ragioni di un eventuale ritardo o di una eccessiva richiesta di adempimenti amministrativi. L’adozione di una logica di processo è rilevante nel momento in cui occorre individuare i soggetti che devono guidare la semplificazione. Infatti, laddove il procedimento da semplificare taglia trasversalmente l’organizzazione comunale è necessario che la responsabilità dell’intervento sia affidata a strutture in grado di assicurare un adeguato livello di coordinamento tra le diverse unità amministrative coinvolte. Quindi, laddove costituita, alla direzione generale. Inoltre, nel caso in cui occorra raggiungere intese e sviluppare sinergie con altre amministrazioni pubbliche (anche di diversi livelli di governo) è necessario che la semplificazione poggi il suo fulcro su strutture che abbiano il potere di assumere questo tipo di impegno. Il quadro delle responsabilità organizzative è complicato ulteriormente dal fatto che la semplificazione utilizza strumenti che rientrano nella sfera di influenza di soggetti diversi. Infatti, gli interventi di riorganizzazione rientrano abitualmente nella competenza delle singole unità di settore, mentre in molte amministrazioni comunali (almeno quelle che hanno una struttura interna abbastanza articolata) il presidio delle innovazioni tecnologiche o della predisposizione degli schemi di regolamento è affidato ad apposite strutture di staff. Quanto al rapporto con i destinatari della regolazione, lo svolgimento di consultazioni in merito alla semplificazione è in grado di arricchire il processo decisionale in riferimento a più momenti: - per la rilevazione delle criticità generate dall’assetto regolativo vigente coloro su cui ricadono i costi burocratici possono dare indicazioni sugli ambiti procedimentali rispetto ai quali considerano prioritario ridurre il livello di complicazione; - in merito alla stima degli oneri imposti dal procedimento in vigore; - nell’elaborazione di ipotesi di cambiamento delle norme e prassi attualmente seguite: imprese e cittadini possono suggerire opzioni che, pur coerenti con gli obiettivi dell’amministrazione, presentano il miglior rapporto costi/benefici per l’utenza; inoltre, la 89 consultazione consente di “dare voce” non solo ai soggetti favorevoli ad un cambiamento della disciplina attuale, ma anche ai contro-interessati, evidenziando, così, i rischi che possono comportare le modifiche ipotizzare; - ai fini del monitoraggio e della valutazione ex post dei cambiamenti introdotti a seguito della semplificazione. Dal punto di vista metodologico, un elemento determinante per disegnare interventi di semplificazione efficaci è l’elaborazione ed il confronto di una pluralità di opzioni. Queste opzioni, pur tutte coerenti con gli obiettivi specifici di riduzione dei tempi e degli oneri, dovrebbero essere costruite come modalità tecniche alternative e, dunque, potrebbero essere caratterizzate da interventi anche fortemente diversi, riconducibili alle seguenti tipologie100: - interventi di eliminazione, per sopprimere un procedimento amministrativo inutile o dannoso o che abbia un rendimento minore di altre forme di intervento, come, ad esempio, l’esternalizzazione; - interventi di riduzione, finalizzati ad elidere singole fasi procedimentali o specifici adempimenti al fine di rendere più spedita e/o meno onerosa l’azione amministrativa; - interventi di razionalizzazione, cui si fa ricorso per rendere più agevole la composizione degli interessi e il coordinamento tra i diversi soggetti pubblici e privati (es. accordi di programma, conferenze dei servizi); - interventi di informatizzazione, nonché quelli riguardanti l’organizzazione e la gestione delle risorse umane, finalizzati ad accrescere l’efficienza dell’amministrazione e ad ottimizzare l’iter procedimentale. Ciascuna delle opzioni predisposte deve essere valutata e comparata allo scopo di individuare quella ritenuta migliore. Questa operazione dovrebbe essere realizzata facendo riferimento ad una pluralità di criteri. Innanzitutto, occorre verificare l’efficacia dell’intervento proposto, in termini di riduzione dei tempi e degli oneri amministrativi; ciò può avvenire sulla scorta delle rilevazioni e delle stime effettuate con riferimento alla situazione attuale, nonché, ancora una volta, grazie al confronto con i beneficiari finali o i loro rappresentanti. In secondo luogo, deve essere verificata la compatibilità dell’intervento di semplificazione proposto con le condizioni necessarie per la sua attuabilità: di tipo finanziario ed organizzativo (relative, quindi, alla presenza nell’amministrazione locale delle necessarie risorse e competenze), ma anche socio-economiche, riferite, cioè, all’impatto sui destinatari. Infine, non può mancare una valutazione relativa ai rischi che un intervento di 100 Per un’analisi più approfondita di ciascuna di queste tecniche di semplificazione si rimanda a A. Natalini, , Il Mulino, Bologna, 2002. /H VHPSOLILFD]LRQLDPPLQLVWUDWLYH 90 semplificazione può comportare: il giusto accento posto sulla riduzione dei tempi e degli oneri non deve portare a sottovalutare i possibili danni di una semplificazione “improvvisata”, in termini di affievolimento della tutela di certi interessi pubblici (ad esempio, in campo ambientale) o di effetti perversi sul funzionamento dell’amministrazione (derivanti, ad esempio, dal venir meno di dati fondamentali per l’effettuazione di eventuali controlli). Il percorso di valutazione non è finalizzato solo ad individuare la “migliore” opzione, ma anche a dare evidenza pubblica alla scelta compiuta dall’amministrazione comunale. L’assetto procedimentale “preferito” deve nascere da una decisione che deve essere motivata in modo trasparente. Ciò consente a chi deve attuare la semplificazione all’interno dell’amministrazione e ai destinatari del provvedimento che dovranno continuare ad adempiere gli oneri burocratici destinati a permanere di comprendere meglio le ragioni delle decisioni adottate e, in definitiva, di aumentarne la legittimazione. Giova evidenziare che sia la predisposizione di una pluralità di opzioni, sia la loro valutazione, dovrebbero rispondere ad un principio di proporzionalità: è inutile, oltre che controproducente, pretendere che per ogni intervento di semplificazione siano elaborate più opzioni qualora (nel caso specifico) la soluzione praticabile o preferibile sia chiaramente una sola; al tempo stesso, il grado di approfondimento della valutazione deve essere calibrato in funzione della rilevanza del procedimento e del livello di criticità del suo funzionamento. Assumere una decisione coerente con gli obiettivi fissati, all’interno dei vincoli interni ed esterni all’amministrazione, è sempre arduo, ma è solo un punto di partenza di un processo di attuazione della semplificazione molto complesso, suscettibile in ogni suo passaggio di subire bruschi arresti, deviazioni e arretramenti. Per questa ragione, l’amministrazione comunale dovrebbe predisporre un piano di attuazione che individui i soggetti responsabili, le modalità operative che essi devono seguire per svolgere il proprio compito e la scadenza entro la quale esso deve essere portato a termine. Oltre a monitorare continuamente la realizzazione di questi piani, le amministrazioni pubbliche dovrebbero mettere sotto osservazione gli effetti generati dall’intervento semplificatorio sotto tre profili: la riduzione effettiva dei tempi di realizzazione del procedimento nel suo complesso e delle fasi che lo compongono; la diminuzione degli oneri amministrativi gravanti sui destinatari; il grado di apprezzamento dell’intervento di semplificazione da parte dei beneficiari dell’intervento, anche attraverso tecniche di FXVWRPHUVDWLVIDFWLRQ. 91 & / ÁÂ0ÃÄÅÆÅ ,9 Á4ÇÅÅÂÈÉÁÊÃÅËÈ5Ã!ËÄÈÉÃÌ6ÄÃÄÍÊÃÅËÁÆÈÂÈÉ#ÆÅ3Ì1ÎÃ!ÆÍÂÂ0Å4ÏÈÆ'Ì-ÃÌÄÈÐ.Á%ÏÃÌ-ÈÉÎÃ!Êà GL$QGUHD*DQ]DUROLH/XLVD7LUDRUR ,QWURGX]LRQH La competitività dei servizi deve essere sviluppata a partire dalla ricerca della massima collaborazione possibile tra enti e soggetti a vario titolo coinvolti su un’area territoriale. In tal senso sta muovendosi anche il processo in corso di scrittura del nuovo codice delle Autonomie, in sostituzione dell' attuale Testo unico degli enti locali. Vengono, innanzitutto, introdotte alcune riflessioni dal punto di vista dell’impresa di servizi che opera e si relaziona nel proprio contesto territoriale; si intendono inquadrare ed approfondire alcune tematiche proprie della knowledge-based economy o economia della conoscenza, proprio con riferimento alla capacità di competere delle imprese, attraverso lo studio delle modalità di apprendimento e gestione della conoscenza e della qualità del contesto relazionale locale. Si tratta di indagare, altresì, lo spessore del contesto locale nel sostenere i processi di sviluppo dell’impresa, all’interno del Sistema Produttivo Locale di riferimento. Si concentra poi l’attenzione sul tema della governance interistituzionale, e si prende spunto dal caso francese dell’Agglomération, cioè delle forme volontarie di associazione intercomunale previste dalla normativa francese, per comprendere in che modo gli enti locali si possono associare per favorire lo sviluppo economico delle imprese attraverso iniziative comuni che attengono a differenti funzioni degli enti: pianificazione del territorio, l’infrastrutturazione, lo sviluppo sociale e culturale, la mobilità, i servizi ambientali. A partire da alcuni esempi di Agglomération, si riporta poi l’analisi alla realtà nazionale per evidenziare alcuni aspetti propri delle realtà associative italiane, alcune criticità e le opportunità offerte dalla riforma delle autonomie locali, proprio con riferimento alle gestioni associate, oltre che dall’adozione da parte delle Regioni di leggi di incentivo e riordino del sistema di intercomunalità. Un sistema competitivo dei servizi deve muovere innanzitutto da un progetto di cooperazione tra enti, al quale poi deve poter seguire un processo di supporto agli attori per lo sviluppo economico locale che attiene principalmente alle scelte di localizzazione, alle modalità di finanziamento, allo ∗ Università Statale di Milano, Dipartimento di Scienze economiche, aziendali e statistiche. 92 sviluppo dei sistemi di Information & Communication Technology, all’erogazione dei servizi pubblici di mobilità, ambientali, energetici, ecc. per i soggetti imprenditori e per tutta la collettività di riferimento. /DFRPSHWLWLYLWjGHOWHUULWRULRQHOOD.QRZOHGJHEDVHGHFRQRP\ Il territorio, sino ad oggi, ha svolto un ruolo strategico nel sostenere i percorsi di crescita dell’impresa. Dopo il venire meno del potere organizzatore dell’impresa fordista a partire dalla fine degli anni ’60, il territorio o meglio alcuni territori sono stati in grado di fornire la piattaforma culturale e di competenze capace di dare forma ad un nuovo modello organizzativo fondato su di una fitta rete di relazioni tra PMI (Piccole e Medie Imprese) appartenenti ad una stessa comunità territoriale. Il vantaggio competitivo di questo modello, rispetto all’impresa fordista, era legato soprattutto alla superiore capacità di far fronte alla crescente complessità determinata dal moltiplicarsi e diversificarsi delle preferenze di consumatori intermedi e finali, dalla sempre maggiore liberalizzazione dei mercati e dal crescere delle interdipendenze tra gli stessi (globalizzazione). Fare rete permetteva, infatti, di moltiplicare i percorsi esplorativi, sfruttando l’autonomia di ciascuna impresa della rete, condividendone i risultati, attraverso il potere diffusivo della rete. Il recente ulteriore aumento della complessità, alimentato dalla transizione in corsa da un’economia industriale ad una basata sulla conoscenza, ha messo in evidenza l’insufficienza del territorio come integratore. Anche le comunità territoriali sono cognitivamente limitate. Non è più sufficiente condividere il proprio sapere all’interno della ristretta rete delle “partnership locali”, ma è necessario aprirsi e condividere il valore delle proprie conoscenze anche al di fuori del proprio territorio. La ragione è duplice. In primo luogo, estendere la rete significa ampliare la propria base del sapere direttamente accessibile e facilmente integrabile aumentando la flessibilità e la capacità di risposta della singola impresa e del territorio. In secondo luogo, è impensabile che il territorio possa detenere e/o produrre autonomamente tutte le conoscenze e competenze richieste per essere competitivi in una economia che si basa sempre più sulla conoscenza. I sistemi territoriali sono chiamati, perciò, ad intraprendere dei percorsi di specializzazione estendendo, allo stesso tempo, la propria capacità relazionale verso territori con specializzazioni complementari. Prima di passare ad analizzare le implicazioni che questo scenario ha sulle politiche di governance e quindi per la domanda di servizi al territorio, ci sembra utile approfondire brevemente i due aspetti, che più di altri, qualificano lo scenario appena delineato. Questi sono rispettivamente la globalizzazione e la transizione verso un’economia basata sulla conoscenza. 93 Il termine globalizzazione è spesso utilizzato con una duplice accezione. Per alcuni globalizzazione significa semplicemente convergenza od omogeneizzazione verso uno standard comune. Questo significa una progressiva erosione delle differenze tra culture come conseguenza del diffondersi del potere razionalizzante e mono-culturale intrinseco nell’economia. Gli strumenti di omogeneizzazione sono spesso identificati nella finanza e nelle multinazionali, che con il loro agire e con il loro potere di “ricatto” nei confronti degli stati nazionali sono in grado di imporre i propri standard. La seconda accezione, che coincide con il nostro modo di vedere, intende la globalizzazione come un processo relazionale. Il termine più adatto per qualificare questo processo è transnazionalizzazione. Se è evidente che i processi di liberalizzazione e lo sviluppo dei sistemi di trasporto e comunicazione hanno determinato un aumentato grado di interdipendenza tra i paesi, questo non significa che questi rappresentino necessariamente la via verso l’omogeneizzazione. La scienza e la cultura, al contrario, possono costituire la base su cui costruire un dialogo virtuoso tra culture. Porre le basi per questo dialogo richiede, da una parte, stimolare lo sviluppo del contesto istituzionale in senso transnazionale in modo da garantire la definizione di un sistema, benché minimo, di regole comuni. Dall’altra, e questo rappresenta il tema centrale di questo contributo, stimolare processi aggregativi a livello locale sia tra istituzioni ed enti pubblici e sia tra istituzioni pubblici ed istituzioni private. Il rafforzamento di questa infrastruttura locale costituisce la premessa su cui costruire una maggiore concertazione tra pubblico, privato e cittadini nello sviluppo competitivo del proprio territorio101. Il secondo aspetto che contraddistingue lo scenario appena delineato è la transizione verso un’economia basata sulla conoscenza. Con questo concetto, dice Foray (2004), non si vuole solamente segnalare il ruolo strategico della conoscenza nei processi di produzione e consumo. La crescita nell’impiego di questo capitale è una tendenza consolidata ormai da alcuni secoli. Ciò che si vuole enfatizzare è come il combinarsi di questa risorsa con le tecnologie informatiche e della comunicazione abbiano prodotto una “miscela esplosiva”, capace di moltiplicare il peso degli investimenti in conoscenza negli ultimi cinquanta anni. La conoscenza, in altre parole, ha trovato in queste tecnologie un moltiplicatore (Rullani, 2004a) capace di garantire: 1. un progressivo aumento della produttività del lavoro cognitivo (Foray, 2004); 2. un abbattimento dei costi di riproduzione di conoscenze codificate; 3. un allargamento sostanziale del mercato per questa risorsa. Lo sviluppo di queste tecnologie, però, non si è limitato solamente a modificare quantitativamente il mercato di questa risorsa, ma anche qualitativamente i processi di produzione e 101 Si veda in proposito il saggio illuminate di Maffettone (2006), /DSHQVDELOLWjGHO0RQGR, il Saggiatore. 94 consumo. Il caso di Linux ovvero di un sistema operativo con prestazioni superiori allo standard Windows interamente sviluppato attraverso il contributo YRORQWDULR di una moltitudine globale integrata attraverso Internet di utenti che sono e diventano anche sviluppatori è segnaletico dell’evoluzione in corso. La disponibilità a costi sempre inferiori di comunicazione e di strumenti interattivi virtuali pongono serie questioni sul ruolo che il territorio può giocare all’interno dell’attuale sistema economico. Inoltre, la libertà di circolazione della conoscenza, unitamente alla continua rigenerazione e rinnovamento di sé stessa, all’interno di reti sempre più lunghe e aperte diminuiscono il ruolo tradizionalmente assegnato al territorio102. Stiamo transitando, come suggerito di recente da Cooke e Leydesdorff (2006) in una fase dove il vantaggio competitivo derivante dal territorio non può più essere solamente il prodotto di una sedimentazione storica (Krugman, 1995; Porter, 1985), ma deve essere costruito attraverso una JRYHUQDQFH attiva delle risorse cognitive e relazionali che sono localizzate e/o potenzialmente accessibili/appropriabili in un territorio (Triglia, 2005). Il rischio è che le competenze chiave (FRUH FRPSHWHQFHV ), che hanno fatto la fortuna di alcuni sistemi territoriali, si trasformino in fattori di rigidità (FRUH ULJLGLW\), che inibiscono la capacità degli stessi di aprirsi alla condivisione di conoscenze al di fuori dello stretto recinto che delimita la conoscenza, l’esperienza e la fiducia locale (vedi Box 1). %R[5LFDPELRJHQHUD]LRQDOHHLQQRYD]LRQHQHLVLVWHPLSURGXWWLYLWHUULWRULDOL La base imprenditoriale, che ha permesso di moltiplicare le capacità esplorative e di ricerca a disposizione dei sistemi produttivi locali e di minimizzare i rischi collettivi associati al processo innovativo, non sembra capace di rinnovare se stessa. Il ricambio generazionale non sembra contribuire ad innalzare il livello delle competenze a disposizione del sistema (A. Ganzaroli, Fiscato, e Pilotti, 2006a). L’apprendimento ha mantenuto una base sostanzialmente locale e fondata sul OHDUQLQJE\GRLQJ. Le ragioni principali sono due. In primo luogo, il processo di ricambio non è adeguatamente pianificato. La maggioranza delle imprese è trasferita nel ristretto ambito delle relazioni famigliari. Questo porta ad una bassa propensione ad investire nella formazione dell’imprenditore nuovo entrante. In secondo luogo, gli imprenditori mostrano una bassa propensione ad investire in una maggiore managerializzazione dell’impresa, con l’introduzione di competenze specialistiche e di alto profilo esterne alla famiglia. L’imprenditorialità diffusa, perciò, 102 Il VRIWZDUH 2SHQ 6RXUFH rappresenta un caso paradigmatico di libertà di circolazione della conoscenza. In questo modello di sviluppo, che si contrappone a quello fondato sulla tutela della proprietà intellettuale, la libera disponibilità del codice sorgente alimenta una rete di esperienze e di interazioni individuali e collettive che alimentano a loro volta lo sviluppo del codice dando luogo ad un ecologia auto-propulsiva ed auto-generativa del valore (Andrea Ganzaroli e Pilotti, 2006). 95 da fattore propulsivo si sta tramutando in vincolo alla crescita della piccola e media impresa non tanto da un punto di vista puramente dimensionale, ma di qualità del capitale umano che vi lavora. Il capitale sociale, allo stesso modo, da fattore di sviluppo, perché consentiva di tradurre quasi spontaneamente il valore delle esperienze di ciascuno in valore collettivo per l’intera rete, rischia di divenire fattore di chiusura, perché limita lo spazio di interazione solo a coloro che sono conosciuti e/o che condividono lo stesso sistema di norme e valori perché riconoscibili come membri della comunità. Ganzaroli (2002), a questo proposito, ha evidenziato i limiti legati ad una base fiduciaria prevalentemente tacita, che limita enormemente la capacità di questi sistemi di scambiare e condividere conoscenza con l’esterno. Quali, quindi, le implicazioni di ordine politico e di governo del territorio che lo sviluppo di questi due processi – globalizzazione e transizione verso una economia basata sulla conoscenza – richiedono a salvaguardia e/o a supporto della competitività del territorio? La nostra riposta è duplice. Investire nella: 1. apertura all’esterno dei sistemi locali 2. capacità di appropriazione e distribuzione del sapere103. L’apertura all’esterno richiede di sapersi relazionare con la diversità. La presenza all’interno di uno stesso spazio di un insieme eterogeneo di valori, come suggerito da Florida (2002; 2005), costituisce una delle componenti chiave della creatività o, come la definisce Legrenzi (2005), della quasi-creatività. La creatività è stata tradizionalmente considerata un carattere innato e, quindi, non allenabile. Tuttavia, studi recenti hanno dimostrato che la creatività tende ad emergere come fattore diffuso in “territori” dove prevale la diversità. Gli studi di De Bono (1998), a questo proposito, mostrano che la creatività “individuale” è il prodotto della capacità di sviluppare connessioni tra ambiti di specializzazione cosiddetti distanti. È il prodotto, come dice lo stesso De Bono, del saper pensare lateralmente come contrapposto al pensiero verticale DOOD 6LPRQ . Il sistema territoriale svolge, a questo proposito, un ruolo fondamentale non per la nostra formazione, ma anche e soprattutto come infrastruttura relazionale capace di sostenere lo sviluppo di questi EULGJH culturali. È evidente, perciò, che la creatività tende ad emergere come competenza diffusa in territori che 103 Tali riflessioni e le indicazioni di policies che seguono sono tratte dall’analisi dei risultati del progetto D.E.S.K. (District and local system Enhancement through Sharing Knowledge) — finanziato dalla Regione Emilia-Romagna nell’ambito del FSE - Ob.3 - n. 785/03 — che si è posto l’obiettivo di analizzare la specificità di nove distretti e filiere produttive della Regione Emilia-Romagna, assumendo come prospettiva la capacità di utilizzare e formalizzare il sistema di conoscenze presenti nel sistema locale e fra sistemi locali. 