Il Re - di - Mezzo Scritto da Andrea De Spirt

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Il Re - di - Mezzo Scritto da Andrea De Spirt
Il Re - di - Mezzo
Scritto da
Andrea De Spirt
Baciami piccina
“Edward, è pronta la colazione! Su tesoro, scendi!”
“Eccomi amorino, un secondo e sono da te”. Mi trovavo in una stanza vuota,
senza mura e senza tetto: io ero vuoto e il mio alluce era vuoto. Mi giravo e nulla,
mi rigiravo e ancora nulla. Non avrei potuto pensare a un posto migliore, il sogno
di tutti. Avrei continuato all’infinito, senza tregua a vivere nel vuoto e a sentirmi
vuoto, ma purtroppo la mia mogliettina mi stava chiamando. Schioccai le dita, il
rumore ruppe il vuoto e io stavo già scendendo i gradini.
Mmm, che bontà oilalà! Dalla cucina un invitante profumo di torta di mele si
faceva spazio fra le camere, fuori i vigneti crescevano sotto i raggi del sole e una
debole brezza. Le finestre erano lambite dai colori mattutini, la casa scintillava, il
pavimento era stato passato con lo strofinaccio all’aroma di limone, il mulino
girava lento insieme al puntuale gallo, il fiumiciattolo scorreva tra lievi rumori, e la
mia mogliettina era in cucina a preparare invitanti manicaretti con un grembiule
rosa, la farina sulle mani e la ciocca per tenere fermi i suoi lunghi capelli biondi. Io
invece ero pronto, giacca e cravatta indossati: aspettavo il signor Aduard Little
Little James III che sarebbe venuto a propormi un’importante offerta di lavoro.
Avevo una famiglia perfetta.
Ah, quasi dimenticavo, forse perché sono troppo geloso, non vi ho ancora
presentato il mio gioiellino, Marilin, la mia piccola piccola bambina; ora si trova in
salotto distesa a pancia in giù sul tappeto per disegnare le sue fantastiche storielle.
Che tenera, quale tenerezza! Era così piccola, piccina picciò… la mia bambina!
“Buongiorno amorino, eccoti finalmente. Ho quasi finito di preparare la torta di
mele. Il tuo caffé è pronto sul tavolo, appena fatto e le focacce sono sul tuo piattino
preferito” mi disse Laura, mia moglie, non appena arrivai in cucina da lei. La
guardai negli occhi per alcuni secondi, le diedi un bacio e andai a sedermi.
“Sei perfetta amore mio, per questo ti ho sposata”. Le focacce e il caffè
andarono giù che era una delizia e sempre più tutto si avvolgeva nel tepore di una
splendida famiglia. Mi alzai e abbracciai Laura da dietro mentre era intenta a
lavare i piatti. “Che bella che sei amore mio…”
“Non mi dire così tesoro… anche tu sei bello e dolce”. Un altro bacio, questa
vola sul collo.
“Amore non qua, dai… hi hi…”
“Va bene tesoro, come vuoi, solo che sei così raggiante…vado a vedere cosa fa
la nostra piccola…”
“D’accordo amore. Io intanto finisco di preparare il pranzo per il signor Aduard
Little Little James III”. Uscii camminando all’indietro dalla cucina cosicché
potemmo guardarci ancora e assaporare la nostra invidiabile famiglia felice.
Attraversai il corridoio… quanto splendeva! Il parquet brillava e i quadri lo
contemplavano. Entrai nel salotto e mi distesi sul tappeto insieme alla mia piccina.
“Piccolo amorino mio…” le dissi, “diventi sempre più brava… sarai una
disegnatrice perfetta… e pensare che hai solo otto anni!”
“Grazie papino, lo spero tanto. Quando arriva l’ospite?”
“Dovrebbe essere qua a minuti piccina… hai fame?”
“Sì, molta”.
“Allora vado a vedere a che punto è messa la mamma, d’accordo?”
“Certo papino”. Mentre mi allontanavo da lei la vedevo sempre più piccina,
minuscola, la mia piccina per sempre.
Prima di tornare da Laura andai a prendere una boccata d’aria fresca e genuina.
Respirai a pieni polmoni e a braccia aperte la fresca aria di campagna osservando
le lunghe colline ondeggianti davanti a me. Alcuni pettirossi stavano cinguettando
sopra il tetto di casa, le rane gracidavano nello stagno e, proprio in quell’istante,
sentii un rumore di zoccoli lontani. Altri non poteva essere che il signor Aduard
Little Little James III. Non aspettai un secondo e rientrai immediatamente in casa.
“Amore Laura, piccolo amore mio, venite qua per cortesia”. Nessuna delle due,
come mi aspettavo, se lo fece ripetere altre volte e subito si presentarono al mio
cospetto. “Amore mio e piccolo amore mio… il signor Aduard Little Little James
III sarà qua a secondi, voglio che la nostra presentazione e tutto il resto siano
impeccabili, intesi?”
“Certo papino- certo amorino” risposero insieme. Finito il discorso la porta fece
toc-toc. Mi sistemai la cravatta e, gonfiato il petto, aprii sorridente la porta; anche
lui era sorridente. E adesso? Pensai. Se toglievo prima io il sorriso forse lui
avrebbe pensato che mi stavo comportando da gran maleducato, ma se lo toglieva
prima lui voleva dire che non gli era piaciuta l’accoglienza. Come dovevo
comportarmi? Tutto era perfetto, avevo pensato ogni cosa nel minimo dettaglio, ma
avevo tralasciato il sorriso. Che disdetta! Che madornale dimenticanza. Per ora
decisi di mantenere il sorriso e, viste le cose, anche lui optò per questa tattica.
Chiusi la porta e un buongiorno generale gli diede il benvenuto. Laura si presentò
con una bella stretta di mano mentre la mia piccina lo salutò timidamente. “Bene
arrivato!” dissi io dandogli una pacca sulla spalla.
“Grazie Edward… che famiglia splendida che hai, veramente magnifica!” e il
sorriso non se ne andava, né da lui né da me.
“Ti ringrazio Aduard… hai notato quanto è bella la mia piccina?”
“E’ veramente stupenda… piccina piccina…”
“Già, è la nostra piccolina,” confermai fiero abbracciando Laura. Quest’ultima,
alzando insolitamente una mano al cielo disse: “La torta di mele è pronta!”. Tutti ci
dirigemmo verso la cucina prendendo i rispettivi posti a sedere. I sorrisi si
accomodarono con noi. C’erano pollo fritto, insalata, patate arrosto, salmone,
gamberi e, naturalmente, la torta di mele. Il pranzo andò a meraviglia. Firmai il
contratto e parlammo di un viaggio in Europa da fare con la mia famiglia e la sua:
“Già, la Francia è il posto ideale… il divertimento sarebbe assicurato…” dicevo
appassionato.
“E’ vero… lo organizzeremo a qualunque costo” continuava lui entusiasta. Tutto
filava meglio di ogni previsione fino a quando non arrivò lei, la deliziosa torta di
mele. Laura con cura la mise a tavola, tolse il canovaccio bianco che manteneva il
calore e la tagliò accuratamente lasciando uscire un caldo fumo profumato.
Restammo tutti a guardare in silenzio. Nessuno mosse un dito. Ogni cosa
perfetta… ma lei, lei, la mia piccolina non doveva fare ciò che ha fatto. In quel
momento allungò il braccio che passò davanti ai miei occhi increduli e spaventati,
toccò la torta, sollevò due fette, ripassò davanti al mio sguardo e tornò sul suo
piatto. Mi mancò il respiro. Non poteva essere, non poteva! Perché lo aveva fatto?
Panico, un assoluto panico mi prese alla gola. Non poteva essere. Mi girai verso
Laura che invece era tranquilla. Scrutai Aduard Little Little James III. Stava
mangiando. Lei invece… Aveva appena compiuto un gesto adulto… il suo primo
gesto adulto. Aveva allungato la mano per prendere due fette di torta alle mele
passando davanti al mio sguardo. Oh santo cielo! Dove era finita la sua ingenuità
bambinesca? Per quale motivo mi aveva nascosto il suo lato adulto per così tanto
tempo? Quindi, se non ho sbagliato i calcoli, lei non era la mia piccina ma la mia
adulta. Non riuscivo a sopportarlo. Era incredibile come quella mano, passando
davanti a me, quella mano così liscia e vellutata, diventò rugosa e piena di
macchie; era una estranea, una persona indesiderata dentro casa mia. Feci il quadro
della situazione: io avevo fatto una bambina, e quando abbiamo deciso di averla
abbiamo detto: “Facciamo una bambina piccolina,” perciò tutto ora veniva messo
in discussione. Non era ciò che noi desideravamo, ma qualcosa di più. Tutto si
annebbiò. Noi volevamo piccolezza, non grandezza. Perché aveva voluto farmi
soffrire così tanto? Compiendo un enorme sforzo la guardai ma gli occhi mi si
chiusero; ci riprovai e fu là che tutto divenne chiaro. Era enorme, gigantesca. I suoi
occhioni fissavano la torta, le sue manone, le sue guancione, era sotto ogni aspetto
un’orrenda adulta. Come avevo fatto a non accorgermene prima?
La piccolezza non era mai esistita, era da sempre stata un regalo mai scartato.
“Laura facciamo una piccolina,” dissi, e allora perché è venuto fuori quell’essere
gigantesco?
Non c’era altra soluzione, in qualche modo dovevo eliminarla. Ma come? Non
potevo certo diventare un assassino, no, non è da me. Mi serviva un piano, una
trappola che distruggesse la sua immensità. Gliela avrei fatta vedere io.
Mi alzai da tavola e, ancora con quel sorriso sulle labbra che non riuscivo a
togliere, dissi gentilmente a Aduard Little Little James III che se ne doveva andare.
Anche il suo sorriso era sempre presente. Lo accompagnai solo io alla porta, lo
abbracciai e sorridendo aspettai, per non sembrare troppo scortese, che si
allontanasse al trotto del suo puledro. Ora il gigante era tutto mio, l’unica cosa che
ancora dovevo fare era esaminare se anche Laura aveva carpito l’enorme grandezza
della nostra bambina. Il sorriso scomparve. Disinvolto rientrai in cucina. Mi
avvicinai a Laura senza guardare il mostro e, come sempre, l’abbracciai da dietro.
“Lo sai?” le domandai.
“So cosa?” disse lei.
“Dai, lo so che lo sai”.
“Sai che so cosa?”
“Niente cosa, io so che sai quella cosa”.
“Niente cosa, cosa? Non so cosa è questa cosa che tu sai!”
“ So che sai ma non vuoi sapere la cosa che sai di sapere…” provai a spiegare.
“Non so quella cosa che tu pensi che io sappia, se tu la sai fammela sapere…”
“Te la faccio sapere se mi dici che tu la sai…”
“Ma io non la so”.
“La vuoi sapere?”
“Sì!”.
Non potevo rivelarle l’accaduto, era una questione di troppa importanza. Se non
se ne era accorta da sola era meglio lasciare le cose come stavano, avrei dovuto
arrangiarmi da me. (E pensavo… la trappola-trappola-trappola). Laura mi stava
fissando, dovevo inventarmi una scusa al più presto. Continuava a guardarmi. Non
si muoveva. Il sugo si stava bruciando, a lei non importava. Sudavo freddo.
“Banana!” esclamai. All’udir quel suono Laura tornò alle sue faccende domestiche
e io urlai: “Vittoria!” ritirandomi poi nel mio studio per deciedermi sul da farsi.
Chiusi lentamente la porta, girai la chiave nella toppa, abbassai le tapparelle, mi
sedetti al tavolino e solo una tenue lampada ad olio mi illuminò il volto. Ero
entrato appieno nella parte, l’enorme essere non aveva più scampo. Quella malefica
creatura mi aveva preso in giro fin dal principio, ma ora se la sarebbe vista brutta,
l’avevo smascherata in tutta la sua grandezza, ero riuscito a stanarla senza farmi
notare e ora tutto dipendeva dal mio piano. La salvezza della famiglia era nelle mie
mani. Presi un foglio di carta bianco e una penna blu, un bicchiere di Brandy e
avvicinai la lampada al foglio. Appoggiai la punta della penna sulla carta, pazientai
alcuni secondi nei quali riuscii a grattarmi naso, orecchie e toccarmi il mento con la
lingua indi tirare un lunga linea retta. La osservai. Ci siamo quasi, pensai. Gli occhi
mi bruciavano sotto il riflesso delle lenti da vista e il ginocchio non smetteva di
muoversi, nervoso. La punta toccò nuovamente la carta. Sempre più vicini al
traguardo. Ormai mancava veramente poco. La mano oscillava e, dopo un
momento di concentrazione, tirai un’altra linea retta che si incrociò con la
precedente. Che piano strabiliante stava nascendo! Veloce mi alzai ma, cambiando
idea, mi risedetti. Era uno sforzo sovraumano ma dovevo farlo, ne andava della
reputazione familiare. La mia ombra era proiettata, lunga, sul muro bianco alla mia
destra, si muoveva insieme a me e io insieme a lei. Il legno della casa scricchiolava
nel silenzio come quando nel tepore del letto non riuscivo ad addormentarmi.
Febbrilmente mi piazzai ancora il foglio davanti e la punta vi cadde
automaticamente sopra. La soluzione era sempre più chiara. Chiusi gli occhi e
quando gli riaprii una nuova linea era stata tracciata. Finalmente! Avevo il mio
piano!
Scesi da basso, uscii, andai in garage, presi la vernice gialla e mi nascosi dietro
la porta della sala da pranzo dove Laura e il mostro stavano parlando. Non ci volle
molto! L’essere informe si avviò verso camera sua. Lo seguii silenziosamente e,
prima che riuscisse ad aprire la porta della stanza, le rovesciai tutta la vernice
addosso. “Urrà!” gridai, ce l’ho fatta! Era incredibile, avevo sconfitto la sua
grandiosità.
“Ma… ma papino… che cosa hai fatto?” chiese stupito l’essere. Al suono di
quel papino mi paralizzai, non riuscii più a muovere un muscolo; sentivo che si
stava avvicinando a me ma, prima che arrivò, iniziai a correre verso lo studio.
Qualcosa non aveva funzionato. Avevo miseramente fallito! Maledetta e subdola
enormità! La odiavo, la odiavo! Doveva esserci pur qualcosa per distruggerla, ma
cosa?
Senza tormentarmi ulteriormente decisi di rimettermi al lavoro e, dopo l’ottimo
bicchiere di liquore, ripresi a tracciare righe. Ero ormai arrivato a dieci, il piano
sembrava praticamente ultimato, ma sentivo che mancava qualcosa. Timidamente
contemplai il foglio. Lo accarezzai, raccolsi la penna da terra e, dal nulla, tracciai
un cerchio. Cerchio… Luce fu! Adesso ne ero certo, non poteva essere altrimenti.
Avrei una volta per tutte scacciato l’incubo della sua grandezza dai miei pensieri.
Tutto consisteva in una sola parola: adozione. Dovevo far credere al mostro che in
realtà era soltanto una misera sporca e puzzolente trovatella, nient’altro e il gioco
era fatto. Ma come far credere ad una bambina normale d’esser stata adottata?
Dovevo agire sui suoi ricordi, sui pensieri, sugli affetti senza darle però mai troppa
confidenza. Operazione da vero professionista.
Uscii fingendo un ampio sorriso dallo studio e, data l’ora, indossai il pigiama,
per poi andare a letto. Il mattino seguente sarebbe stato il grande giorno.
Mi svegliò il delizioso aroma di caffé. Felice mi infilai le pantofole e scesi al
pianterreno, oltrepassai l’entrata della cucina, abbracciai Laura, feci per sedermi
ma… eccola! Lei era già là, pronta ad umiliarmi e a schiacciami con la sua
incredibile grandezza. “Buongiorno papino” mi disse. Sbiascicai un misero
“Mmmmm”. Era brava, molto astuta, riusciva a nascondersi veramente bene dietro
quella sua piccolezza fasulla, era sicura che mai nessuna l’avrebbe scoperta, ma
invece io, oltre a smascherarla, avevo trovato anche il modo di annientarla per
sempre. Quelle mani… mani! Non posso pensarci…
“Bene, io vado nel mio studio…” annunciai. Nessuno si oppose. Entrai e chiusi a
chiave. Ce l’avevo fatta, ora dovevo solo buttarmi, lasciarmi andare e fare tutto
quello che mi saltava per la testa senza esclusione di colpi. “Che il piano
adottilizzante abbia inizio!”. Doveva essere una cosa graduale, un avanzare
nell’ombra senza lasciare tracce. Prima parte del progetto: il fiocco blu… una
genialata che mi era venuta in mente guardandomi allo specchio nudo. Presi del
nastro blu e lo legai in modo che formasse un fiocco, scesi le scale e
silenziosamente lo attaccai sopra la porta d’ingresso con un chiodo. Veloce mi
nascosi. “Papapa… pappapero” il mostro canterino non era lontano. Adesso
vicinissimo e, quando passò davanti alla trappola si fermò di colpo. L’avevo
beccata! Era rimasta basita, il suo volto non si esprimeva in alcun modo ma fissava
solamente inorridita quel meraviglioso fiocco blu da me creato. Si avvicinò per
osservarlo meglio: gli occhi erano mossi dal terrore, si notava lontano un miglio.
Dopo un po’ fece un lungo respiro, si grattò la testa e se ne andò. Un inizio
formidabile! Bersaglio centrato in pieno!
Più soddisfatto che mai me ne andai fuori per fare un giro fra i miei vigneti.
Mentre camminavo sentivo che niente sarebbe tornato come prima se non fossi
riuscito a disintegrare quel gigantesco mostro, lo percepivo dalla stessa aria, dal
colore dell’uva, dal terreno che alzavo camminando e, quando mi voltai…la casa!
Santo cielo, la casa! Stava lentamente svanendo quella sua armonia serena, la
musicalità di una volta ora stonava sempre più. Dovevo farcela, e al più presto. Mi
distesi a terra, giocai un po’ con le formiche aiutandole a cacciare mosche e piccoli
insetti, mi alzai dando una bella scrollata ai pantalone e mi diressi verso
l’abitazione del nemico.
Dentro c’era un tanfo fetido tanto che dovetti tapparmi il naso per alcuni secondi
e un assordante silenzio invadeva ogni stanza. Feci un passo ma il pavimento non
scricchiolò. Spiccai un balzo, ma niente. Curioso, pensai. Mentre avanzavo la mia
attenzione cadde su di un angolo della casa; con estrema cautela mi avvicinai e,
dopo un momento di terrore, scoppiai in una grassa risata maschile. Non mi
fermavo più, le braccia strette sulla bocca dello stomaco. Un piccolo grumo di
polvere si nascondeva nel buio. Pensava di fregarmi eh, la furbetta, ma l’avevo
beccata, l’avevo colta in flagrante e adesso sapevo anche che stava partorendo le
sue uova piazzandole in giro per la casa. Ridacchiai ancora. E ancora. Poi, serio in
volto, alzai il piede e con forza calpestai l’uovo di polvere del mostro. Maledetta,
chissà quanti altri ne aveva sparsi per tutta l’abitazione, come avrei fatto a trovarli
tutti. Mi sedetti a terra gambe incrociate a riflettere. Ma certo! Bastava dire a Laura
di pulire per bene ancora una volta i pavimenti; problema risolto, mi stavo agitando
per niente, adesso non dovevo più distrarmi, il destino della felicità era nelle mie
mani.