96 sono culturalmente ricchi, ma che allo stesso tempo sono in grado di integrare conoscenze e competenze diverse e distanti tra loro (Florida, 2002). È in questa prospettiva che la tolleranza, come dice lo stesso Florida (2002), costituisce, al pari di talento e tecnologia, una componente fondamentale della creatività di un territorio. La tolleranza reciproca, quindi, come ponte cognitivo capace di stimolare la contaminazione tra sistemi di valori, conoscenze e competenze diverse tra loro. Una tolleranza, però, che non è “imposta per legge”, ma intimamente condivisa da tutti perché fonte di felicità (Bruni, Zamagni, 2004). È evidente, a questo punto, che uno dei limiti principali alla base del mancato sviluppo dei sistemi produttivi locali italiani degli ultimi anni è la natura prettamente locale del capitale sociale che si è formato con il sedimentarsi delle esperienze di interazione all’interno di una comunità omogenea di individui (A. Ganzaroli, 2002). Questo capitale caratterizzato da omogeneità culturale e prossimità geografica ha dato vita a fenomeni di ORFNLQ dei saperi e dei valori che richiedono di essere sorpassati. La sostenibilità di questi sistemi oggi passa, sia per la definizione di infrastrutture adeguate a sostenere la socializzazione e la collaborazione tra soggetti che non condividono lo stesso sistema di norme e valori104, sia per la definizione di ponti cognitivi e di garanzia capaci di sostenere il dialogo a distanza tra parti che non si conoscono e che non condividono una comune base di esperienza e conoscenza (A. Ganzaroli, Pilotti, 2005). Interessante, a questo proposito, è iniziare a valutare gli spazi di socializzazione e coesione sociale legati all’imprenditorialità. Nello specifico si tratta di valutare se e in che misura l’imprenditorialità extra-europea possa costituire uno strumento di VRFLDOFRKHVLRQ. L’altra componente che si è ritenuta strategica per la sostenibilità del territorio è, come anticipato precedentemente, la capacità di appropriazione. Il tema dell’appropriabilità è oggi al centro del dibattito teorico. La conoscenza, infatti, è una risorsa, per sua natura, poco appropriabile la cui produzione, però, richiede elevatissimi investimenti iniziali (Foray, 2004). Il dibattito, attualmente, è caratterizzato dalla contrapposizione tra due scuole di pensiero. La prima − che fa capo alla scuola neoclassica − ritiene che la conoscenza sia totalmente traducibile in informazione. Per cui gli incentivi a produrre conoscenza dipendono sostanzialmente dalla difendibilità del brevetto quale strumento di tutela degli investimenti nella produzione di nuova conoscenza. La seconda, di matrice evoluzionista, ritiene che l’appropriabilità della conoscenza sia strettamente legata, da una parte, alla complessità della conoscenza stessa e, dall’altra, alle competenze a disposizione (Pilotti, Ganzaroli, Fiscato, 2007). La prospettiva evoluzionista è fondata sulla distinzione tra conoscenze codificate e tacite (Belussi-Pilotti, 2006). Solo le conoscenze codificate, ovvero quelle che sono perfettamente 104 Non ci riferiamo, in questo senso, al solo problema dell’immigrazione anche se ne riconosciamo l’importanza. 97 rappresentabili attraverso un linguaggio, sono trasferibili a basso costo e danno luogo a problemi di appropriabilità. Le conoscenze tacite, al contrario, sono difficilmente trasferibili ed appropriabili al di fuori del contesto di produzione. Il significato di tali conoscenze è radicato (HPEHGGHG) nel sistema delle relazioni e delle esperienze che le hanno prodotte e sono di difficile articolazione. È evidente che una conoscenza che è completamente tacita ha poco valore perché è replicabile solo all’interno del contesto dove è stata prodotta (Foray, 2004; Rullani, 2004a). Quindi, anche in assenza di un sistema che tuteli la proprietà intellettuale queste conoscenze sono difficilmente appropriabili da coloro che non hanno partecipato alla loro produzione. Solamente attraverso il processo di codificazione è possibile raggiungere una scala di replicazione sufficientemente ampia da giustificare l’investimento che l’ha prodotta. La principale differenza tra evoluzionisti e neoclassici, riguarda la possibilità o meno di codificare tutta la conoscenza. La qualità dei processi di codificazione e de-codificazione della conoscenza dipende anch’essa da fattori contestuali ed esperienziali. Di conseguenza questi due processi – codificazione e de-codificazione – sono essi stessi generatori di conoscenze tacite e poco replicabili (Foray, 2004). Partendo da queste ipotesi e sostenendo le ipotesi di stampo evoluzionista si arriva a comprendere l’importanza di una maggiore apertura del sistema brevettuale che stimola la creatività e favorisce la rigenerazione dei contesti di conoscenza ed esperienza (Farrell, Shapiro, 2005). Questo anche in virtù del fatto che la creatività non è stimolata da soli incentivi monetari, ma anche da fattori auto-motivazionali come la gratificazione del proprio io (Lessig, 2004; Rullani, 2004a). Non è tra gli obiettivi di questo contributo discutere in maniera estesa, quale tra le due prospettive (neoclassica ed evoluzionista) sia più ragionevole. Tuttavia, a nostro modo di vedere il processo di replicazione della conoscenza non è fine a se stesso, ma è esso stesso produttore di nuove conoscenze e nuove competenze (Rullani, 2005). È esso stesso, in altre parole, produttore di conoscenze tacite (Nonaka, Takeuchi, 1995). Nella nostra prospettiva, pur non marginalizzando il ruolo di stimolo svolto dalla proprietà intellettuale, riteniamo che continuare ad accumulare conoscenze e competenze specifiche costituisca il modo migliore per difendere i propri investimenti in innovazione. L’innalzamento e l’estensione della base di conoscenze gioca un ruolo fondamentale nell’assicurare la competitività. È necessario spostare il IRFXV della conoscenza dal “saper fare” ad attività a maggiore valore come la progettazione (nuovi materiali, nuove tecniche, modularità etc.), la comunicazione e la commercializzazione. Solo a questa condizione i sistemi 98 produttivi locali105 (SPL) italiani saranno in grado di partecipare attivamente alla produzione globale di conoscenza appropriandosi ed internalizzando parte del valore generato da tale processo. ,O UXROR GHOO¶DVVRFLD]LRQLVPR QHO VRVWHQHUH OD FRPSHWLWLYLWj GHO WHUULWRULR JOL LQGLUL]]L GL SROLF\ Nel paragrafo precedente si sono identificati gli elementi costitutivi dello scenario competitivo entro cui si muovono le nostre istituzioni locali. Per fare un passo in avanti è utile identificare i principali elementi critici su cui costruire una agenda per la cooperazione inter-istituzionale e di natura pubblico-privata. Isaksen (2001) individua tre principali barriere alla costituzione di efficaci UHJLRQDO LQQRYDWLRQ V\VWHP . Quest’ultimo, infatti, sostiene che tipicamente esistono tre tipi di inefficienze che limitano l’efficienza del sistema innovativo regionale. La prima è la presenza di fattori di ORFNLQ che inibiscono le capacità della rete di apprendere ed evolvere su superiori WHFKQRORJLFDO SDWWHUQ . La seconda è la debolezza organizzativa (2UJDQL]DWLRQDO ³WKLQQHVV´) che consegue dalla mancanza di attori capaci di creare OLQNV strategici per l’accesso e all’appropriazione di risorse innovative localizzate all’esterno del sistema regionale. La terza, infine, deriva dalla mancanza di un tessuto locale capace di sostenere la cooperazione spontanea, fondata sulla fiducia reciproca, tra le imprese lungo il processo innovativo (Tabella 1). 7DEHOOD'HILQL]LRQHGHJOLVWUXPHQWLGLSROLF\SHUFDWHJRULDGLSUREOHPD±QRVWUDHODERUD]LRQH,VDNVHQ PROBLEMA DEL SISTEMA INNOVATIVO REGIONALE LOCK-IN CARATTERIZZAZIONE DEL POSSIBILI STRUMENTI DI PROBLEMA POLICY Esistenza di fattori che inibiscono la Aprire la rete verso attori esterni e capacità di apprendere ed evolvere mobilitazione delle risorse locali compatibilmente con l’evoluzione “tecnologica” nel campo presidiato. ORGANIZATIONAL “THINNESS” FRAGMENTATION Mancanza di attori strategici per il Costruzione di link a risorse esterne + processo innovativo acquisizione Mancanza di reciproca fiducia cooperazione e Sviluppo di beni collettivi/club e stimolare collaborazione 105 Il nostro contributo utilizza una definizione di Sistema Produttivo Locale (SPL) in senso ampio (Becattini, Rullani, 1996; Belussi, 1999). Essa comprende, sia i tipici distretti industriali, sia i meta-distretti, sia le filiere governate da imprese leader, sia i FOXVWHU territoriali. 99 ,QWHUYHQWLDVXSSRUWRGHOODULPR]LRQHGHLIDWWRULGLORFNLQ Una delle criticità maggiori che spesso emerge nelle analisi empiriche dei sistemi territoriali è la difficoltà di questi sistemi a spostarsi verso nuove traiettorie tecnologiche e di sviluppo. Questo si deve alla concomitanza di due processi che rafforzandosi reciprocamente contribuiscono a ridurre sempre più la capacità del sistema di apprendere ed evolvere compatibilmente con i cambiamenti e l’evoluzione tecnologica in corso: - l’eccessivo orientamento alla produzione che contraddistingue molte di queste imprese con l’effetto di favorire la sola produzione ed auto-selezione di competenze tecniche e di processo molto sofisticate, ma insufficienti a sostenere la capacità dell’impresa di partecipare attivamente a reti globali di progettazione e produzione di nuova conoscenza; - l’inefficienza dell’infrastruttura locale a supporto dell’apprendimento, creazione e trasferimento della conoscenza. Per rompere questo ciclo vizioso bisogna intervenire contemporaneamente su entrambe le determinanti del problema. È quindi necessario agire sulla qualità delle conoscenze e competenze interne alle imprese per espandere la capacità di assorbimento e creazione di nuova conoscenza. Gli strumenti principali, da questo punto di vista, sono due: - la formazione delle risorse interne; - l’inserimento di nuove risorse. È necessario migliorare l’efficienza e l’efficacia dell’infrastruttura di trasferimento ed appropriazione della conoscenza. Gli interventi, in questa prospettiva, si devono muovere in due direzioni principali: - agire sul grado di internazionalizzazione del sistema universitario e della ricerca con lo scopo di migliorare l’accesso e l’appropriabilità delle risorse esterne al sistema; - agire sul grado di HPEHGGHGQHVV dello stesso. La difficoltà nel trasferire nuove conoscenze e tecnologie alle imprese non è semplicemente imputabile all’impresa, ma anche al sistema della ricerca che non è in grado di comunicare il valore e trasferire le conoscenze allo specifico ambito applicativo. Per fare ciò è necessario creare spazi di interazione capaci di integrare in modo efficiente ed efficace astratto e concreto. Gli strumenti a disposizione a questo proposito sono almeno tre: 100 - la costruzione di imprese a capitale misto pubblico/privato specializzate sulla ricerca e sviluppo tecnologico per il sistema106; - favorire l’attivazione di VSLQRII universitari su specifici ambiti disciplinari ed applicativi di interesse per il sistema; - favorire la localizzazione di imprese specializzate nel trasferimento tecnologico. ,QWHUYHQWLDVXSSRUWRGHOO¶LVSHVVLPHQWRRUJDQL]]DWLYR Il secondo aspetto critico che spesso emerge è il basso grado di apertura e di internazionalizzazione di questi sistemi. L’internazionalizzazione è divenuto un fattore competitivo importante per lo sviluppo di un SPL perché favorisce l’accesso a risorse esterne ad elevato valore aggiunto che sono strategiche per migliorare la capacità di questi sistemi di produrre nuova conoscenza sulla base di stimoli provenienti da diversi contesti culturali ed applicativi. Estendere la capacità di interazione di queste imprese al di fuori del contesto locale richiede, da una parte un’operazione di formazione, finalizzata a fornire le imprese con le risorse cognitive necessarie ad interagire in un contesto multi-culurale, e dall’altra la definizione di un pacchetto integrato di interventi diretti finalizzato a supportare l’impresa nel processo di internazionalizzazione. Per quanto concerne questo ultimo punto gli interventi prioritari sono: - la definizione di un’infrastruttura di supporto alla ricerca di partner internazionali che garantisca almeno nelle fasi iniziali per la qualità e l’affidabilità della controparte; - la definizione di un sistema di incentivazione di stimolo non solo per l’internazionalizzazione della singola impresa, ma per l’intero SPL attraverso strumenti che facilitino la formazione di SDUWQHUVKLS orizzontali e verticali finalizzate allo scopo. - la definizione di un sistema d’incentivazione che funga da stimolo per l’adozione delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione per la gestione e l’integrazione dellaVXSSO\FKDLQ. ,QWHUYHQWLDVXSSRUWRGHOUDIIRU]DPHQWRGHOODFRRSHUD]LRQHQHOFRQWHVWRORFDOH L’ultimo ambito di SROLF\ ha come oggetto la rivitalizzazione della fiducia reciproca all’interno del contesto locale. La fiducia reciproca ha costituito, e in molti casi costituisce tuttora, una delle 106 Questa strategia è stata ampiamente utilizzata con risultati anche molti diversi da contesto a contesto in relazione alla capacità di queste imprese di entrare in relazione. 101 leve di vantaggio competitivo di primaria importanza per questi sistemi perché ha consentito di abbattere i costi di coordinamento e controllo all’interno del sistema (A. Ganzaroli, 2002). L’integrità di questa fiducia oggi è messa sotto pressione dalle crescenti tensioni generate dalla progressiva apertura di questi sistemi, che non possono più contare su minori costi di coordinamento e controllo per essere competitivi in termini di prezzo. La fiducia continua a rappresentare un valore perché permette di estendere ulteriormente la base di apprendimento condividendone i rischi. Questo allargamento richiede una progettualità condivisa e non può più essere conseguito come in passato sulla base di una cooperazione informale. Richiede, per esempio, la volontà di collaborare con i propri concorrenti locali in attività quali la ricerca e sviluppo, il EUDQGLQJ e lo sviluppo di sistemi informatici per l’integrazione della FR VXSSO\ FKDLQ . L’incapacità di sostenere forme di collaborazione che richiedono un maggior coinvolgimento imprenditoriale ed innovativo (Triglia, 2005) è il limite che il capitale fiduciario accumulato in questi sistemi mostra. Per intervenire su questi aspetti è necessario mobilizzare le risorse HPEHGGHG nel sistema, poiché ogni intervento esterno sarebbe percepito come alieno al sistema107 e quindi non produrrebbe alcun risultato in termini di vitalità alla fiducia locale e interdipendenza tra gli attori. Lo stimolo ad entrare in relazione l’uno con l’altro è dato dalla partecipazione comune a progetti specifici, competizioni, fiere ed altre eventi/manifestazioni può giocare un ruolo fondamentale nel creare nuovi ed inesplorati spazi di relazioni. In questa prospettiva la sola fornitura di supporto finanziario può essere controproducente e distorsiva poiché: 1. Incentiva le aziende OHDGHU , alla ricerca di minimizzare il rischio di insuccesso relazionale, a creare reti gerarchiche; 2. Limita l’attivazione e la mobilitazione di risorse sociali oltre che imprenditoriali, relegando il capitale sociale in un ruolo di secondo piano. Pertanto, l’uso della leva del finanziamento diretto alle imprese deve essere limitato in favore di progetti e azioni che favoriscano l’accesso ai capitali di rischio e creino maggiore interdipendenze tra le imprese e allo stesso tempo assicurino garanzie forti sul FRPPLWPHQW e sulle finalità. 107 Si veda a questo proposto Ganzaroli e Pilotti (2004) dove si segnalano i limiti di un sistema basato prevalentemente sulla fiducia codificata perché limita il grado di interdipendenza tra gli attori eliminando il bisogno di entrare in relazione con l’altro. 102 /DFRRSHUD]LRQHLQWHULVWLWX]LRQDOHSHUORVYLOXSSRHFRQRPLFRORFDOH Fino a questo punto l’attenzione è stata focalizzata sul cosa fare. È quindi necessario passare al come ovvero agli strumenti di governance che possono essere utilizzati per favorire lo sviluppo del territorio in tal senso. Il punto di partenza di questo percorso è dato dal caso francese dell’Agglomération. Un caso di successo da cui è possibile prendere spunto per la definizione di strumenti utili a sostenere la cooperazione volontaria tra enti. ,OFRQWHVWRQRUPDWLYRHWHUULWRULDOHGLGLIIXVLRQHGHOOHIRUPHGLFRRSHUD]LRQHLQWHUFRPXQDOH Fin dal 1892 la Francia vanta una lunga tradizione di forme di cooperazione intercomunale. La più frequente è quella del Syndacat Intercommunal, cioè una forma associativa tra enti di tipo consortile, che può essere: - à vocation unique (Syndacat Intercommunal per la gestione dei servizi ambientali idrico e rifiuti urbani, ad esempio); - à vocation multiple, in relazione al numero di funzioni delegate dai comuni aderenti, come nel caso dei Districts e delle Communautés des Communes. I Syndacats Intercommunaux à Vocation Multiple (S.I.V.O.M.) hanno la responsabilità di più servizi (acqua potabile, raccolta rifiuti, trasporti, istruzione, ecc.). Dagli anni ’60 è andata sviluppandosi una forma più evoluta di cooperazione, la Communauté Urbaine, propria delle aree metropolitane, che prevede forme di quasi-fusione con la delega di funzioni da parte degli enti locali in merito alle responsabilità nell’erogazione dei servizi pubblici. Infatti, a fronte dell’elevato numero di enti locali, la Francia ha creato, con la Legge del 31 dicembre 1966, le Communautés Urbaines per risolvere il gap tra la dimensione delle strutture amministrative di ciascun ente locale e la realtà degli ambiti territoriali sovracomunali. L’obiettivo era quello di gestire i servizi pubblici in modo più razionale e solidale, pensare allo sviluppo urbano in termini di ambito territoriale e non più comune per comune, ed, infine, per programmare, finanziare e realizzare le infrastrutture necessarie, ma troppo onerose per il singolo ente locale. A seguito della legge sono state create le Communautés Urbaines di Lione, Lille, Bordeaux e Strasburgo. Dopodiché, sono state create, in forma volontaria e facoltativa, le dieci Communautés di Alençon, Arras, Brest, Cherbourg, Dunkerque, Le Creusot-Montceau-les-Mines, Le Mans, Nancy, Marseille e Nantes. A partire dalle leggi di decentralizzazione del 1982-1983, è aumentato, inoltre, il ruolo dei Departement nell’erogazione dei servizi, in particolare per le aree rurali, con 103 funzioni di supporto quali competenze tecniche, sussidi agli investimenti, sistemi integrati di finanziamento. Nel caso in cui il Departement sia direttamente coinvolto nella gestione del servizio si parla di Syndacat Mixte. Il processo di concentrazione in atto è stato rafforzato e reso sistematico grazie anche alla Legge Chevènement del 12 luglio 1999108 che ha proposto una semplificazione e sistematizzazione della cooperazione intercomunale attraverso tre principali forme: − Communauté Urbaines, aree metropolitane con più di 500 mila abitanti; − Communauté d’Agglomeration, aree metropolitane con più di 50 mila abitanti e con una città con più di 15 mila abitanti; − Communauté de Communes, per le aree rurali ed i piccoli comuni. La Legge Chevènement ha avuto il principale obiettivo di assegnare agli enti intercomunali le competenze giuridico-fiscali che permettono di gestire una ampia gamma di iniziative (sviluppo economico, pianificazione urbanistica e dei trasporti, edilizia e protezione ambientale) e di elaborare una strategia di sviluppo locale. Tali enti sono definiti EPCI, cioè Etablissements Publics de Coopération Intercommunale ed hanno competenze obbligatorie e facoltative, che possono essere totali o riguardare solo la parte di interesse della intercomunalità. In particolare le Comunità Urbane e quelle d’Agglomération hanno da statuto competenza sullo sviluppo economico e sulla pianificazione ed assetto del territorio; la Communauté Urbaine è la forma più integrata di cooperazione intercomunale e per legge ha competenza, oltre che sulle funzioni della communauté d’agglomeration (sviluppo economico, organizzazione delle aree, equilibrio sociale e politiche urbane), anche in materia di sviluppo e organizzazione economica, sociale e culturale, gestione servizi alla collettività ed in materia di ambiente. La tab. 2 descrive le attribuzioni per tipologia di EPCI. Da un recente studio sullo stato dell’intercomunalità francese del 2006, emerge con forza che le intercomunalità assumono sempre più comptenze facoltative per legge, ma sancite dallo statuto dell’Aggolmération, in particolare con riguardo all’edilizia residenziale pubblica, alla gestione dei rifiuti, al turismo. 108 Loi de simplification et de modernisation administrative du territoire français (Legge Chevènement). 104 7DEHOOD±/HFRPSHWHQ]HVWDWXWDULHIDFROWDWLYHHGRS]LRQDOLGHJOL(3&,IUDQFHVL )RQWH'*&/'LUH]LRQH*HQHUDOHGHOOH$XWRQRPLH/RFDOL 105 Al primo gennaio 2007 si rilevano 2.588 enti intercomunali a fiscalità propria, che raggruppano più di 33.400 comuni e 54,5 milioni di abitanti. Il 2006 ha visto la creazione di 5 nuove communutés d’agglomération, di cui 2 ex novo e 3 derivanti dalla trasformazione di enti già esistenti, e 33 communautés de communes. Tuttavia, tenendo conto dell’eliminazione e della fusione di communautés durante l’anno, che contribuiscono all’obiettivo di razionalizzazione delle autonomie locali, la crescita netta delle realtà intercomunali è limitata a 16, con ciò rilevando uno stadio ormai maturo dell’intercomunalità che ha pressoché coperto il territorio francese. Lo sforzo dell’intercomunalità viene perseguito anche attraverso l’estensione delle realtà intercomunali esistenti. In totale tale fenomeno ha interessato nel 2006 oltre 500 comuni. Il quasi completamento della mappa intercomunale francese lascia oggi spazio ad una fase di miglioramento 106 qualitativo dei perimetri esistenti ed al rafforzamento delle responsabilità in capo all’intercomunalità. /D)UDQFLDLQWHUFRPXQDOHQHOWUDSDUHQWHVLO¶HYROX]LRQHULVSHWWRDO 2.588 realtà intercomunali a fiscalità propria (+ 16) 33.414 comuni, all’incirca il 90% dei comuni (+ 512) 54,5 milioni d’abitanti, all’incirca il 90% dei francesi (+ 1,3 milioni ) $UWLFROD]LRQHGHOO¶LQWHUFRPXQDOLWj 169 Communautés d' agglomération (+5) 14 communautés urbaines 2. 400 communautés de communes (+12) 5 syndicats d’agglomération nouvelle (-1) )LJXUD ± /H IRUPH GHOOD FRRSHUD]LRQH LQWHUFRPXQDO IUDQFHVH H OD PDSSD GHOOH LQWHUFRPXQDOLWj XUEDQH &RPPXQDXWpG¶$JJORPpUDWLRQ6$1H&RPPXQDXWp8UEDLQH )RQWH$G&)±ÊWDWGHO¶,QWHUFRPPXQDOLWp Per le forme di cooperazione intercomunale fino al 1999 era possibile usufruire di una fiscalità solo di tipo addizionale, a partire dal sistema di tassazione degli enti locali di riferimento. Con il nuovo sistema introdotto con la Legge 6 febbraio 1992 e successivamente esteso con la Legge Chevènement del 1999, si introduce un nuovo regime fiscale: la Taxe Professionelle Unique (TPU), 107 un’imposta locale sulle attività produttive che si basa non più su criteri addizionali, ma di specializzazione a livello locale, in modo tale che la cooperazione intercomunale si possa sostituire ai singoli comuni per la sua riscossione, senza più attingere alla fiscalità addizionale sulle imposte comunali. Solo in alcuni casi permane la presenza di una fiscalità cosiddetta mista. L’obiettivo di tale sistema è quello di riequilibrare le forti disparità presenti tra comuni contigui, sia con riferimento al gettito complessivo che ai tassi applicati, in ragione del differente contesto di sviluppo imprenditoriale. Si tratta quindi di applicare un’aliquota uguale su tutto il territorio, partendo da una media dei tassi applicati in ogni comune dell’Agglomération, mediante un percorso graduale di omogeneizzazione a parità di pressione fiscale sull’intero territorio di riferimento. Inoltre, occorre ricordare che una parte considerevole delle entrate della TPU dell’Agglomération derivano dalla quota parte delle compensazioni versate dallo Stato, in continua crescita, e che lo Stato medesimo ha previsto con la Legge 12 luglio 1999 di versare annualmente alle forme intercomunali un incentivo finanziario che si traduce in un aumento del trasferimento di risorse di funzionamento (DGF o Dotation Globale de Functionnement). Per le Communauté d’Agglomeration nel 2002 sono stati stanziati in media Communautés Urbaines circa ¼ SHU DELWDQWH PHQWUH SHU OH ¼ SHU DELWDQWH 7DOH WUDVIHULPHQWR YDULD LQ IXQ]LRQH GHO JHWWLWR fiscale complessivo e della capacità di integrazione delle competenze. L’applicazione della TPU (Taxe Professionelle Unique) riguarda oramai 1.161 EPCI e 40,8 milioni di abitanti: ovvero la quasi totalità delle Communauté d’Agglomeration e delle Communauté Urbaine, ed, inoltre, quasi la metà delle Communauté des Communes che hanno adottato la TPU facoltativamente, abbandonado la cosiddetta fiscalità mista, cioè la fiscalità addizionale alle imposte locali. La crescita come si nota dalla tabella successiva è stata molto forte dal 1999 fino al 2004, passando da 111 a 1.028 Agglomérations in TPU. 108 7DEHOOD±)LJXUHH±/DGLIIXVLRQHGHOOD7D[H3URIHVVLRQHOOH8QLTXH738LQ)UDQFLD Con riferimento al funzionamento in concreto dell’intercomunalità in Francia si riportano due casi studio analizzati come best practice a livello locale della governance interistituzionale ed esterna in Francia: l’Agglomération de Rouen e la Communuté Urbaine di Lione (COURLY)109. /¶$JJORPpUDWLRQGH5RXHQ Il 1° gennaio 2000 viene costituita la Communauté d' Agglomération Rouennaise, a partire da un ente intercomunale già esistente nella forma di District (forma di associazione abrogata dal 2002). Attualmente aderiscono 45 comuni (nel 2000 erano 33) e la popolazione complessiva è di quasi 400 mila abitanti. Le funzioni e i relativi campi di intervento obbligatori per statuto in capo alla Communauté sono principalmente lo sviluppo economico e le politiche urbane e di mobilità, oltre che l’applicazione della Taxe Professionelle Unique, cioè la tassa applicata alle imprese operanti sul territorio. Grazie a questo strumento fiscale, la comunità evita di tassare direttamente le famiglie, ma innesta un virtuoso circuito di redistribuzione di risorse a partire dalle imprese che possono usufruire dei servizi prestati dalla Comunità all’imprenditoria – sotto forma di beni pubblici efficienti e di prestazioni specifiche. 109 I casi che seguono costituiscono una sintesi ed un aggiornamento del progetto di ricerca relativo alla governance interistituzionale ed esterna in Francia AA.VV., /D3XEOLFDJRYHUQDQFHLQ(XURSD, Francia, Quaderni Formez, 2004. 109 Come anticipato in precedenza, alcune competenze sono obbligatorie per statuto: sviluppo economico, pianificazione territoriale, gestione dei trasporti locali, edilizia residenziale, politiche urbane. Altre sono opzionali: distribuzione dell’acqua potabile, protezione ambientale. Altre ancora sono facoltative, cioè soggette all’eventuale approvazione da parte del Consiglio della Communauté. Nel caso in esame il Consiglio ha incluso anche la competenza su viabilità e aree di sosta, fognatura e depurazione, smaltimento rifiuti, gestione dei centri sportivi e culturali. Uno dei principali obiettivi dell’Agglomération di Rouen è quello del sostegno al dinamismo economico ed imprenditoriale dell’area, grazie alla creazione di infrastrutture che consentono un adeguato quadro di sviluppo imprenditoriale. Inoltre, l’attivazione PLIE (Piano locale per lo sviluppo occupazionale) – lanciato nel 1997 in partnerariato con lo Stato, la Regione Haute Normandie, il Dipartimento Seine-Maritime e l’Unione Europea – ha costituito un elemento fondamentale per lo sviluppo sociale, all’interno delle scelte dell’Agglomération che mirano a rispettare innanzitutto l’equilibrio tra i differenti comuni che la costituiscono. Sono infatti numerose le azioni svolte per consentire ai comuni minori di creare legami più forti con gli altri comuni, e di beneficiare pienamente dello sviluppo dell’Agglomération nel suo complesso. Sono 12 i comuni che contano meno di 3.500 abitanti, per i quali l’Agglomération ha effettuato specifici interventi di riqualificazione (lavori di messa a norma, sicurezza, restuaro, parcheggi,ecc.). Inoltre, le attività generali dell’Agglomération hanno favorito in particolare alcuni comuni, sia nel campo dei trasporti (attivazione di linee) che delle opere di fognatura e depurazione, oltre che per la raccolta rifiuti. Nell’ottobre del 2000 è stata siglata una convenzione quadro tra 12 comuni dell’Agglomération, che ha fissato per 6 anni i grandi orientamenti politici della città di Rouen, sulla base del Contrat de villes en agglomératon elaborato nell’ambito del quadro di cooperazione intercomunale. Tale convenzione è completata da alcune convenzioni specifiche sui temi dello sviluppo economico ed occupazionale, sulla prevenzione e la sicurezza dei cittadini, l’edilizia residenziale pubblica, l’accoglienza dei nomadi, ecc. Nella continuità della dinamica di cooperazione intercomunale che caratterizza tale area, il Consiglio dell’Agglomération di Rouen ha deciso con delibera del 25 marzo 2002 di avviare l’elaborazione del progetto di agglomération, finalizzato a valorizzare l’area dell’Agglomération in Francia ed in Europa attraverso la definizione di un Contrat d’Agglomération, in applicazione della legge del 1999 sulla gestione e lo sviluppo sostenibile che ha previsto la possibilità di concludere un Contrat d’Agglomération con lo Stato e la Regione sulla base di un progetto territoriale di sviluppo110. 110 /RL G RULHQWDWLRQ VXU O DPpQDJHPHQW HW OH GpYHORSSHPHQW GXUDEOH GX WHUULWRLUH /2$''7 La LOADDT ha profondamente rinnovato la pianificazione del territorio orientandola al sostegno di uno sviluppo sostenibile attento alla crescita economica, alla giustizia sociale ed alla qualità dell'ambiente e rafforzando il ruolo delle procedure Contrattuali. 110 La realizzazione di tale progetto nel periodo 2003-2006 si è tradotto nella stipula il 5 dicembre 2003 del Contrat d’Agglomération che si basa su alcune azioni cardine da svolgere su un orizzonte temporale che arriva al 2015: - definire la posizione dell’Agglomération di Rouen sia sul piano nazionale che comunitario; - individuare i grandi progetti di sviluppo e le relative infrastrutture; - assicurare uno sviluppo territoriale equilibrato e solidale. Il Contrat è stato elaborato a partire da una fase di concertazione e di consultazione con tutti i comuni aderenti, oltre che con le differenti associazioni e membri della società civile. A tal fine, a Rouen è stato costituito un Comitato di Sviluppo con il compito di aprire il dialogo tra i differenti attori coinvolti che giocano un ruolo nello sviluppo dell’Agglomération. In sintesi, il percorso per la stipula del Contrat d’Agglomération prevede le seguenti fasi: - costituzione della struttura intercomunale; - elaborazione del progetto d’agglomération; - costituzione del comitato di sviluppo; - parere del comitato sul progetto d’agglomération; - fase di negoziazione del contratto (scelta delle attività, dei soggetti finanziatori e modalità di finanziamento); - deliberazione del Consiglio della Communauté e del Consiglio Regionale, oltre che degli eventuali ulteriori soggetti coinvolti (Consiglio Generale, Comuni) - stipula del contratto. Inoltre, a partire dal 2006 l’Agglomération sta predisponendo lo studio relativo al progetto metropolitano di cooperazione Caen-Le Havre-Rouen (Coopération Métropolitaine), in particolare dovrà predisporre per il 2007 un rapporto sugli obiettivi e le condizioni di realizzazione e gestione della cooperazione intercomunale delle autonomie locali della regione Normandia. Sono state organizzate delle giornate studio che hanno visto la partecipazione della Cooperation “Loire La Legge, infatti, proponendo una nuova organizzazione di partenariato basata su tre livelli (5HJLRQV 3D\V ), introduce due nuove modalità di contrattualizzazione: i &RQWUDWV GH SD\V ed i &RQWUDWV G DJJORPHUDWLRQV che si vanno ad inserire all'interno dei &RQWUDWVGH3ODQ(WDW5HJLRQV. I comuni facenti parte delle agglomerazioni, così come i "pays" (unità territoriali che presentano una coesione geografica, culturale, economica e sociale), sono invitati ad elaborare dei 3URMHWV G DJJORPpUDWLRQ H GHOOH &KDUWHV GH SD\V allo scopo di determinare una Strategia locale di sviluppo sostenibile e di fissare i grandi orientamenti in materia di crescita economica e di equità sociale, di pianificazione urbana e dei trasporti, di politica ambientale, come espresso dall'Agenda 21 di Rio. Citando l'A21L quale strumento da attuare per il perseguimento di uno sviluppo sostenibile, la legge impone l'integrazione del concetto di sostenibilità all'interno di tutti i documenti di pianificazione locale (&KDUWHV GHSD\V3URMHWVG $JJORPpUDWLRQV etc..) come FRQGLWLRVLQHTXDQRQ per ottenere un finanziamento da parte dello Stato. $JJORPHUDWLRQV $&DYDOLHUH60*XDULQL00DGHGGX 111 Bretagne” e dell’Area Metropolitana Bilbao Metropoli 30 e hanno permesso di inquadrare lo stato dell’arte in Francia tra città, comunità urbane e comunità d’Agglomération. /D&RPPXQDXWp8UEDLQH*UDQG/\RQ&285/< Dal 1° gennaio 1969, data della costituzione effettiva della Comunità Urbana di Lione, essa esercita le sue differenti competenze con la volontà di sviluppare la solidarietà tra comuni e di mettere in comune infrastrutture e competenze, finalizzate alla gestione del territorio. La comunità conta oltre 1,3 milioni di abitanti ed oltre 4.300 addetti. Al fine di migliorare le condizioni di vita dei suoi abitanti, la Comunità urbana di Lione gestisce il suo patrimonio, protegge l’ambiente esercitando una molteplicità di competenze, dall’urbanistica – progettazione dei Piani Regolatori, di Occupazione del Suolo, edilizia popolare – alla gestione dei servizi cosiddetti “fondamentali”: la gestione della mobilità, la distribuzione di acqua potabile, fognatura e depurazione, raccolta e trattamento dei rifiuti urbani, il macello, i mercati all’ingrosso e la gestione dei servizi cimiteriali. A seguito della Legge Chevènement, la COURLY ha adeguato il proprio statuto ed esteso alcune competenze (eventi culturali, attività sportive, ecc.). Se la Comunità Grand Lyon esercita alcune delle sue funzioni direttamente, cioè attraverso la struttura della comunità e degli enti aderenti, ha, al contempo, delegato la gestione di alcuni servizi a dei soggetti ed enti esterni : - servizio di distribuzione d’acqua potabile; - edilizia popolare; - trasporto pubblico locale (Sytral e TCL); - servizio di mobilità e parcheggi -attività di organizzazione e gestione dei mercati all’ingrosso ed attività fieristica (Marché d' Intérêt National). Il Grand Lyon conta, infatti, in totale una sessantina di organismi di gestione esterna che occupano tra i 3 ed i 3.500 addetti. La maggior parte di tali strutture sono costituite con soggetti partner della Comunità Urbana: Stato, Regione, Département, Camera di Commercio, soggetti privati ed istituti finanziari. Le stesse esigenze di gestione rigorosa del bilancio della Comunità impongono un miglioramento continuo del controllo sulle gestioni esternalizzate che sono numerose e riguardano 112 differenti servizi: acqua potabile, gestione rifiuti, parcheggi, servizio calore, servizi cimiteriali. Inoltre vi sono anche società miste (SEM) ed enti pubblici partecipati (es. SYTRAL, che è il Syndacat per i trasporti pubblici locali). Tale struttura giuridica di partnerariato comporta un elevato grado di complessità nel controllo dei servizi affidati, soprattutto perché essi nel complesso assumono un peso in termini economici maggiore rispetto a quello dell’amministrazione medesima. Infine, risulta necessario che le attività di controllo ex ante, la gestione e la verifica costante delle condizioni contrattuali non siano rigidamente vincolate ai soli regolamenti dell’amministrazione intercomunale affidante, ma assumano anche una valenza strategica. 7DEHOOD'DWLGLVLQWHVLGHOO¶$JJORPpUDWLRQGH5RXHQHGHOOD&285/< Communauté Urbaine Grand Lyon EPCI Agglomération de Rouen (CA) Abitanti totali 391.375 1.300.000 Nr comuni 45 57 Rouen Lyon 106.592 444.369 Comune di maggiori dimensioni Popolazione comune maggiori dimensioni Competenze intercomunali di (CU) 6YLOXSSR(FRQRPLFR $VVHWWRGHO7HUULWRULR 6HUYL]LDPELHQWDOL 7UDVSRUWRORFDOH 3ROLWLFKHXUEDQHVYLOXSSR RFFXSD]LRQDOHVLFXUH]]D 6SRUWHFXOWXUD 6YLOXSSR HFRQRPLFR IRQGLDULR H LPPRELOLDUH : piani di sviluppo economico, localizzazione imprese, ecc. 8UEDQLVWLFD H SLDQILFD]LRQH GHO WHUULWRULR : schemi generali, edilizia residenziale pubblica e privata, spazi pubblici, ecc. 6HUYL]L SXEEOLFL (mobilità, servizi idrici, gestione rifiuti, aree di sosta); )RQWHHODERUD]LRQHVXGDWLGHJOL(3&, 113 9DQWDJJLHSXQWLGLIRU]DGHOODFRRSHUD]LRQHLQWHULVWLWX]LRQDOHIUDQFHVH L’' estrema frammentazione della realtà municipale francese (36.763 comuni) ha da sempre rappresentato un forte ostacolo per l' attuazione di programmi organici orientati allo sviluppo locale. In questo senso, la Legge Chevènement è stata indirizzata al sostegno di una nuova realtà territoriale basata sul raggruppamento di più comuni contigui ed in grado di proporsi come accreditato interlocutore all' interno dei Contrats de Plan tra Stato e Regione: la Struttura Intercomunale di Cooperazione (Etablissement Public de Coopération Intercomunale - EPCI). Nel processo di decentralizzazione in atto, la Communauté d’Agglomeration è giuridicamente un ente sovracomunale (l’EPCI appunto) che ha come mission rendere disponibili risorse e competenze nell’interesse comune di differenti enti locali. Difatti, si tratta semplicemente di consentire ai comuni che lo desiderano di trarre vantaggio dalla collaborazione e portare a termine una serie di progetti utili per tutti gli abitanti dell’area sostenendo possibilmente minori costi. L’Agglomération di Rouen raggruppa attualmente 45 comuni e prevede una serie di servizi obbligatori/opzionali – i servizi pubblici fondamentali - e altri facoltativi, come la protezione dei boschi, la cultura, lo sport. Per sviluppare l’area metropolitana sono necessari notevoli investimenti e nuove infrastrutture che i comuni non sono in grado di sostenere da soli. L’esigenza di conciliare l’interesse dell’Agglomération e quella dei comuni membri è derivata dalla necessità di sviluppare progetti che devono rispondere ai bisogni di una collettività di 400 mila abitanti. Senza la cooperazione intercomunale, progetti di trasporto come il metrò, o lo Zenit - Parc des Expositions non avrebbero mai visto la luce. A questo riguardo, il percorso iniziato con la firma della convenzione quadro per 12 comuni dell’Agglomération con riferimento al Contrat de villes d’agglomération, sta proseguendo e rafforzandosi con l’obiettivo di siglare entro il 2006 il Contrat d’Agglomération, nel quale si esprimono le politiche dell’agglomération, gli strumenti necessari, le azioni e le modalità di finanziamento. Dunque, i principali progetti verranno inclusi e sviluppati all’interno del suddetto contratto, in aderenza ai principi di responsabilità e coerenza della governance interistituzionale ed a sostegno dei principi guida di proporzionalità e di sussidiarietà. Difatti, seguendo l’evoluzione della forma di cooperazione intercomunale a Rouen, è emerso che al rafforzarsi della forma di cooperazione sono stati incrementati sia il livello di integrazione tra gli enti che le competenze dell’Agglomération medesima, fino al progetto in atto del Contrat d’Agglomération. Sono aumentate, dunque, le competenze, ma, conseguentemente, sono aumentati gli strumenti di governance sul territorio, che hanno consentito di sviluppare congiuntamente progetti di elevato impatto sulla collettività (riassetto del sistema dei trasporti, gestione del sistema fognario e depurativo, progetti integrati di protezione ambientale). 114 Inoltre è stato notevole l’impegno da parte degli enti locali nel governare il processo di trasferimento delle competenze in capo all’Agglomération per i servizi assunti a livello intecomunale; i ruoli sono stati delineati con chiarezza e vi è stata una decisa assunzione di responsabilità da parte dell’Agglomération, rispettando al massimo il ruolo di prossimità di ciascun ente coinvolto. Inoltre, è stato seguito il principio di DSHUWXUD sancito dal Libro Bianco sulla Governance grazie ad un’efficace azione comunicativa da parte dell’Agglomération, anche di carattere preventivo, al fine di diminuire al massimo le possibili disfunzioni derivanti dal cambiamento delle modalità di erogazione del servizio, ed al governo e coordinamento centrale dei flussi informativi ad esso inerenti. Nel 2006 la Diact (Délégation interministérielle à l’aménagement du territoire – ex DATAR) ha condotto una ricerca sui contratti d’Agglomération, dalla quale risulta che l’impatto di tale contratto è maggiore per le realtà urbane di medie dimensioni, più che per le grandi realtà metropolitane, nelle quali l’intercomunalità è già una realtà funzionante ed efficace nella gestione dei rapporti con lo Stato e la Regione. $VSHWWLFULWLFLGHOO¶LQWHUFRPXQDOLWjIUDQFHVH Il processo di cooperazione intercomunale in Francia è già ad uno stato avanzato, ma il ministero dell’Interno francese, in un rapporto del 2003, ha fatto riferimento ad alcuni elementi necessari a dare nuovo impulso all’intercomunalità 111: miglioramento della coerenza della mappa intercomunale, procedendo ad eliminare le forme di intercomunalità di minor dimensioni all’interno di EPCI di più grandi dimensioni; rendere più semplice l’esercizio delle competenze da parte degli EPCI ed assicurare agli EPCI le risorse necessarie per l’esercizio delle competenze che richiedono un impegno finanziario crescente. Un rischio che è stato attenuato con lo sviluppo dell’intercomunalità è proprio la potenziale guerra fiscale tra enti locali: la TPU è divenuta, infatti, un elemento per la riduzione della concorrenza fiscale tra territori indotta dalla localizzazione delle imprese. Un Rapporto sulla riforma della finanza locale del 2002 del Ministero degli Interni evidenzia con riferimento all’interrelazione tra perequazione e inter-comunalità che devono essere migliorati i criteri di ripartizione del DGF, cioè verificare ad esempio la pertinenza dei CIF – Coefficienti di Integrazione Fiscale – nella ripartizione delle risorse attribuite agli enti locali e garantita una loro costanza nel 111 ,QWHUFRPPXQDOLWp DSUqV O¶HVVRU OD FRQVROLGDWLRQ , 2003. Ministère de l’Intérieur, de la securité intérieure et des libertés locales. 