Seconda parte del piano: i tre fori nel muro. Salii in soffitta e rovistando fra i
vecchi arnesi trovai ciò che cercavo: il vecchio trapano del nonno. Tutto doveva
essere perfetto, ogni cosa doveva rievocare in lei sentimenti puerili così da
distruggerla piano piano. Entrai, dopo essermi assicurato che il gigantesco essere
fosse fuori a giocare con le sue amiche, in camera sua e velocemente feci tre fori
proprio sopra la testiera del letto, pulii in fretta la segatura e sgattaiolai attento fuori
in attesa che lei rincasasse. Ero impaziente, là, seduto su quella maledetta sedia a
dondolo in salotto con gli occhi sbarrati verso l’entrata, il giornale in mano al
contrario, la fronte umida e il piede che batteva ritmicamente a terra. L’attesa diede
i suoi frutti. Inzuppata di terra la piccola gigante entrò ansimante in casa e,
correndo su per le scale, annunciò gridando che stava andando a farsi una doccia.
Mi sfregai le mani.
Quando sentii il rumore della porta chiudersi mi accostai freneticamente al buco
della serratura e iniziai a godermi lo spettacolo. Ancora non si era accorta di nulla,
si stava solo guardando le unghie sporche appoggiata con la spalla al muro.
Maledetta, incominciai a sospettare che lo stesse facendo apposta ma, detto fatto, si
spostò verso il letto; là, ancora una volta, si impietrì. Tensione cadde dal cielo. Ero
diventato parte della serratura, una cosa unica. Non attendevo altro che una sua
mossa, ma lei non accennava alcun tipo di movimento finché, dopo uno stridulo,
cade nel letto. Centro! Ancora una volta centro! Ero imbattibile, geniale! Il gigante
si rialzò velocemente e, imbarazzata, guardò che nessuno la stesse spiando. Era
rossa in viso, e le mani tremavano, evidenti segni che la trappola aveva funzionato
alla perfezione. La udii respirare affannosamente poi si alzò e accese l’acqua della
doccia. Io, felice, andai a cena fuori con Laura aspettando impaziente il mattino
dopo.
Suonò la sveglia. Con entusiasmo mi alzai per fare colazione. In cucina Laura e
la gigantesca creatura. Salutai mia moglie ma l’essere non aprì bocca. Sghignazzai
sotto i baffi anche se in verità ero alquanto stupito. Con la coda dell’occhio
osservavo solo le sue mani: gigantesche, abnormi, una forma insopportabile alla
vista, soprattutto di prima mattina. Improvvisamente una vocina(ona) irruppe fra lo
sbattere delle forchette sui piatti. “Mamma, mi sento strana…”
“Cos’hai tesoro?” domandò Laura preoccupata.
“Non lo so mammina, mi sento come se non appartenessi a nessuno…”.
Incredibile. Non credevo ce l’avrei fatta, ma invece…mancava pochissimo! Un
passo da formica e voilà. Laura stava consolando il mostro e, anche se questo mi
recava un forte fastidio, mi alzai andandomene precipitosamente nel mio studio.
Chiusi le tapparelle e controllai se la mia ombra fosse sempre al suo posto. Tutto in
regola. Feci due giri della stanza tenendomi il mento con la mano destra tanto per
fare un po’ di scena con me stesso e funzionò, mi stupii enormemente. Basta con le
nenie, mi dissi, è ora di cominciare. Tracciai il mio consueto piano a righe e lo
contemplai attentamente. “E bravo Edward,” dicevo, “E bravo Edward,” ripetevo.
Mi avvicinai per bene il piano alla faccia e poi decisi.
Terza parte del piano: La porta d’entrata aperta. Questa parte l’avrebbe mandata
al tappeto. Ero pronto e sapevo perfettamente che un atto del genere era molto
rischioso e fu allora che presi la saggia decisione di fare dieci addominali, due
flessioni e di mettermi la calza nera in testa: non potevo certo giocarmi la
reputazione.
Attento ad ogni minimo rumore scesi le scale, non toccai nemmeno il corrimano
per evitare le impronte digitali, tutto sembrava filare liscio come sempre ma dal
nulla la voce di Laura si fece viva: “Amorino, dove sei?”
Non risposi, restando fermo a metà rampa. “Amorino… amorino… dove sei? Su
dai, rispondi… ho voglia di una certa cosuccia… ihihih…”
Restai immobile, queste sciocchezze non dovevano influire con l’importanza
del progetto. Ancora più lentamente ripresi a scendere le scale, feci sbucare la mia
testa incappucciata in corridoio, mi accertai che tutto fosse in ordine e in un batter
di ciglio aprii la porta rifugiandomi poi nuovamente nello studio. Anche questa
volta ce l’avevo fatta, ora dovevo solo aspettare.
Quando il mostro gigante rincasò, anzi, quando si fermò sulla soglia d’entrata, il
suo volto sbiancò, divenne quasi senza vita e gli occhi andarono su e giù, su e giù.
Non c’erano più dubbi, era caduta, precipitata nel baratro più profondo. Avevo
portato la mia missione a termine.
Notai che stava per piangere e che poco dopo corse da Laura. Dentro la stanza
sentivo un continuo chiacchierio. Ero molto preoccupato per mia moglie, poverina,
da sola con quella enormità. Decisi perciò, estremamente soddisfatto, di preparare
la cena. Feci un ottimo risotto ai funghi con contorno di patate al forno all’aroma di
rosmarino, una vera delizia che Laura apprezzò anche se, finito di mangiare, mi
disse: “So quella cosa che tu mi dicevi di sapere”, sorrisi stringendole la guancia
per rassicurarla.
“Non ti preoccupare amore, ho la situazione in pugno”. Il mostro non aveva
detto una parola tutta la cena e la sera la sentii vomitare, sì, vomitare. Quella stessa
notte venne in camera da noi disturbandoci nel sonno. Stava piangendo
disperatamente e noi sotto le coperte ci mettemmo a ridere stringendoci la mano
per l’ottimo lavoro. “Mammina, papino, sento che me ne devo andare via, per
sempre…”
La grandezza aveva finalmente ceduto sotto il peso della piccolezza perduta,
l’enorme essere aveva perso. “Addio papino, addio mammina…”
E così se ne andò.
Il mattino seguente ci alzammo felici e pimpanti. A colazione eravamo solo in
due, leggeri, leggeri come non mai. La casa era tornata a splendere, il vento
soffiava nuovamente facendo girare il mulino, il rumore del ruscello tornò a farci
visita e la nostra felicità familiare aveva ritrovato l’equilibrio. “Amorino io vado un
po’ a vedere i vigneti…”
“Va bene tesorino, ti aspetto per pranzo”…
Indossai il cappello e gli stivali da esplorazione, incalzai uno dei miei migliori
sorrisi e mi diressi verso l’uscita.
Zampettavo come una liceale al suo primo giorno di scuola. Mentre attraversavo
il corridoio però fui io a fermarmi. C’era una credenza, una grande credenza.
L’aprii, tirai fuori alcune caraffe d’argento, un vassoio d’oro e una foto. Chi era?
Mi domandai. Chi poteva possedere una faccia così piccola e angelica? Chi?
Piccola piccola piccola.
Gli occhi mi si spalancarono, corsi in garage e mi rovesciai tutta la vernice gialla
addosso. “Ma…ma papino…” sussurrai.
Io, lui e il panino
Tic toc tac, fece la pioggia del mattino sulla finestra di camera mia. Tic toc tac,
una melodia orecchiabile che ascoltai per un po’ di tempo sotto le coperte
(tictoctactictoctac). Quella mattina, osservandola di sottecchi, mi dava la
sensazione di un discorso per il ritiro d’un premio. Era ripetitiva. Direi scomoda.
Mi annoiò insieme alla sua noia. E allora tutto diventò scomodo, il cuscino, il
materasso, i miei piedi, il pavimento, il gatto nell’altro isolato. Dunque, per evitare
quella scomodità, mi alzai e scesi in cucina dove una luce polverosa lambiva i
fornelli. L’aria era secca e fredda, ma fuori sembrava non esserci vento.
Camminavo strascinando le pantofole e strofinandomi gli occhi con le maniche
della vestaglia; sbadigliai e… “Alt!” mi dissi giungendo le mani in preghiera.
Davanti a me una goccia di pomodoro splendeva scarlatta sul pavimento bianco…
aguzzai gli occhi. “Alt!” dissi ancora. Non muovendo lo sguardo dalla macchia
presi la mazza di ferro che si trovava appoggiata al muro e finfanfum incominciai
ad agitarla violentemente. Non colpii nulla. Tutto ciò mi sembrava alquanto strano.
Dunque io ho le pantofole, e se me le tolgo… no, non può essere così, ma la
mensola è sporgente sul muro, però il cavo dell’antenna tocca il muro esterno,
quindi le pantofole avrebbero agito sul camino stesso… “Ci sono!” urlai infine. E’
stata Adelina, dedussi portandomi i polpastrelli sul mento. Sorridente la guardai
mentre si accingeva a pulire la macchia. “Sei stata brava, ma alla fine ti ho
scoperta!” le dissi.
“Lei riesce sempre a capire tutto, signor Alfred…” mi rispose lei senza alzare lo
sguardo. “Ah ah”, pensai fra me mentre spalmavo del burro su un panino. Ero
molto concentrato sul movimento del coltello quand’ecco che riguardai Adelina.
“Perché sei nata con tre braccia?”, le domandai cordialmente per non metterla
troppo in imbarazzo. Adelina si guardò perplessa, come se non credesse alla mia
accurata descrizione. “Non ti devi preoccupare, non lo dirò a nessuno…” la
rassicurai.
“Ma io non ho tre braccia…”
“Suvvia Adi, non prendiamoci in giro”.
Assunse una espressione rassegnata.
“E’ vero signore, lei sa sempre tutto…”
“Giusto Adelina, giusto… e ricordatelo sempre, mi raccomando…”
Adelina non era la mia donna delle pulizie, non potevo sopportare quel genere di
persone, ma era una della tanta gente pagata da me che mi doveva sempre e
comunque dare ragione. Erano sparse in tutto il mondo e se osavano darmi contro
sarebbe stato peggio per loro. Così avevo la vita paragonabile a quella di un Dio, la
mia parola non rappresentava mai margine d’errore.
Finii di mangiare l’ottimo panino al burro contemplandomi le unghie sporche.
“Adelina, perché tu?”
“Io cosa, signor Alfred?”
“Sopra la campa la capra campa, sotto la panca la capra crepa?”
“Sissignore!”
“Quanto tempo tu hai nel viso ioioioio?”
“Assolutamente corretto signor Alfred, assolutamente!”
Non potevo vivere senza queste persone sotto il mio completo comando, mi era
impossibile immaginarmi senza.
Adelina era in piedi davanti alla porta che mi fissava aspettando solo un mio
ordine; non ne avevo voglia. Mi sedetti e lessi la copertina del giornale.
“Perbacco!”, esclamai guardando l’orologio. Era gia l’una di pomeriggio e io
avevo solo mangiato un panino con del burro! Mi affrettai ad aprire il frigo nella
speranza di trovarvi qualcosa di succulento da mettere sotto i denti. All’interno
c’era solo un po’ di panna montata. Non mi persi d’animo e aprii le dispense
vicine. Il vuoto era tutto quello che si riusciva a vedere. Iniziai a preoccuparmi. Lo
stomaco brontolava come un orso in letargo. Caspita! Mi ero dimenticato di fare la
spesa! Mi diressi in salotto e presi la cornetta del telefono, composi un numero
ma… occupato; la sbattei giù. Tornai in cucina e feci un paio di giri attorno al
tavolo, non potevo certo uscire io a prendermi da mangiare rischiando così che
qualcuno, ancora da me non corrotto, mi contraddicesse No! Era inammissibile!
Guardai Adelina con occhi severi. “Sarebbe bello se tu mi andassi a comprare
qualcosa da mangiare fuori?”
La risposta, con la domanda formulata in questo brillante modo, sarebbe stata
sicuramente sì. Pazientai alcuni secondi senza ottenere risposta. Mi avvicinai a lei,
avevo intenzione di licenziarla quando… non credevo ai miei occhi… era morta!
In piedi come un cavallo davanti alla carota. Pace all’anima sua, pensai gettandomi
a terra mani fra i capelli. Mi contorcevo su me stesso alla ricerca di una
soluzione…avevo fame, dovevo mangiare e non potevo uscire. Il ticchettio
dell’orologio bruciava i secondi. Ore e minuti e secondi e ore. Dovevo fare
qualcosa al più presto. Mi alzai guardandomi allo specchio: ero paonazzo con
leggere sfumature ocra, una lacrima stava ancora scivolando lungo la guancia,
piano. All’improvviso mi illuminai.
“Salve Aduard…” esordii parlando al mio riflesso. “Come stai?” proseguii.
“Tutto bene grazie, non c’è male, solo che ho un piccolo problema in questo
momento. Ah sì? E quale? Ecco vedi, non posso uscire di casa per i motivi che tu
ben conosci, Adelina è morta. Oh, mi dispiace, dunque sei segregato qui dentro,
eh? Ti ho detto di sì, imbecille! Calmati caro, calmati, ora cercherò una soluzione
per te, fammi pensare… io aspetto. Sto ancora pensando. Eh, lo vedo…sbrigati!
(feci delle linguacce, blaaaamm). Ci sono, uscirai te! Ottima idea, sei un genio!
Grazie mille! Di nulla amico, divertiti.
Mi guardai per un po’ attorno, spaesato e poi di corsa salii su in camera. Aprii
l’armadio e tirai fuori un lungo cappotto nero, indossai gli occhiali da vista e scesi
trovandomi dinnanzi alla porta d’entrata. La mano cadde sul pomolo. Respiravo a
tentoni. Raccolta la forza, la girai e il mondo si aprì davanti ai miei occhi.
La giornata non era cambiata per nulla, ancora una leggera pioggia animava le
strade, vecchie signore passeggiavano con ombrelli e cani al guinzaglio e il
barbiere della zona cantava seduto sul suo sgabello girevole. Nessuno per fortuna
mi aveva ancora notato. Camminavo veloce, attento, creando quel viscido rumore
che viene a formarsi quando le suole stanno a contatto con l’acqua. Non c’era
vento, solo dell’aria umida che mi appannava le lenti degli occhiali, sempre più,
sempre di più… Ancora nessuna domanda, niente domande! Ero felice! Mi sentivo
imbattibile. La strada era lunga, quelle con i lampioni sembrano non avere fine e
linee di pioppi che si restringevano in fondo al viale come la salita all’interno
d’una piramide. I passanti sembravano non notarmi e io, di conseguenza, fingevo
di non notare loro, solo così saremo potuti andare d’accordo.
Sul lato destro della strada vidi, dopo una lunga ricerca, un piccolo bar che
sembrava poco frequentato, giusto quello che faceva per me. Attraversai la strada e
mi piazzai là di fronte. “Bar bar”, lessi a bassa voce… “Bar bar”. Con disinvoltura
entrai lasciando la porta chiudersi alle mie spalle. Solo due signori erano seduti ai
tavolini e un omaccione tutto ciccia e barba stava preparando una birra alla spina
dietro il bancone.
Se io pago la risposta è sì, pago-sì, io pago lui sì, sì-pago, mi ripetevo
avvicinandomi all’energumeno. Misi le mani sul bancone e lo fissai; lui mi fissò.
Silenzio e sguardi. Io prendevo lui e lui prendeva me; tutto quello che dovevo dire
sembrava come svanito. “Vorrei un panino con la bresaola ben cotto…” dissi.
Alzò il sopracciglio destro e sorrise mostrandomi così i suoi due denti dorati.
“Gnm… sì… gnm…”
Sentita la risposta che volevo corsi al tavolo all’angolo sedendomi con le mani
che mi coprivano il volto. Sulla vetrina c’era la mia figura riflessa opaca insieme a
quella dei passanti di fuori. Mi sentivo un fantasma investito da tanti corpi, ma
aspettavo impaziente il mio panino per poter tornare dentro le mura di casa dove
tutti sarebbero stati ai miei ordini, dove nessuno avrebbe potuto contraddirmi. Si
sentiva lo sbatter di pentole insieme ad un forte aroma di caffé. Dei passi fecero
tremare i tavolini; il mio sguardo era fisso.
“Ecco, tieni!”, un piatto finì proprio sotto i miei occhi. Era il panino! Sì, ce
l’avevo fatta! Missione riuscita! Lo avvolsi in un fazzoletto e, con estrema
soddisfazione, lo addentai… ancora… era scotto! Faceva letteralmente schifo! Il
tetto del locale cominciò a crollarmi addosso, i passanti diventarono mostri dalla
struttura informe, io tremavo, tremavo e non smettevo. Misi giù il panino e cercai
di respirare. Calmati Aduard, calmati, pensavo. Iniziai a riflettere: dovevo sfuggire
ad ogni costo a quel terribile tormento, forse l’omaccione non aveva sentito bene,
mi dicevo, magari il timpano, mentre gli stavo dicendo “ben cotto,” ha subito un
trauma momentaneo dovuto a qualche radiazione e ha modificato la parola in
scotto… sì, doveva essere per forza andata così, non c’era altra spiegazione.
Mi alzai prendendo il panino in mano con un certo disgusto, non potevo
guardarlo, mi era impossibile. Tossii, due volte, piccoli giochi di corde vocali,
proprio come avevo visto in un film; funzionò, il barbuto si era girato. “Forse
dovrebbe cuocermelo ancora un po’, vero?” pronunciai.
“No…” disse. Oh per tutti i mali della terra, per tutte le rovine del mondo! Non
era possibile, non poteva essere, le mie orecchie avevano udito un no! Sarei dovuto
scappare, ritirarmi per sempre in una tana rognosa dove solo lo squittio dei topi mi
avrebbe tenuto compagnia… dovevo frustarmi, buttarmi giù dal più alto del dirupo
e gridare “Sììììììììììììì!”, cosicché quel maledetto ricordo svanisse per sempre dai
miei pensieri. Mi sentii mancare. Iniziai a saltare girando introno a me stesso con il
panino sempre in mano, roteavo come mai avevo fatto e voci profonde e indistinte
si agitavano con me. Cosa dovevo fare adesso? Come potevo comportarmi ora che
mi aveva definitivamente sconfitto? Non avevo più la forza nemmeno di reagire,
tutto ciò mi aveva privato di ogni idea.
Preparate la tomba per un lurido fallito, seppellitemi dove nessuno potrà
vedermi, così nascosto dal dolore di sentirmi contraddetto… blateravo e blateravo,
e le voci continuavano a girare. Alzai lento i miei occhi lucidi come un cerbiatto al
tramontar del sole e tutti i miei pensieri si concentrarono solamente sull’uomo del
bar che tanto stavo odiando. Era intento a lavare con una spugna delle piccole
tazzine da caffé appoggiandole sopra uno scola acqua. Anche io possiedo uno scola
acqua, mi venne in mente (guardai il panino). Adesso l’omaccione stava muovendo
le dita freneticamente come se stesse suonando una chitarra; mi osservai anch’io le
mani… le mie dita stavano muovendosi allo stesso modo (guardai il panino). Stavo
per accennare un sorriso quando scossi violentemente la testa. Non potevo certo
sorridere a uno sconosciuto che tanto mi aveva fatto soffrire umiliandomi in malo
modo. Rialzai lo sguardo verso di lui. Adesso stava sbadigliando senza nemmeno
coprirsi la bocca con la mano. E’ risaputo però che lo sbadiglio è contagioso perciò
anche io iniziai ad aprire la bocca emettendo quello stanco rumore… la mano era
bloccata! Cercavo di metterla davanti alla bocca per buona educazione ma non
potevo, mi faceva… sì… schifo! Non potevo coprire il mio plateale sbadiglio,
sarebbe stato… maleducato! (guardai il panino) questa volta con terrore. C’era
qualcosa che collegava me, l’omone e il panino in un inquietante gioco di
sensazioni… Sapevo che anche lui le stava provando, ci avrei scommesso, ma era
più forte di me e non voleva darlo a vedere. Ma non potevo attenermi a conclusioni
così affrettate, dovevo pazientare.