115 tempo nella logica allargata dei raggruppamenti, per accrescere la stabilità e la programmabilità dei medesimi. A questo proposito, occorre sottolineare che l’intercomunalità è stata sviluppata ed incentivata per realizzare economie di scala e di costo nella fornitura dei servizi pubblici; là dove non c’è perequazione delle risorse si diffonde il fenomeno di concorrenza fiscale che si esplica attraverso una “corsa al ribasso della spesa pubblica”112. Se l’oggetto della concorrenza è invece un livello di servizi all’impresa adeguati, gli enti locali si troverebbero a dover aumentare la spesa pubblica e incrementare le imposte locali. Essendo la localizzazione delle attività economiche in Francia un fattore fondamentale per l’assegnazione delle risorse, la scelta della cooperazione fiscale è di ottenere l’aumento della base per la TP, cioè unirsi dunque per: - ridurre la concorrenza fiscale e di localizzazione; - migliorare l’efficienza nella fornitura di beni e servizi pubblici locali; - coordinare le politiche di sviluppo economico intercomunale. Si deve considerare, però, che lo Stato ha finora garantito ingenti incentivi finanziari all’associazionismo, attraverso l’individuazione del DGF premiale. E’ elevato dunque il costo che è stato sostenuto dal governo francese per raggiungere una maggiore equità territoriale, cioè una minore polverizzazione comunale e l’attenuazione della doppia velocità territoriale. Altri aspetti critici legati a tale fenomeno sono: - aumento della spesa locale per un effettivo innalzamento dell’offerta e dell’efficacia dei servizi erogati, ma anche per sostenere il costo dell’intercomunalità in costante crescita (il personale amministrativo pesa per il 22,3% della spesa totale nel 2003, l’8% nel 1993, Gibelli, 2006). - messa in discussione da più parti della rappresentatività dell’organo elettivo intercomunale, con riferimento alla possibile elezione diretta degli organi intercomunali ed alla rilevanza politica, economica e sociale dell’Agglomération rispetto agli enti locali aderenti. /DFRRSHUD]LRQHLQWHULVWLWX]LRQDOHLQ,WDOLD In Italia le forme di cooperazione intercomunale sono individuate ai sensi del Capo V del Titolo I del Testo unico sull' ordinamento degli enti locali, D. Lgs. 18 agosto 2000, n. 267 e le regioni devono disciplinare eventuali misure di sostegno alle forme di associazionismo e di cooperazione 112 Cfr. Fiorillo F., Pola G., Pubblica. )RUPH GL LQFHQWLYR DOO¶DVVRFLD]LRQLVPR , WP 466- Novembre 2005, Scuola di Economia 116 intercomunale. I Comuni, in quanto titolari della cura degli interessi delle comunità locali, sono i soggetti primari per l’attivazione di forme d' associazione e di aggregazione intercomunale: attraverso le Convenzioni, i Consorzi di funzioni, le Comunità montane, le Unioni dei comuni e le Associazioni Intercomunali viene assicurato l' esercizio associato delle funzioni e dei servizi comunali. Le Regioni non sempre hanno adottato una normativa ad hoc, inserendo gli incentivi all’interno delle leggi finanziarie regionali; in altri casi le norme sull’associazionismo sono state inserite all’interno delle leggi regionali che recepiscono le modifiche al Titolo V della Costituzione come modificato dalla Legge Cost. n. 3/2001. Un esempio di normativa regionale efficace e completa è quella della Regione Emilia-Romagna che con legge n. 11 del 26 aprile 2001 ha disciplinato le forme associative e altre disposizioni sugli enti locali. Un’altra normativa regionale sulle gestioni associate è quella della Regione Toscana (legge regionale 16 agosto 2001, n. 40) che prevede un piano di riordino territoriale per individuare gli ambiti territoriali ottimali ed i livelli ottimali di subambito (dimensione minima di 10.000 abitanti) per accedere ai contributi associativi. /DFRRSHUD]LRQHLQWHULVWLWX]LRQDOHQHLVHUYL]LSXEEOLFLORFDOL Nel caso francese, mediante un’efficace normativa nazionale, è stata promossa la cooperazione intercomunale e la conseguente costituzione degli EPCI; i comuni hanno, pertanto, sviluppato capacità congiunte di regolazione e di gestione in differenti campi di attività, dallo sviluppo economico ai servizi ambientali, ai trasporti. Focalizzando l’attenzione sui servizi pubblici locali, emerge come in Francia le funzioni di pianificazione e gestione del servizio pubblico a livello sovracomunale implicano lo sviluppo di maggiore competenze di programmazione e regolazione del servizio, oltre che nella modalità di scelta delle gestioni che possono essere molteplici a seconda dell’analisi condotta sull’efficacia ed efficienza di una opportunità gestionale rispetto ad un’altra. Inoltre è emersa, una crescente FDSDFLWjGLFRQWUROORGHOVRJJHWWRDIILGDWDULRDWWUDYHUVRLOFRQWUDWWR GL JHVWLRQH SLORWDJH VXLYL FRQWURO GHO FRQWUDWWR GL GpOpJDWLRQ i casi richiamati, in particolare la Communauté Urbaine Grand Lyon, evidenziano una struttura organizzativa evoluta di governance dei servizi pubblici a carattere industriale e commerciale, lo sviluppo di competenze di gestione contrattuale, una costante attenzione agli utenti e alle associazioni di consumatori, (Rapporto annuale sull’acqua, obbligo di rendicontazione all’ente delegante, istituzione di apposite commissioni consultive). 117 L’Italia ha sviluppato a livello locale la gestione intercomunale mediante Ambiti Territoriali Ottimali, obbligatori per legge. Per i servizi pubblici ambientali l’organismo sovracomunale competente di regolazione individuato dalle leggi di settore è, infatti, l’Autorità o Agenzia dell’Ambito Territoriale Ottimale. Tale organismo, sia per il settore idrico che per il settore dei rifiuti, può essere previsto nelle forme del consorzio o della convenzione tra enti. L’Ambito ha competenza solo per il servizio idrico o per quello dei rifiuti, in quest’ultimo caso coincide con la Provincia. Non vi è adesione facoltativa da parte dei comuni, a differenza delle realtà intercomunali francesi, ma viene definito con legge regionale. Inoltre, gli ATO hanno solo la competenza nella programmazione ed organizzazione del servizio che deve essere affidato ad un soggetto esterno, responsabile della gestione del ciclo integrato del servizio ambientale in oggetto (servizio idrico integrato, ciclo integrato dei rifiuti). In Francia le Communauté d’Agglomeration o le Communautè Urbaines assumono anche competenze gestionali, infatti possono decidere se delegare il servizio a soggetti esterni o organizzare la gestione internamente (gestion en regie autonome collective), anche per singole fasi del ciclo o per singoli comuni. Per tornare alla situazione italiana, in alcune aree del Centro-Nord a partire dagli anni ’70 si era assistito alla costituzione di forme di cooperazione tra enti locali mediante l’istituzione di consorzi di servizi, divenuti aziende consortili ai sensi della L. 142/90, per la gestione congiunta dei servizi pubblici locali. A seguito dei cambiamenti normativi dell’ultimo decennio tali consorzi multiservizi sono stati trasformati in società per azioni a capitale misto, pubblico e privato. Attualmente la forma di consorzio prevista dal T.U.E.L. non è più modalità gestionale dei servizi pubblici, ma consorzio per l’esercizio associato di funzioni (art. 31 D. Lgs 267/2000). Il comma 7 dell’art. 31 così prevede: “,Q FDVR GL ULOHYDQWH LQWHUHVVH SXEEOLFR OD OHJJH GHOOR 6WDWR SXz SUHYHGHUH OD FRVWLWX]LRQH GL FRQVRU]L REEOLJDWRUL SHU O HVHUFL]LR GL GHWHUPLQDWH IXQ]LRQL H VHUYL]L /D VWHVVD OHJJH QH GHPDQGD O DWWXD]LRQHDOOHOHJJLUHJLRQDOL ”. A seguito della complessa riforma dei servizi pubblici locali, in continua evoluzione, attualmente risulta che solo in pochi casi si è proceduto a selezionare un nuovo soggetto gestore, poiché più frequentemente sono state salvaguardate le gestioni esistenti, nella maggior parte dei casi società partecipate dagli stessi enti locali aderenti all’ambito. E’ stato rallentato, dunque, il processo di governance esterna con particolare riguardo al controllo dei rapporti contrattuali, nonostante sia crescente l’attenzione nei confronti dei contratti di servizio in essere tra enti locali, oggi autorità d’ambito sovracomunali, e soggetti gestori e/o delle convenzioni di affidamento del servizio. Emergono comunque difficoltà di regolazione dei rapporti tra ente e società partecipata che possono essere diverse e legate, ad esempio, a problemi di individuazione dei referenti all’interno delle amministrazioni locali, alla definizione e al rispetto delle clausole dei contratti di gestione 118 (indicatori di qualità, aspetti economici-finanziari, sanzioni), o alla revisione di clausole contrattuali. Nel caso italiano, dunque, si è dato seguito allo sviluppo della societarizzazione delle forme di gestione municipale dei servizi pubblici, rendendo, al contempo, obbligatorie forme di programmazione e coordinamento sovracomunale, come nel caso dei servizi idrici ed ambientali. Analoga competenza statutaria viene attribuita in Francia alla Comunità Urbana che però, come abbiamo visto, assume differenti competenze di programmazione ed organizzazione di servizi al territorio. Nel caso italiano si assiste ad una costituzione di più enti sovracomunali di regolazione afferenti la medesima area territoriale, con competenze settoriali specifiche ed, al contempo, i medesimi enti sono i proprietari della società pubblica che eroga il servizio. Mentre, nel caso francese, esistono a livello organizzativo divisioni proprie dei singoli servizi, con autonomia di bilancio, ma un unico organismo sovracomunale che opera su più settori di intervento e su scala metropolitana: la cooperazione intercomunale EPCI. ,OSURJHWWRGLULIRUPDGHOOHDXWRQRPLHORFDOL Con riferimento allo stato attuale in Italia di rilancio dello sviluppo locale a partire dalle problematiche di infrastrutturazione del territorio e di servizi pubblici di qualità risulta pertanto utile comprendere se e in quale misura possano svilupparsi forme di cooperazione intercomunale complesse e su aree territoriali vaste. Sembra necessario considerare innanzitutto il progetto di riforma in atto delle autonomie locali. Il Consiglio dei Ministri del 19 gennaio scorso ha approvato in via preliminare uno GLVHJQRGLOHJJHGHOHJD VFKHPD GL che dà attuazione agli articoli 114, 117 e 118 della Costituzione (modificati dalla riforma del 2001) conferendo al Governo delega a individuare e ripartire le funzioni amministrative che spettano a Comuni, Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, ed adeguare l'ordinamento degli enti locali113. Il disegno di legge delega è una vera e propria Carta fondativa dei rapporti tra diversi livelli di Governo, coniugando l'attuazione del Titolo V della Costituzione con il nuovo Codice delle Autonomie. In questo senso contiene: la ridefinizione delle funzioni fondamentali degli enti locali per semplificare, ridurre i costi e consentire il controllo da parte dei cittadini e la riduzione o la razionalizzazione dei livelli di governo. 113 Il provvedimento, che disciplina altresì il procedimento di istituzione delle città metropolitane e l'ordinamento di Roma capitale, contiene due ulteriori deleghe a effettuare la revisione delle circoscrizioni delle Province, finalizzata a razionalizzarne gli assetti territoriali a seguito della definizione e attribuzione delle funzioni fondamentali amministrative degli enti locali, nonché ad adottare la "Carta delle autonomie locali", strumento di coordinamento sistematico (formale e sostanziale) delle disposizioni statali che risulteranno dall'attuazione delle deleghe. 119 Tale progetto di riforma delle autonomie locali ha ricevuto l’8 marzo 2007 il parere favorevole di Regioni ed Enti Locali riuniti in Conferenza Unificata. Il testo passerà ora all’esame del Senato e si auspica la sua approvazione in tempi brevi. Sviluppare la gestione associata per aumentare l'efficienza e contenere i costi è uno degli obiettivi principali del nuovo codice. La sfida è duplice perché gli incentivi delle associazioni non devono portare a duplicazioni di enti. Il nuovo Testo Unico riprenderà gli indirizzi avviati dalla legge 265/99 con cinque fondamentali correzioni: 1) impedire la sovrapposizione tra Unioni di Comuni e Comunità Montane. 2) Il Testo unico dovrebbe espressamente indicare le attività per le quali viene stimolata la gestione associata. 3) La norma interverrà sul ruolo attribuito alle Regioni, al fine di individuare gli ambiti ottimali di gestione associata e di disporre delle incentivazioni finanziarie. Oggi le Regioni hanno il dovere di dare le linee guida per l'associazionismo dei comuni, ma la maggioranza è inadempiente, nonostante ciò lo Stato non è intervenuto con i poteri sostitutivi. 4) Bisognerebbe affrontare il nodo dell’incentivazione della gestione associata. 5) Sarà, infine, evidenziata la possibilità, già utilizzata largamente, di dare vita a forme associative agili, quali le convenzioni, riservando incentivi per l'utilizzo associato del personale da parte dei comuni aderenti. Il tentativo è quello di costruire un sistema efficiente anche dal punto di vista economico114 . Il progetto di riforma, dunque, afferma con forza la necessità di addivenire a gestioni associate intercomunali, su ambiti territoriali circoscritti, e finanche ad individuare Agglomération pertinenti alla scala urbana di medie dimensioni, un livello allargato di cooperazione su base volontaria, ma territorialmente e demograficamente inferiore alle aree metropolitane, previste per legge, come nel caso francese115. Una cooperazione intercomunale, ad esempio, che si muove in coerenza con il Sistema Produttivo Locale. 3UREOHPDWLFKHHGRSSRUWXQLWjGHOOHSDUWQHUVKLSSXEEOLFRSULYDWR Con riferimento alla situazione italiana, dopo aver approfondito alcuni aspetti relativi alle capacità competitive del sistema produttivo locale, in particolare con riguardo al settore terziario e dell’economia della conoscenza, evidenziando soprattutto le esigenze infrastrutturali e interrelazionali, ed aver approfondito le modalità offerte dalla normativa di collaborazione tra enti per comprendere più a fondo come gli enti possano mediante la cooperazione effettivamente promuovere uno sviluppo delle imprese di servizi, si intendono riprendere alcune tematiche del marketing territoriale, o meglio più in generale, del marketing relazionale e delle reti tra imprese ed istituzioni. Infatti un territorio può divenire competitivo ed attrarre le imprese utilizzando la leva del beneficio fiscale e/o finanziario, o di costo del lavoro, di offerta di servizi, strutturandosi mediante 114 Trovati G., ,O6ROH2UH, ottobre 2006. In appendice una sintesi dei principali articoli del disegno di legge che fanno esplicito riferimento alla gestione associata. 115 120 agenzie di marketing territoriale, costituite e specializzate nell’attrarre investimenti esterni. L’obiettivo dello sviluppo locale è far crescere le risorse all’interno e dunque il marketing territoriale diviene un mezzo e non un fine in sé (Triglia, 2005). Le reti di relazioni possono esprimersi a diversi livelli: le imprese possono essere rappresentate dalle proprie associazioni di categoria, o possono svolgere direttamente funzione consultiva, così come le differenti forme intermedie della società civile (ad esempio associazioni dei consumatori e sindacati). Inoltre divengono partner privilegiati proprio in virtù dell’apporto di capitale di rischio nelle imprese a capitale pubblico-privato. Un’ulteriore possibilità di sviluppo del sistema competitivo locale di servizi a supporto del processo di cooperazione interistituzionale è data, infatti, proprio dallo sviluppo di partnership pubblico-privato: in tal caso i soggetti privati collaborano fattivamente con le istituzioni e le Università per promuovere imprese operanti nel campo della ricerca (ad esempio i Parchi Scientifici e Tecnologici) o attività di sviluppo del territorio (turismo, cultura, sistemi informativi, servizi sociali). La collaborazione tra soggetti pubblici e privati a livello locale si sta sviluppando in Italia mediante differenti tipologie ed ambiti di intervento quali: le agenzie di sviluppo; i Parchi scientifici e tecnologici; le finanziarie regionali; le multiutilities; le società di progetto; le società di trasformazione urbana116. Si è assistito progressivamente ad un fenomeno di societarizzazione che, se da un lato ha consentito di attivare il network strategico di attori pubblici e privati che interagiscono nello stesso sistema, coniugando risorse private e finanziamenti pubblici locali, regionali, statali e comunitari, dall’altro ha connotato l’intervento dell’ente locale più in qualità di socio partecipante al capitale di rischio che ente di prossimità responsabile della funzione di programmazione ed indirizzo. Il riferimento alla governance interistituzionale ha avuto l’obiettivo di focalizzare meglio tale ruolo di indirizzo e programmazione degli enti locali in forma collaborativa e concertata, specialmente con riguardo alle tematiche dello sviluppo economico; l’ente locale, dato il maggiore coordinamento che la pubblica amministrazione è chiamata a svolgere in un’economia a rete, deve comprendere innanzitutto quali sono i beni collettivi locali pubblici che aumentano la competitività delle imprese localizzate in un dato territorio (Triglia, 2005). Le esperienze di cooperazione innovativa attraverso accordi più o meno formalizzati devono consentire di aumentare la capacità dei soggetti istituzionali locali di avviare e condurre percorsi di 116 Le STU, attualmente disciplinate dall’art. 120 del D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, sono state introdotte per la prima volta nel nostro ordinamento dall’art. 17, comma 59, della legge 15 maggio 1997, n. 127. Esse costituiscono un modello societario speciale, a partecipazione pubblico-privata, finalizzato alla progettazione e alla realizzazione di interventi di trasformazione urbana. La costituzione della STU è finalizzata al coinvolgimento di risorse economiche private in un’azione di trasformazione urbana di rilevante complessità e di assoluta importanza per il territorio comunale. 121 sviluppo condivisi, mobilitando risorse e competenze locali, non necessariamente partecipando direttamente al capitale di rischio delle società. Con riferimento a tale fenomeno si intende prendere spunto anche dalla normativa vigente ed in itinere per sottolineare come la partecipazione a società strumentali da parte degli enti locali sia un ostacolo alla concorrenza e non rispetti i principi di parità di trattamento sanciti dal Trattato UE, e, come tale, debba essere circoscritta, e fermamente limitata l’operatività della società medesima. L’art. 13 del Decreto Bersani, trasformato nella L. 248/2006 limita, difatti, il ricorso a società strumentali dei comuni che operano nei differenti settori dei servizi, ad esclusione dei servizi pubblici locali che seguono una normativa a sé stante, anch’essa soggetta ad un progetto di riforma117. Anche il progetto di riforma delle autonomie locali, sovra menzionato, riprende all’art. 1, comma 1, lettera r) quanto segue: “stabilire criteri in materia di costituzione e partecipazione dei comuni, delle province e delle città metropolitane e degli altri enti locali, a società di capitale, al fine di limitarne il ricorso a quelle in cui l’oggetto sociale sia esclusivamente finalizzato o alla prestazione diretta di servizi a favore dei cittadini, ovvero alla erogazione di servizi strumentali all’esercizio delle funzioni dell’ente, fissando anche criteri generali per la composizione degli organi societari”. In pratica, si limita la possibilità per l’ente locale di creare società che operino su settori non pertinenti all’amministrazione, indipendentemente dai soggetti pubblici o privati coinvolti. Il Comune e la Provincia debbono assumere, dunque, un maggiore ruolo di regolazione, tanto più se su aree intercomunali di dimensione urbana e metropolitana e sviluppare le partnership mediante l’esternalizzazione ed il controllo del soggetto affidatario. A supporto di tale visione allargata di cooperazione assurgono a ruolo primario due funzioni fondamentali per lo sviluppo economico locale: ODSLDQLILFD]LRQHHLILQDQ]LDPHQWLDOOHLPSUHVH. Il processo di pianificazione partecipata prevede il diretto coinvolgimento dei differenti enti locali, delle organizzazioni per lo sviluppo (agenzie, patti, gal) e delle imprese e di tutti i vari soggetti a vario titolo coinvolti per l’elaborazione di strategie di medio lungo termine. In tal senso occorre poter mettere a punto una serie di strumenti per lo sviluppo del sistema competitivo locale; 117 L. 248/2006. "Art. 13. - (Norme per la riduzione dei costi degli apparati pubblici regionali e locali e a tutela della concorrenza). - 1. Al fine di evitare alterazioni o distorsioni della concorrenza e del mercato e di assicurare la parità degli operatori, le società, a capitale interamente pubblico o misto, costituite o partecipate dalle amministrazioni pubbliche regionali e locali per la produzione di beni e servizi strumentali all'attività di tali enti in funzione della loro attività, con esclusione dei servizi pubblici locali, nonché, nei casi consentiti dalla legge, per lo svolgimento esternalizzato di funzioni amministrative di loro competenza, devono operare esclusivamente con gli enti costituenti o partecipanti o affidanti, non possono svolgere prestazioni a favore di altri soggetti pubblici o privati, né in affidamento diretto né con gara, e non possono partecipare ad altre società o enti. Le società che svolgono l'attività di intermediazione finanziaria prevista dal Testo Unico di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, sono escluse dal divieto di partecipazione ad altre società o enti. 122 innanzitutto il Piano Strategico, che si ritiene divenga l’elemento centrale per un dialogo tra istituzioni e differenti soggetti di un territorio. In tal senso il percorso di costruzione del Piano Strategico e le modalità di coinvolgimento dei differenti attori che entrano in gioco nel processo di pianificazione (imprese pubbliche e private, associazioni di categoria, ecc.) trova un’analogia con il Contrat d’Agglomération francese che diventa lo strumento principale di governance del territorio e di contrattazione con gli enti di livello superiore per l’ottenimento di finanziamenti e contributi (Regione, Stato, Comunità europea). In secondo luogo, all’interno e durante il processo di pianificazione partecipata, risulta necessario comprendere quali sono le possibili modalità di finanziamento delle imprese, o comunque le modalità di finanziamento dei progetti di sviluppo del sistema dei servizi, considerando anche i possibili finanziamenti pubblici comunitari e nazionali. La capacità di attrarre risorse pubbliche e private per finanziare i progetti e le politiche di sviluppo è una delle finalità del piano strategico. Nidasio (2005) sottolinea la necessità di costruire una matrice di finanziabilità per valutare la copertura finanziaria dei progetti e le relative fonti lungo l’orizzonte temporale del piano: - ricorso a capitali privati per il finanziamento di opere e infrastrutture pubbliche (project financing); - ricerca di fondi strutturali all’interno del finanziamento comunitario per lo sviluppo locale (Fondo di Coesione, Fondo Sociale Europeo e Fondo Europeo di Sviluppo Regionale); - partecipazione a programmi nazionali; - strumenti e logiche di programmazione regionale e locale (DPEF regionale; - altre iniziative di relazione pubblico-privato di carattere facoltativo/opzionale Tale capacità di convogliare risorse deve potersi tradurre in politiche di sostegno agli investimenti, cioè garantire alle imprese le economie esterne proprie dell’area territoriale di riferimento, fornendo servizi di qualità ed infrastrutture, ovvero fornire incentivazioni per investire in alcuni progetti/settori strategici. Nell’ottica del sostenimento del rinnovo urbano, così come previsto dai Fondi Strutturali UE, rileva il progetto di sostegno agli investimenti e progetti di riqualificazione urbana Jessica (acronimo di Joint European Support for Sustainable Investment in City Area) che, con altri due protocolli denominati Jasper e Jeremy, costituisce la base di sviluppo degli investimenti sostenibili in area urbana previsti nei fondi strutturali 2007-2013, prevedendo accordi tra le istituzioni 123 finanziarie europee BCE e BEI e le autorità nazionali e regionali dei paesi interessati118. Obiettivo diviene l’introduzione di una nuova e più efficace prassi finanziaria, accorpando tutte le sovvenzioni pubbliche e private per intervenire nella realizzazione di programmi di sviluppo urbano, ed operando come holding finanziaria di riferimento da parte di tutti i soggetti investitori, compresi gli istituti di credito, le public company, i singoli privati. Jessica gestirà tutti i fondi necessari per gli interventi di sviluppo urbano, garantendo copertura finanziaria, coinvolgendo il management pubblico e privato, e svolgerà altresì funzione di Autorità di pagamento, certificando lo stato di avanzamento dei programmi, effettuando il monitoraggio ed il reporting sugli step di realizzazione. Inoltre, Jessica consente la possibilità di accedere a mutui tramite la BEI che rispetto a quelli della Cassa Depositi e Prestiti, consentono di finanziare programmi di sviluppo e non singole opere pubbliche, a tassi più agevolati (in media lo 0,2% in meno di quelli praticati dalla C.DD.PP.), in un orizzonte temporale di 30 anni. A conclusione dell’analisi sulle varie opportunità e problematiche offerte dalla cooperazione tra enti locali e dalle differenti forme di partenariato pubblico privato, oltre che delle indicazioni sulle prospettive di sviluppo delle imprese operanti nei Sistemi Produttivi Locali, si intende portare un esempio attuale di pianificazione partecipata nello studio di possibili scenari di sviluppo in ambito sovracomunale: l’ufficio di Piano Strategico del Comune di Venezia sta organizzando una serie di incontri che hanno l’obiettivo di portare alcune riflessioni sullo sviluppo dell’area sovracomunale che comprende le Province di Venezia e di Padova. L’area interprovinciale metropolitana, pertanto, è il riferimento territoriale per avviare il processo di pianificazione strategica. Sono state sviluppate molteplici ed approfondite riflessioni intorno allo sviluppo economico e territoriale dell’area, e si è provveduto ad identificare su base metropolitana i servizi d’eccellenza erogati dalle amministrazioni comunali che dovrebbero portare ad una gestione unitaria per le due province. L’iniziativa congiunta dei due assessorati all’urbanistica del Comune di Venezia e di Padova ha visto l’organizzazione nei primi mesi del 2007 di 4 incontri con l’intervento di esperti di pianificazione strategica e territoriale, del mondo delle università e della ricerca in ambito locale, delle aziende pubbliche di servizi e di infrastrutturazione al territorio. E’ stata dunque inquadrata un’area vasta, che comprende le due realtà urbane di Padova e Venezia, ed evidenziate le sue caratteristiche territoriali e strutturali, oltre che ambientali e socio-culturali, ponendole a confronto con quella della Regione di appartenenza, il 118 Della Puppa F., ,O ILQDQ]LDPHQWR GHJOL LQWHUYHQWL GL ULQQRYR XUEDQR , 2007 (atti degli incontri sul tema 9HQH]LD H 3DGRYDLQFRQWUL SHUODGHILQL]LRQH GLVFHQDULGLVYLOXSSRSHUXQUDIIRU]DPHQWR GHOO¶DVVH 9HQH]LD3DGRYDFRPHIDWWRUH FRPSHWLWLYRGHOQRUGHVW 124 Veneto, e con la realtà nazionale effettuando l’analisi di posizionamento basata su indicatori di infrastrutturazione, socio-ambientali e di sviluppo economico119. Dall’analisi delle aree interessate emerge che il Veneto presenta un ritardo infrastrutturale al quale si sta contrapponendo una serie di politiche di intervento a seguito dei documenti programmatici nazionali e, soprattutto regionali con interventi concreti realizzati grazie ai partenariati pubblico-privati ed al project financing. Con riguardo all’approccio intercomunale, risulta interessante per tale area riportare l’esperienza dei PATI (Piani di Assetto Territoriale Intercomunale), strumento volontario di cooperazione per la pianificazione strutturale congiunta per più enti locali. Si tratta degli strumenti previsti dalla nuova legge urbanistica del Veneto (legge 11/2004) con i quali il territorio pianifica, in concertazione con la Regione, il proprio futuro urbanistico, ambientale, produttivo ed infrastrutturale. Le nuove forme di copianificazione, che ricalcano l’esperienza francese di cooperazione interistituzionale su base volontaria, stanno aumentando rapidamente: alla fine del 2006 erano già più di 300 i Comuni veneti che hanno fatto richiesta di avviare la copianificazione ed oltre 130 sono le procedure in corso, a conferma dell’adesione volontaria alla cooperazione da parte degli enti locali. &RQFOXVLRQL Questo contributo si proponeva di raggiungere due obiettivi principali. Il primo era comprendere le ragioni e gli obiettivi che possono spingere un sistema di istituzioni ad aggregarsi per migliorare la competitività del proprio sistema territoriale. Per questa ragione nella prima parte abbiamo guardato allo scenario competitivo emergente, con particolare enfasi al processo di globalizzazione e alla transizione da economia a prevalenza industriale ad una basata prevalentemente sulla conoscenza. Nel primo caso si è segnalato come lo sviluppo dell’economia in senso transnazionale debba essere accompagnata da un rafforzamento del contesto globale sia a livello globale attraverso la definizione di un sistema, benché minimo, di regole comuni e sia a livello locale attraverso appunto una maggiore collaborazione inter-istituzionale e cooperazione pubblico privato. Solo attraverso la definizione di questa infrastruttura locale è possibile porre i presupposti per un dialogo virtuoso tra i “cittadini” di un territorio finalizzato a sostenere la competitività del territorio. Con riferimento al secondo aspetto, la transizione ad un’economia basata sulla conoscenza, il rafforzamento del dialogo e della cooperazione inter-istituzionale costituisce un presupposto allo sviluppo e all’erogazione di servizi che sono ormai imprescindibili per la competitività del territorio 119 9HQH]LDH3DGRYDLQFRQWULSHUOD GHILQL]LRQHGLVFHQDUL GLVYLOXSSRSHUXQUDIIRU]DPHQWRGHOO¶DVVH9HQH]LD3DGRYD FRPHIDWWRUHFRPSHWLWLYRGHOQRUGHVWJHQQDLRPDU]RSURJHWWRLQFRUVR 125 quali un sistema universitario che faccia da ponte di accesso a conoscenze disperse, la costituzione di infrastrutture per il trasferimento della conoscenza, lo sviluppo di infrastrutture reali per l’accessibilità fisica ed informativa. Tutte queste infrastrutture non sono realizzabili se non in un ambito istituzionale locale ampio, che sia inclusivo e che attivi la partecipazione di tutti. Il secondo obiettivo era comprendere l’assetto normativo e di governance che meglio favorisce l’istituzionalizzarsi di queste forme di collaborazione allargata di tipo pubblico-pubblico e pubblico-privato. Con questo obiettivo si è prima guardato al contesto europeo analizzando nel dettaglio uno dei casi di maggiore successo e cioè quello delle aggregazioni urbane in Francia. La normativa francese presenta regole fortemente incentivanti la cooperazione, con un sistema di leggi a livello nazionale emanate già dalla fine degli anni ’60 (legge sulle Communautées Urbaines). La legge 12 luglio 1999 ha rafforzato e semplificato il processo di cooperazione intercomunale e lo sviluppo dell’intercomunalità, in particolare nelle aree urbane, che prosegue tuttora con la creazione di nuovi EPCI e l’estensione dei perimetri delle strutture di quelli già esistenti. Non da meno, il fenomeno intercomunale risulta in crescita anche dal punto di vista qualitativo: nel caso dell’Agglomération de Rouen, ma non solo, sono aumentate nel tempo sia le competenze trasferite che la qualità dei servizi pubblici locali erogati. Al 31 luglio 2003 sono complessivamente 15 i Contrat d’Agglomération firmati in Francia. L’esperienza delle realtà intercomunali francesi che hanno portato a termine tale percorso, ha consentito di porre l’attenzione su alcuni aspetti quali la dimensione interurbana e interregionale del contratto ed i rapporti tra aree urbane contigue, o il contenuto stesso del contratto che non può definirsi standard, poiché deve adattarsi alle esigenze locali. Il Contrat si elabora a partire da una fase di concertazione e di consultazione con tutti i comuni aderenti, oltre che con le differenti associazioni e membri della società civile; a tal fine viene di sovente costituito un Comitato di Sviluppo con il compito di aprire il dialogo tra i differenti attori coinvolti che giocano un ruolo nello sviluppo dell’Agglomération. Nella maggior parte dei contratti firmati si è inteso rafforzare la forza attrattiva della forma dell’Agglomération, in ragione delle maggiori funzioni che essa è in grado di garantire a livello congiunto (ricerca, formazione, cultura), ma soprattutto per lo sviluppo delle città con riguardo alle aree depresse o alla valorizzazione dei centri storici. Inoltre, si sottolinea la necessità di incentivare azioni di politica cittadina, con particolare riferimento allo sviluppo di nuove forme di coesione sociale. Il contrat d’agglomération riesce a dare maggiore peso al progetto di cooperazione intercomunale, perché attraverso la contrattualizzazione si riesce ad esprimere chiaramente le politiche dell’agglomération: gli strumenti, le azioni, le modalità di finanziamento. Per il settore 126 turismo, ad esempio, si tratta di promuovere insieme un’identità comune, per l’economia locale creare dei poli d’attività industriale e commerciale, oppure progetti per la realizzazione di una carta ambientale comune o per la salute pubblica, sempre a livello aggregato. Con riferimento alla realtà italiana si è evidenziata l’opportunità di creare gestioni associate non solo per comuni minori e su aree isolate, bensì, alla stregua delle realtà francesi, anche su aree urbane e metropolitane. Tale opportunità è già stata colta in parte da alcune regioni come la Toscana e l’Emilia-Romagna che hanno inquadrato le forme di cooperazione e definito la struttura di incentivi. Inoltre, si è ravvisata l’opportunità di creare una struttura intercomunale, là dove esiste effettivamente una volontà di cooperazione tra enti e non un obbligo legislativo, come ad esempio per gli Ato italiani dei servizio idrico e di gestione rifiuti. Nel caso delle Communautées d’Agglomération in Francia, la cooperazione viene costituita su base volontaria innanzitutto per esercitare congiuntamente le funzioni di sviluppo economico e di pianificazione del territorio, e poi può essere estesa ai differenti campi di intervento degli enti locali (servizi fondamentali, mobilità, sviluppo socio culturale). Inoltre, a seguito della costituzione della realtà intercomunale si può pensare di governare in modo più efficace il sistema di partenariato a livello aggregato e su scala sovracomunale; non da ultimo predisporre il piano strategico dell’area sovracomunale, anch’esso strumento volontario di pianificazione in ambito locale, allargando il raggio d’azione e, soprattutto, avendo come referente istituzionale l’organo sovracomunale che si relaziona direttamente con le realtà istituzionali di livello superiore (Province, Regioni, Stato e Comunità Europea). Si ritiene, pertanto, che, grazie a tale percorso, opportunamente incentivato dalla legislazione nazionale, possano essere maggiormente efficaci le politiche di cooperazione in ambito locale per supportare le reti di impresa, su area vasta, ed in ambito urbano e metropolitano, aumentando così direttamente gli interventi a favore delle imprese medesime ed innalzando il livello qualitativo dell’infrastrutturazione e dei servizi pubblici offerti alla collettività. 5 Ñ(ÒÓÔÑ!ÕÓÖ×ÑØÑ!ØÙÑÚÛÔÜÒ,ÑÝÑ AA.VV, /D3XEEOLFDJRYHUQDQFHLQ(XURSD, Quaderni Formez, 2004. AA.VV., 3LDQR6WUDWHJLFRGL9HQH]LD, Ottobre 2004. AA.VV., 9HQH]LD H 3DGRYD LQFRQWUL SHU OD GHILQL]LRQH GL VFHQDUL GL VYLOXSSR SHU XQ UDIIRU]DPHQWRGHOO¶DVVH9HQH]LD3DGRYDFRPHIDWWRUHFRPSHWLWLYRGHOQRUGHVWLQFRUVR AA.VV,QWHUQD]LRQDOL]]D]LRQHGHLVLVWHPLORFDOLGLVYLOXSSR, Quaderni Formez, 2003. AdCF – ÊWDWGHO¶,QWHUFRPPXQDOLWp (www.intercommunalities.com). 127 Armstrong, H. W., e Taylor, J. (2000). 5HJLRQDO (FRQRPLFV DQG 3ROLF\ . 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ZZZDJJORURXHQQDLVHIU ZZZJUDQGO\RQFRP ZZZFRPXQHYHQH]LDLWSLDQRVWUDWHJLFR 130 $ ÞÞÓÖßÑÝÓ 5LIHULPHQWL QRUPDWLYL DOOH JHVWLRQL DVVRFLDWH H DJOL DFFRUGL WUD HQWL QHOO¶DWWXDOH GLVHJQR GL ULIRUPDGHOOHDXWRQRPLHORFDOL $UW FRPPD QHOO¶LQGLYLGXD]LRQH GHOOH IXQ]LRQL IRQGDPHQWDOL GHL FRPXQL SURYLQFH FLWWjPHWURSROLWDQHLO*RYHUQRVLDWWLHQHDLVHJXHQWLSULQFLSLHFULWHULGLUHWWLYL lettera b), ultimo capoverso: prevedere che determinate funzioni fondamentali possano essere esercitate in forma associata; lettera c) : prevedere che l’esercizio delle funzioni fondamentali possa essere svolto unitariamente sulla base di accordi tra Comuni (HQWLGLJRYHUQRGLSURVVLPLWj) e Province (HQWLSHULO JRYHUQRGLDUHDYDVWD ); lettera d): considerare tra le funzioni fondamentali dei comuni tutte quelle che li connotano come ente di governo di prossimità, e tra le funzioni fondamentali delle province quelle che connotano come enti di governo di area vasta; considerare tra le funzioni fondamentali delle città metropolitane, oltre a quelle spettanti alle province, anche quelle di governo metropolitano. lettera h): valorizzare i principi di sussidiarietà, di adeguatezza, di semplificazione, di concentrazione e di differenziazione nella individuazione delle condizioni e modalità di esercizio delle funzioni fondamentali, in modo da assicurare l’esercizio unitario da parte del livello di ente locale che, per le caratteristiche dimensionali e strutturali, ne garantisca l’ottimale gestione, anche mediante sportelli unici, di regola istituiti presso i comuni, anche in forma associata, competenti per tutti gli adempimenti inerenti ciascuna funzione o servizio e che curino l’acquisizione di tutti gli elementi e atti necessari; lettera i): indicare i principi per la razionalizzazione, la semplificazione e il contenimento di costi per l’esercizio associato delle funzioni da parte dei comuni e degli altri enti locali, secondo i principi di cui all’art. 97 Cost. (v.), prevedendo una disciplina di principio delle forme associative ispirata al criterio dell’unificazione in ambiti territoriali omogenei attraverso l’eliminazione di sovrapposizioni di ruoli e di attività (e tenendo conto altresì delle peculiarità dei territori montani ai sensi dell’art. 44 della Costituzione); lettera l) prevedere strumenti che garantiscano il rispetto del principio di integrazione e di leale collaborazione tra i diversi livelli di governo locale nello svolgimento delle funzioni fondamentali che richiedono per il loro esercizio la partecipazione di più enti, allo scopo individuando specifiche forme di consultazione e di raccordo tra enti locali, Regioni e Stato; 131 $UWFRPPD&ULWHULHGLQGLUL]]LSHU ODGLVFLSOLQDGHJOL RUJDQLGL JRYHUQR GHOVLVWHPD HOHWWRUDOH H GHJOL DOWUL VHWWRUL UHODWLYL DOO¶RUJDQL]]D]LRQH GHJOL HQWL ORFDOL GL FRPSHWHQ]D HVFOXVLYD GHOOR 6WDWR QRQFKp SHU O¶LQGLYLGXD]LRQH GHL SULQFLSL IRQGDPHQWDOL QHOOH PDWHULH GL FRPSHWHQ]D FRQFRUUHQWH FKH LQWHUHVVDQR OH IXQ]LRQL O¶RUJDQL]]D]LRQH HG L VHUYL]L GHJOL HQWL ORFDOL Lettera n): prevedere che le forme associative tra gli enti locali assicurino una semplificazione strutturale ed organizzativa con organi composti esclusivamente da amministratori locali; $UW±,VWLWX]LRQHGHOOHFLWWjPHWURSROLWDQH Comma1, lettera f): lo Statuto della città metropolitana definisce le forme di esercizio associato di funzioni con i comuni in essa compresi al fine di garantire il coordinamento dell’azione complessiva di governo all’interno del territorio metropolitano, la coerenza dell’esercizio della potestà normativa da parte dei due livelli di amministrazione, un efficiente assetto organizzativo e di utilizzazione delle risorse strumentali, nonché l’economicità di gestione delle entrate e delle spese attraverso il coordinamento dei rispettivi sistemi finanziari e contabili; le relative disposizioni sono adottate previa intesa con i comuni interessati, recepita con deliberazioni di identico contenuto dei rispettivi consigli comunali; Comma 5 – Città metropolitane: nelle Aree Metropolitane di cui al comma 1 (comprendenti i comuni di Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Roma, Bari, Napoli), in alternativa alla istituzione della città metropolitana secondo il procedimento previsto dai commi precedenti, sono individuate specifiche modalità di esercizio associato delle funzioni comunali senza nuovi o maggiori oneri; ulteriori modalità di esercizio congiunto di funzioni possono essere definite dalle istituzioni locali e dalla regione interessate, tenuto conto delle diverse specificità territoriali. 132 & ÜÞ0Ñ×ÚÙÚ & Ùàá6×ÓÔ%ÝàÙ×àÔÜÙÑÓ8áãâÑ!ÙàÞÞ0Ú4ÙÚfÝÜÙÓ 9 ä GL$QWRQLR0DVWURJLRUJLR 9LWDOLDQR$QGUHD%DUEHULR ää ,QTXDGUDPHQWRWHRULFRGHOODSUREOHPDWLFD ,QWURGX]LRQH In Italia, in questi ultimi anni, l’interesse per la cultura è andato aumentando, ma all’interno di una concezione unilaterale e riduttiva: quella della cultura intesa come “bene di consumo”. La cultura appare, sempre di più, il referente di attività confinate nel contesto dell’intrattenimento e del tempo libero. Da questa concezione è maturato un dibattito incentrato sulla possibilità di una riedizione del modello del distretto industriale, il cosiddetto “distretto culturale”, che vorrebbe applicare alle filiere dei comparti culturali la stessa logica che ha fatto il successo delle PMI italiane manifatturiere, con l’obiettivo di trasformare il territorio italiano in una galassia di ‘città d’arte’ che vendano bellezze storiche, prodotti tipici, eventi. C’è chi sostiene che questa è, in definitiva, la prospettiva futura di sviluppo del nostro paese: la valorizzazione dei nostri giacimenti culturali, “il nostro petrolio”. I “beni culturali” sono estremamente importanti da un punto di vista strumentale per sviluppare delle alternative di scelta e, di conseguenza, sono fondamentali per ottenere delle ricadute positive di tipo economico (reddito, consumi, spesa), soprattutto in riferimento allo sviluppo di un territorio. Tuttavia, dal nostro punto di vista, una lettura poco accorta di tali fenomeni può portare ad una vanificazione delle stesse potenzialità economiche del “bene culturale”; sebbene esista un dibattito ben sviluppato sulle modalità di fruizione di cultura intesa come “bene di consumo”, non esiste una riflessione parimenti sofisticata sulla possibilità di considerarla una risorsa economica; in altre parole concetti quali “bene culturale” e/o “consumo della cultura” appaiono, a nostro avviso, incompleti nei fondamenti e non sufficientemente legittimi per innestarvi ipotesi di sviluppo. Infatti una mera “commercializzazione” dell’esperienza culturale risulta inadeguata a produrre una riqualificazione territoriale che sia realmente fondata sulla componente socio-culturale dei suoi ∗ Dipartimento di Scienze aziendali, Università di Bologna.; e-mail: [email protected] ∗∗ Facoltà di Economia, Università di Bologna; e-mail: [email protected] 133 abitanti, ossia una riqualificazione nella quale i fenomeni di produzione e consumo siano conseguenze di “una cultura”, e non cause, de “la cultura”. Muovendo da tali premesse, è importante, a nostro avviso, riflettere sullo scollamento tra la dimensione fenomenica della cultura (intesa come “processo” socialmente radicato) e dimensione ontologica della cultura (intesa come “codice estrapolato” di accadimenti sociali). La prevalenza della seconda dimensione (quella ontologica) ha portato alla costruzione del concetto accademico di cultura intesa come “qualcosa di esterno”, di “oggettivo”, di “indipendente” al punto da porlo come referente di un discorso che prescinde dalla “località” che caratterizza le dinamiche sociali nelle quali la cultura è (o dovrebbe essere) radicata. In quest’ottica la cultura rappresenta, sempre di più, il referente di una dialettica tra attori privilegiati; attori che sono, sempre di più, occupati ad acquisire conoscenze strumentali attraverso le quali vagliare l’adeguatezza della cultura stessa ad appartenere a tale sfera ontologica (Lyotard). L’accademia è strumentale a tale processo in quanto trasforma la cultura in ontologia codificandone i simboli attraverso il metodo scientifico che ne diviene, così, tecnologia di legittimazione. La possibilità di specificare la cultura come “entità” D SULRUL è commisurata alla sua perdita di aderenza della vita sociale; l’introduzione di una dimensione ontologica della cultura ha reso possibile la sua sostantivizzazione, trasformandola in evento, celebrandola e cristallizzandola in un contenitore, confezionandola per il consumo. Si è passati da una concezione di “cultura come senso” ad una concezione di “senso della cultura”; in altre parole si è “prodotta” una cultura che è intrinsecamente autoselettiva ed autopoietica, ossia totalmente assorbita dalla necessità di creare gli stessi strumenti con i quali passa al vaglio i suoi stessi simboli con lo scopo di (eventualmente) legittimarli e, quindi, renderli costitutivi di se stessa. La logica sottesa a tali processi è quella di una pressione crescente alla istituzionalizzazione dei criteri ai quali gli artefatti devono conformarsi per essere definiti cultura; con la conseguenza di un innesco di dinamiche che bloccano qualsiasi innovazione in quanto avvertita come deviante dai criteri di normalità imposti secondo logiche di eteronomia. La cultura è passata ad essere, da conseguenza di comportamenti tipizzati, risultanti dell’interazione sociale (Berger-Luckmann), ad “entità” D SULRUL in grado di condizionare il gioco della creazione (trasformazione), imbrigliando le dinamiche sociali in una sfera caratterizzata non solo da auto-referenza, ma dall’incapacità endemica di fornire vigore alle istanze innovative. 