Lo guardai ancora, ma stava frugando sotto il bancone e non riuscivo a vederlo.
Aspettai ascoltando il rumore di porcellana che tintinnava nel locale. Finalmente si
alzò e… ero io! No! No! Era mio amico! No! Lo amavo! Sì, lo amavo! (guardai il
panino e poi lui, panino e lui…) Non esistevano più dubbi ormai, io dovevo stare
insieme a lui, era essenziale per me. Che favolosa armonia si era creata fra me, lui
e il panino, eravamo come inseparabili, inscindibili, nessuno ci avrebbe mai più
potuto allontanare. Io, lui e il panino. Me, l’uomo e il panino scotto. Era come se
da quel momento nulla avrebbe più potuto farmi paura, avevo la forza per
affrontare qualsiasi situazione, ogni mia nascosta fobia.
“Che ne diresti di fare due passi insieme?” esordii senza timore sorridendo
felice. Poi però me ne accorsi! Mi resi conto di quello che stavo facendo: mi
strabuzzai gli occhi, stavo parlando con il panino! Ci riprovai. “Che ne diresti di
fare due passi insieme a me?”
Maledizione! Ancora al panino, non c’era verso ma…il panino mi rispose.
“Non lo vede che sto lavorando?”
Alzai gli occhi e vidi l’omaccione che mi stava rispondendo, ma non parlava a
me, anche lui fissava il panino. Provai dunque a parlargli ancora; non appena aprii
bocca lo sguardo cadde sul panino,
“Sì, lo vedo che stai lavorando, ma forse sarebbe più bello se tu adesso chiudessi
il negozio e uscissimo insieme a fare una passeggiata…che ne dici?”
Ci fu un momento di pausa durante la quale approfittai per analizzare i
comportamenti dell’omaccione. Ma non c’era nulla di stano. Nulla che potesse
mettere chiarezza su questa faccenda. Stava semplicemente guardando il panino
come facevo io, anche lui, e io e lui e il panino. Beffarda situazione!
“Sì, si potrebbe anche fare, sì… in un certo qual modo cominci a starmi
simpatico… dai, va bene… chiuderò questo bar!” (sguardo sul panino).
“Sono felice, ho così tante cose da raccontarti… am… ami… amico…”
L’ultima parola mi uscì con fatica, come una marcia ingranata male. Ma basta!
Come era possibile? Tutto ciò lo stavo dicendo ad un stupido panino scotto,
parlavo con lui come se stessi parlando all’uomo del bar, ma anche lui parlava con
me tramite il panino; era come se si fosse creato un legame fra la materia e il
sentimento, come se tutto ciò che ci teneva uniti fosse il panino, cioè il ricordo di
una nostra discussione… l’affettività visiva e tangibile… stavo impazzendo,
Impazzendo! Sentii un forte rumore di sedie e tavoli spostati e persone che
borbottavano seccate. L’uomo barbuto stava mandando via tutti dal locale e si
accingeva a spolverare il pavimento da cartacce e briciole. Lo ammiravo con
insolita devozione. Si avvicinò a me con la scopa in mano, guardò il panino: “Due
minuti e sono da te…gmgn…”
Il messaggio mi era arrivato perfettamente, filtrato naturalmente dallo schifoso
panino che tenevo in mano. Iniziai dunque a sospettare di quel miscuglio di latte
lievitato. Pensai che forse stava modificando le nostre parole a suo piacere
componendo così un subdolo gioco di incomprensioni comprese, di risposte
fasulle. Provai a dire (evviva) e subito dopo gridai (papavero!) eccellente,
eccelente… dunque qualcosa modificava. Riprovai:
Orsù!
Coccodè
Lampadina
Mangiafuoco!
Era strano, ma capii che non era colpa del panino. Sotto quella bresaola si celava
qualcosa di molto più grosso. Qualcosa di fondamentale importanza. Mi calmai,
provando a rilassarmi per assaporare appieno quel piacevole momento che avrei
passato con il mio nuovo amico. Lo sferragliare di una saracinesca.
“Sono pronto amico, ce ne possiamo andare… qua è tutto chiuso…”
“D’accordo, molto bene, andiamo amico”. Il panino era sempre in mezzo, come
un occhio fra mente e la carne. La conoscenza doveva avere inizio, desideravo
sapere tutto di lui, un lui di cui non sapevo ancora il nome. Fuori la pioggia aveva
smesso di suonare, ma in compenso si era alzato un forte vento che muoveva tutto
e tutti. A noi però non importava, ci sentivamo perfettamente a nostro agio, noi,
soli, e il panino in mezzo.
“Allora, scommetto che tu sei un fringuello! Vero?” esposi la mia teoria su di lui
con una tale naturalezza che mi stupii di me stesso, tanto da emettere un gemito.
“Oh che cavolo amico, sei forte! Non pensavo!” (il panino fra noi, il panino, il
panino).
“Eh lo so, possiedo un certo occhio per questo genere di osservazioni…ma
dimmi, non è che per caso sei sposato?”
“No, no! Per carità, la mia ultima fidanzata non me la ricordo nemmeno!”
“Fiuuu! Per fortuna… i fringuelli non possono essere sposati, è un importante
tradizione che deve essere rispettata” confermai.
La conversazione tramite il sandwich stava procedendo a meraviglia, parlavamo
senza alcuna difficoltà e gli argomenti non faticavano a prendere il via. “ Lo sai
che i cuscini bianchi rischiano di macchiarsi?”, mi domandò lui ( al panino).
“Beh, in effetti hai proprio ragione, io a casa ho solo coperte bianche! Vedi se ti
conoscevo prima questo inconveniente non mi sarebbe capitato… fringuellino
adorato!”
Lui arrossì, accarezzando distrattamente con un dito la bresaola. Passammo
momenti di felicità incontrollata, dove ogni gesto da noi compiuto si tramutava in
pura luce per i nostri occhi. Non c’era niente di sbagliato in noi. Noi due, uniti dal
panino, eravamo perfetti… ioluipanino… non io Aduard e lui uomo dalla barba
incolta. Insieme da soli non avevamo alcun legame, solo il ricordo del panino
scotto, solo lui era l’elisir dell’amore segreto che sentivamo in quei momenti.
Qualcosa però, un fremito di pensiero improvviso, guastò la mia serenità. Dunque,
mi dicevo… dunque con quel panino io e lui avremmo potuto fare qualsiasi cosa,
tutto ci era permesso perché grazie al filtro ogni risposta sarebbe stata “sì,” anche
se in realtà era “no…” idee folli e malefiche vorticavano rumorosamente nella mia
mente come pipistrelli in caccia notturna. Forse stavo attribuendo troppa potenza al
pane scotto, forse lo sopravvalutavo, ma quella sensazione non mi abbandonava,
restava vicina al mio orecchio per sussurrarmi: sì- sì- sì- sì.
Lo guardai, il sandwich… “Caro amico fringuello, da adesso noi saremo dei
ladri professionisti, deruberemo un banca e, come in tutti i migliori film d’azione,
scapperemo in paesi esotici a goderci il nostro lusso… che ne dici? Ti sembra
buona come idea?”
L’uomo panciuto si avvicinò tanto al panino da poterlo mangiare e digerire con
gli occhi.
“Oh sei un genio tu eh!”
Pronunciò quest’ ultima frase con uno strano accento, sicuramente un simpatico
giochetto dell’amico latte e forno.
“No, no, suvvia, diciamo che ho un buon rapporto con i miei pensieri…”
Ci avviammo lungo il viale per poi arrivare ad un supermercato con gente che
entrava e usciva freneticamente. Entrammo. Due anziane signore stavano
prendendo la frutta ma, grazie al mio occhio infallibile, notai che stavano
sgranocchiando di nascosto un gambo di verza, insieme, come due ratti di prima
mattina. Stavo per urlare così da richiamare l’attenzione delle guardie, ma subito
dopo pensai che anch’io avevo in mente di rubare e che loro, le vecchiette
decrepite, mi stavano solo assecondando, concordavano con il mio pensiero.
“Mi scusi signora, lei possiede le capacità cognitive per indicarci dove si trova il
reparto “Ladri professionisti?” domandò il mio amico. La signorina era una
cordiale commessa vestita di bianco. Assunta, diceva il suo cartellino di
riconoscimento.
“Mi dispiace signori, ma qui non abbiamo questo genere di reparto. Se volete
delle calze per il volto lì a destra c’è lo scaffale intimo donna…”
Un po’ delusi la ringraziammo, dirigendoci dove ci aveva indicato. Notai però
una cosa che mi diede particolare fastidio: il dialogo con le altre persone… era…
non serviva il panino per parlare, si discuteva normalmente, solo con noi avveniva
questo particolare caso, ma restavo comunque profondamente convinto che la
bresaola influiva su tutto, anche gli estranei, se pur parlando normalmente con noi,
venivano influenzati da essa, perché ci vedevano uniti, noi tre, percepivano quel
forte legame, legame di affettività per la materia, la materia!
Giungemmo al reparto di intimo femminile guardando lo scaffale come una
statua dall’altezza sproporzionata… ( il panino iniziò a fare da intermediario).
“Beh, la calza può funzionare fringuello, che dici?” dissi.
“Sì, potrebbe andare, tanto anche se ci riconoscono a me non importa nulla…”
“Hai ragione amico…il nostro motto sarà: chi se ne frega, uhuh, ci stai?”
“Eccome se ci sto…” disse. Chissà cosa avevamo detto in realtà, che discorso
sarebbe spuntato fuori senza il panino in mezzo, ma per adesso…chi se ne frega!
Arrivati alla cassa pagammo le calze sotto lo sguardo stranito della commessa,
prendemmo il nostro sacchetto e uscimmo da un’ampia porta a vetri. Adesso il
problema si concentrava solo sulla banca che avremmo dovuto derubare.
Quella o quella?
Io direi quella!
Quella quella?
Sì, quella quella!
Io invece opto per quella!
Quella?
Sì, quella!
D’accordo!
Andato per quella!
La decisione era stata presa, insieme, sempre uniti.
Ci avviammo a passo deciso verso una piccola banca del centro. E’
incredibilmente eccitante provare la sensazione degli attimi che precedono la
rapina… Gli altri non sanno che tu… è così… ti chiedi… ti domandi… perché non
lo sanno? Allora si diventa la totalitè e quello che c’è attorno non è nulla, solo un
contorno insignificante che però fa sentire la potenza.
“Bene fringuellino adorato, ci siamo… adesso dobbiamo solo agire…” dissi.
Lui mi guardò(il panino).
“Ricordati che qualunque cosa succederà lì dentro tu resterai sempre il mio più
grande amico…”
Spavaldi come mai eravamo stati entrammo nell’atrio della banca. Era giunto il
momento di indossare le calze, non potevamo permetterci di aspettare un secondo
di più. Mi frugai nella tasca e presi la calza. Era stretta, particolarmente rigida e,
per indossarla in testa, dovetti appoggiare il panino per terra.
Fu agghiacciante! L’esperienza più brutta che si possa provare… il mare, la
terra, ciò che non c’è, lui tornava e io andavo, non più un noi… ogni cosa si
ingarbugliava come un serpente ferito, le forme si contorcevano. Le persone
intorno a me diventarono come ombra su di un muro d’ombra… rumori…
platplatplat… si insinuavano fra le mie paure. Guardai l’uomo barbuto, questa
volta però non attraverso il panino. Lo fissai, vidi la sua espressione, brutta,
orrenda! Come potevo stare vicino a quell’essere? Anche lui mi stava guardando
male, teneva le sopracciglia inarcate e a intervalli emetteva dei grugniti.
“Ma lo vedi quanto sei brutto!” mi disse. La gente lanciò un “ohohohohohohoh”
e tutto si fermò a guardarci.
“Ma ti sei visto la pancia, sembri una balena arenata!” (ohohohohohohohoh)
d’ammirazione.
“E tu un coniglio senza gambe!” (ohohohohohohohoh) aveva riacquistato il
consenso del pubblico.
“Ah sì, e tu… e tu… un orso mattutino!” (ohohohohoh) ancor più forte.
“Pesce!”
“Sedia!”
“Pippino!”
“Anatra!”
Mi accorsi che avremo potuto andare avanti all’infinito, ci odiavamo troppo e
non ci conoscevamo per nulla… perché eravamo lì insieme a insultarci? Domande
troppo complicate per dare risposte affrettate. Lo fissai ancora: sembrava sempre
più irritato. Poi, subito dopo, contemplai il panino con ammirazione. Lo osservavo
con estrema cautela, silenzioso, attento. Strisciando come se fossi stato ferito da
una pallottola mi avvicinai a lui. Ci separavano pochi centimetri. Allungai un dito
in un disperato segno di riconciliazione. Mi avvicinai ancor di più, qualche istante
e… lo afferrai, proprio come un pugnale pronto per essere scagliato lontano.
“Oh caspita”, mi disse ( il panino).
“Tutto bene amico?” domandai io vedendo il mondo da un’ottica totalmente
differente. Era tornato il panino fra di noi, il ricordo materiale di qualcosa di bello,
la sola e unica cosa che ci univa, che riusciva a mantenerci in contatto. Materiale!
Materiale! Materiale!
“E’ ora di portare a termine la nostra missione, fringuellino mio adorato…ci
stai?” dissi.
La bresaola mi lanciò una scossa.
“Certo che sono con te! Sempre con te, amico! Alla carica!”
“Mani in alto! Su le mani!” urlammo all’unisono facendo echeggiare le nostre
voci profonde. Iniziarono una serie di frasi alla rinfusa: “Soldi! Molla! Sgancia!
Stai attento eh! Non ti muovere! Soldi! Faccia a terra! Sbrigati!”
Nessuno capiva chi le stesse pronunciando, nemmeno noi.
Riempito fino all’orlo tutto il sacco che ci eravamo portati ci guardammo
attentamente in giro per controllare che non ci fossero guardie nascoste. Nulla,
tutto sembrava libero.
“Se suonate l’allarme vi ammazzo tutti!” gridai uscendo.
Iniziammo una corsa disperata per un breve pezzo di strada poi, stanchi, e anche
stufi, visto che nessuno ci stava inseguendo e non ci avevano permesso di provare
sulla nostra pelle quell’emozione, entrammo in un bar, il suo bar, “Bar bar”.
Trafelati ci sedemmo al mio tavolo sull’angolo e restammo per un po’ in
silenzio, spaesati, straniti. Di nuovo la mia ombra si riflesse sulla vetrina come uno
spettro. La fissai per un po’, poi strinsi il panino fra le mani, con forza. La mia
bocca si spalancò, famelica e… gnam! Lo addentai. Il mio fringuellino emise un
gemito di dolore. Io lo guardai spaventato, ma il (panino) adesso mi piaceva, era
ancora scotto ma lo adoravo! Diedi un altro morso! Oh che adorabile prelibatezza!
Udii però un altro straziante urlo. Guardai l’uomo barbuto… un occhio gli era
scomparso! Me ne importò relativamente e, ignorando le sue urla, agguantai una
terza dentata. Che bontà! Come aveva fatto a non piacermi per tutto quel tempo!
Ancora un grido! Oh che disdetta… ora non aveva più nemmeno la bocca. Il
panino ci legava, il Materiale! Materiale! Materiale!
Mi ricordai del motto… chi se ne frega! Un altro morso! Urlo! Via il collo! Oh
poverino… chi se ne frega! Morso! Urlo! Via spalla!Ciccino… chi se ne frega!
Stava cercando di avvicinarsi a me per togliermi di mano il nostro più grande
legame, il contatto fra noi che lui stesso aveva creato. Si buttò sul tavolo
rovesciando tutto quello che c’era sopra. Morso! Urlo! Via tutto il braccio! Chi se
ne frega! Cercava di afferrarmi, stanco, spossato, ma io mi alzai facendo cadere la
sedia dietro di me. Che buono! Quali proibite delicatezze conteneva quella
splendida bresaola rossa… non riuscivo a resistere! Bicchieri si frastagliarono per
terra in un’esplosione cristallina. Morso! Urlo! Via la gamba destra! Chi se ne
frega! Iniziò a supplicarmi di aiutarlo (supplicò il panino, non me, il panino!) ma io
ero troppo intento a gustarmi appieno tutto il suo sapore. Morso!Urlo! Via l’alta
gamba! Poverino… chi se ne frega! Parti d’un corpo irriconoscibile strisciavano
per terra mentre io camminavo all’indietro mangiando e guardandolo. Mi
dispiaceva, sì, ma… chi se ne frega! Lo aveva detto anche lui, no? Morso!Urlo!
Via tutto il torace! Chi se ne frega! Ero ormai quasi prossimo all’uscita, stavo per
aprire la porta sempre camminando all’indietro. Materiale! Legame Materiale!
Materiale! Morso! Urlo! Via la testa! Chi se ne frega! La campanella della porta
tintinnò non appena la aprii. Adesso ero fuori. Mangiavo, mangiavo e mangiavo.
Ormai a terra rimaneva solo una scarpa rossa, piccola, stavo per addentarne ancora
e…
Il pennello della contessa
Stava piovendo, non c’era il sole e faceva freddo. Anche uno stupido
capirebbe che si trattava di una notte invernale, ma solo io posso sapere che
era il 1920, anzi cambio, faccio 1921, e mi trovavo a Londra, in una
qualsiasi via della cupa metropoli. Ero vestito di nero; il cappello cilindrico
era nero, il mantello era nero, le scarpe insieme ai calzini erano nere, anche
le luci dei lampioni avevano un certo che di nero, accentuato sicuramente
dalla densa foschia. Dopo tutto, questo ricorrente colore, non riuscì a
cambiare il mio stato d’animo: ero felice quella sera, sì, direi proprio felice.
Mi accingevo ad imboccare Andrew St.. Se questa strada non esiste non
ha alcuna rilevanza: ora esiste. Che caso!La via era estremamente buia e, a
causa del mio completo dall’aspetto vampiresco, tutto assumeva un profilo
affascinante; li stessi angoli erano in grado di mostrare le loro rotondità,
come una donna che lentamente si spoglia… lentamente. Non erano sinuosi,
ma docili e affabili, tanto da darmi la sensazione che se ci avessi sbattuto la
testa non avrei sentito il ben che minimo dolore. Dico subito che le finestre
non erano illuminate; evidentemente era molto tardi. I tacchi battevano
sull’asfalto, come succede a tutte le migliori famiglie. I capelli mi si
arricciarono per via dell’umidità, e alcuni insetti giravano attorno ad una
lampada ad olio come una cane che si morde la coda. Silenzio e rumori
lontani creavano insieme silenzio e rumori lontani. Dal nulla un gatto bianco
mi passò davanti intrufolandosi in un buco sul muro; ciò mi fece ricordare
che esistevano altri colori. Mi sentivo importante a camminare in quel
modo, intendo solo. Il vuoto creava la mia sovranità su ciò che non c’era ma
che avrebbe potuto esserci…in un certo senso mi sentii invincibile. Fu solo
quando imboccai God St. (esiste?) che incrociai una persona; un fatto di
nessuna importanza se non fosse stato che questa persona era ferma con una
mappa della città in mano. Mi bloccai, voltandomi verso il signore. I
sospetti salirono. Per quale ragione non leggeva sotto un lampione? E
perché restava fermo? Anche le sue scarpe non mi piacevano, erano troppo
consumate. Muoveva la bocca come per parlare con la carta, e gesticolava
insulti alla sola notte. Incuriosito mi avvicinai, indietreggiai e mi avvicinai.
Ero adesso dietro di lui, me lo ricordo bene, a neanche un passo, ma fece
come se nulla fosse. Che magnifica persona, che comportamento
impeccabile. Non aveva nessun motivo di voltarsi, era tutto perfettamente
normale: una persona incuriosita lo stava spiando. Con questo fatto mi stette
più simpatico, ma i sospetti su di lui non si affievolirono. Ora toccavo con il
mento la sua spalla per osservare meglio la cartina. Buia. Illeggibile. Lui
non si mosse. Mi sporsi ancor di più, e alla fine fui proprio io a parlargli.
“Buona sera. E’ tardi. La disturbo?”
“Si figuri buonuomo, mi dica tutto”. Il mio mento era ancora appoggiato
alla sua spalla, la sua cartina era ancora fra le sue mani e i miei occhi ancora
puntati sulla sua cartina. Mi disse “Buonuomo” ancor prima di conoscermi,
e ciò mi fece capire che era una persona estremamente intelligente, per
questo volli ricambiare la cortesia.
“Buonuomo per quale motivo si trova qui?”
“Mi sono perso gentile signore”. La gentilezza e le parole iniziavano a
trasformarsi in qualcosa di eroticamente intrigante. Non potevo però per
questo perdere la stima nei suoi confronti.
“E perché si è perso gentile signore?”
“Per lo stesso motivo per il quale lei, ossequioso signore, mi sta ponendo
domande”.
“E sarebbe, ossequioso signore?”
“Che anch’io mi sto ponendo la domanda su dove sono, amabile
cittadino…”
“E la cartina? Perché non la legge sotto un lampione, amabile cittadino?”
“Perché non cambierebbe nulla, premuroso signore”. La gentilezza
prendeva ora la piega della strafottenza. Amavo il suo modo di fare, ma la
sua voce, oh la sua voce… che immane fastidio! Cercai però di non perdere
le staffe, come un ottimo fantino e, alzando il mento dalla sua spalla, mi
piazzai autoritario davanti a lui.
“Mi potrebbe gentilmente mostrare la sua cartina?”. Ora ne avevo la
conferma: le sue labbra si muovevano.
“Quale cartina, deferente uomo?”.
“Beh, mi sembra ovvio… quella che tiene adesso in mano, deferente
uomo…”
Mi domandavo se anche lui iniziasse ad odiarmi e, sempre più, mi
accorgevo come la gentilezza possa dare ai nervi; mi sarebbe piaciuto essere
crudele in alcuni attimi, spietato…deriderlo, ma l’interminabile scambio di
cortesie sembrava voler continuare a nascondere il desiderio di sputarci in
faccia a vicenda. Eravamo come due quadri visti di sfuggita: non potevamo
comprenderci appieno. Guardai meglio la mappa…
Ma questa non è una cartina…ah, ah…questo è un disegno… ah, ah…
Finalmente! Aveva messo le carte in tavola, si era rivelato per quello che
era. Mi adattai di conseguenza.
“Me lo dia!Svelto!” sbraitai, e, strappandogliela di mano, andai
velocemente sotto un lampione. Che mi venga un colpo! La cartina era un
dipinto di quel subdolo signore…nudo! Non gli bastava essersi tolto
quell’orrenda maschera, doveva anche mostrarmi le sue oscenità! Era nudo!
Nudo!.
Cercai di mantenere comunque la calma, e ritornai a passo contenuto
verso di lui. Era ancora nella stessa posizione, questa volta però meno
gobbo.
“Dimmi chi ti ha fatto questo ritratto!” gridai.
“Entra in quella porta e lo scoprirai…”
Indicandomela cominciò ad andarsene con il dito sempre puntato verso
una vecchia porta verde, fino a che la foschia non lo inghiottì. Libero da
ogni timore aprii la porta ed entrai senza chiedere il permesso, tanto la
risposta, ne ero sicuro, sarebbe stata: “venga, venga…” Era una casa ben
arredata, persino le poltrone all’ingresso sembravano essere state scelte con
impeccabile criterio. Alcune candele illuminavano un lungo corridoio. Mi
sarei aspettato i soliti quadri osservatori e inquietanti, ma invece… candele e
candele. Fuoco e fumo. C’era un odore di ottimo pollo al rosmarino. Lo
seguii.
Più il corridoio si faceva lungo più, in realtà, desideravo non avesse fine.
Avevo come la sensazione di essermi perso, anche se non avevo mai
svoltato per altre stanze. Una luce, me la ricordo bene, sì, molto lieve, quasi
triste, invitava senza complimenti ad entrare in una camera dove un rumore
da serpe che striscia creava una certa curiosità. Mi annoiavo
incredibilmente, sbuffavo e ridevo, sbuffavo e ridevo, pensando a quanto
bello sarebbe stato uscire da quella casa, ma comunque i miei tacchi
continuavano a battere la moscia andatura, finché con rabbia
incomprensibile spalancai la porta della camera.
Il profumo era svanito, ora il tanfo, risultava insopportabile. Mi
innamorai comunque pazzamente di quella camera (o del tanfo?). Era
brutta… Demoniaca! Stupenda! Le pareti cadevano, le travi del soffitto
piangevano pioggia. La luce non c’era, poca almeno, ma tutto sembrava
illuminato come l’urlo di un ricordo lontano. Dovevo conoscerlo, dovevo
assolutamente incontrare il genio che aveva creato quella bellezza.
Mi feci avanti nella stanza verso un muro bianco dove avevo visto, era
proiettata un’ombra umana. Camminavo, tic tac. Mi fermai. Respiro. Non
proprio profondo, ma quasi. E ancora, tic tac.
Toccai l’ombra con la mano, quasi pensassi fosse vera; me ne accorsi, si
trattava di muro… muro sporco, ma comunque, parlai: “Le devo dire che ha
una casa… anzi una camera favolosa, veramente fantastica!”
“Lo so, ma non me lo ha mai detto nessuno. Lei non è caduto nella
banalità, complimenti…”
Fu un attimo incredibile quando la bocca dell’ombra di profilo si mosse,
pronunciò le stesse parole che sentii con le orecchie; ne rimasi folgorato.
Voltarmi ormai non avrebbe avuto senso. Era l’ombra la mia amica. Non ciò
che la stava proiettando. Volevo solo il muro e l’ombra, solo loro, loro.
“Mi fa piacere… me la regala?”
“Cosa?”
“La stanza…”
“D’accordo… e… scusami se non te l’ho proposto io…”
“Non ti preoccupare, succede… dunque me la regali?”
“Sì, sì, certo, e scusa…”
Aveva la sensualità nella pietra. Quella bocca e quei capelli si
muovevano neri nello spazio bianco; lo usava, faceva di lui ciò che nessuno
aveva mai osato: si strisciavano senza toccarlo, come per far notare la sua
solitaria inutilità. Era lei, l’ombra più sensuale.
Per un momento ci fu silenzio. Un’attesa snervante, ma che portò i suoi
frutti. “Ahhh,ahhh, sì, sììì, ancora!”. L’ombra aveva la bocca alzata verso
l’alto, e le narici si dilatavano come fiori in primavera. Il collo, quel
magnifico collo nero, si tendeva come una corda, respirava e gemeva.
“Ahhhhhhh, ahhhhh, ti prego… ahhhh, sei bravissimo!”. Toccavo il
muro, e perciò anche l’adorata proiezione; la seguivo con la mano
assecondando ogni sua mossa. Eccitato da questo improvviso cambiamento,
ma soprattutto da quel contrasto fra bianco e nero, iniziai a godere
anch’io…forse più del previsto…
“Ahhhh… sei fantastica… ooohhhooohhh… che roba, che roba! e lei:
“Bravo, sì, sì… ah, parla, muoviti, bravo!” e io: “Ahhh, sì, tutto ciò che
vuoi… va bene così?”, e la bocca dell’ombra: “ No!, che fai… ora devi stare
fermo, immobile, arriva il punto forte!Ahhhh, ahhhh…”. Percepivo il calore
del piacere, sentivo che era estasiata dalla mia performance (l’ombra e il
muro, si muovono, si strusciano. L’ombra e il muro). Continuò lei: “Ho
quasi finito, sì, ahhhhh, daiii… l’ultimo sforzo!”. Io continuavo (a fare
cosa?) non contenevo la mia virilità, sprigionandola in tutta la sua potenza.
Osservavo il nero profilo, sì, potevo vederlo, era sudato…e la bocca, la
sublime bocca che nascondeva e mostrava, senza tregua, lo spazio bianco.
La sua ultima frase però mi irritò; non poteva aver già finito, io non ero per
nulla stanco.
“Come, hai già finito? No! Non è possibile… dobbiamo continuare…
assolutamente!”.
Il seno nero si gonfiava e si sgonfiava in un’armonia senza eguali.
“Certo! Non posso andare oltre, non posso! Rovinerei tutta l’opera… no!
Ahhh… non posso!”
“Cosa vuoi dire? Ti prego, spiegati!”.
“Ti sto facendo un ritratto… ahhhh… che bello, sei il soggetto più
particolare che abbia mai dipinto!”.
“Ma allora prima stavi fingendo! Non godevi veramente!”.
“Sì invece… certo che godevo e, ti prego, non fermarti!”. Baciavo il
muro, l’ombra e il muro, mentre sentivo che il pennello stava per finire il
suo capolavoro. Potevo percepire già l’orgasmo, stava per succedere,
mancava poco quando…
“Basta! Non ce la faccio più… il tuo disegno te lo lascio qui, tanto questa
casa è ormai tua, io me ne vado…”
In un certo senso, con queste sue ultime parole, sbriciolò il senso della
sua bellezza.
“Perché? Non puoi andartene… dobbiamo finire!” esclamai.
“No…sei matto! Non posso! Non posso!”.
“Perché! Non dire così… ti prego, resta!”.
“No! Non posso perdere la mia verginità! E’ inammissibile!”.
La bocca nera gemeva ancora, lo potevo ben vedere, e io la accarezzavo
come se fossimo stati sotto le coperte abbracciati…guardandola.
“Come non vuoi perdere la verginità! Ma la devi perdere… con me!”.
“No, ti scongiuro, non farmi questo, lasciami andare… non trattenermi…
ti ho detto di mollarmi! Mollami!” urlava. Stringevo l’ombra, mi ci ero
completamente gettato addosso e respiravo con lei, seguendo il suo ventre
come un bambino addormentato sopra la madre.
“Non ti lascerò! Mai! Io ti amo! No! Io ti amo!” dicevo.
“Lo so… anch’io ti amo, ma non posso, veramente, non mi è concesso!”
“Cosa? Dimmi chi è il bastardo che ti tiene rinchiusa!”.
“Non posso!”
“Dimmelo!”
“Va bene…”
“Zitta! Non dirmelo!”
“Ma devo dirtelo!”
“No! Non dirmelo!”
“Va bene!”
“Voglio penetrarti!”
“Non posso… anche se ti amo!”
“Allora se mi ami fatti penetrare!” dicevo. Mi ero accasciato a terra
pancia in giù, guardando ancora l’amata ombra e toccandole con la punta
del dito lo sporgente capezzolo. Ero sudato e sentivo che le forze mi stavano
sempre più abbandonando.
“Vedo che sei eccitata… non puoi sfuggirmi”.
“Non voglio, ma devo… ahhhh… oh
oh… tieni il tuo ritratto!” Un
foglio mi cadde in testa. Lo presi e me lo portai davanti agli occhi,
facendovi prima passare una mano sopra come per pulirlo da eventuali
sporcizie. Ero io, ma non io. Ero completamente nudo su di uno sfondo
nero, perciò, pensai, aveva confuso i miei vestiti per uno sfondo? Era
riuscita a vedere così bene al mio interno tanto da smembrare gli indumenti
in altri particolari? Quindi io per lei ero qualcos’altro; non si era innamorata
di me, ma di ciò che vedeva nella mia persona. L’intimità degli indumenti
quindi per lei non era nulla? Una semplice convenzione? Tutto ora
assumeva un altro senso; non ero più vincolato dal sentimento, ma dalla
passione… adesso potevo fare di lei ciò che volevo. Era diventata come una
puttana sotto un lampione rotto. Misi tutte e due le mani sopra la bocca nera
che ancora si muoveva.
“Sei mia… non hai più scampo! Non me ne importa nulla di te… sarai
solo un divertimento!” gridai.
“No, non perderò la mia verginità per te! Ti odio!”
“Anch’io ti odio!”
“Sono eccitata!” disse.
“Sono stato io a farti eccitare?”
“Sì, è colpa tua! Me ne vado! Tengo più alla verginità che
all’eccitazione!”
“No! Non farlo!” disperai.
L’ombra si mosse togliendosi da me con un violento strattone, e le mani
mi caddero a terra.
Se n’era andata. Aveva approfittato di me fin quanto le faceva comodo e
poi via... pronta per un altro uomo. Presi il ritratto e lo strappai, mettendomi
tutti i pezzettini di carta in tasca.
Disperato mi alzai, sollevandomi con le stanche braccia. Strinsi i denti
per lo sforzo, e chiusi gli occhi. Quando li riaprii contemplai il pavimento
come un cavallo sopra il fieno. Per terra c’era dell’intonaco bianco caduto
dal muro. Per terra. Il bianco intonaco. Per terra. Bianco… sotto di me.
Intonaco? Bianco? Bianco! Tutto era nero, solo poco era bianco. Sotto di
me. Bianco!
Lezione di astronomia
“E e e e e e e se se se se se se se la sveglietta non esistesse, il piccolino mio a
scuola no non andrebbe… tatatatatata!” cantava a squarciagola ogni mattina quella
megera che si faceva chiamare mamma. La odiavo, la detestavo con tutto me
stesso, tanto che, più volte, progettai la sua fine. Quella più bella sarebbe stata farle
ingerire un registratore in gola insieme alla sua cantilena.
Non mi piaceva andare a scuola, anche perché, e certo non era un segreto, non
ho mai ascoltato una parola di quello che dicevano i professori. Me ne sono
sempre, come dice Freddy, infischiato allegramente. Che forte è Freddy! Le
ragazze dicono che è il più “ganzo” di tutte le scuole del mondo intero: “lui si che
ci sa fare… iouuuu”. Ma io non ne ero geloso, nessuno era geloso perché,
fondamentalmente, in un modo segreto e inconfessabile, anche noi lo
consideravamo “Ganzo, luicisafare”. Anche se la voglia di vederlo all’opera ogni
mattina era immensa, quella voce, quella sveglia creata da mia mamma, mi dava
subito sui nervi. Poi, facendo incomprensibilmente finta di fare piano, veniva ad
accarezzarmi la fronte con dolcezza fin che i miei occhi non si aprivano e lei,
felice, se ne tornava in cucina. Non ho mai capito se dormisse o in realtà rimanesse
sempre sveglia a mettere a posto la casa, forse non me ne sono mai veramente
interessato, ma quella voce…quella maledetta voce!
Una mattina come tante mi svegliò al solito modo, togliendomi ancora una volta
il poco di buon umore che potevo avere. Svogliatamente mi alzai dal letto
guardando tutto con disprezzo. Occhi attoniti prendevo i primi indumenti che mi
capitavano sotto mano, li indossavo e, strascicando i piedi, mi dirigevo di mala
voglia verso la cucina. Là, immobile, lei con un sorriso scolpito, la bestia. Mi sono
sempre contenuto nelle espressioni, non ho mai voluto offenderla perché, litigare
con lei sarebbe stata una battaglia persa in principio. Perciò mangiavo, mi alzavo,
prendevo i libri e me ne andavo. Quando uscivo di casa ogni cosa diventava
automaticamente più semplice. Le strade vuote, un deserto di cemento davanti al
mio sguardo ancora perso nel sonno. Ma quella mattina, e si sta parlando di una
mattina della quale non voglio ricordare nemmeno il colore, stavo andando dritto
dritto verso una svolta, ciò che non pensavo possibile. Fu un caso che notai una
certa persona per strada che camminava avvolta nella nebbia con una grande
cappello per oscurare il volto; capitò soltanto perché decisi di prendere una via
secondaria, così, per cambiare. La persona che vidi era mia madre. Ma cosa
diavolo ci faceva quella vecchia baldracca in giro per la città di mattina presto?
Non era possibile, lei viveva in casa! Era la casa! La casa non esisteva senza di lei!
Due cose che coesistevano e non potevano certo permettersi di separarsi così, di
punto in bianco. Mi decisi a seguirla.
Camminava a passo svelto e felpato, nulla sembrava sfuggirle, mai l’avevo vista
così accorta. Evitava le foglie che cadevano, non calpestava mai le cartacce, non
sfiorava mai le spalle dei passanti che incrociava. Insomma, appariva estranea al
mondo, una persona del tutto emarginata ma, al tempo stesso, in pericoloso
contatto con tutto ciò che la circondava. La seguivo comunque attento, ipnotizzato
da quella sagoma che vedevo solamente come parte integrante d’un mondo non
mio. Le strade fredde e grigie ci accompagnavano per vie che non conoscevo,
sfiorate a tratti da un fugace vento nordico. Per la prima volta, mia madre riuscì
involontariamente a trasmettermi un senso di perfetta armonia con lei, di speciale
collisione con il suo io che, in gran parte, percepivo inspiegabilmente di mia sola
proprietà. Avevo capito che stava per fare qualcosa di poco chiaro, ma non me ne
importava, lei, quella vecchia megera pulisci casa, sapeva il fatto suo. Davanti a
uomini dall’importante stazza la sua persona risultava immensa, di fianco alle altre
donne invece risplendeva di luce diversa, sempre più, e il passo, silenzioso, veloce,
veloce. Che stesse scappando? Mi domandavo mentre la seguivo. Forse da me? No,
era impossibile, era un atto troppo impeccabile, come l’atleta del salto con l’asta:
c’era la rincorsa, lo slancio, la tensione, e forse l’ottima ricaduta e lei sembrava
rincorre la medaglia d’oro eseguendo movimenti che solo dopo un grande
addestramento possono risultare così eccellenti. Lei, ne ero convinto, era abituata a
fare quelle cose.
Quasi non mi accorsi che si era fermata; stava osservando con intensità una
vetrina buia dove, la sua immagine, risultava sfocata e sognante. Allunga la mano
e, come un timbro fra le dita del notaio, stampò la sua impronta sul vetro. Senza
preoccuparsi se qualcuno la stesse guardando riprese la sospetta camminata. I miei
occhi non si scostarono dalla sua sagoma. Sembrava saper già o prevedere
abilmente l’influsso del traffico dato che, con ammirabile maestria, evitava le
macchine attraversando la strada senza nemmeno essersi guardata prima attorno.
Se pur sforzandomi, e io ero sempre stato il più bravo negli indovinelli tra i miei
amici, non riuscivo ad afferrare il senso del suo andare.
Perché quell’impronta sulla vetrina? Rimase il mio cruccio per tutto
l’inseguimento.