134 A partire da tali considerazioni, a nostro avviso quindi, non si può affrontare la tematica dello sviluppo locale fondato sulla “cultura” se con cultura si intende sempre di più “strumento di welfare” e sempre di meno “senso radicato” del vivere quotidiano. Tale riflessione parte dal riconoscimento dell’impossibilità di trattare la cultura al di fuori di un’impostazione evoluzionista; crediamo infatti che non sia possibile proporre una riflessione sulla cultura se non attraverso il riconoscimento della sua intrinseca dinamicità, instabilità, produzione di eterogeneità. Ed, allo stesso tempo, crediamo che tale produzione di eterogeneità non possa prestarsi a tentativi di riduzione e di “cooptazione intellettuale” se non nella misura in cui tali tentativi siano mossi da mere esigenze di speculazione analitica (semmai, al contrario, i tentativi di “cooptazione intellettuale” dovrebbero essere riconosciuti come processi radicati in contesti locali). Crediamo quindi che non si può formulare alcuna ipotesi economica di sviluppo locale senza il riconoscimento di un “radicamento” (HPEHGGHGQHVV della stessa azione economica all’interno di un contesto culturale. &XOWXUDHGHYROX]LRQHFXOWXUDOH &UHDWLYLWj H VYLOXSSR GHO WHUULWRULR Un buon punto di partenza, per una riflessione sui fenomeni culturali, si può ritrovare nei lavori sulla “classe creativa” (ormai ampiamente noti) di Richard Florida. Il suo approccio ha ricevuto un vasto consenso iniziale all’interno della comunità di studiosi di fenomeni culturali, probabilmente per ciò che anche noi riconosciamo come un merito: l’aver portato all’attenzione di un vasto pubblico, la possibilità che esista una qualche correlazione tra creatività localizzata e sviluppo non solo economico, ma anche sociale, del territorio sul quale agisce una spinta creativa. L’appartenenza dell’autore ad una delle più prestigiose università del mondo (Carnegie Mellon), non è un fatto banale; infatti, dal punto di vista che potremmo definire della “legittimazione istituzionale” la ricerca sociale e scientifica evolve in direzioni segnate da un processo di conformazione in cui le istituzioni, come sapere consolidato, giocano un ruolo fondamentale nell’allocazione delle risorse immateriali e finanziarie. Perché nuovi campi di ricerca, fino ad un certo punto ritenuti eterodossi (e come tali tenuti ai margini) possano ricevere una legittimazione 135 dall’Accademia, è stato fondamentale il ruolo giocato da alcuni suoi “pilastri”120. Il lavoro di Florida (2002) ha in sostanza il merito di portare all’attenzione dell’Accademia la rilevanza di fenomeni culturali, come la trasmissione della conoscenza e la creatività di un territorio, nella spiegazione dello sviluppo economico. Infatti l’approccio di Florida (2002), una volta assimilato da un vasto pubblico, ha iniziato a ricevere numerose critiche, soprattutto di merito; si pensi ad esempio al fatto che alcune delle proxy utilizzate dall’autore per rappresentare la creatività di un territorio sono la percentuale di popolazione omosessuale o bohemiene dello stesso. Una critica di merito, tuttavia, esula dagli intenti di questa trattazione mentre doverosa ci sembra una critica, o più semplicemente una precisazione, di carattere metodologico. Ci sembra infatti che il semplice fatto di individuare una correlazione tra costrutti quali “classe creativa” e “sviluppo di un territorio” non implica l’esistenza di un nesso causale. Sebbene una regressione tra variabili lungo un lasso temporale riesca a mostrare una consequenzialità (Granger causa), rimane inspiegata, nella sostanza, la complessità relazionale che caratterizza i fenomeni sociali (di cui la stessa economia è parte). In altre parole un’analisi meramente nomologica (ossia orientata all’individuazione di ricorrenze) non appare, a nostro avviso, sufficiente ad ottenere una spiegazione dei nessi che invece andrebbero ricercati, in chiave weberiana, nella stessa cultura. (FRQRPLD H VFLHQ]H VRFLDOL Abbiamo già accennato al fatto che l’economia non è qualcosa di slegato dal tessuto sociale alla quale fa riferimento. Abbiamo provato quindi ad interrogarci su cosa possa essere considerato antecedente: la struttura sociale o lo scambio economico? Muovendo dall’impossibilità di risolvere la disputa in senso assoluto, abbiamo trovato una spiegazione soddisfacente nel concetto di HPEHGGHGQHVV (Granovetter, 1985). L’HPEHGGHGQHVV nella sua formulazione iniziale disegna lo scambio economico come qualcosa di “immerso”, “radicati” nel VRFLDOQHWZRUN qualificando l’economia come una branca della sociologia. Questo approccio alla spiegazione dell’azione economica si colloca a metà strada tra quelli RYHU VRFLDOL]HGUROHEDVHG e XQGHUVRFLDOL]HG SXUHO\LQVWUXPHQWDO UDWLRQDODFWRU . Un aspetto centrale di tale approccio è che relazioni ripetute di mercato e legami tra rapporti d’affari e rapporti sociali generano logiche di scambio emmbedded che differiscono da quelle DUPVOHQJWK di mercato (Uzzi & Gillespie, 2002). Il concetto di HPEHGGHGQHVV si fonda sull’idea che legami sociali forti (VWURJWLes) e deboli (ZHDN WLHV ) diano risultati differenti per coloro che li incorporano. Gli VWURQJ WLHV riflettono legami tra 120 Nel settore della cultura e della creatività un chiaro esempio del fenomeno descritto è la pubblicazione di “Creative Industries” da parte di Caves di Harvard. 136 persone di orientamento simile riguardo a norme e valori (Putnam,1995) e corrispondono alle più strette relazioni sociali come la famiglia amici più prossimi contatti di lavoro; i ZHDN WLHV tendono ad essere di natura diversa, sono usualmente più numerosi e si riferiscono a legami di “lunga distanza” quali amicizie e contatti di lavoro. Gli VWURQJ WLHV hanno il vantaggio di costituire una comunità basata sulla mutua fiducia e reciprocità; un tale ambiente accresce la coesione tra membri del gruppo e facilita l’interazione, promuove l’apprendimento interattivo e la condivisione di risorse. Nonostante gli VWURQJWLHVformino la base per la cooperazione conducendo ad una solida base di conoscenza e creando le premesse per l’innovazione da parte di ogni membro del network esiste anche l’altra faccia della medaglia; infatti gli VWURQJWLHV solitamente funzionano solo nella misura in cui creano un’”esclusione”. L’effetto di lock-in, sociale e mentale confina seriamente l’attività innovativa e di apprendimento; quindi i membri che costituiscono tali network facilmente mancano le opportunità del processo di modernizzazione e cambiamento (Grabher, 1993). I ZHDN WLHV sono ideali per intercettare un largo e diverso set di contatti, opportunità, risorse e conoscenza (Granovetter, 1985); la loro apertura e relativa eterogeneità rende improbabile che attori utilizzatori in prevalenza di weak ties rimangano all’oscuro dei cambiamenti in atto. Una debolezza dei ZHDN WLHV è la loro relativa fragilità dovuta alla mancanza di fiducia, background comuni tra i partners interagenti ed affidabilità dell’informazione disponibile. L’apporto dell’approccio “HPEHGGHGQHVV´ alla comprensione del funzionamento dei cluster culturali risolve parzialmente le questioni lasciate aperte da un approccio meramente nomologico come quello di Florida in quanto permette di legare la capacità di captare soluzioni ai problemi (alertness), apprendere, innovare, diffondere pratiche strategiche (Davis, 1991) con le condizioni strutturali del sistema sociale e di scambio economico. Tuttavia dobbiamo rilevare, che tale tipo di approccio, come altri di tipo relazionale, tende a spiegare la difformità di comportamento, la diffusione delle pratiche ed altri fenomeni di tipo culturale, per condizioni date di struttura sociale121. La nostra proposta è di spingerci oltre e più a fondo nella comprensione del processo di formazione dei cluster culturali abbandonando il concetto che la struttura sociale o gli individui siano entità date. Dal nostro punto di vista la cultura è un processo continuo in cui gli individui e la struttura sociale sono co-determinate e, quindi, non sono più osservabili in modo distinto (Heiddegar, 1965; Maggi, 1990). 121 Recenti sviluppi della social network analysis (Snijders, 2001) si sono concentrati sulla doppia direzionalità causale tra struttura sociale e comportamento (es. ho amici fumatori perche fumo o fumo perché ho amici fumatori?). 137 (YROX]LRQHHFXOWXUD L’accostamento tra evoluzione biologica (genetica) e culturale è un tema molto delicato. Le costruzioni ideologiche e le distorsioni dell’originario contributo degli approcci evolutivi allo studio dei fenomeni sociali genera ancora scetticismo di una gran parte di studiosi che si occupano di cultura (Campbell). Iniziamo quindi a definire alcuni concetti fondamentali e a distinguere tra alcuni filoni di studio. Un primo filone di studi si concentra sulla mutua interazione tra geni e cultura: l’evoluzione biologica ha reso l’uomo capace di imitare il comportamento degli altri e di “apprendere socialmente” accumulando l’informazione appresa in modo diretto ed indiretto, ed, a sua volta, la capacità di apprendere ha favorito l’evoluzione del patrimonio genetico dell’uomo nella direzione di un miglioramento delle sue capacità di imitare. Se il primo passaggio (biologia-cultura), risulta ormai abbastanza consolidato all’interno delle scienze biologiche e dell’uomo, il secondo (culturabiologia) risulta meno chiaro. Un elemento di rilievo è che la trasmissione culturale, oltre ad avere tempi più brevi di molti ordini di grandezza rispetto a quella genetica, funziona come un processo di “inclusione” consentendo ai membri di un gruppo di acquisire tratti comportamentali che non hanno necessariamente un valore biologico positivo in termini di fitness122. La spiegazione più convincente al momento è fornita dall’approccio co-evolutivo di cultura e geni (Cavalli Sforza and Feldman, 1981; Boyd and Richerson, 1985). In questa prospettiva l’unità evolutiva non è più l’individuo, ma il gruppo123 (la popolazione) inoltre l’apprendimento sociale (stimolo-risposta e imitazione) migliora l’adattabilità dell’uomo alleggerendolo dal costo dell’apprendimento individuale (trial-and-error learning). Questo primo filone, sviluppato principalmente da biologi e genetisti, nonostante ponga le basi di ogni interazione tra cultura e biologia, rimane troppo al di fuori dagli scopi di questa trattazione. Per motivare la scelta dell’approccio evoluzionista alla cultura per le finalità di questo studio vediamo una serie di altri stems, più “vicini” alle scienze sociali, che si distinguono dal primo per il fatto di considerare i progressi (l’evoluzione) che una cultura può produrre a livello di popolazione per uno stock dato di patrimonio genetico e rimandiamo alla parte conclusiva dell’articolo la discussione delle interpretazioni che di questi approcci sono stati dati dai policy maker. Possiamo innanzitutto distinguere tra teorie che indagano il “fatto” (descrivono il percorso) dell’evoluzione e teorie che indagano il processo dell’evoluzione. 122 Si pensi alla difficoltà di fondare biologicamente comportamenti come l’altruismo, specialmente quello autosacrificale (Campbell, 1969). 123 Un approccio alternativo, basato su individui che tentano di replicare se stessi (egoisti), è offerto daDawkins in “The Selfish Gene” (1987). 138 Le prime (percorso): • le “teorie non valutazionali” che non cercano una qualche superiorità tra tappe precedenti e successive, ma si limitano a vedere le similitudini tra forme; • le teorie unilineari, che identificano in ogni cambiamento un’evoluzione e affermano che tutte le società attraversano in epoche differenti le medesime tappe di un unico percorso evolutivo di carattere endogeno; • le teorie multilineari, successive al lavoro di Darwin, che considerano l’interazione con l’ambiente e la formazione delle specie piuttosto che uno sviluppo endogeno (embriologico). risultando più solide nella spiegazione della diversità. Le seconde (processo): Descrivono il processo dell' evoluzione attraverso variazione e ritenzione selettiva. Queste teorie appaiono più idonee a sviluppare analogie con l' evoluzione culturale, infatti, i concetti di formazione pianificata ed emersione teleologica diventano non necessari (Campbell, 1966). Come afferma Campbell: “per studiare la cultura in una prospettiva evolutiva bisogna considerare che l' evoluzione biologica e più in particolare il meccanismo di selezione e propagazione selettiva sono solo analogie con la propagazione delle forme culturali. Il grande contributo di Darwin in questo senso è il suo modello per il conseguimento di processi end-guided o propositivo in cui interagiscono unità semplici (blind), stupide. Alcuni dei padri della cibernetica hanno proposto un' analogia tra il processo di selezione nell' evoluzione biologica ed il trial-and-error learning (Ashby, 1952). Tre essenziali elementi di analogia in presenza dei quali un' evoluzione socio-culturale (biologica) o un processo di apprendimento sono inevitabili ed in presenza dei quali si tenderà verso un effetto drift verso un maggiore adattamento, accresciuta complessità, dimensioni e integrazione delle unità nelle organizzazioni sociali: 1. . verificarsi di variazioni; 2. . un coerente criterio di selezione; 3. un meccanismo per la preservazione, duplicazione e propagazione delle varianti positivamente selezionate”. 139 6YLOXSSRGHOOHPHWRGRORJLH /¶XVRGLFHOOXODUDXWRPDWDSHUORVWXGLRGHOO¶HYROX]LRQH La possibilità di modellare la cultura come fenomeno radicato, trova un supporto sostanziale nell’uso di metodologie sviluppate nell’ambito della cosiddetta Complexity Theory. Tali metodologie permettono di modellare i fenomeni culturali come fenomeni emergenti ed in evoluzione, a partire dalla specificazione di regole di base che rappresentano comportamenti tipizzati degli individui; infatti permettono di modellare l’intero sistema, specificando le sole regole di interazione tra agenti, in modo tale che il comportamento dell’aggregato si manifesta come fenomeno emergente e non come dinamica pre-specificato dal modellista. Tra tali metodologie gli strumenti più appropriati sono i FHOOXODU DXWRPDWD che permettono di costruire simulazioni dei sistemi socio-economici. Senza entrare troppo nel dettaglio metodologico ed epistemologico, si può affermare che l’uso di sistemi di simulazione rappresenta una “terza possibilità” rispetto agli approcci puramente induttivi e deduttivi; infatti un sistema di simulazione permette di valutare la coerenza tra regole di interazione locale (specificate dal modellista) e le dinamiche che il sistema esibisce come proprietà emergenti. Un’automazione cellulare (FHOOXODU DXWRPDWLRQ) è un modello discreto che consiste in una griglia infinita di celle regolari ciascuna con un numero finito di stati (la griglia ha un numero finito di dimensioni). Lo stato di ciascuna cella in ciascun istante è una funzione dello stato di un numero finito di QHLJKERXUKRRG celle ad essa prossime (chiamate ) al tempo precedente; l’insieme di QHLJKERXUKRRG è invariante nel tempo e ciascuna cella ha la stessa regola di aggiornamento. Formalmente una FHOOXODUDXWRPDWLRQ è rappresentata da: = Ω di celle • Un set Ω di • Un insieme (å ⊆ Ω con L = 1...1 ciascuno indicante il set di celle prossime alla cella • Una variabile di stato 1 æè, ç relativa ciascuna cella / L in ogni istante W , con W L discreto (ad esempio una variabile dicotomica che assume valori 1/0). • Una funzione I per cui comportamento di ciascuna cella ( êè, ë = I ( /ìî∈í#é , ë −γ ) con / L M ≠ L ossia la funzione che specifica il come dipendente dalle celle presenti nell’insieme di prossimità ï secondo una dinamica da lag parametrizzata da γ (solitamente γ = 1 ). 140 L’uso di cellular automata permette di generare ipotesi sull’evoluzione di un sistema stilizzato specificando la funzione di comportamento locale e le condizioni iniziali (e le eventuali condizioni di contorno (per una trattazione teorica si rinvia a Weisbuch, 1991). Il modello computazionale che proponiamo permette di generare ipotesi sulla natura dinamica che caratterizza l’auto-organizzazione di fenomeni aggregati emergenti da meccanismi di interazione locale stilizzati. Il sistema è caratterizzato da una stringa 1-dimensionale di valori digit che rappresenta lo stato istantaneo del sistema; il tempo è discreto. Se ciascuno stato è in forma digit, lo spazio degli stati è quindi ; ð = {0,1} la cui cardinalità rappresenta il numero di configurazioni potenziali del sistema (ad esempio per 1 ; = 5 una possibile configurazione potrebbe essere (10010) ). Il modello si compone di alcune regole di base che ne rappresentano il meccanismo algoritmico e ne determinano la dinamica; nel caso specifico tali regole rappresentano i comportamenti tipizzati all’interno di un sistema culturale stilizzato. L’evoluzione del sistema è quindi caratterizzata da un set di regole che determinano il comportamento locale di agenti. Tali regole sono modellate secondo criteri di prossimità per cui il valore assunto da ciascun digit dipende dai valori assunti dallo stesso digit nello stato precedente e dai valori assunti dai digit relativi alle caselle ad esso prossime (sempre nello stato precedente). Nel caso specifico, gli stati prossimi sono 2 in quanto il sistema è rappresentato da una stringa e quindi ciascuna casella ne ha altre due adiacenti; ad esempio la regola (101) → (_1_) stabilisce che se la casella intermedia è pari a 0 ed è circondata da caselle con valore 1, allora nell’istante successivo, la casella intermedia assumerà valore 1. Le figure che seguono sono detti ODWWLFH monodimensionali ossia descrizioni dell’evoluzione delle configurazioni di sistemi caratterizzati da diverse regole (indicate sotto ciascuna figura); ciascuna riga, a partire dall’alto, rappresenta un istante della dinamica del sistema; la sequenza di righe va dall’alto verso il basso (direzione del tempo); i 2 colori rappresentano gli stati (1/0) del sistema; il numero di quadratini neri sul totale rappresenta la densità iniziale. 141 )LJ (111) → (_ 0 _); (110) → (_1_); (101) → (_1_);(100) → (_ 0 _); Regole: (011) → (_1_);(010) → (_ 0 _);(001) → (_ 0 _);(000) → (_1_) Densità iniziale: 10% )LJ (111) → (_1_);(110) → (_1_);(101) → (_ 0 _);(100) → (_ 0 _); Regole: (011) → (_ 0 _);(010) → (_ 0 _);(001) → (_1_);(000) → (_1_) Densità iniziale= 10% 142 )LJ (111) → (_ 0 _); (110) → (_1_); (101) → (_1_);(100) → (_1_); Regole: (011) → (_ 0 _);(010) → (_1_);(001) → (_ 0 _);(000) → (_1_) Densità iniziale= 65% )LJ (111) → (_ 0 _); (110) → (_ 0 _);(101) → (_1_);(100) → (_ 0 _); Regole: (011) → (_1_);(010) → (_1_);(001) → (_ 0 _); (000) → (_1_) Densità iniziale= 15% 143 Il modello permette di riflettere sulla problematicità di definire leggi di evoluzione dell’intero sistema, a partire dalla mera conoscenza delle condizioni iniziali e delle regole di innovazione. Infatti il sistema appare essere particolarmente sensibile a cambiamenti marginali dei parametri legati alla condizione iniziale ed all’algoritmo attraverso il quale evolve. Ciononostante il sistema esibisce, nella sua evoluzione, delle regolarità che appaiono interessanti sebbene non siano intuitivamente riconducibili alle regole di interazione locale ossia ai comportamenti tipizzati sui quali si fonda il sistema culturale rappresentato. Tale modello permette così di derivare seppur in modo stilizzato, le regolarità intrinseche che caratterizzano l’evoluzione di un sistema culturale a partire da alcune regole di base che si assumono essere i suoi comportamenti tipizzati. Le dinamiche variegate emergenti mostrano, nella loro varietà e nella loro consistenza dinamica, l’impossibilità del policy maker di poter effettuare interventi a partire dalla mera conoscenza di comportamenti tipizzati che sono alla base del sistema. In altre parole la conoscenza delle regole di base del sistema non permette in modo banale la derivazione di implicazioni normative in quanto tali regole definiscono percorsi evolutivi radicalmente differenti (come si osserva nella figure 1-2-3-4); ne consegue che l’intervento del policy maker è adeguato solo nella misura in cui è in grado di individuare le regolarità che dominano l’evoluzione del sistema. Ma tale individuazione non può essere che H[ SRVW in quanto presuppone una osservazione del sistema e della sua evoluzione. In altre parole il policy maker può intraprendere scelte efficaci solo nella misura in cui tali scelte non siano fondate sui meccanismi tipizzati del sistema ma sulle conseguenze aggregate di tali meccanismi; un intervento efficace del policy maker non può collocarsi né nella fase a monte (condizioni iniziali della configurazione del sistema rappresentato dalla densità), né basandosi sulle regole di base (meccanismo algoritmico) che regolano l’innovazione degli stati del sistema. La possibilità di definire un’efficacia di azione del policy maker può avvenire soltanto sulla scorta di una osservazione attenta e non banale della realtà; la criticità per l’efficacia di una policy è quindi nell’osservazione del sistema (ed in particolare della sua evoluzione) e non nelle scelte che seguono. Il modello proposto ha un valore didascalico più che di merito; serve infatti ad indicare la necessità di riflettere su possibili evidenze contro-intuitive che scaturiscono dall’interazione tra fenomeni culturali che si manifestano entro la sfera individuale (livelli micro) ed ordine emergente che si manifesta entro la sfera sociale (livello macro). 