Svoltò ad un angolo, e ad un altro, ancora, e ancora un angolo, due angoli,
ancora. Mi sorse il dubbio che mi avesse notato e stesse facendo di tutto per
sbarazzarsi di me. Io non mollavo, ma, a questo punto, avrei dovuto mollare. Entrò
poi in un bar e subito anch’io entrai. L’avevo sempre considerata una donna dai
sani principi, che mai sarebbe entrata in un posto di ubriaconi come quello. Tutto
però mi crollò addosso quando vidi lo sgabello dove si era seduta. No! Non poteva
essere! Lo sgabello! No! No! Lei non esisteva per lo sgabello e lo sgabello non
esisteva per lei! Com’era possibile?
Si erano forse uniti due mondi paralleli? Come per me non esisteva l’ordine
della mia camera per lei non poteva esistere quello sgabello da disperato notturno.
Non avrebbe dovuto nemmeno notarlo… e invece. Capii che le cose si stavano
facendo serie. Ne ebbi conferma quando ordinò cinque bottiglie di Porto con
esemplare disinvoltura. “Bastarda!” irruppi abbassando subito la testa. Nessuno mi
sentì. Ecco perché mi aveva sempre regalato tante matrioske russe ad ogni mio
compleanno… ecco perché!
Lurida infame! Anche lei era così, era una matrioska da scoprire pezzo per
pezzo. Ecco! Bastarda! Bastarda! Bastarda! Ma così incredibilmente magnifica.
La continuavo a guardare con devozione, rapito da quei movimenti mai visti,
finché, d’improvviso, uscì dal locale. Rapido mi accinsi a fare altrettanto.
Impaurito però mi dovetti fermare; nuovamente stava stampando la sua impronta
sulla vetrina. Maledetto gioco!Inspiegabile indovinello! Si voltò, passo
impeccabile verso la strada successiva. La campanella del locale tintinnò
rumorosamente alla mia uscita.
Lei era molto abile. Sapevo che quelle strade le faceva da anni, conosceva ogni
singolo spostamento d’aria, ogni variazione di luce, ma forse, per la prima volta si
era dimenticata di qualcosa: suo figlio. L’errore casuale della volontà sua
prediletta.
Passammo alcuni angoli che mi sembrò di aver già visto e incrociai persone
dalle facce familiari. Ora tutto era veloce e macchinale; lei, io, solo noi e, quella
precisione, con il tempo, mi riusciva sempre più facile da accettare. Imbucò una via
lugubre e sporca con i marciapiedi ingombrati da avanzi di galera che
fermentavano su di un letto di vino rosso. Ne rimasi sorpreso, ma lei, la sua
impavida essenza, continuava come se nulla fosse a sgambettare in mezzo a quel
lerciume.
“Mamma!” stavo per dire… “torna indietro”, ma anch’io, quasi senza
accorgermene, mi inoltrai nella foschia di quel luogo. Camminavo e lei
camminava, per vie. Il sole cercava invano di rispuntare sulle nostre teste
quando… fssssccccc… il candido mormorio marino d’un onda sotto uno scoglio
irruppe nel mio udito. Fssssscccc, ancora. Ma non poteva essere! Il mare non
esisteva da quele parti, non esisteva per chilometri! Scossi la testa, ma ancora…
fssssscccc… e lei, insensibile a qualsiasi avvenimento, continuava per la sua
strada. Ne rimasi turbato… fssssccc… perché mai… fssssccc… poteva essere che
il mare… fsssssccc… scomparvi anch’io.
La situazione si fece critica. Lei iniziò ad ondeggiare e il fssssccc sembrava
comandarne i movimenti poi, a zig-zag, poi iniziò a saltellare e ancora a roteare
finché, in un nuovo bar, si fermò. La seguii all’interno. Questo era molto più tenuto
male e sporco, con sedie ribaltate e tavoli che fungevano da piatti. L’aroma di vino
era imprigionato ovunque. La situazione risultò diversa dalla precedente e ciò mi
lasciò un attimo spiazzato. Al posto di sedersi si era messa a parlare con un vecchio
signore dalla barba centenaria seduto all’angolo di un piccolo tavolino e, non prima
di essersi scambiati un vecchio foglio ingiallito e una fetta di formaggio, mia
madre scomparve nel retro d’una porta. Ebbi paura all’inizio che qualcuno mi
potesse fermare ma, fortunatamente, nessuno fece caso alla mia presenza. La
stanza era buia e il fssssccc era aumentato a dismisura; adesso potevo sentirne il
brivido, il vento d’oltre oceano, gli spruzzi del blu, tutti misteriosamente racchiusi
nella buia camera. Feci un passo. Durò a lungo, ma niente. Un altro e… mi bagnai.
Una forte luce si accese abbagliandomi. Faticosamente riaprii gli occhi e davanti a
me un infinito schiumar di onde appese al singolare vento richiamato dal volo di
gabbiani reali, mi fece rabbrividire. Ma io, io… dov’ero finito? Come era possibile
che un secondo prima mi trovassi dentro ad un lurido bar di cemento e adesso quel
cemento risultasse azzurro e salato.
Fssssscccccc. Mi voltai nella speranza di trovare un’uscita ma, quando capii la
vera situazione… fssssssscccccfsccccccfsccccccc… il sole, il mare, i gabbiani, mia
madre, il bar, l’aria, ogni singola parte di quello che avevo visto si impadronì di
me. Comandatemi! Io non capisco più nulla! Comandatemi!
Perché mia madre era scomparsa? Dov’era finita? Stava navigando anche lei
insieme a me? In quel momento ero a poppa, nel lato sinistro della nave e il mare
usava l’aria saltando su di essa con indomabile potenza. Mi stavo per decidere a
esplorare l’imbarcazione quando un pugno mi colpì sul naso.
“Ciao teosruccio… come è andata la giornata? A scuola?” disse mia madre.
Ero in camera, seduto sul divano con in mano un libro e, davanti a me, lei mi
guardava con la solita apprensione e fragilità che mi erano ben note.
“Bene…” risposi solamente sperando che se ne andasse, e così fu. Mi chiamò
solo quando ebbe finito di preparare la cena e, impaurito, scesi in sala da pranzo.
Per tutta la cena la scrutai con occhi accusatori, ne studiavo i movimenti, cercavo
di fare collegamenti con quello che (forse) mi era successo, ma tutto risultava
diverso e lontano come non mai. Lei non era la mamma che avevo visto, era uguale
ma totalmente diversa. Eppure, non c’erano dubbi… era lei!
“Cosa hai fatto oggi tesoro? Non mi racconti nulla? Ti vedo ansioso?”
Quanto la odiavo, quanto avrei voluto farla sparire. Perchè fingeva così
spudoratamente con me quando sapeva benissimo che l’avevo seguita fino sul
galeone? Stava giocando, cercando di persuadermi, e io, che non ero tipo da farmi
fregare, le ressi il gioco.
“Sai che non lo so mamma… credo di essere stato molto male… tutto qua…
anche adesso non mi sento particolarmente bene…”
Il suo volto, come mi aspettavo, si rilassò.
“Mi dispiace figliolo mio adorato… vuoi saltare scuola domani?”
Colsi l’occasione al volo.
“No mamma… anzi… voglio andare prima… bisogna reagire a queste cose, sai
com’è…”
“Certo tesoro… hai ragione…”
Sapevo che ci sarebbe cascata, ne ero convinto.
“Io vado mamma… sono parecchio stanco. Ci vediamo domani dopo scuola…”
“Buonanotte tesoruccio…”
Salii le scale e mi chiusi a chiave in camera. Sapeva tutto!Ogni cosa!Sin dal
principio aveva capito che la stavo seguendo! Il pugno? Il pugno! Ma certo… era
stata lei! Lei che mi aveva colto di sorpresa e riportato a casa!
Sotto il cuscino mi sommergevo di domande. Pensavo a lei quando ai miei occhi
appariva meravigliosa, adorabile sotto ogni punto di vista. Era lei la vera donna,
quella che camminava fuggendo, che entrava nei bar più insospettabili e che
d’improvviso mi conduceva su un galeone. Che donna fantastica! Ma quella in
cucina… quella specie di scheletro con una pennellata di carne! Lei non riuscivo a
sopportarla! Con impazienza aspettai l’arrivo del mattino. La luce sorse solitaria in
un deserto di voci. Scesi senza fare alcun rumore al piano di sotto e feci sbattere la
porta per far credere alla mamma che ero uscito di casa. Veloce ritornai in camera
e mi nascosi sotto il letto. Come prevedevo lei entrò, guardò per un po’ la stanza, e
se ne andò leggera. L’avevo giocata!
Ancora una volta per le strade di prima mattina viaggiavamo solo io e lei. Era
incredibile!Inverosimile! La stessa identica situazione del giorno precedente si
presentava davanti a me. Ancora una volta scomparve dentro quella maledetta
porta sul retro. Nessuno mi stava guardando, perciò ne approfittai per entrarvi
anch’io.
Questa volta nessun pugno mi colpì in volto. Iniziai a camminare e notai la
bandiera dei pirati che sventolava fiera in cima all’albero. La cosa, se pur strana,
non mi sorprese affatto. Voci maschili sempre più intense andavano via via
aumentando quanto più mi dirigevo verso prua e un forte odore di carta bruciata si
faceva vivo dentro me. Il legno gemeva al mio passaggio. Affacciandomi ad un
angolo riuscii a vedere cosa stava succedendo: una ciurma di circa venti pirati
rideva e scherzava con bottiglie di vino e frutta calpestata, abbracciandosi e
ridendo mentre il mare, complice fasullo, scorreva veloce sotto i loro piedi. Un
momento!mi dissi. C’era anche mia mamma in mezzo a loro, ed era pure ubriaca!
Lei? Ubriaca! Tutto ciò in cui credevo, le mie convinzioni, crollarono insieme.
L’avrei strangolata e abbracciata, baciata e accoltellata, adorata e avvelenata,
niente aveva un verso, nulla era storto o strano, ma ogni cosa, forse, magari…
capovolta. Un’onda che rovesciò ogni cosa, le bolle, l’acqua gelata, il respiro che
manca, ma quale limpidezza, quale azzurro invisibile si manifestò davanti ai miei
occhi aperti per la prima volta.
Sembrava una sgualdrina mentre lanciava baci a destra e a manca alzandosi la
gonna come una puttana dei bassi borghi. I maschi stranamente non la toccavano,
ma battevano solo le mani con euforia, dandole così il ritmo per un ballo composto
da salti e giravolte. Lei con quella bottiglia in mano e io che la guardavo mentre il
rosso le scendeva lungo il mento macchiando il vestito e i capelli si muovevano
come pazzi in cerca d’amore, senza senso, senza ragione. Mi sentivo spiazzato,
privo di scopo, e una forte voglia di andare da lei s’impadronì di me. Dovetti
trattenermi.
“Oooooooohohhoohhhoooo,” udii d’improvviso. Mi voltai e vidi che i pirati
insieme a mia madre si stavano avviando barcollanti verso l’interno del galeone. Li
seguii. Sentivo le voci provenienti dalla stanza accanto. La porta era chiusa, ma
una piccola finestra brillava nella polvere. Avvicinandomi ci passai una mano
sopra più volte in modo da poter vedere qualcosa. Scuola? Scuola! Scuola? Sì, era
una scuola con i regolamentari banchi, la nera lavagna e l’odiata insegnate: mia
madre. Teneva in mano un bastoncino lungo di legno e indicava sulla lavagna
alcune cose che aveva scritto. I pirati ascoltavano con attenzione. Cercai di pulire
meglio la finestra e, come a teatro, restai in platea a godermi lo spettacolo. Puttana,
insegnate, mamma, megera, baldracca, ma insomma, che cosa diavolo era quella
magnifica creatura che mi si presentava davanti? Che cosa stavano a significare
tutte quelle sfaccettature?
I pirati, che prima erano fermi e attenti, dal nulla iniziarono a contorcersi e
assembramenti di pezzi umani si presentavano nell’aula in continue variazioni. Chi
si metteva la gamba sopra la testa, chi la testa sotto il braccio, chi il piede in bocca,
chi il ginocchio sulla schiena, chi gli occhi all’indietro e un delirio generale
coinvolse tutta l’aula con intenso furore, a parte quella donna, quel miscuglio
perfetto di sembianze, impassibile davanti a tutto, solitaria in ogni qual dove.
Magnifica! Magnifica! Magnifica! Mi dicevo ammirandola in cotanto splendore.
Notai però che mentre i pirati si contorcevano prendevano anche appunti su un
taccuino appoggiato al tavolo, chi con disegni, chi scrivendo. Non riuscivo a
leggere, ma sapevo che in quella confusione c’era qualcosa dall’incredibile
importanza. “Allora!”
“No signorina”
“Quindi siete sicuri?”
“Non lo sappiamo”
“Come sarebbe a dire non lo sappiamo!”
“Sarebbe a dire che siamo confusi!”
“Ed era quello che volevo!”
“Ma abbiamo paura!”
“Allora tremate!”
“Lei è perfida, signorina”
“Bisogna essere perfidi e non indulgenti quando si deve inculcare qualcosa
dentro zucche come le vostre!”
“Ma lei ci sta facendo del male!”
“E ancora ve ne farò!”
“Guardate!Guardate!Mi sto di nuovo contorcendo!”
“Bravi…continuate così!”
“Ci sentiamo male!”
“Non è vostro il male!”
“E allora di chi?”
“E’ della restrizione che dovete sopprimere! Coraggio! Coraggio miei prodi!”
“Non molleremo signorina!”
“Così mi piace!”
“Ma perché ci sentiamo in tal modo incomprensibili?”
“Perché ancora state nascendo!”
“La prego non ci faccia vedere altro per oggi!”
“E invece sì!Ecco qua! Guardate! Ahah!”
“Basta… la pregiamo! Che male! Che male!”
“Fra poco tutto passerà… vedrete… tutto passerà e niente più sarà come sarebbe
dovuto essere. Potete starne certi!”
Non era come a casa quando girava per le stanze senza scopo né voglia… no!
Adesso era forte! Possente, autoritaria, e nessuno, nemmeno io, si sentiva in grado
di poterla fermare.
Senza preavviso, lanciando un urlo che fece vibrare il vetro davanti a me, tirò
fuori altre bottiglie di Porto da sotto la cattedra e le lanciò con dimestichezza ad
ognuno dei pirati. Ancora si misero a bere, tutta la notte. Dormirono sopra i tavoli,
sotto le sedie, appoggiati al muro, in piedi, non c’era differenza, ma loro, al
contrario di me, apparivano molto più sereni. I loro occhi chiusi erano aperti, la
loro bocca aperta era chiusa, le cose sembravano bramose d’esser diverse nella
normalità. Una bottiglia che era scivolata da una piccola dispensa dietro di me
sfiorò i tacchi delle scarpe. La raccolsi, ne bevvi un goccio, lo assaporai, me ne
innamorai e mai più ci separammo. Nel matrimonio, infatti, dovrebbe esserci
sempre un po’ di vino che offuschi in parte una certa pazzia. Abbracciato a quel
sapore mi addormentai.
La luce buia… com’è possibile? Non può essere… accendete… date fuoco…
voglio vedere… ma non era possibile… niente si illuminava… com’è possibile?
Niente si accende… voglio luce nella vita… niente… nulla… nero… non riesco a
capire… una casa lontana, nell’ombra… qualcuno stava giocando… non io… non
io… ma qualcuno e gli altri non lo vedevano… ma forse ero proprio io quello che
non vedeva… Chi erano gli altri? Io, io e solo io che non mi accorgevo si essere
me stesso.
I miei occhi, aprendosi, crearono finalmente… luce. Era mattina e quando
riguardai dentro alla finestra l’aula si presentò davanti a me, vuota. “Come sono
usciti da questo posto?” esclamai. Guardando meglio mi accorsi che un porta era
aperta dietro la cattedra. Troppi retro nella mia vita, pensai. Veloce entrai e subito
il canto piratesco che ormai mi era familiare giunse alle mie orecchie. Stavano
facendo colazione sempre con della frutta e del vino, questa volta però in quantità
più contenute e mia madre, come per farmi impazzire ancor di più, stava suonando
la fisarmonica a prua del galeone. Era brava, non l’avevo mai sentita suonare
alcuno strumento, ma sembrava una musicista esperta. Si mise anche a cantare:
“Eeeee… se per mar mar mar… noi andiam andiam andiam… con il vin vin vin…
scoppierem rem rem e alla fine tutto capirem rem rem…”
Una melodia che assomigliava molto alla detestata sveglia mattutina. Ma quindi
tutto era un indizio! Dalla matrioska fino alla cantilena! Certo! Lei mi aveva
sempre mandato indizi! Come avevo fatto a non capirlo! Come! Come! La
canzone! Le matrioske! Che incosciente! Che scapestrato! Mi inginocchiai a terra
contemplando le insenature del legno… tremavo. Osservai il mare, lo feci mio, mi
ci stavo per buttare…
“Tesoro… lo sapevo che saresti venuto prima o poi!”
Sentii provenire dalla voce di mia madre. Mi aveva visto! Aveva scoperto il mio
subdolo piano! E adesso… cosa avrei dovuto fare? Lentamente la vidi scendere
dalla prua del galeone. Si avvicinò all’angolo dove restai nascosto. “Non devi aver
paura tesoro… io volevo che tu venissi… lo sapevo che prima o poi sarebbe
successo, che ci saresti arrivato da solo… e ora, non devi far altro che seguire
me…”
La scrutai guardingo. Ai miei occhi risultava come una perfetta estranea.
“E dove ti dovrei seguire? Sentiamo?”
“Ma è ovvio tesoro! In una semplice lezione di astronomia!”
E, voltandosi, mi prese per mano accompagnandomi alla luce che il mare
rifletteva con immenso ardore. Tutti i pirati ora mi potevano vedere e con volti
straniti mi fissavano.
“Questo è mio figlio signori… un vostro nuovo compagno di classe…”
Mi presentò a voce alta. Lei! Quella brutta scopa vecchia adesso così forte e
possente! Mi teneva addirittura per un braccio quando sapeva molto bene che avrei
potuto spezzarglielo in mille pezzi! Anzi, no, adesso, era lei la più forte! Lei!
“Buongiorno nuovo compagno,” gridarono i pirati.
“Tesoro non essere imbarazzato o impaurito, fra poco tutto ti sarà più chiaro…
ora vado a preparare la lezione… tu aspetta qua con gli altri e fai quello che fanno
loro…” comandò infine andandosene. Feci ciò che lei mi ordinò. Con i pirati,
gente, contrariamente a quello che mi aspettavo, affabile ed educata, mi ubriacai
con bicchieri d’un ottimo vino rosso. Insieme a loro ridevo e dopo aver preso un
po’ di confidenza mi permisi anche di fare alcune battute che vennero subito ben
accettate. La situazione era da me molto gradita e sarei rimasto là a chiacchierare e
bere tutto il giorno, se non fosse stato per l’urlo di mia madre che fece andare tutti
noi verso l’aula. Ebbe dunque inizio il mio primo corso di astronomia.
“Bene… sono felice di vedervi tutti presenti quest’oggi e ancor più mi riempie
di gioia la presenza del mio unico figliolo seduto lì vicino a voi…”
Un breve applauso interruppe il discorso. Le mie guance, già rosse, non
mostrarono l’imbarazzo. “D’accordo… le presentazioni di rito sono state fatte…
ora direi di incominciare con la lezione se non avete nulla in contrario?”
S’alzò un coro di voci.
“Nulla in contrario, signorinaaaa…”
La mamma, sorridente, iniziò a parlare. Le parole andarono via via
scoppiettando, come bolle, e io ne rimasi estremamente affascinato.
“Perché noi ci troviamo nelle galassie e le galassie contengono vari pianteti noi
siamo sulla terra e la terra è su un braccio (braccio braccio braccio braccio braccio)
di una grande galassia che ruota vorticosamente,” e le mie braccia iniziarono a
muoversi da sole senza un senso divincolandosi sotto le gambe o dietro la schiena e
lei continuò diceva: “e quindi bang! (bang bang bang bang)” così si creò, disse, e
poi ancora spiegò che esistono i buchi neri che risucchiano tutto ciò che incontrano
e dunque la mia bocca (bocca bocca bocca bocca) iniziò a risucchiare tutto quello
che sul tavolo si trovava e risucchiavo sempre più forte finché lei mi disse non aver
paura e io le dissi: “non ho paura…” però in verità io avevo paura e lei rincuorata
riprese la lezione mentre le mie braccia giravano e la bocca aspirava sempre più
forte. Disse che lo spazio ha uno sfondo nero e che la terra ha al centro un nucleo
che attira tutto a sé e questo meccanismo viene chiamato forza di gravità e io
pensai bello ma dopo il mio stomaco (stomaco stomaco stomaco stomaco) iniziò ad
andare su e giù su e giù e la mamma rideva e io andavo su e giù su e giù e anche i
pirati andavano su e giù su e giù e dunque lei disse: “Siete stanchi?” e noi in coro
rispondemmo: “No signorina non siamo stanchi!” e quindi (bang bang bang) un
grande (bang bang bang) e tutti venimmo scaraventati alle pareti e ci scambiammo
di posto e lei riprese la lezione e spiegò il sistema della paralasse geometrica
facendo esempi davanti a noi con gli occhi che si chiudevano uno sì e uno no e
allora anche noi chiudemmo gli occhi uno sì e uno no velocemente e facevano
male ma non lo sentivamo e ancora uno sì e uno no (bang bang bang) e provai ad
alzarmi ma (braccio braccio braccio boca bocca bocca stomaco stomaco stomaco
stomaco occhio occhio occhio) si muovevano a più non posso e io capivo capivo
capivo e lei disse: “Volete fermarmi qua?” e noi: “No signorina non vogliamo
fermarci qua!” bang bang bang, “desideriamo continuare…” e l’insegnate disse:
“Bene!” e io vedevo vedevo ogni cosa senza sbavature e spiegò: “Lo sapete che la
luce delle stelle che vedete risale a molti milioni di anni prima quanti sono gli anni
luce che ci separano da essa…” e tutti dissero ooooooo ma subito dopo iniziai a
scavarmi la pelle del petto con le unghie e lei diceva che quella luce poteva risalire
ai tempi della preistoria e che magari quella stella poteva essere esplosa e non
esistere più e che quindi era una luce reale e allo stesso tempo fittizia e allora io
scavavo dentro il mio petto (petto petto petto) con incredibile furia e ricercavo
quella luce che non trovavo e quindi mi arrabbiai e continuai a scavare sicché il
petto mi esplose e (bang bang bang) grande e tutti fummo sbalzati in giro per l’aula
solo lei rimase ferma e ci disse: “magari adesso volete fermarvi?” e noi: “No no no
signorina non vogliamo!” e quindi le mie braccia giravano e la bocca aspirava e lo
stomaco su e giù su e giù e l’occhio uno sì e uno no e il petto sempre più nullo
quasi scomparso e perciò lei continuò il suo corso e disse: “Poi c’è Saturno che non
è altro che una massa gassosa dove noi non potremo mai camminare e che intorno
ad esso ruotano velocemente miliardi e miliardi di meteoriti che collidono
continuamente formando i vari cerchi che ha attorno i cosiddetti anelli,” e io fui
scioccato e guardai gli altri e vidi che gli altri stavano già guardando me e capii
subito che cosa avevano intenzione di fare e tutti insieme ci alzammo iniziando a
scontrarci (scontrarci scontrarci scontrarci) l’uno con l’altro e i corpi volavano via
e poi si riunivano e giravano e sparivano e poi tornavano e bang bang bang e le
braccia si muovevano e gli occhi uno sì e uno no e la bocca e bang bang bang e il
petto e lo stomaco su e giù su e giù e lei che rideva fiera guardandoci con (bang
bang bang) che formava il caos del nero più assoluto e noi ci espandevamo sempre
più ci allontanavamo sopra una membrana che sembrava gonfiarsi all’impazzata e
quindi lei disse: “Volete fermarvi?” e tutti dissero: “No signorina non vogliamo
fermarci!” ma io questa volta non risposi e loro (si scontravano giravano
sussultavano si chiudevano su e giù vorticavano) e quindi riuscii ad uscire dalla
stanza e le mie braccia e la testa e l’occhio e il petto si contorcevano su se stessi
quindi adesso all’aria aperta solo aria non c’era nave non c’era cielo non c’ero io e
sentivo le grida ma non erano grida era chiarezza e quindi mi avvicinai al mare era
sempre più vicino a me e solo quello esisteva e quindi vi caddi dentro
Stavo. Solo io. Scendendo. Leggero nel mare. Che. Non aveva. Più. Superficie.
Né fondo e. Io. Solo io. Tranquillo. E il mio corpo in movimento. Dunque. Mi
dissi. Ora. Forse. Avevo finalmente compreso. Riuscito ad afferrare. Non il senso
ma ciò che doveva essere. Scende. Lento. Rilassato. Per la prima volta. Veramente.
Felice. Non vedevo lei. Ma avrei tanto voluto. La sfera. Dove ero immerso. Si
stava illuminando da ogni lato. Anche. Se. I lati non esistevano più. Non c’era
fondo. Non c’era superficie. E. Io. Vedevo. Dunque. Il complesso. Che. Ero. Io.
Non. Quello. Che. Avevo. Sempre. Pensato. Ero. Io. Tutto. Quello. Che. Avevo.
Sempre. Visto. Ero. Io. E. Quindi. Che ricerche inutili! Comunque sia. Scendevo.
Calmo. Tranquillo. Tutto. Era illuminato. Limpido. Quella Chiarezza che manca
sempre. Anche davanti al lago. Più. Limpido. Glu. Glu. Glu.
Il Re - di - Mezzo
“Grazie Adlocrite, questo dono è la prova della grande potenza del tuo
stemma” (inchino)
“Ti ringrazio Teodolico, questo presente è per me molto più di un regalo…
domani siederai accanto a me alla grande cena” (Inchino)
“Mille grazie Chiscotte, il tuo pensiero fa onore a te e alla tua famiglia, da
sempre sotto protezione della mia stirpe” (inchino)
“Un dono davvero apprezzato Leopoldignolo, ringrazia tuo padre, e bacia tuo
fratello piccolo da parte mia” (inchino)
“Stupendo Ferdinandolino, davvero stupendo… domani berremo insieme il vino
dallo stesso calice d’oro” (inchino).
Avevo le braccia comodamente appoggiate ai bracciolo del trono, e le mani
tamburellavano con impazienza sui doni, quasi con arroganza, sperando che tutti se
ne andassero presto, ma un re, mi dicevo, deve sempre mantenere il sorriso se
vuole aggiudicarsi il consenso del popolo.
Chi si inginocchiava davanti a me lo guardavo solo di sfuggita, poi mi
concentravo nuovamente su una bella ragazza che muoveva le sue grazie in fondo
alla sala, spolverando e riassettando i mobili; non riuscivo a pensare ad altro. Non
mi lasciavo distrarre da quei tre bifolchi. No, perché esisteva lei davanti a me, ma
non era bella, i suoi movimenti erano belli, lei non possedeva il bello.
La guardavo, e dicevo: “la sposo!” ma nessuno mi avrebbe sentito: “la sposo!”
ma nessuno ancora mi sentiva. Mi alzai e, scendendo le scale, andai verso di lei.
Stavo percorrendo la sala, esattamente in mezzo ad alte colonne di marmo lucido e
il tappeto rosso che stavo rumorosamente calpestando incominciò ad irritarmi…
Come può l’uomo essere così macabro da riprendere temi di guerriglia, di sangue e
distenderli a terra per poi farli addirittura calpestare? Scuotevo la testa. Poi guardai
lei. Non mi colpì il suo aspetto, ma la vicinanza che c’era adesso fra me e lei. Mi
fermai. Ebbi l’impressione di muovermi ancora, perciò mi salì un dubbio: sono io
che mi muovo o è la stanza che si restringere usando me come punto di
riferimento?
“State tutti fermi!” gridai, e salii veloce ai miei alloggi: dovevo studiare questo
particolare fenomeno. Bruciore agli occhi: quindi io mi muovevo (pensavo di
muovermi) e la stanza stava ferma (pensavo stesse ferma), dunque io mi muovevo
e lei si muoveva, ma poteva anche stare ferma, e anch’io potevo stare fermo…
“Mmm,” sussurrai, ci deve essere un punto del tutto bloccato, il punto immobile,
che tutto attira a sé. Certo, certo… come un pezzo di carta con un punteruolo al
centro che la immobilizza: la carta, se qualcuno imprimerà una forza su di essa,
inizierà ad accartocciarsi, accartocciarsi! E alla fine diventerà una pallina intorno al
punteruolo! Ovvio, il tempo! Uhuh! Fogli di carta sul punteruolo! Mi alzai dallo
sgabello e corsi nuovamente al primo piano nel grande salone.
“Io sono proprio io… così intero! Un pezzo d’uomo!” mi elogiai. Tutti i sudditi,
tutti, erano rimasti immobili come avevo espressamente ordinato. C’era chi
addirittura, e lo notavo dal colore dell’intero corpo, aveva provato a fermare il
cuore, subendo così gravi danni alla salute. Questo per me, un me visto come tutto,
un me magnifico uomo totale… Notai quanto la mia teoria su i movimenti umani
fosse fondata e, azzarderei, perfetta. Adesso, nell’immobilità, anche la più brutta
del reame dimostrava la sua bellezza una volta nascosta dai movimenti, dalle
smorfie, smorfie, smorfie… ne ero compiaciuto, davvero. Ripresi la camminata
verso la bella schiava che se ne stava ferma nella sua bellezza immobile. “Potete
muovervi!” ordinai, e il comando fu subito eseguito.
Passai vicino a Gerald… “Sto per affondare” gli dissi.
“Carote e patate” rispose.
“Tegamini al forno e acciuga di cane?” dissi.
“Gal-Lina”, rispose.
“Sicuro?” dissi.
“Sì” rispose. Splendido, splendido, pensai. Le ero davanti.
“Sei bella Gal-Lina…” confessai senza alcun tipo di imbarazzo.
“Ohohohohohoh” gemette lei.
“Devi sposarmi!” secco.
“Sono vergine…”
“Perché?”
“Perché sono una donna…”.
“Lo so”.
“Pensavo non lo sapessi…”
“Se ti sentirai più a tuo agio potresti fare te l’uomo e io la donna, a letto…”.
“Ma ho paura” gemette.
“Vuoi fare una passeggiata?”
“D’accordo” disse e, prendendola per mano, la condussi nel giardino imperiale.
“Sei complessivamente magnifica…” le dissi.
“Anche tu sei complessivamente molto bello” contraccambiò imbarazzata. Passò
un momento di silenzio dove l’intero corpo, camminando, assomigliava ad una
giostra guasta che barcollava e non faceva il suo dovere.
“Dunque sei vergine?”
“Mi chiamano verginella…”
“Ma quanti anni hai?”
“Sei anni e un quarto”.
“Oh perbacco! Ma tu sei la figlia di Rosolina che l’altro giorno ho impiccato
personalmente…”.
“Sì… sono io…”.
“Molto bene, molto bene… qua, io, pezzo d’un re, devo subito fare qualcosa…”.
“Cosa? Che cosa?”
“Scriverò un editto dove annuncerò che tutte le bambine di nome Gal-Lina,
siano calcolate venti anni più grandi della loro età effettiva… quindi, fra poco, te,
avrai ventisei anni… contenta?”.
“Sì… grazie…”
“Allora sposami!”.
“Ma sono verginella…”
“Non ti preoccupare… stilerò una legge anche per questo piccolo
inconveniente…”.
“Grazie…”
“Baciami, adesso!”. Gal-Lina mi baciò, avvicinandosi piano a me, e mi baciò. Io
la strinsi, in tutto me stesso, e lei cercò di fare altrettanto. Non ci stavamo
completando a vicenda come molti sostengono quando si baciano, no, la nostra
totalità si univa ad un'
altra totalità, formandone così una momentanea ma
indistruttibile. E continuavamo a baciarci, con passione inaudita… Dove? Dove?
Non esisteva un dove, esigevamo il complesso.
Un topo, un pesce e un ragno. Ripeto: un topo, un pesce e un ragno. All’incirca
quattro anni; piccolo. Un topo, un pesce e un ragno. Li stavo fissando, ma non
avevo paura anche se tutti erano scappati urlando; a me, già… piacevano. Il topo
era nero, il pesce era nero e il ragno era nero. Tutti possedevano un aspetto
simpatico, diverso fra loro: il topo aveva due piccoli denti che uscivano da una
bocca che sembrava senza fessure, il pesce stava boccheggiando e saltando
freneticamente sul pavimento, perciò dedussi che era allegro, e il ragno usava le
sue lunghe gambe per ballare una danza lenta che apprezzavo e applaudivo.
(applaudivo). Erano illuminati da una candela, e la fiamma si spostava prima su
uno e poi sull’altro, prima su uno e poi sull’altro, indecisa. Mi spostai d’un passo a
destra, e vidi che, data la visuale, l’immagine del topo divenne più vicina a quella
del pesce. Feci due passi e mi spostai verso sinistra e vidi che, data la visuale, il
pesce era più vicino al ragno. Tornai al centro. Geometricamente distanziati. Il topo
però si spostò leggermente verso il pesce, e il pesce a sua volta si spostò verso il
ragno, ma il ragno, furbescamente, si allontanò ulteriormente. Le distanze nel
preciso ordine iniziale.
La sposai tre giorni dopo, Gal-Lina, e lei ne fu oltremodo contenta, soprattutto
la sua famiglia che, sentita la notizia, erano corsi da me a chiedere alloggi regali:
“Vogliamo un letto a baldacchino con le prugne secche sopra”.
Avrete un letto a baldacchino con le prugne secche sopra.
“Vogliamo del latte fresco e due mele tagliate in quarantacinque pezzi, una in
trentadue e una in ottantadue, che complessivamente dovranno fare quarantacinque
pezzi”.
Avrete il latte fresco e la mela tagliata in quarantacinque pezzi.
Non potevo fare altrimenti, d’altronde era la famiglia della nuova regina, e
rifiutare loro sarebbe stato come rifiutare lei.
Il secondo giorno del mio matrimonio stilai le due nuove leggi che mi ero
ripromesso di inserire nel codice del regno: “Tutte le donzelle di nome Gal-Lina
dovranno dichiarare per legge venti anni in più della loro effettiva età. Tutte le
verginelle del regno saranno sverginate dal solo pensiero dell’uomo. Ipse dixit”.
Gal-Lina lo apprezzò molto e, dopo che le leggi furono entrate in vigore, mi
riuscì incredibile credere come uno schema da me appena creato, un atteggiamento
a cui tutti dovevano attenersi, modificasse anche le stesse immagini, le stesse
percezioni. Gal-Lina non aveva più la sua età, erano spariti i sei anni, adesso non
poteva averne altro che ventisei, non riuscivo a guardarla e a pormi nei suoi
confronti diversamente da una ventiseienne, e lei non riusciva a muoversi e a
parlare diversamente da una ventiseienne. Gli anni erano aumentati, ma aumentati
veramente. Incredibile!Incredibile!Per quanto riguarda il secondo decreto, per
fortuna non dovetti usare solo la mente, ma questi sono dettagli a parte.
Scoprii molte belle cose su Gal-Lina. Sapeva cavalcare eccellentemente e,
quando le regalai il suo primo cavallo, non la vidi per un giorno intero; amava la
corsa e, sporadicamente, mi obbligava a andare con lei ad allenarmi lungo il fiume,
ma la cosa che Gal-Lina sapeva fare meglio, un talento assolutamente brillante, era
il disegno, la pittura. La sua passione erano i paesaggi e io andavo spesso e
volentieri con lei a cercare posti sempre più suggestivi dove poter dipingere.
Possedeva una pennellata che nemmeno il mio più bravo pittore di corte, Leonardo,
riusciva a riprodurre: erano punti, veloci schizzi di colore come una pioggia
d’arcobaleno sul mare bianco, e la nostra stanza era ormai stracolma dei suoi
quadri. Dormivamo con i quadri, ci svegliavamo con i quadri. Avevo provato
anche a farla istruire dai migliori maestri di tutti i regni conosciuti, ma tre si
impiccarono, cinque diventarono pazzi, e sei chiesero a Gal-Lina se potevano
diventare suoi apprendisti. Dopo poco vi rinunciai. Il suo stile era ineccepibile,
niente e nessuno avrebbe potuto migliorarlo o distorcerlo. Amavo i suoi quadri,
forse più di quanto amassi lei, ma ero stufo di vedere solamente paesaggi su quella
tela, era giunto il momento di fare qualche ritratto.
“Tesoro…stai dormendo?”, dissi una sera distesi a letto.
“Sì, ma dimmi caro…” rispose lentamente voltandosi verso di me. Il letto
tremò.
“Avresti voglia di farmi un ritratto?” le proposi. Rifletté per un po’.
“D’accordo…ma non credo di essere brava nei ritratti…”
“Per questo non posso fare un decreto, ma sono sicuro che ne uscirai molto
bene…” la confortai.
Quella notte la passai tutta sotto il letto con una candela, una matita e un foglio
di carta: stavo male, terribilmente male. E morivo, terribilmente morente. Io e lei,
pensavo…io e lei in un unico letto…cosa significa questo?Due enormi entità già
unite sopra un'
unica entità che ci univa ancora di più… non volevo crederci.
“Adesso dormiamo”. La frase più eroticamente ambigua che esista… sì… perché
chi la pronuncia si riferisce a se stesso e alla persona che ha vicino, ma
automaticamente sottintende il letto, la grande massa piumosa che unisce, lei e lui.
Ciò mi riusciva difficile da credere… rende le cose impossibili, perché nel
momento stesso che due persone sono distese a letto e si danno la mano quel gesto
si moltiplica di potenza enormemente a causa del materasso, e il legame è netto…
netto! I dettagli della mia mente venivano pian piano sempre più in superficie,
galleggiando sulle intuizioni.
Un topo, un pesce e un ragno. Ripeto: una topo, un pesce e un ragno. All’incirca
quattro anni; piccolo. Un topo, un pesce e un ragno. Erano carini, davvero carini.
Mi inginocchiai e con circospezione provai ad avvicinarmi. Il ragno diventava più
grande del topo, ma il topo rimaneva più piccolo del pesce. Il pesce assunse una
collocazione neutra. Non potevo! Subito mi allontanai. Il ragno smise di danzare il
triste ballo, e concluse la coreografia con la terza gamba destra rivolta verso il
topo. Era anche rivolta verso il pesce, ma lo sovrastava, lo sfumava e vi passava.