144 'HULYD]LRQHGLLPSOLFD]LRQLQRUPDWLYH /RVWXGLRGLFDVL Proponiamo un breve FDVH VWXG\ Linz attraverso interventi di sulla riqualificazione territoriale della cittadina austriaca di SXEOLF SROLF\ in cui la cultura emergente e la creatività spontanea del territorio sono stati fattori critici di successo. Ci proponiamo di descrivere il processo che ha portato da uno “stato evolutivo124 1”, che ha caratterizzato la cittadina per lunghi anni, ad uno “stato evolutivo 2” in cui è ampiamente manifesta una mutazione del territorio, della cultura dominante e del tessuto di capitale sociale. 6( Linz è nota soltanto come il polo siderurgico austriaco; 6( Oggi Linz è il terzo polo culturale dell’Austria, e in particolare il più importante centro nazionale (e uno dei centri più importanti del mondo) nel campo della multimedialità e delle nuove tecnologie applicate alla cultura (Sacco, 2003). Processo SE1 Æ SE2: alla fine degli anni Settanta (’79) si tiene a Linz la prima edizione di Ars Electronica, una manifestazione internazionale, anche se molto di nicchia, che esplora le possibili utilizzazioni delle “nuove” tecnologie in campo creativo ed artistico. Dall’edizione dell’87 viene istituito un premio “Prix Ars Electronica” che aumenta il richiamo internazionale in campo di computer art. L’iniziativa ha già definito due dei “tratti culturali125” che ne determineranno il successo ed il contributo allo sviluppo del territorio: da una parte emerge, infatti, una concentrazione di competenze in ambito tecnologico ed informatico, dall’altra la cittadina si popola sempre più di “gente creativa” che innesca un meccanismo di contagio attraverso la socializzazione. L’amministrazione locale consapevole dell’importanza di ciò che sta spontaneamente emergendo decide di sostenere l’iniziativa, disponendo la costruzione di un centro culturale ultimato nel ’96: il Museum of the Future. Non passerà molto tempo perché questo passo manifesti delle conseguenze; da una parte il museo diventa uno dei centri culturali più visitati dell’Austria, dall’altra, ancora una volta in modo 124 Gli stati evolutivi qui presentati non sono precisamente collocabili nel tempo se consideriamo un processo evolutivo multilineare come quello socio-culturale. Alcuni tratti culturali iniziano a variare prima, altri dopo, incrociandosi in un tessuto spesso inestricabile (vedi paragrafo 2.1). Tuttavia assumiamo che, quando il livello aggregato di cambiamento sia direttamente osservabile da parte di una popolazione, che ne assume consapevolezza tanto da cercare di istituzionalizzarlo, si possa registrare il passaggio ad un nuovo stato. 125 Potremmo parlare di “memi”, come di tratti di una cultura che sono in grado di autoreplicarsi e quindi propagarsi ed evolvere nel tempo (Dawkins, 1987). 145 spontaneo, si costituisce all’interno del museo il FutureLab, un laboratorio multimediale che inizia con la produzione per l’arte, ma in breve tempo inizia ad offrire i propri servizi sul mercato e si dimostra un centro d’eccellenza internazionale per la multimedialità. Le competenze, dalla produzione culturale iniziano a filtrare al sistema produttivo e culturale WRXWFRXUW con gradualità e naturalezza. Dall’anno 2000 tale cambiamento viene istituzionalizzato dall’amministrazione cittadina che redige un piano di sviluppo in cui si dà grande peso alle condizioni di libertà di espressione e di trasparenza che garantiscono un libero sviluppo della ricerca e della creatività; si interpreta la politica culturale come predisposizione delle migliori pre-condizioni possibili per la creazione di nuova offerta e per la promozione di sinergie con i settori produttivi ad alto valore aggiunto immateriale. I criteri di finanziamento sono connessi esclusivamente a caratteristiche di innovatività, originalità, focus tematico su aree giudicate di particolare interesse e salvaguardia del patrimonio storico e delle attività tradizionali (Sacco, 2003). La trasformazione del territorio urbano avviene in modo lento e graduale, ma a velocità crescente dal momento in cui l’intervento pubblico si manifesta. Tale aspetto è indicativo di come un intervento pubblico (attuato nel momento in cui un’iniziativa abbia già trovato una sua legittimazione) possa avere effetti positivi a cascata su tutto il territorio. Un altro aspetto importante dal caso Linz è che l’”emergenza locale” non è strettamente correlata con un concetto di cultura chiusa entro i confini geografici di una popolazione. Ars Electronica è soprattutto una manifestazione dal carattere internazionale, tuttavia gli effetti positivi sono riscontrabili a livello di territorio. Il caso di Linz è ideale nel mostrare come il museo viene creato per contenere un fenomeno emerso autonomamente (per auto-organizzazione) ed, al più, per creare una struttura contenitiva che eviti di disperdere le idee ed il capitale sociale collegato alla manifestazione. Diverso è, per certi versi, opposto il caso di centri cittadini che tentano la strada della riqualificazione con interventi spettacolari simili a “giganti dai piedi di terracotta”; un esempio potrebbe essere la cittadina di Bilbao dove è stato creato un contenitore museale spettacolare (Guggenheim Museum) quanto decontestualizzato, per contenere opere che non vengono apprezzate perché risultano percepite come secondarie rispetto alla spettacolarità, fine a se stessa, del museo. Il processo in questione è stato definito, in modo calzante, “disneyficazione” dell’esperienza culturale; lo studioso americano Gorge MacDonald è stato il primo a 146 parlare di questo processo, cioè l’assunzione di Disneyworld, il modello Disney del parco a tema, come modello di riferimento per il museo del futuro. /DORJLFDGHOO¶LQWHUYHQWR L’adozione di un framework evoluzionistico, oltre ad essere funzionale alla problematica sulla cultura, rappresenta uno strumento di analisi particolarmente affinato per la derivazione di implicazioni normative. La possibilità di osservare la cultura come fenomeno essenzialmente evolutivo delinea una prospettiva analitica interessante per il policy maker, ai fini di un intervento finalizzato ad uno sviluppo locale basato sull’esperienza culturale. Il framework darwiniano permette, infatti, di comprendere il fenomeno culturale nelle sue fasi e quindi fornisce le coordinate per un’azione mirata in quanto calibrata sulle caratteristiche salienti dei singoli stadi che dominano l’evoluzione dei fenomeni culturali. Gran parte dell’incertezza alla quale è sottoposta la policy è riconducibile all’adozione di una prospettiva statica per la comprensione dei fenomeni, ossia ad una assenza di discriminazione temporale dei momenti di innovazione, selezione e ritenzione dei fenomeni culturali. Le argomentazioni che abbiamo proposto vanno nella direzione di un tentativo di apertura della black box che caratterizza la strutturazione dell’esperienza culturale. Per quanto banale possa sembrare, il policy maker solitamente tende a considerare l’esperienza culturale come un bene di consumo prima che una risorsa di produzione e di sviluppo. Tale logica spinge a collocare la sua azione nella costruzione delle condizioni di contorno (il mercato) entro le quali l’esperienza culturale possa essere “scambiata”. Come abbiamo affermato inizialmente l’accezione che noi diamo al concetto di cultura, senza (volutamente) specificarne una definizione, non è quella che tenderebbe a far coincidere l’”esperienza culturale” con gli eventi che vorrebbero caratterizzarla. L’ambiguità sottesa al concetto di “cultura” potrebbe apparire una mera questione terminologica; in realtà l’ambiguità terminologica è un segnale interessante del diverso significato che i diversi attori sociali danno ad una “entità” che chiamano nello stesso modo. Il problema sostanziale che vogliamo evidenziare è che la cultura non è l’”evento” ma il processo che porta (eventualmente) alla costruzione di eventi; e, per quanto banale possa sembrare, crediamo che i policy maker non siano particolarmente propensi a riflettere in tale direzione. 147 Nella nostra opinione, la prerogativa del policy maker dovrebbe essere quella di collocarsi nella fase di UHWHQWLRQ della produzione culturale, e non nella creazione del modello evolutivo che vorrebbe dominare la stessa speciazione della cultura (o tantomeno nella fasi a monte che evocherebbero una deriva eugenetica della cultura). Quindi, la logica che i policy maker dovrebbero adottare differisce notevolmente da quella attualmente vigente; occorrerebbe passare da una logica top-down (di supervisione e costruzione delle condizioni di contorno) ad una bottom-up (di partecipazione effettiva ai singoli fenomeni puntualmente emergenti): i policy maker dovrebbero iniziare ad entrare nel gioco di produzione della cultura attraverso una nuova forma di mecenatismo invece che agire come meri catalizzatori, decontestualizzati e solo lascamente connessi con la dimensione sostantiva. La soluzione, quindi, non è quella della costruzione dei contenitori e/o di creazione delle condizioni e delle regole per lo sviluppo ma, paradossalmente, quella dell’interesse sostantivo negli accadimenti che generano la cultura intesa innanzitutto come fenomeno sociale, locale e diffuso: la costruzione del contenitore è legittima (oltre ad essere efficace) solo nella misura in cui già esiste un contenuto. In altre parole si vuole indirizzare allo sviluppo, non di un modello di distretto culturale (caratterizzato da integrazione verticale) ma, di un cluster culturale nel quale siano le stesse istanze locali ad auto-organizzarsi attraverso interazione orizzontali ed a generare le stesse grammatiche che regolano la fruizione degli artefatti prodotti (e quindi la stessa cultura). Il concetto di cluster è interessante in quanto suggerisce la prossimità tra artefatti ed individui, e quindi l’endogenità dello stesso “senso” che emerge dalla loro interazione. Occorrerebbe quindi sensibilizzare gli stessi policy maker non tanto all’adozione di una logica di managerializzazione della cultura ma ad una “sensibilità verso i contenuti sostantivi della cultura”; paradossalmente la possibilità di gestire, in un’ottica manageriale avanzata, la produzione di cultura si traduce in una insufficiente allocazione di risorse cognitive (degli stessi policy maker) sugli stessi artefatti culturali, in evidente contraddizione con la millenaria tradizione di mecenatismo e con gli attuali picchi di eccellenza dell’industria italiana caratterizzati da una partecipazione sostanziale alla dimensione edonistica (ad esempio il “mito” Ferrari). Per quanto banale possa sembrare, non è possibile operare alcuna scelta se non si ha una conoscenza della sfera entro la quale tale scelta pretende di collocarsi. Ciò che si vuole suggerire (in modo solo apparentemente provocatorio) è, quindi, non una managerializzazione di tipo mainstream, ma la necessità di “crescere nella consapevolezza di essere parte di una cultura” al fine di poter apprezzare, in modo disinteressato e non finalizzato, gli 148 accadimenti e gli artefatti che compongono quel puzzle che si pretende definire cultura; è questa, a nostro avviso, una condizione necessaria per uno sviluppo del territorio basato sulla cultura. Tale orientamento implica che il policy maker deve “comprendere l’emergenza culturale” in modo partecipato, in un processo di lungo periodo; e tale processo non può verificarsi soltanto (passivamente) sulla scorta di mere tecnologie per l’osservazione, ma deve manifestarsi (attivamente) attraverso una strutturazione del “senso”; in questa ottica qualsiasi policy non può che collocarsi ex post ed a valle, ossia a strutturazione avvenuta. Se si vuole generare un ritorno economico rilevante ed innestare sviluppo, non si può prescindere dalla necessità di conoscere, apprezzare, vivere realmente, profondamente ed accuratamente il “prodotto culturale” che si pretende di vendere. 5 ñ(òóôñ!õóö÷ñøñ!øùñúûôüò,ñýñ Arthur B. Durlauf S. Lane D. (1997), 7KH (FRQRP\ DV DQ (YROYLQJ &RPSOH[ 6\VWHP ,, , Addison-Wesley. Asbhy W.R (1952), 'HVLJQIRUD%UDLQ, Chapman & Hall. Berger P.L. Luckmann T. (1970), 'LH JHVHOOVFKDIWOLFKH .RQVWUXNWLRQ GHU :LUNOLFKNHLW (LQH 7KHRULHGHU:LVVHQVVR]LRORJLH , 3. Aufl., Frankfurt. Boyd R. Richardson P. (1985), &XOWXUH DQG WKH HYROXWLRQDU\ SURFHVV , University of Chicago Press, Chicago. Brown L. (1981), ,QQRYDWLRQ'LIIXVLRQ$1HZ3HUVSHFWLYH, Methuen, New York, NY. Campbell D.T. (1965), 9DULDWLRQ DQG VHOHFWLYH UHWHQWLRQ LQ VRFLRFXOWXUDO HYROXWLRQ R. Barringer, George I. Blanksten and Raymond W. 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II, Santa Fa Institute, Addison-Wesley, Reading, MA. 150 & 3 üþ0ñ÷úùú"ÿñ úùñ÷ñý2óñü÷÷ôüñúöóóûùññ!öÿó/÷ñ!õóö÷ñó4ôúùú óûùñóö÷ñùú2ýüùñöóùùú1ÿñ!ùþþú óýúöúõ.ñýú öü#ÿóôñ!òñýü"óõ'þñ!ôñýü#ñ!ö ∗ & üõþ,üöñ(ü ∗∗ di Arturo Papasso , Rosalba Loffredo , Pasquale Russiello∗∗ ,QWURGX]LRQH Le rapide trasformazioni in corso nei processi di sviluppo economico a livello globale, e la riorganizzazione in atto nella ripartizione internazionale delle attività produttive, hanno condizionato profondamente le politiche di incentivazione e attrazione degli investimenti, realizzate dagli Stati nazionali e dalle amministrazioni locali. Oggi i sistemi territoriali competono fra loro, sfruttando i rispettivi vantaggi competitivi comparati e compensando eventuali punti di debolezza con incentivi e programmi di attrazione di nuovi investimenti. Benefici fiscali, agevolazioni finanziarie e servizi reali possono, infatti, migliorare l’equilibrio economico delle nuove iniziative che, in assenza di tali incentivi, opterebbero per altri siti; o anche possono evitare fenomeni di delocalizzazione di iniziative già insediate nel territorio. L’importanza crescente delle politiche di attrazione degli investimenti si è, tuttavia, scontrata con l’esigenza di politiche economiche mirate al contenimento della spesa pubblica, che ha comportato una significativa riduzione delle risorse finanziarie a disposizione delle amministrazioni centrali e locali. Si comprende, pertanto come, al fine di evitare il dispendio di risorse finanziarie limitate, la scelta degli strumenti e delle modalità di incentivazione abbia assunto una notevole rilevanza nella definizione delle politiche di sviluppo delle pubbliche amministrazioni e si manifesti un sempre maggiore interesse per studi e ricerche finalizzate a valutare l’efficacia dei diversi strumenti al fine di orientare le scelte degli amministratori su quei modelli di incentivazione che hanno dato migliori prove in termini di raggiungimento degli obiettivi. ∗ Ordinario di Economia e gestione delle imprese e finanza aziendale presso la Facoltà di Economia, Università degli Studi del Sannio e ordinario di Economia e gestione delle imprese presso la Facoltà di Economia, Università degli studi di Napoli “Federico II”. ∗∗ Cultore della materia presso il DASES, Dipartimento di Analisi dei Sistemi Economici e Sociali, Università del Sannio. ∗∗∗ Cultore della materia presso il DASES, Dipartimento di Analisi dei Sistemi Economici e Sociali, Università del Sannio. 151 In tale ambito, il presente lavoro si propone di fornire un sia pur limitato contributo a tale filone di studi, proponendo un confronto fra due diverse filosofie di intervento e verificando, mediante l’analisi di alcuni casi, i risultati della loro applicazione in Campania nel periodo 2000-2005. In particolare, si esamineranno da un lato gli strumenti di programmazione negoziata (Patti territoriali e Contratti di investimento), dall’altro, le agevolazioni a favore delle piccole e medie imprese di cui alla Legge n. 266 del 1997. Dopo un paragrafo, dedicato alla descrizione dei due strumenti, si propone una metodologia di valutazione articolata in due momenti, un primo orientato ad un confronto sintetico di efficacia degli strumenti, un secondo, basato su una disamina più analitica di alcuni casi di applicazione delle due tipologie di intervento. Le conclusioni, sia pure non generalizzabili, tenuto conto dei limiti della presente ricerca, possono fornire utili indicazioni per le future scelte di amministratori e SROLF\ PDNHU . 3URJUDPPD]LRQHQHJR]LDWDHVWUXPHQWLGLDJHYROD]LRQL 3DWWLWHUULWRULDOL Nel corso degli ultimi anni, le politiche di attrazione degli investimenti attuate dai sistemi territoriali hanno potuto avvalersi dell’introduzione di una nuova famiglia di strumenti conosciuta come “Programmazione Negoziata” che in particolare in due declinazioni – Contratti d’Area e Patti territoriali – ha visto assumere un ruolo più incisivo e determinante da parte degli enti locali. I Patti territoriali, come strumento di programmazione negoziata finalizzato allo sviluppo locale, sono definiti dalla legge n. 662/1996 art. 2, comma 203 e si basano sull’accordo tra più soggetti pubblici e privati (enti locali, associazioni imprenditoriali, organizzazioni sindacali, banche, camere di commercio, imprese private) per l’attuazione di un programma di interventi caratterizzati da specifici obiettivi di promozione dello sviluppo locale. La loro attuazione, disciplinata dalla delibera CIPE del 21 marzo 1997 può riguardare l’intero territorio nazionale, tuttavia, le risorse pubbliche deliberate dal CIPE, sono utilizzabili esclusivamente nelle aree depresse di cui alla disciplina dei fondi strutturali comunitari (Obiettivo 1 - 2), nonché in quelle rientranti nella fattispecie dell’art. 873c del Trattato di Roma. Le iniziative ammissibili al finanziamento possono riguardare i seguenti settori: - industria - agroindustria - agricoltura - pesca e acquacultura 152 - turismo - servizi - apparato infrastrutturale. Il progetto di Patto deve essere il risultato di un lavoro svolto congiuntamente da parte di tutti i soggetti locali interessati allo sviluppo dell’area: enti locali, imprenditori, sindacati, associazioni, università, banche. Si tratta di un percorso non semplice, per il numero dei soggetti coinvolti e per la complessità degli interessi che devono contemperarsi, tuttavia, proprio la concertazione locale, che deve accompagnare l’intero processo di realizzazione del Patto territoriale, può considerarsi il punto qualificante dello strumento. Complessivamente le risorse assegnate dal Cipe per il periodo 1998/2007 ai Patti territoriali ammontano a 5390,5 milioni di euro e le risorse impegnate risultano 5281,3 milioni di euro. Al 31 dicembre 2004 risultano attivi126 in Italia 208 Patti territoriali, di cui 118 generalisti e 90 agricoli. La Tabella 1 mostra la distribuzione territoriale dei Patti attivi tra il centro-nord ed il sud dell’Italia, gli investimenti complessivi (che includono sia quelli imprenditoriali che quelli infrastrutturali) e le erogazioni effettuate. 