Mi dette fastidio, ma aspettai. Ci pensò il pesce curvando la coda a mezza luna:
tutto cambiò. Fu un evidente segnale del pesce di attirare l’attenzione verso di sé,
perciò: il ragno indicava il topo, il pesce indicava se stesso, e il topo era indicato
dal ragno. Dunque c’erano i due cateti, ma mancava l’ipotenusa, una situazione
bloccata da un movimento… da un gesto! Erano furbi, e lo sapevo… si stavano
mimetizzando fra di loro creando confusione per confondermi e disorientarmi. Mi
feci furbo e iniziai a girare intorno a loro. Adesso li osservavo da dietro. Per
LimbDio! esclamai. Il topo sapeva il fatto suo, infatti, usufruendo della sua
apparente ingenuità, aveva spostato cautamente la coda rugosa e rosastra, la stava
ancora muovendo, poi… la fermò. Indicava il pesce! Che ingegnoso il topo, nella
sua emarginazione aveva raffinato il dono di non farsi notare…(applausi). Quella
coda! Che gioco di prevalenze effimere! Tornai davanti ai loro sguardi spenti.
Geometricamente separati. Le distanze nel preciso ordine iniziale.
La mattina Gal-Lina mi trovò sotto il letto, ma non ne fece un dramma, anzi,
penso che l’idea le piacque. “Che splendida luce cade su di te, tesoro…” disse
svegliandomi. Aprii gli occhi e la vidi distesa a terra, sorridente, che mi guardava.
“Ti ringrazio…” risposi.
“Io sono pronta per il ritratto, anche se ho un po’ paura…devo ammettere che a
volte le zucchine coprono l’effetto dei miei timori tramutandoli così in splendide
sensazioni di piacere, quindi sono scesa in cucina e ho chiesto se potevo avere delle
zucchine, ma mi hanno detto che non è stagione, perciò sono senza zucchine e
senza zucchine mi sento molto suscettibile e impaurita, ho provato anche con le
carote, ma non hanno lo stesso effetto, ed è incredibile come le zucchine possano
avere in me tutta questa prevalenza…” espose agitata.
“Non ti preoccupare tesoro, farò una legge che cambierà le stagioni…non ti
preoccupare…” dissi assonnato. Quando uscii da sotto il materasso tutto era già
stato preparato: una sedia sotto una finestra da cui entrava una ammirevole quantità
di luce, uno sgabello dietro un gambaletto e per terra tre pennelli disposti in un
ordine quasi fastidioso che mi riesce impossibile ripetere. Ancora nella stanza non
c’era nessuno.
“Arrocchiamo le tende?” urlai. Gerald, nascosto come sempre, sbucò fuori.
“Oleandri nei prati…” disse.
“Nei cipressi notturni?” chiesi.
“Oliailà, sabbia nera, contadina cicciotella…” disse.
“Gabbiano strangolato!” risposi e, eseguendo l’ordine, uscì velocemente dalla
stanza. Andai alla finestra ben illuminata e scrutai la corte dall’alto: c’erano sette
soldati che stava facendo esercitazione di marcia; stavo per voltare lo sguardo
quando notai che tutti si bloccarono all’improvviso e tirarono la mano sulla fronte.
Diedi un calcio al muro… ma a che gioco stavano giocando? Mi volevano fregare?
Tirai la tenda e mi nascosi dietro osservando da un piccolo spiraglio: ripresero
la marcia, ma non erano scoordinati, no, avevano la stessa espressione, gli stessi
occhi, gli stessi movimenti… Che rabbia!
Corsi allo scrittoio e iniziai a pensare: non esiste movimento comparabile ad un
altro movimento dato che i movimenti sono sotto ogni aspetto personali e
inimitabili ma al comando sembra che i movimenti siano precisi e che le differenze
non esistano. Non è così però.
“Tesoro… eccomi… sono pronta per il ritratto”. Gal-Lina era entrata
interrompendo il mio ampio pensiero; ritornai frettolosamente alla finestra… se ne
erano andati, già, andati…ma per andarsene bisogna usare i movimenti, ma come?
Uguali o diversi? Gal-Lina mi stava toccando la spalla. “Vuoi iniziare, caro?” mi
domandò.
“Sì… sono pronto” mentii, mi era passata la voglia. Quei soldati avevano
attirato su di loro tutta la mia attenzione, insieme, ma la promessa a Gal-Lina la
dovevo mantenere. “Apri le tende…” disse. Lo feci. “Pettinati i capelli e sistema la
corona…” disse. Lo feci. “Sposta la sedia più a destra e anche un po’ a sinistra”
disse. Lo feci. “Bene, adesso siediti” disse. Lo feci.
La luce del sole mi illuminava totalmente mentre il resto della camera restava
nell’oscurità compresa Gal-Lina. Quest’ultima incominciò a muovere il pennello
sulla tela, e i suoi movimenti allietavano la mia seduta, se non fosse stato per quel
continuo: “Non muoverti…” che diceva ogni pochi secondi. Lo feci, ma “Non
muoverti…”. Avevo capito che desiderava finire il quadro prima che la luce
cambiasse direzione, perciò non rispondevo alle sue provocazioni, standomene così
zitto come un gatto sul davanzale. Stava sudando, faticando come non l’avevo mai
vista faticare e… “Ferma!” ordinai, ma lei non mi ascoltò, lo sapevo, e sorrisi
compiaciuto.
Nel frattempo, dato che non avevo nulla di meglio da fare, continuai il mio
pensiero dei soldati, riprendendo le ipotesi precedenti. Dunque, bisbigliai…i vestiti
rossi e i cappelli blu, d’accordo, ma i corpi, dove stava il legame?La sincronia?Il
primo si muoveva, quindi il secondo terzo quarto quinto sesto settimo, ma se il
quarto si muoveva quindi anche il primo secondo terzo quinto sesto settimo…no,
non andava…mi alzai dalla sedia dando una mazzata in testa a Gal-Lina e chiamai
sei schiavi che arrivarono immediatamente: “Conoscete la marcia?” chiesi.
“No!” dissero in coro.
“Bene, allora mettetevi in fila indiana”. Obbedirono e io mi infilai nella quinta
posizione. “Ora fate quello che volete, ma stando fermi sul posto…” Iniziarono a
muovere il corpo in molteplici posizioni e io intrapresi la marcia vera dei soldati,
rigido, regolare, e loro senza ordine né coordinazione, quand’ecco ciò che stavo
aspettando: vidi che il sesto e il settimo iniziarono a fare quello che stavo
eseguendo io, e si raffinavano, si modellavano a me in un unione inconfessabile…
mancavano ancora l’uno, il due, il tre e il quattro, pazientavo, impaziente, sei sette,
con me, e il quattro!Il quattro fece il mio stesso giro, nello stesso istante, poi il tre
il due e l’uno… No… No! Non doveva andare così. ,Mandai fuori tutti e svegliai
Gal-Lina che riprese il ritratto. Cercai di distendere la mia espressione per tornare
come prima e quando, LimbDio grazie, ebbe finito di dipingere, andai ad
abbracciarla forte e facemmo l’amore. Finito, eccitata, prese il quadro e me lo
mostrò mettendomelo in mano. Lo osservai. Lo osservai ai ai ai ai ai ai ai ai ai…
Rimasi impietrito, alzai gli occhi, lentamente, e la testa si alzò con loro, come
appesa, e nel momento di rabbia associata al terrore, vomitai, proprio così, e gli
occhi scesero, lentamente, e la testa con loro, come appesa, e poi salirono, e la testa
con loro, come appesa…
“C… co… cosa è questo?” le domandai.
“Questo cosa?” chiese, ma io sapevo che aveva capito, stava facendo finta di
niente la burlona! Indicai sul quadro il punto. Gal-Lina ridacchiò, subdola.
“Questa dici, caro? Ma questa è una narice! Non vedi? Una semplice narice…”.
Allora confessò! Confessò senza alcun problema ciò che aveva visto, ciò che aveva
appena ingiustamente estrapolato dalla mia persona, e nel furto ingiustificato
rideva, rideva.
“Quindi una narice?” le chiesi.
“Sì, esatto, una narice…”
“Dunque tu su di me hai notato la narice destra…”
“Giusto, ho notato la narice destra, ma non solo quella…”
“Mmm… lo so… però perché l’hai evidenziata allora?”
“Perché il disegno esigeva l’evidenziazione della narice destra…”
“Aaa ahh, ma quindi tu l’hai ben notata questa narice?”
“Sì, caro, l’ho vista bene…” disse.
Dovevo trovare una via di fuga, scappare al più presto! Cosa centrava quella
narice con me! Una semplice e pelosa narice! Non poteva essere quello il punto.
Lei però l’aveva notata, evidenziata.
Stavo scappando, correndo, marciavo, fogli, tempo, punteruolo, cinque sei,
soldati, rosso, blu, lei, il pennello, il sudore, la mazzata, gli schiavi, e quella parte,
parte sola, unica, irraggiungibile. Non osavo toccarla, la rifiutavo, e non sapevo
neanche bene dove si trovasse. Ero giunto nel grande salone, io, vuoto, in mezzo
alle colonne, quello dove per la prima volta vidi Gal-Lina e provai la stessa
sensazione del punteruolo sui fogli di carta. Mancava luce. Minuti al tramonto.
Dovevo andarmene! Non potevo certo sopportare due macigni così pesanti in una
volta sola! Sfuggirvi! Ma la dominanza della narice prevalse, doveva prevalere,
doveva.
Prese a marciare, ma in che modo? Seguendo quale criterio? Non aveva né
gambe né braccia la narice, eppure… eppure sì… lei dominava, io ero lei, non ero
altro che una narice, dunque, narice, poiché lei prevaleva.
Un topo, un pesce e un ragno. Ripeto: un topo, un pesce e un ragno. All’incirca
quattro anni; piccolo. Un topo, un pesce e un ragno. Mi grattavo la testolina
osservandoli, chi più chi meno. Capii che guardare non mi stava portando a nulla,
decisi perciò di voltarmi. Il topo, il pesce e il ragno, scomparvero; davanti a me il
muro. Flemmaticamente le immagini (ricordi), riaffiorarono alla mente, ma non
senza ambiguità: la coda del pesce, storta a mezza luna, si formò per prima, poi fu
il turno della coda del topo, nascosta ma decisa, e successivamente arrivò la gamba
destra del ragno, distesa, trapanante. Quindi avevo due code e una gamba, molto
bene. Poco dopo si formarono le altre parti del corpo dei tre animali( il topo, il
pesce e il ragno) ma prima una e poi l’altra, prima una e poi l’altra, si alternavano e
nessuno, in quella ricostruzione, sembrava voler superare gli altri due. Il pesce però
finì per primo, secondo il ragno e per ultimo il topo; lo sapevo, questa volta non mi
avrebbe giocato con la sua innocenza, sapevo che aveva perso volutamente,
seguendo uno scopo preciso, ma decisi di far come se niente fosse successo. Optai
per voltarmi nuovamente e, preso un breve respiro, lo feci: che mi venisse un colpo
a seduta stante! Dunque era così, eh? Si mettevano in questo modo le cose… furbi,
furbi…ma io non ero da meno. La situazione era la seguente: il pesce, sopra il
pesce c’era il topo e sopra il topo c’era il ragno, sotto il ragno c’era il topo e sotto il
topo c’era il pesce. Non potevo starmene zitto, dovevo ammetterlo, mi avevano
giocato un bel colpo, facendomi così capire che dovevo stare attento, loro
potevano, era il segnale. Mi accorsi che l’occhio del pesce guardò quello del ragno
sforzandosi di evitare il topo che stava a sua volta guardando il pesce, e il ragno,
nascosto dalle lunghe zampe, scrutava entrambi, con un occhio il topo, con l’altro
il pesce. Il ragno assunse una posizione di rilievo nei miei pensieri. Insieme
caddero, geometricamente separati. Le distanze nel preciso ordine iniziale.
Era notte, una notte che passai interamente nel bosco davanti al castello,
incastrato dai colori notturni. Ero disteso a terra e in lontananza udivo la voce di
Gal-Lina che mi cercava, ma non volevo vederla, non potevo. Lei mi aveva tradito.
Disdetta nera! Ogni cosa era da rifare! Il mio regno! Il matrimonio! La vita!
Sentii il passo di un contadino nelle vicinanze e gli ordinai di raggiungermi.
“Mi dica mio sovrano…” disse, stupito di trovarmi in quelle condizioni o
stupito perché aveva capito che avevo visto la narice, che adesso ne ero
consapevole. Lo misi alla prova: “Salve…” dissi.
“Mio re…”
“Cosa vedi?”
“In che senso?”
Oh oh, avevo di fronte un esperto, non me lo sarei mai aspettato, voleva giocare,
deviarmi dalla verità.
“Tu in che senso credi?”
“Non lo so, sire…forse vuole che le descriva il paesaggio?”
“No, voglio che descrivi me… cosa vedi?”
Lo guardavo, deglutì, stava cedendo.
“Beh… io vedo lei, mio signore…” rispose.
“No! No! Menti! Infame! Traditore della corona! Ti devo fare impiccare? Eh?
Cos’ è che vedi veramente, cosa?”
Mi ero alzato in piedi, irritato come non mai.
“Sir…mio sovrano… io… io… non lo so, veramente… ma…”
“Inginocchiati!” ordinai. Il contadino non esitò a farlo.
“Strappa tutta l’erba che hai davanti… tutta!”
Con furia la strappò.
“E adesso scrivi, sulla terra, narice…”
“Come?” chiese. Ancora, ancora si ostinava a voler negare… ancora… doveva
essere stato addestrato molto bene, tutti avevano seguito un ottimo corso, ma
adesso avevo capito.
“N-a-r-i-c-e-! Intesi?”
“S… sì…” e scrisse: n-a-r-i-c-e, tremando, preso dalle palpitazione, perché
aveva confessato, non aveva mantenuto il patto, poiché finalmente avevo visto la
cospirazione che tramava alle mie spalle da anni, da sempre, e lui fu il primo
anello a cedere.
“Ti risparmio la vita per questa volta…ma adesso me lo puoi dire, vero?Cosa
vedi?”
“Una narice, mio signore…”
Rimase inchinato fino a che non scomparvi nella foschia bluastra.
Mi stavo avviando verso il castello, ormai consapevole di cos’ero e di cosa
volevo, quando un ramoscello, evidentemente mosso dal vento, cadde a terra e io
mi spaventai facendo un furtivo passo laterale. “LimbDio!” gridai, osservando poi
con una certa maniacalità il bastoncino caduto: più lo osservavo e più, in qualche
modo, mi riportava alla marcia dei soldati; lo presi in mano, ma “Ahia!” mi punsi e
lo rigettai a terra… già, già, già. Anche nella notte si può fare luce, sì, perché capii,
compresi la marcia dei soldati una volta per tutte, il legame dei movimenti stava
tutto nelle spine, ovvio… ovvio… E perciò anche quello era un modo per non
farmi capire cos’ero, non sgorgava una goccia di dubbio, quei movimenti, quella
precisione fastidiosa fra di loro, faceva in modo che io pensassi solo alla totalità,
mi riportava ad essa in modo complessivo, unico, indivisibile, e continuavano
poiché erano certi che io avrei cercato di capire quella loro pienezza attraverso la
totalità di me stesso, e quindi i movimenti, insieme, i tanti, confusi nel legame di
molti… le spine! Le spine! Il bastoncino, ino, ino, ino.
Tornai a palazzo spalancando violentemente la porta. Osservai la situazione.
“All’arrembaggio di ostriche!” sbraitai.
“Salsa in padella e occhiolino…” rispose Gerald.
“Mille notti e un biscotto?”
“Quattro castagne e una orecchiabile…”
“Il cucuzzolo e mosca ble ble?”
“Gelsomino tagliato, popò e pipì…”
“Ne sei certo?”
“Sì, mio re…”
Non male, pensai. Per fortuna c’era ancora Geral, l’unica persona rimasta di cui
mi potessi fidare. Me ne stavo andando, quando mi ricordai di dover dargli l’ordine
di andarsene, mi girai e lo vidi ancora là, immobile, pazzesco! Inconcepibile!
Allora anche lui, ma ne era al corrente, sapeva il trucco, aveva sempre cercato di
farmelo comprendere ma io, stolto nel mio pezzo d’uomo, non aveva mai recepito il
messaggio, lo avevo sempre criptato in maniera errata…sì…più lo contemplavo e
più era evidente… lui… lui sì che era un uomo sminuzzato, lo era sempre stato. Era
diviso, coloratamente diviso, e qua e là e qua e là, ma io… sciocco. Andai ad
abbracciarlo, mai lo avevo fatto prima, e quando lo toccai ne ebbi la prova
materiale, palpabile… Cadevo in fossi, non lo afferravo bene, sentivo le sue
scivolosità, le sporgenze, le angolazioni, buco, divisione, parabolica… Che
uomo… che grande uomo sminuzzato! “Puoi andare, Gerald… ti meriti un
cioccolatino, tieni…” e glielo lanciai.
“Grazie mio signore, grazie…” disse scomparendo.
Salii le scale arrivando ai mie alloggi, entrai in camera e tolsi le coperte da sopra
Gal-Lina che stava dormendo.
“Adesso lo so!” esclamai.
“Cosa sai, tesoro?” rispose stancamente.
“Ah ah… anche tu… eh sì, anche tu reggi il gioco, ma d’altronde come poteva
essere altrimenti. Eppure sei stata tu a farmelo scoprire, tu che hai rivelato il
segreto con quel terrificante ritratto… e hai avuto anche la sfacciataggine di
evidenziarla! Evidenziarla, capisci?”
Gal-Lina grugnì nel sonno. Bene bene, mi dissi, si avvale della facoltà di non
rispondere, non la facevo codarda a tal punto, e invece… mai fidarsi, ma l’avrei
fregata. Passai la notte a marciare su e giù per la stanza e a pungermi con una spina
di rosa, punzecchiavo e marciavo, e non guardai mai fuori, non osservai mai
l’interno, non contemplai mai Gal-Lina, adesso esistevo io, io come narice, io
come dominante in quanto dominato. Mancava poco all’incoronazione del vero me
stesso. La singolarità del particolare, l’attrattiva forte che riusciva a costruire su di
esso coprendo così nella sua piccolezza il grande scarto umano.
Un topo, un pesce e un ragno. Ripeto: un topo, un pesce e un ragno. All’incirca
quattro anni; piccolo. Un topo, un pesce e un ragno. Ero sudato, faceva tic tic il
sudore, e li osservavo. Sporadicamente mi distraevo, ma questo solo perché
altrimenti avrei retto il loro gioco. Volevano distruggermi, sopprimere la mia
psiche. Durante lo svago giocavo con palline di carta, poi… nuovamente loro. Lo
sapevo che stavo per prendere un’importante decisione, fondamentale, ma avrei
preferito non saperlo. Erano subdoli, matematicamente incalcolabili. Un
insignificante grumo di polvere acquistò pian piano importanza partendo dal fondo
della stanza per poi arrivare davanti al topo; si fermò. Un colpo di vento lo mosse
e, facendolo volteggiare in vortici confusi, lo piazzò al cospetto del ragno passando
il pesce. Il ragno non si mosse e nemmeno il grumo. Interessante, davvero
inaspettato. Il vento tornò e la polvere fece un giro intorno al ragno, sfiorò la bocca
del pesce che tentò di risucchiarla e infine si nascose sotto la coda del topo.
Ancora!Ancora lui che, da figura marginale, passava a figura primaria…ma
perché?Perchè il grumo si era nascosto sotto la coda del topo, del topo? Però anche
il pesce aveva tentato di nasconderlo con il risucchio, o forse è stato solo un
movimento involontario? Quindi quella polvere era un legame comune, un legarsi
a vicenda, anche se la situazione la teneva bene in pugno il topo, ma tutto ciò
avrebbero voluto farlo in maniera segreta, senza essere visti da me. Dovevo fare
qualcosa… subito! Urgeva un intervento, immediato. Presi il pesce e, cercando di
non farlo muovere più di tanto, lo portai all’angolo destro della casa mettendolo
sotto una vecchia sedia a dondolo; il rango lo portai al lato sinistro chiudendolo in
mezzo ad una costruzione di domino circolare e il topo lo lasciai al suo posto,
portandogli però vicino una spazzola per cavalli. Eh, eh, eh, e adesso come la
mettiamo stupidi esserini? mi domandavo. Ridevo, oh, quanto ridevo, oh. Toccava
a me: feci due passi indietro, una piroetta e mi distesi a terra pancia in giù. Ero
fiero del mio progetto… molto fiero… e allungai la vista raggiungendo la sedia a
dondolo. La gamba della sedia copriva tutto il corpo del pesce, lasciandomi
intravedere solo la bocca che boccheggiava alla ricerca di qualcosa. Bene, dissi…
presi nota. Il mento scivolò sulla moquette portando lo sguardo a cadere sulla
struttura di domino…facevo fatica a vedere nello spazio fra una pedina e l’altra,
feci uno sforzo e anche in quel caso intravidi la bocca del ragno, m-m, forse forse.
Ancora uno spostamento, verso la spazzola ( il topo). Temevo il suo
comportamento, ero sicuro mi avrebbe giocato un brutto scherzo quando, anche in
quella direzione, intravidi la bocca, rosicchiante. Questo intravedere, mi
disturbava, ma lo posi da parte, e proseguii con il mio ragionamento: bocca, bocca,
bocca, tre bocche, tre bocche in luoghi diversi, ma tre bocche. Una boccheggiante,
una ferma, e una rosicchiante. Poteva sembrare tutto in regola, e ci mancava ancora
poco che riuscissi a venir fuori da quella situazione, se non fosse. Il grumo di
polvere saltò fuori, rotolò per la stanza, danzò in prossimità del (topo, pesce, ragno)
e si arrestò davanti a me: il mento ancora appoggiato al pavimento. Lo guardai,
poco, contrassi le labbra, e lo aspirai. Il pesce? Il pesce!
Geometricamente separati. Le distanze nel preciso ordine iniziale.
Al suonar delle trombe mi stavo incamminando verso il trono quella mattina.
L’intero popolo era stato riunito. Gal-Lina mi stringeva forte la mano, come se
pensasse che stessi provando paura, ma era tutt’altro, finalmente avrei celebrato la
vera incoronazione di me stesso! Dopo anni e anni la corona si sarebbe posata sulla
narice! Sulla narice! Certo perché era lei(io) a regnare sovrana, immensa,
incontrastata.
Mi sedetti sul trono, accanto si mise Gal-Lina.
“Diamo inizio all’incoronazione della narice!” berciai autoritario. Ci fu un altro
suonar delle trombe, questa volta diverso, meno basso – pipipipipipi - pressappoco
così. Un esultanza salì dal popolo… l’ammirazione per la corona. Due guardie
stavano percorrendo il corridoio con la piccola corona adagiata sopra un cuscino di
velluto rosso. E clippetè e clappetè e clippetè e clappetè. Sembrava non giungere
mai, e nell’ultimo periodo avevo covato un ingente quantità di impazienza,
collegata, ovviamente, al nervosismo. Per fortuna lo notarono e il passo non esitò
ad accelerare. Posarono la corona ai miei piedi e nel frattempo si avvicinò il
vescovo con la tunica macchiata di vino rosso, ma non era una novità, sarebbe stato
più sorprendente vederlo sobrio che ubriaco. Aprì un grande libro dorato e iniziò a
leggere: “Lei, re Di, adesso consacrato re Di narice, è pronto ad assumersi tutte le
responsabilità che comporta un regno grande come il vostro?”
“Per LimbDio!Certo che me le assumo!” risposi.
“Bene, possiamo passare all’incoronazione…”
Prese la corona grande quanto la sua unghia e, dopo averla passata due volte
dentro l’acqua, asciugata, sputatoci sopra, profumata, e due volte ancora dentro
l’acqua e asciugata, solo dopo questo me la infilò dentro la narice senza difficoltà
alcuna e… evviva re Di narice, evviva.
Volevano solo assicurarsi l’appoggio della mia somma natura nariceriana, non
v’erano altre spiegazioni, sì, perché li avevo messi tutti al muro, il piano era fallito,
avevano sempre avuto paura di (me) narice, sempre, perciò avevano tentato di
tenermi allo scuro, ma, ah, ih, adesso sono il re Di narice! Rispettatemi! Abbiate
paura! Me ne tornai in camera, stanco e spossato, con solo la voglia di fare l’amore
insieme a Gal-Lina e di dormire. Feci entrambe le cose: la prima fu fantastica, la
seconda fu troppo breve. Strano, mi dissi, solitamente capita il contrario.
A notte ormai inoltrata mi alzai, non riuscivo a prendere sonno e iniziai a
girovagare per la stanza senza alcuna idea né meta. Cincischiavo con i petali di una
margherita gettandoli a terra, guardandoli cadere, e contando quanto ci mettevano a
fermarsi. Dopo due petali mi ero già stufato, ma il sonno, il grande sonno non
voleva venire in mio soccorso, lasciandomi nella veglia triste d’una notte felice.
Scesi nella sala degli arazzi. Il castello mostrava solo le sue ombre e le candele
ancora accese tardavano a consumarsi. Passeggiai per la splendida sala, svogliato,
demotivato, ma spinto dalla voglia di non tormentarmi. Ecco, uno specchio. Passai
oltre. Ci ritornai. Ancora. E ancora. E su. E ancora. LimbDio! Ma allora avevo
sbagliato ogni cosa! Ma no dai, riprenditi… ma sì! Avevo sbagliato! Mi ero fatto
prendere dall’euforia del momento e avevo tralasciato. E dunque? Non può, non
può! Quindi io. Iniziai a correre, tornai allo specchio, corsi, ci ritornai, corsi,
saltellai. Sbraitai, ma nessuno sentì. Come potevo essere stato così ingenuo!Ma
quindi era tutta una vera e propria cospirazione progettata in ogni minimo
dettaglio, calcolata sulla prevedibilità delle mie mosse. Un piano senza sbocchi,
l’ultimo piano dove l’unica porta è la finestra nel vuoto. Lo specchio, corsi, ci
tornai: cosa ci faceva un braccio? Cosa LimbDio ci faceva un braccio allo
specchio? E la narice dov’era finita? Per quale assurdo motivo quel braccio che
non accettavo ancora come (mio) aveva eclissato tutto il resto spostando
l’attenzione su di lui. Lui potente, lui magnifico, ma la narice! Perchè era
scomparsa? La vedevo, ma non c’era… certo che la vedevo, stavo davanti allo
specchio! Ci mancherebbe! Ma non era presente, non faceva parte di (me) e il
braccio invece, il braccio si era imposto, aveva fatto prevalere la sua supremazia e
adesso dominava… e come dominava… una volta lo guardai, due volte lo guardai,
tre volte lo guardai, e quella attenzione assunse risvolti giganteschi, sproporzionati,
si legò a me in modo intimo, sensuale, eroticamente sconvolgente, e il braccio
divenne tutto, ma un tutto sminuzzato, diviso, uno sminuazzatutto, e caddi in quel
tranello che mi giocò ancora la dominanza. Mi agitavo e urlavo maledetta,
agitandomi e urlando maledetta.
“Organetti di struzzo in salsa!” gridai.
“Cotone ammuffito sotto siepi austriache…” rispose prontamente Gerald che
venne fuori da sotto il tavolo.
“Semi fettine di porri scotti?”
“Equestre campo di lumache corritrici…”
“Un ormeggio alveare e un nido professionale?”
“Polpettine ovali e uova rotonde…”
“Ne sei sicuro?”
“Certo, sire…”
Ma Gerald non contava più, era troppo sminuzzato per la mia ancora precoce
sminuzziazzione embrionale. Non ce l’avrebbe fatta a comprendermi appieno,
avrei dovuto cavarmela da solo…contro tutti, contro Gal-Lina. Presi un foglio e
scrissi: riepilogo.
Riepilogo: mi sminuzzo. Anche Gerald è sminuzzato. professionista. braccio.
superiorità del braccio. narice. ora non più, nascosta. dominanza. specchio.
incoronazione. falsa. legame. spina. marcia. traditori. quadro. contadino.
Contadinello.
Era ovvio! Dovevo correre dal contadino dei boschi, il primo ad aver
confessato… lui solo. Ancora in pigiama il braccio (io) uscii dal palazzo, avevo il
fiatone e i rami mi frustavano la faccia, d’altronde, dicevo. “Contadino!” sbraitavo
“contadino della ex narice!” ma nessuno sembrava aggirarsi per i boschi a
quell’ora della notte. Lontano notai un camino in funzione, lo raggiunsi. Bussai e il
contadino venne ad aprirmi sbadigliando.
“Mio re!Oh mio re!Quale inaspettata e gradita sorpresa…” disse dopo avermi
osservato per un po’.
“Sì, sì…” risposi sbrigativo “vestiti e vieni con me”. Lo condussi nel punto
esatto dove ci eravamo incontrati la volta precedente. Lo guardai negli…non lo
sapevo!Non riconoscevo più nulla, solo me stesso, il braccio, nient’altro. Dovevo
sbrigarmi! “Sei venuto all’incoronazione?” domandai.
“Certo che sì, mio signore…”
“Molto bene, molto bene… e quindi… cos… cosa sono io?”
Mi guardò sorridendo…
“Una narice!” esclamò fiero. Ma no! no! no! Ancora mentiva, non c’era verso,
tutti avevano subito un lavaggio del cervello irrimediabile!ma da chi? Forse dal
mio braccio? Braccio! Cominciai a schiaffeggiarlo, il braccio e lo guardavo, il
contadino.
“Non devi più mentirmi! Mai più! L’ho visto, sai…mi sono guardato allo
specchio e l’ho visto… ho percepito la sua potenza offuscatrice… percepita! E
adesso dimmelo! Dimmi cosa vedi!”. Sembrava terrorizzato. “Sei terrorizzato?” gli
chiesi. Sembrava terrorizzato. Intanto il braccio (io) diventava rosso, e
schiaffeggiavo e vidi che il contadinello iniziava a cedere ancora. Lo afferrai e gli
dissi: “Dimmi cosa sono!” Ancora mi stavo schiaffeggiando e lui iniziava, sì,
cedeva con cautela, perché era inevitabile, doveva crollare, ma temeva, e allora
urlò: “Un braccio!”
“Cosa sono?”
“Un braccio!”
“Cosa sono?”
“Un braccio!” e crollò a terra esamine. Ero sicuro che avrebbe ceduto, non era
un uomo così sminuzzato da poter resistere. Lo ringraziai e me ne tornai a palazzo.
Che braccio… che braccio ero diventato! Gal-Lina, come al solito, non volle
confessare.
Il giorno seguente ci fu l’incoronazione del braccio, una vera e propria festa,
dove tutti si inchinarono alla superiorità della mia immensa sminuzzatezza. Evviva,
evviva il re Di braccio. Grazie, grazie, mi congedai. Feci l’amore con Gal-Lina e
non riuscii ad addormentarmi. Girovagai per il palazzo.
Che fastidiosa indifferenza che creava intorno a sé; fasulla, palesemente fasulla,
ma che le donava ancora più ammirazione, pienezza. Mi precipitai nel cortile,
decapitai personalmente un trombettista, e iniziai a suonare la tromba con tutto il
fiato che avevo in mano (papapipipipupupu) cosicché, colti di sorpresa, tutti gli
abitanti del regno mi raggiunsero agitati nel cortile reale. Sguardi assonnati con una
nascosta irritazione. Non avevo la ben che minima idea di ciò che dovevo dire,
perciò… “Incoronazione!”. Ci spostammo tutti nella sala principale, chi in
pigiama, chi in mutande, chi nudo, per incoronare la mano. Giunse il vescovo,
ubriaco (lei, re Di è sì lo sono eccome evviva evviva il re Dì mano!) e dopo le
congratulazioni, stranamente sempre più numerose, feci l’amore con Gal-Lina e
non mi addormentai. Trastullandomi le palpebre per un po’ girovagai per la reggia,
giungendo così nella sala degli arazzi. Commentavo: sarà un meccanismo
inevitabile, presumo, altro non può essere…io devo restare qui per compiere il mio
sminuzzamento, certo, come altrimenti?E se non dovessi trovarmi qui?Però ormai
ci sono, che differenza fa? Oh tu guarda, uno specchio. Lo passai. O tu guarda, un
altro specchio. Lo passai. Vi tornai, e ritornai, e tornai. Stavo per gridare, ma non
lo feci, mi ero abituato e cercavo di sopprimere quella rabbia, la grande delusione
che provavo. Il mignolo! Figura piccola e marginale, molte volte trascurata,
indifferente a tanti, adesso onnipotente! Gigantesco !Totale! Il mignolo si era
impossessato del potere. (pepepepe… lei, re Di è sì lo sono eccome evviva evviva
il re Di mignolo!). Ascoltai i commenti del popolo, feci l’amore con Gal-Lina e
non mi addormentai.
Girovagai per il palazzo, su e giù…giunsi nella sala degli arazzi. Uno specchio.
Vado, torno, vado, torno, vado. Per LimbDio! Fu la volta che caddi a terra e iniziai
a contorcermi. Contorcere cosa? Quale? dominanza? Quale sminuzzatezza? Quale!
La situazione al posto di procedere nel senso logico che ero riuscito, in un certo
qual modo, ad accettare, cambiò ulteriormente…complicandosi!Arzigogolandomi
in piccole parti, minuscole! Questo fatto però non lo concepivo, mi risultava
difficile apprenderlo, poiché… no, no, la sminuzzatura a procedimenti diversi,
singoli, con contemporanei e visibili nello stesso momento, e invece! Il mignolo,
ma attaccato al mignolo intravidi la mano e attaccata alla mano intravidi il braccio!
Che legame! Subdolo! Incalcolabile! Assolutamente inaspettato.
Evviva evviva il re Di mignolo-mano-braccio! Ringraziai, feci l’amore con GalLina ma non mi addormentai, scesi nella sala degli arazzi, annoiato. Uno
specchio…torno vado torno…una gamba!La dominanza della gamba!Senza
legame alcuno! (lei, re Di è sì lo sono eccome evviva evviva il re Di gamba!)
Salutai, feci l’amore con Gal-Lina e non mi addormenti.
Sala arazzi; piede! Piede unito alla gamba! Un nuovo legame! (pepepepe… le,
re Di mezzo è si lo sono eccome evviva evviva il re Di piedegamba!) E l’alluce!
Alluce legato al piede e alla gamba! Evviva evviva, quanti sminuzzamenti, sempre
meno credibili ma sempre più devastanti e potenti, enormi nella loro nullità.
Orecchio! Evviva evvia il re Di orecchio! Non resistevo, sala arazzi, insonnia.
Collo! Evviva evviva. Gal-Lina e il suo amore. Il popolo assonnato. Camminare
per le stanze per dopo guardarmi e… spalla! Spalla al collo! Unificate nella
disuguaglianza!
Pepepepe. Intravedevo e collegavo, singolarmente, pezzi e pezzi. Sala, la spalla
lambì una caraffa; dunque anche così!Il ponte e il rapporto intimo con gli
oggetti…ah ah, m-m. La caraffa si intromise in quella singolarità dominante
sminuzzata confondendo la sua confusa presenza con la spalla, splendendo
anch’essa insieme a lei, e facendo sì che si scoprisse anche questo collegamento,
fra singolarità umana e singolarità oggettistica… o LimbDio!Ma quindi tutto era
riconducibile…sì, un tutto tagliato in piccole parti, un tutto non tutto che creava
individualità!
“Tagliatemi!” ordinai.
“Pasticcini onde sta il mar?”, domandarono tutti all’unisono.
“Tagliatemi!”
“Salumi e raviolini al corso di sumo?”
“Tagliatemi!”
Presero un’ascia; “tagliatemi!”, continuavo a comandare. Mi distesero a terra e
tutti corsero attorno a me. Un soldato alzò l’ascia e incominciò a tagliarmi
(sminuzzarmi, finalmente!). Ancora osservavo e, terribile visione, qualcosa di
strano e mai visto prese a comporsi con grande foga. Quel soldato che alzò l’ascia,
sì, la alzò, ma con la mano! La mano! Quella stessa mano che andò a coprire un
pezzo della bocca di un uomo alle sue spalle… spalle!Le spalle, anche loro
offuscavano la visuale di un braccio femminile… braccio! Un braccio dunque!Il
braccio davanti ad una fronte!La fronte coperta da un bastone! Il bastone sorretto
dal mignolo! Tutti quegli occhi, coperti, offuscati, voltati, e io, io chi? Sempre più
sminuzzato…ed ero felice perché dopo tanto stavo riscoprendo la pace dominante!
Vidi il mio orecchio a terra… lo mangiò una bocca!Guardai il mio naso…lo leccò
una lingua!Contemplai il mio occhio…lo schiacciò un mattone!Scrutai il mio
piede… ci sputò… il contadino contadinello! Lui! Mi guardava, ma era
coperto…solo alcune sue parti risaltavano, alcune le intravedevo, altre non
esistevano. Sputò! Saliva! Che unità spezzettata e frantumata che si stava
formando! Che magnificenza, quale felicità. La manifestazione della globalità nella
singolarità della dominanza. Mi guardai il gomito, m-m. Lo spezzai a metà.
Un topo, un pesce e un ragno. Ripeto: un topo, un pesce e un ragno. All’incirca
quattro anni; piccolo. Un topo, un pesce e un ragno. Fastidiosi animaletti, dicevo
apertamente davanti a loro. Come potevo combinarli…erano troppo furbi, se la
cavavano a meraviglia contro il mio ingegno. Avevo tentato qualsiasi cosa, dalla
prospettiva fino ad appendermi al soffitto dondolandomi con la corda, ma non c’era
verso, riuscivano sempre a scappare. Provai nuovamente a girarli attorno, poi
saltai, mi distesi, di traverso, spostai il topo, sollevai il ragno, rovesciai il pesce, ma
sagaci… estremamente! Era impossibile giocarli, davvero difficile. Iniziai ad
infuriarmi, ma l’arrabbiatura sale lenta, noiosa, senza voglia, per poi festeggiare la
sua potenza, perciò proverò a descriverla secondo questo schema: c’era un punto,
vicino al punto si mise una virgola, il punto s’infuriò e disse qua non c’è posto per
tutti e due o siamo un punto o tu vieni sotto di me e formiamo un punto e virgola;
nel frattempo arrivò un punto esclamativo, forte e presi il topo, poi il pesce, poi il
ragno e con tutta la forza che avevo li gettai contro la parete dove si spiattellarono
come creap per poi iniziare lentamente a cadere, uniti, compatti, un unico
agglomerato di corpi fusi fra loro in una macabra bellezza. Quando toccarono terra
presi a calpestarli, vi saltavo sopra con tutta la furia che mi era rimasta; li
osservai…i corpi non si distinguevano più, era totale, indivisibile, la forma
perfetta, e il topo era ragno e il ragno era pesce e il pesce era topo…respirai,
divampai! Nel terrore!
Geometricamente separarti. Le distanze nel preciso ordine iniziale.