5HJLRQH Centro-Nord Mezzogiorno Italia 7LSRORJLD 1 UR DWWLYL DO ,QYHVWLPHQWL FRPSOHVVLYL PLJOLDLDGLHXUR (URJD]LRQL DO PLJOLDLD GL HXUR generalisti 43 215.612 393.308 agricoli 24 928.100 73.740 totale 67 1.143.712 467.048 generalisti 75 1.239.605 1.250.118 agricoli 66 5.251.244 420.635 totale 141 6.490.850 1.670.753 generalisti 118 1.455.218 1.643.427 agricoli 90 6.179.344 494.375 totale 208 7.634.562 2.137.801 7DEHOOD3DWWLWHUULWRULDOLQD]LRQDOLDWWLYLHGHURJD]LRQLFRPSOHVVLYHDOGLFHPEUH 126 Si definiscono attivi i patti che abbiano ottenuto almeno una erogazione del contributo pubblico. Fonte: Dipartimento delle Politiche di Sviluppo (DPS) e elaborazioni DPS su dati del Ministero delle Attività Produttive 127 153 /HJJHQGHO La Legge 266/1997, nota come Legge Bersani, prevede l’assegnazione di fondi da destinare ad interventi per lo sviluppo imprenditoriale in aree di degrado urbano e sociale, e con il D.M. n. 225/1998 regolamenta l’attuazione degli interventi per l’incentivazione della piccola imprenditoria in aree degradate. In particolare l’art. 3 del D.M. n. 255/1998 prevede azioni finanziabili, che includono programmi di intervento legati ad “DQLPD]LRQH HFRQRPLFD HG DVVLVWHQ]D WHFQLFD SHU OD SURJHWWD]LRQHHGDYYLRGLLQL]LDWLYHLPSUHQGLWRULDOLLQWHUYHQWLIRUPDWLYLULJXDUGDQWLO DXWRLPSLHJRH OD FUHD]LRQH GL LPSUHVD FRVWLWX]LRQH GL LQFXEDWRUL GL QXRYD LPSUHQGLWRULDOLWj DQLPD]LRQH H DVVLVWHQ]DWHFQLFDDOODFRVWLWX]LRQHGLFRQVRU]LHLPSUHVHPLVWHFRQSDUWHFLSD]LRQHPDJJLRULWDULDGL LPSUHVH ORFDOL]]DWH QHOO DUHD GL LQWHUYHQWR LQWHUYHQWL SHU VYLOXSSDUH O DVVRFLD]LRQLVPR HFRQRPLFR ODFRRSHUD]LRQHD]LHQGDOHLQWHUYHQWLSHUODFUHD]LRQHGLVHUYL]LQHOFDPSRGHOO DVVLVWHQ]DWHFQLFDH PDQDJHULDOH GHOOD VSHULPHQWD]LRQH GHOOD TXDOLWj H GHOO LQIRUPD]LRQH D IDYRUH GHOOH LPSUHVH LQWHUYHQWL SHU OD WXWHOD GHOOH FRQGL]LRQL GL ODYRUR H OD VDOYDJXDUGLD GHOO DPELHQWH >«@ ”; mentre l’art. 4 sempre del suddetto decreto ministeriale prevede “DJHYROD]LRQL DOOH LPSUHVH D IURQWH GHOOH VSHVHVRVWHQXWHSHUODUHDOL]]D]LRQHGHLSURJHWWLQHOOHDUHHGLGHJUDGRXUEDQR ”. Gli interventi disciplinati dalla L. 266/97 e dal D.M. 225/98 sono orientati allo sviluppo e alla riqualificazione delle aree metropolitane (Bari, Bologna, Cagliari, Firenze, Genova, Milano, Napoli, Roma, Torino e Venezia) e sono gestiti autonomamente dagli enti locali presenti sul territorio. Complessivamente, al 31/12/2005 le imprese beneficiarie dei finanziamenti della Legge 266/97 e D.M. 225/98 risultano in totale 9.418, di queste 6.349 beneficiarie rispetto all’art. 3 (ossia per la progettazione ed avvio di iniziative imprenditoriali), 2.087 rispetto all’art.4 (ossia per agevolazioni alle imprese a fronte delle spese sostenute per la realizzazione dei progetti), ed infine 982 beneficiarie di contributi legati sia all’art. 3 che 4. Le imprese definite “giovani”, ossia costituite non più di 24 mesi prima della data di concessione delle agevolazioni, sono ben il 59% delle imprese totalmente agevolate. 154 2ELHWWLYLHPHWRGRORJLD Il metodo adottato consiste nell’analizzare la concreta attuazione e i risultati conseguiti, tanto dei Patti territoriali tanto degli interventi realizzati mediante gli strumenti agevolativi di cui alla L. n. 266/1997. A tal fine si è in primo luogo provveduto a calcolare alcuni parametri di riferimento, come il totale delle risorse impegnate (RI), rappresentate dall’ammontare delle risorse formalmente destinate al finanziamento degli interventi, sulla base di appositi provvedimenti, che costituiscono un vincolo sugli stanziamenti di bilancio, le risorse stanziate(RS), risultanti dai valori indicati nei documenti di programmazione e dalle eventuali variazioni intervenute nel corso degli anni e le risorse erogate (RE), rappresentate dall’ammontare di risorse finanziarie accreditate ai soggetti beneficiari. Si è tenuto in considerazione inoltre la distribuzione territoriale e settoriale delle iniziative, la dimensione media degli interventi e successivamente si è calcolato il rapporto tra le risorse impegnate e quelle stanziate, nonché il rapporto tra le risorse erogate e quelle erogabili o riconosciute (RR), pari alle risorse impegnate al netto delle revoche e rinunce. ,ULVXOWDWLGHOOHLQL]LDWLYHDQDOLVLFRPSOHVVLYD Analizzando i dati disponibili128 CIPE, predisposti a cura dell’Unità di valutazione del Dipartimento per le politiche di sviluppo e coesione, del dicembre 2002, il valore medio delle risorse impegnate su quelle stanziate, per i primi 61 patti territoriali mostrati nel grafico (Figura 1), si attesta intorno al 87%. 128 Relazione per il CIPE, a cura dell’Unità di valutazione del dipartimento per le politiche di sviluppo e coesione, dicembre 2002. 155 "# ! ! . . $ %& 0 % , 5 + 6 6 8 %9 & 3 / & 6 + ) + 2 ) 7 ' ( %) 1 2 % & & /) & %) & ) 9 7 6 & & 3 & *7 7 7 * + , ) 4+ ) / &) 7 6 -% . & +( 7 7 2& . /) %+ ) + & , & 1 )76 7 . , $ %6 + * + , * 7 ) > + 6 ; $ & @ %7 3 7 ,7 6 @ & 9 $ & + 6 : 4+ - %; 7 = / 7 : & ,% / 9 %) 4% / + + : 6 + 1 % & ' 7 = 7 + 8 + ) < % + ) % + & ' ' $ % ; ; % / ) %+ / 4 - /%+ 1 + + / %7 ) + ? 7 ) & + % &66 - > *+, / + , 4 7 7 +66 7 5& 4+ ) + + . + /' % /+ -+ /+ . A 2 0+ + . + 6 & ) $ + ,7 A %6 A 7 ,7 > + 7 5 + /% ) / - 7 6 & 4 7 , ; + / & 47 4 / + ' 4 5 + 4 + ) 7 5 + ' + > 0B + ) + 6 7 / 7 6 7 4 + / 7 21 / % 1 / & +) >+ & / 4% ) + 3 /+ ) ;+ . > % , &6 3 & 1 % & 7 ) 1 1 %+ -DE C 4% ) & /& . F 2 & 7 , & A % + > 7 66 07 + / & : / + 6 : 4 0 % ' 7 4 & 4+ ) = + %) + / ' & 2 /7 G) & - 5+6 / )& 4 + / %,%; . & 6 + + 7) 4 4%) & . * %( & 5 + & 8 & ; A %/ + > + 8 + : 9 7 , 5 /%) + , 5 7 ) 8 7 ; ; G ) ) / ) /% ; 2 6 - & ) ' 7 ) %) - %6 4+ ) 6 7 9 7 + * + ,7 % + - 7 + % 7 4% & & % % 6 7 ) ) 7 4& 4+ 4%+ )LJXUDGLVWULEX]LRQHGHOOHULVRUVHLPSHJQDWHVXOOHTXHOOHVWDQ]LDWHSHULSULPL3DWWL Lo stesso indicatore di performance, relativo ai Comuni che hanno gestito autonomamente gli interventi disciplinati dalla L. 266/97 e dal D.M. 225/98, orientati allo sviluppo e alla riqualificazione delle aree metropolitane (Bari, Bologna, Cagliari, Firenze, Genova, Milano, Napoli, Roma, Torino e Venezia), si attesta intorno ad un valore medio più elevato, pari a circa il 93% che conferma gli ottimi risultati conseguiti in tutti i Comuni mostrati nella Figura 2. In particolare i Comuni di Bologna, Torino, Cagliari e Venezia hanno impegnato il 100% delle risorse erogate, a seguire Firenze con il 99,10%, Roma e Milano con circa il 97%, Genova con il 92,62 %, Napoli con il 77,72% ed, in ultimo, Bari con il 61,58%. L’efficienza ed efficacia delle agevolazioni gestite dai Comuni è dimostrata da tale indice di performance che vede nel suo totale un impiego da parte dei Comuni di ben il 93% delle agevolazioni stanziate dal Ministero dello sviluppo economico. 156 5,56 QLQ ILK Q ILILK P ILK O ILK NLILK M ILK HJILK RJST S UWVDX YX T U ZX \S [Z [ZV S ]_^ V ^` ZX aZ^ [ V` ^ bJSdc X T e Z XV S i Xj ^ f V Shg X ST R X Z [Z )LJXUD GLVWULEX]LRQH GHOOH ULVRUVH LPSHJQDWH VX TXHOOH VWDQ]LDWH SHU L &RPXQL FKH KDQQR JHVWLWR DXWRQRPDPHQWHJOLLQWHUYHQWLGLVFLSOLQDWLGDOOD/ Il secondo indicatore preso in esame è dato dalle risorse erogate rispetto alle risorse erogabili. In questo caso la differenza tra i due strumenti presi in esame è ben più netta e significativa. Per quanto riguarda il Patti territoriali, il valore delle risorse erogate su quelle erogabili, è in media del 33%. kmlon_pJqJrWsput lonpvqLrLwvx y l |}z#z#{ #z#{ #z#{ z#{ #z#{ z#{ z#{ #z#{ ~#z#{ |}z#{ z#{ ¢ ¢ £ £ £ ¤ ¡ ¨ £ ¦¥ © § £ © )LJXUDGLVWULEX]LRQHGHOOHULVRUVHHURJDWHVXTXHOOHHURJDELOLSHULSULPL3DWWL 157 In riferimento alla L. 266/97, invece, le risorse erogate al 31/12/2005 su quelle riconosciute raggiungono un valore medio del 71%, il che testimonia la rapidità di erogazione da parte dei Comuni dei fondi riconosciuti. In particolare, il Comune di Cagliari ha erogato ben il 92,62% delle risorse riconosciute, Venezia il 90,97%, Torino l’88,96%, Firenze il 77,40%, Napoli il 76,66%, Genova il 75,28%, Roma il 67,01%, Bologna il 56,12%, Bari il 50,32% ed infine Milano con 38,30%. 5(55 ³´«L«L¬ ²L«L¬ ±L«L¬ ° «L¬ ¯L«L¬ ® «L¬ «L¬ ªL«L¬ µD¶ ·L¸ ¹ ¶º ¹ »_¼½ ¼¾ ¿À º ½ ¹ À ¹¶ Á ¹ º ¼½ ¾  ¶ à ¸ Ä ¼½ Æ dÀ Ç À WÀ Å ¶ ¼ ¶ ¹ È À ¸À ¶º ·½ È ¹ ¶ ¸ ¹É ¶ ½ À )LJXUD GLVWULEX]LRQH GHOOH ULVRUVH HURJDWH VX TXHOOH ULFRQRVFLXWH SHU L &RPXQL FKH KDQQR JHVWLWR DXWRQRPDPHQWHJOLLQWHUYHQWLGLVFLSOLQDWLGDOOD/ Inoltre, analizzando la media dei due indicatori esaminati, si evince, come mostrato in Figura 5, un differenziale di performance tra lo strumento dei Patti e gli interventi ex L. n. 266/1997, gestiti direttamente dai Comuni. Il differenziale, a favore degli interventi di cui alla L. n. 266/1997 è pari al 5.51%, per quanto riguarda il rapporto tra risorse impegnate su risorse stanziate complessivamente, ed un differenziale pari al 39.49% per quanto riguarda il rapporto tra risorse erogate e risorse erogabili. 158 100% 90% 80% 5.51% 92,51% 87% 70% 71,37% 60% 40% 30% media 266 31,88% 20% media PT 39.49% 50% 10% 0% RI/RS RE/RR )LJXUDGLIIHUHQ]LDOHGLSHUIRUPDQFHWUDORVWUXPHQWRGHL3DWWLHJOLLQWHUYHQWLH[/Q /¶DQDOLVLGHLFDVL Dai dati osservati finora risulta che fra gli strumenti di attrazione degli investimenti esaminati, i Patti territoriali abbiano avuto una implementazione più macchinosa e lenta, laddove, le agevolazioni di cui alla Legge n. 266/1997, gestiti direttamente ed autonomamente dai Comuni, appaiono uno strumento di più semplice e immediato utilizzo. Al fine di verificare queste ipotesi, mediante analisi meno superficiali, sono stati esaminati alcuni casi relativi alla regione Campania ed in particolare: - il Patto Territoriale della Penisola Sorrentina; - il Patto Territoriale dei Campi Flegrei; - gli interventi ex L. n. 266/1997 dell’area metropolitana di Napoli. 159 ,O3DWWRWHUULWRULDOHGHOOD3HQLVROD6RUUHQWLQD Il Patto territoriale della Penisola Sorrentina, definitivamente approvato il 27 febbraio 2004129, ha interessato gli ambiti territoriali formati dai Comuni di Massalubrense, Meta, Piano di Sorrento, Sant’Agnello, Sorrento e Vico Equense. Sono state ammesse a partecipare al patto tutte le imprese che hanno chiesto di usufruire dei contributi previsti dalla normativa per i "Patti territoriali" e le imprese ammissibili ai sensi della Legge n. 488/1992 e successive modificazioni ed integrazioni. Le iniziative proposte sono state complessivamente 172, di cui 11 per attività infrastrutturali, suddivise secondo i Comuni richiedenti in: 60 iniziative per Massa Lubrense, 42 per Sorrento, 13 per Sant’Agnello, 13 per Piano di Sorrento, 7 per Meta e 37 per Vico Equense. Il totale degli investimenti richiesti ammonta a 84.507.325,94 euro, suddivisi come mostrato in Tabella 2. Il San Paolo Banco di Napoli ha terminato l' istruttoria bancaria per tutti i progetti presentati. Al Ministero sono stati inviati 125 fascicoli per il vaglio finale. Le imprese che hanno presentato la dichiarazione di inizio investimento risultano, ad oggi, 49, mentre quelle che hanno chiesto la prima erogazione sono solo 10. In riferimento a queste iniziative, è previsto un numero di nuovi occupati a regime, pari a 313 unità. Questi dati ed i risultati realizzati in termini di risorse erogate su risorse decretate, pari a circa il 3%, mostrano l’inadeguatezza dello strumento, dovuta essenzialmente all’elevatissimo numero di adempimenti amministrativi previsti. 129 L’evoluzione normativa per l’assegnazione dei finanziamenti del Patto territoriale della penisola Sorrentina prevede: le deliberazioni CIPE n. 29 del 21/03/97 e n. 69 del 22/06/2000 aventi ad oggetto la “Disciplina della Programmazione Negoziata” con particolare riferimento ai Patti Territoriali e le successive modificazioni ed integrazioni; il Decreto del Ministero del Tesoro, del Bilancio e della Programmazione Economica n. 320 del 31/07/2000, recante il regolamento concernente la disciplina per l’erogazione delle agevolazioni relative ai Patti Territoriali ed ai Contratti d’Area; la decisione adottata dalla Commissione Europea il 12 luglio 2000 concernente l’Aiuto di Stato n. 715/1999 (Misure in favore delle attività produttive nelle aree depresse del paese – Legge n. 488/1992 – periodo 2000/2006); il D.M. del 14 luglio 2000 con il quale è stata recepita la decisione della Commissione Europea, che per effetto di tale decisione sono agevolabili esclusivamente gli investimenti avviati successivamente al 12 luglio 2000; la normativa di riferimento nazionale relativa ai Patti Territoriali ed ai Contratti d’Area; la deliberazione CIPE n. 26 del 25 luglio 2003, concernente la regionalizzazione dei Patti Territoriali e il coordinamento Governo, Regioni e Province autonome per i Contratti di Programma; il decreto PT. 003489 del 21 dicembre 2004, con il quale sono stati rettificati i decreti n. PT. 002230 del 7 febbraio 2004 e n. PT. 002393 del 19 maggio 2004 di approvazione del Patto Territoriale della Penisola Sorrentina; l’istruttoria del San Paolo Banco Napoli relativa al programma di investimento del Patto Territoriale Penisola Sorrentina. 160 &RPXQH 1 LQL]LDWLYH Massa ,QYHVWLPHQWL 2FFXSD]LRQH HXUR 60 24.623.115,58 165 Sorrento 42 24.203.752,58 213 S.Agnello 13 6.450.030,21 64 13 259.106.122,45 70 Meta 7 3.311.005,18 19 Vico Equense 37 22.624.427,38 Lubrense Piano di Sorrento 727$/( 7DEHOODGLVWULEX]LRQHGHOOHLQL]LDWLYHSHUFRPXQLLQYHVWLPHQWLRFFXSD]LRQH ,O3DWWRWHUULWRULDOHGHL&DPSL)OHJUHL Il Patto territoriale dei Campi Flegrei ha riguardato i Comuni di Bacoli, Procida, Quarto, Pozzuoli e Monte di Procida, con il coinvolgimento di diversi numerosi Enti (la Direzione Regionale per i Beni Culturali e paesaggistici della Campania; la Provincia di Napoli; la Struttura regionale per l’attuazione art. 4 L. 80/84; la Soprintendenza per i Beni Archeologici delle province di Napoli e Caserta; la Soprintendenza per i Beni Architettonici ed il Paesaggio ed il Patrimonio Storico Artistico e Etnoantropologico di Napoli e provincia). La presentazione ha generato ben 200 progetti, con richieste di finanziamento per oltre 500 miliardi delle vecchie lire, evidenziando una significativa vivacità imprenditoriale e la presenza di investimenti di livelli dimensionali medio alti (1.25 Meu). Gli interventi nel loro insieme avrebbero previsto la creazione di 3.000 nuovi posti di lavoro. Sebbene le richieste di contributo avrebbero superato di molto il tetto massimo finanziabile di 50 Meu, le istruttorie non sono state proseguite. In questo caso, il trasferimento delle competenze sui Patti territoriali dal Ministero dell’Economia alle Regioni, nel 2000, ha rallentato e, di fatto, successivamente congelato il Patto pregiudicando il processo di riconversione in atto. 161 $JHYROD]LRQL/QQHOO¶DUHDPHWURSROLWDQDGL1DSROL Secondo i dati forniti dal Comune di Napoli130, le risorse stanziate dal Ministero ammontano a 21.500.000 euro, delle quali il 77,22% è stato impegnato dal Comune stesso. Sul totale impegnato, il 71,83% è stato riconosciuto e, fino alla data del 31 dicembre 2005, il 60,02% è stato effettivamente erogato. Le azioni di sostegno allo sviluppo promosse nel Comune di Napoli a seguito dell’ ex. Art. 3 D.M. n. 255/1998 sono state: • il Centro servizi incubatore d’impresa situato nell’ex complesso scolastico Baronessa, nel quartiere di Barra. Tale intervento si concentra su uno sviluppo del terziario avanzato che opera su processi innovativi applicabili all’industria tradizionale; • C.R.E.S.C. IMPRESA, realizzato nei quartieri dell’area nord di Napoli (Chiaiano, Miano, Piscinola, Scampia,Secondigliano,…) ed est del Comune Barra, Ponticelli, Poggioreale…), che prevede servizi logistici, tecnici ed operativi per piccole e medie imprese. • Incubatore distribuito al femminile sul territorio di Scampia, per fornire idee alle imprese selezionando una serie di servizi finalizzati alla progettazione, alla creazione ed all’avvio delle imprese. Le percentuali citate mostrano i risultati procedurali ottenuti dal Comune nel gestire ed assegnare i fondi stanziati dal Ministero. 130 Ministero dello Sviluppo Economico, IPI-Istituto per la Promozione Industriale, Università di Roma ”La Sapienza”- Facoltà di scienze politiche, Comune di Bari, Comune di Bologna, Comune di Cagliari, Comune di Firenze, Comune di Genova, Comune di Milano, Comune di Napoli, Comune di Roma, Comune di Torino, Comune di Venezia; La Legge 266/97 art. 14 – interventi per lo sviluppo imprenditoriale in aree di degrado urbano, Primo report di monitoraggio ed analisi del processo di definizione del quinto programma. 162 ÊWÓWÎ ÊWÑWÎ ÊWÊWÎ ÊWÏWÎ ÊWÖWÎ ÊÕ´Î ÊWÒWÎ ÊWÍWÎ Ê´ÐÎ ÊWÔWÎ ÏWÓWÎ ÏWÑWÎ ÊWÊÌË ÊWÍWÎ ÊWÏÌË ÏWÏWÎ Ê´ÐhË ÑWÒWÎ ×ÙØ Ú_×ÜÛ ×Ù×vÚ×ÝØ ×ÙÞÌÚ×Ý× )LJXUDGLVWULEX]LRQHGHLSULQFLSDOLLQGLFDWRULSHULO&RPXQHGL1DSROL I risultati dei programmi dal 2000 al 2002 legate alle iniziative finanziate sono stati riscontrati dai dati presenti nella Tabella 3. Il numero di imprese beneficiarie delle agevolazioni sono state ben 261; i nuovi occupati sono stati 470,62 con una media di 1,80 occupato per azienda. ,PSUHVHEHQHILFLDULH 'DWL 261 1XRY LRFFXSDWL 1XRYLRFFXSDWLSHUD]LHQGD 470,62 1,80 7DEHOOD'DWLRFFXSD]LRQDOL&RPXQHGL1DSROLOHJDWLDOOHLQL]LDWLYHILQDQ]LDWH Complessivamente, i risultati conseguiti dal Comune di Napoli, in attuazione della L. 266/97, risultano molto soddisfacenti. Infatti, sia le aree centrali che periferiche hanno visto, grazie alle iniziative e ai finanziamenti proposti, una riqualificazione del tessuto socio-economico, con particolare attenzione alla promozione di iniziative tese a creare sviluppo e lavoro. In particolare tali iniziative non sono state finalizzate semplicemente all’ottenimento di un sostegno finanziario ma sono state indirizzate a fornire, nello stesso tempo, servizi all’impresa e agli aspiranti imprenditori, sostenendo l’innovazione tecnologica, lo sviluppo di capacità produttive, la crescita di competenze imprenditoriali, la qualificazione e la riqualificazione di figure professionali da coinvolgere nel processo produttivo locale. 163 &RQFOXVLRQLHLPSOLFD]LRQL L’analisi svolta ha evidenziato i differenziali in termini relativi di efficacia dei contributi gestiti con impianti procedurali semplificati, quanto meno sotto il profilo del soggetto proponente e, di conseguenza, è emersa la necessità di definire un modello nel quale il potere di attrazione degli incentivi debba influire in modo sinergico con le caratteristiche del territorio. Purtroppo, allo stato attuale, tali incentivi vengono interpretati come compensazione del panel131 di inefficienze presenti, in varie declinazioni ed entità, in molti territori con ritardi di sviluppo economico. Se per gli interventi realizzati con le agevolazioni di cui alla L. n. 266/1997 la valutazione è essenzialmente positiva, il giudizio sui Patti territoriali è necessariamente più articolato. I Patti hanno, infatti, dimostrato di aver fornito soluzioni adeguate nel velocizzare alcuni processi amministrativi connessi all’attività di investimento − in primis i problemi urbanistici − e di aver stimolato occupazione e indotto. In molti casi tuttavia, l’iter procedurale è risultato eccessivamente lento e contorto, tanto che alcuni Patti territoriali hanno subito ritardi tali da poter essere classificati come di fatto non più operativi. Il problema comune può essere individuato nella collegialità richiesta dallo strumento, che per rispondere ad un esigenza di sviluppo coordinato ed omogeneo ha imposto che il soggetto proponente fosse costituito da più autonomie locali, replicando a livello multiterritoriale, le problematiche più note in sede istituzionale, con l’aggravante dell’ulteriore vincolo delle rappresentanze, alle quali le autonomie locali dovevano rispondere, nominando delegati con poteri decisionali vincolanti. Il risultato è stato che il percorso si è dimostrato fluido in quelle situazioni nelle quali i diversi operatori riuniti nel soggetto proponente hanno manifestato una sostanziale sintonia politico/programmatica; negli altri casi, invece, l’iter è stato farraginoso o non è stato percorso affatto. Assunto che il problema del coordinamento di enti locali confinanti si presenta in varie occasioni rimanendo, molte volte, irrisolto, la valutazione andrebbe fatta sul trade off tra l’efficacia strategica di uno strumento di sviluppo coordinato riguardante territori omogenei ed una molteplicità di interventi autonomi, di piccole dimensioni, ma immediatamente cantierabili. Complessivamente, i risultati conseguiti dai Patti territoriali sono indubbiamente influenzati dalle condizioni di contesto istituzionale e di capitale umano dedicato. Dall’analisi svolta emerge 131 Il riferimento è a ricerche sull’inefficienza del sistema giudiziario, della sicurezza, delle infrastrutture, dei tempi medi di espletamento delle attività amministrative, ecc. 164 una eterogeneità dei soggetti gestori ed una perdita di rappresentatività delle istituzioni create dai Patti. Rispetto al contesto in cui sono sorti i primi Patti, attualmente è meno diffusa l’esigenza di istituzioni miste, mentre le istituzioni locali tradizionali sono sempre più predisposte a guidare lo sviluppo e l’evoluzione dei territori e sentono sempre di più l’esigenza di garantire, mediante questo strumento, l’esercizio di alcune funzioni di servizio al territorio. È questo, infatti, un ulteriore aspetto dell’inefficienza dei Patti territoriali, ma anche degli altri strumenti della programmazione negoziata, che non prevedono un’adeguata quantità di risorse per i beni collettivi, per i servizi reali alle imprese o per la gestione di servizio per il territorio. Aspetti che potrebbero essere meglio gestiti prevedendo interventi meno vincolati alle vocazioni socio economiche del territorio e coinvolgendo soggetti attuatori con una diretta padronanza del territorio. L’esperienza dei Patti territoriali in particolare ha fatto emergere, con assoluta evidenza, infine, l’efficacia dell’azione di de-marketing territoriale svolta dai complessi passaggi amministrativi ai quali sono sottoposti i soggetti economici in genere e coloro i quali si rendono disponibili a contribuire allo sviluppo di un’area in specie. Le considerazioni svolte inducono, infine, ad alcune riflessioni sul ruolo degli enti pubblici territoriali nei processi di attrazione e supporto degli investimenti produttivi. Gli enti pubblici territoriali, e in particolare i comuni, potrebbero infatti fornire strumenti e mezzi di potenziamento dell’attività di recupero di efficienza, intesi in questo caso come gestione diretta di strumenti di incentivazione alle amministrazione stesse in primis e quindi come ulteriori leve da distribuire all’esterno a supporto delle politiche di attrazione e sviluppo dirette. 165 5 ßáàoâãäß}åæâçéèÙßÝêëß}êìëߦíïîðãñòàÜßDóß Coppola E., Moccia F. D., &DPSDQLD /D SLDQLILFD]LRQH VWUDWHJLFD QHL SDWWL WHUULWRULDOL GHOOD 5HJLRQH , in: http://areavasta.provincia.salerno.it/av 2001n3/0sservatorio_campania _p41.html De Rita G., Bonomi A., 0DQLIHVWRSHUORVYLOXSSRORFDOH, Torino, Bollati Boringhieri, 1998. Del Monte A., Giannola A., ,VWLWX]LRQL HFRQRPLFKH H 0H]]RJLRUQR $QDOLVL GHOOH SROLWLFKH GL VYLOXSSR , Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1997. Maggioni V., Biondi G., Mustilli M., Sorrentino M. (a cura di), )DUHLPSUHVDD1DSROL)DWWRULH FRVWLGHOJDSORFDOL]]DWLYL , Prismi, 2004. 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