Causalità e manipolazione

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forma di dipendenza controfattuale nella causalità, in essa c’è di più che
sola dipendenza controfattuale» [Psillos 2002, 101].
3.5 Causalità e manipolazione
La causalità riscuote un così grande interesse per ragioni non solo teoriche, ma anche pratiche: vogliamo individuare le connessioni causali non
soltanto per comprendere il funzionamento dei fenomeni, ma anche per
interferire con il loro corso a nostro beneficio. Ci poniamo quindi di fronte alle relazioni causali non unicamente come osservatori, ma anche come
soggetti in grado di intervenire attivamente. È questo l’aspetto che funge
da fulcro del cosiddetto approccio manipolativo, il quale, in generale,
«radica il contenuto delle asserzioni causali in ciò che sappiamo in merito
alla possibilità di modificare [...] la natura» [Woodward 2003, 173], sostenendo che siamo in presenza di una relazione causale allorquando intervenendo sulla causa siamo in grado di produrre un cambiamento nell’effetto.
3.5.1 Le origini dell’approccio manipolativo
Questa concezione della causalità ha suscitato soprattutto negli ultimi anni
notevoli consensi, tanto in ambito strettamente filosofico quanto in vari
contesti scientifici (ad esempio economia, econometria e medicina). Le teorie manipolative più recenti appartengono ad una tradizione filosofica che
risale agli anni Quaranta e Cinquanta e ha tra i suoi primi esponenti Robin
George Collingwood e Douglas Gasking. Secondo il primo, «per ogni individuo la causa di un certo evento è quella sua particolare condizione che
l’individuo stesso è in grado di produrre o prevenire» [Collingwood 1938,
92], tanto che quando chiediamo qual è la causa di un certo fenomeno,
quello che stiamo di fatto chiedendo è come possiamo produrlo o prevenirlo a nostro piacimento. La posizione di Collingwood è così radicale da
portarlo ad affermare che «dal momento che [...] conoscere le cause equivale ad esercitare un certo potere, per un semplice spettatore non ci sono
cause» [1938, 93]. Meno di vent’anni dopo, indipendentemente da Collingwood, in Causation and Recipes (1955) Gasking sostiene: «solamente
quando disponiamo di una tecnica per produrre A tale che, in certe circostanze, produca anche B, diciamo di produrre B per mezzo di A, e parliamo
di A come della causa di B» [Gasking 1955, 487]. Apprendiamo delle “tecniche manipolative”, o “ricette”, per modificare i fenomeni sin da bambini,
attraverso esperienze e gesti comuni.A differenza di Collingwood, secondo
il quale la nozione manipolativa di causa viene ampiamente usata in discipline quali l’agricoltura, l’ingegneria e la medicina, Gasking ritiene che chi
è impegnato nell’attività scientifica non faccia ricorso a leggi causali, preferendo di gran lunga leggi funzionali. Il progresso delle scienze naturali, in
particolare, è segnato dall’eliminazione delle proposizioni causali.
Negli anni Settanta l’approccio manipolativo ha suscitato il consenso di
Georg Henrik von Wright, che l’ha messo in stretto rapporto con la speri-
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mentazione scientifica e l’individuazione di leggi di natura.Anche per von
Wright, «ciò che rende p un fattore-causa relativo al fattore-effetto q è che
manipolando p, ovvero producendovi cambiamenti per così dire “a piacere”, possiamo produrre cambiamenti anche in q» [von Wright 1973, 306].
Nel nesso causale tra p e q possono essere distinte due componenti: esiste un primo legame tra l’intervento umano e ciò su cui tale intervento
viene esercitato (tra lo sperimentatore e p), e un secondo legame tra quest’ultimo e il suo effetto (ovvero tra p e q).Von Wright sottolinea come il
legame tra nessi causali e azioni umane sia esclusivamente di tipo epistemologico, giacché dal punto di vista ontologico i nessi restano del tutto
indipendenti dai nostri interventi: «ciò che conferisce alle regolarità osservate il carattere di connessioni causali o nomiche è la possibilità di sottoporre i fattori causali a test sperimentali interferendo con il corso naturale degli eventi. Si può dire pertanto che la relazione causale è in un senso
importante dipendente dal concetto di azione (umana). Questa dipendenza è epistemologica, anziché ontologica, poiché ha a che fare con il
modo in cui le relazioni causali vengono individuate e distinte dalle regolarità accidentali» [von Wright 1973, 305]. La possibilità di sfruttare i nessi
causali intervenendo su di loro presuppone l’esistenza di tali nessi e la
nostra conoscenza di come i fenomeni si svilupperebbero se non interferissimo. Secondo von Wright, questa nozione di causa manipolativa, o “sperimentale”, viene largamente adoperata nelle scienze naturali, mentre non
compare nelle scienze umane.
Nel corso degli anni Ottanta, in ambito filosofico è stato soprattutto Daniel
Hausman a sottolineare alcuni aspetti di rilievo, nonché alcune difficoltà,
dell’approccio manipolativo. Senza abbracciare questo approccio, Hausman riconosce come esso possa costituire uno dei modi di rendere conto
dell’asimmetria causale. Il fatto che le cause possano essere sfruttate per
manipolare i loro effetti, ma non viceversa, «sembra puntare dritto al cuore
della distinzione tra cause ed effetti», ma non la fonda [Hausman 1986,
150]. Studioso soprattutto di filosofia dell’economia, Hausman ritiene che
l’asimmetria della manipolazione renda conto nella maniera più semplice
e diretta dell’asimmetria che causale, asimmetria che può essere però
colta, tra l’altro, anche nei termini delle asimmetrie esplicativa e temporale [Hausman 1998].
3.5.2 La teoria azionistica
Nel corso degli anni Novanta Huw Price e Peter Menzies hanno elaborato
una versione originale e più articolata della concezione manipolativa, battezzata “teoria azionistica” della causalità (agency theory). La tesi centrale
è la seguente: «un evento A è causa di un evento B, distinto da A, nel caso
in cui il verificarsi di A risulti un mezzo efficace mediante il quale un agente libero può provocare il verificarsi di B» [Menzies e Price 1993, 187]. L’idea fondamentale sulla quale si basa è che la nozione di causa emerge
dalla nostra esperienza concreta e comune di agenti umani, dal nostro
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agire nel presente, alla luce del passato, in vista di determinati scopi futuri. La stessa asimmetria causale viene definita come nient’altro che «una
manifestazione del fatto che i concetti causali hanno origine dalla nostra
esperienza di agenti» [Price 1992a, 501]. Ciò che facciamo quando parliamo di causalità è soltanto proiettare sui fenomeni delle caratteristiche
strutturali del nostro agire, o della particolare prospettiva dalla quale, in
quanto agenti, guardiamo il mondo. In questo senso, Price etichetta la teoria azionistica come una forma di “proiettivismo” (projectivism) o di “prospettivismo” (perspectivalism), saldandola al più generale orientamento
filosofico che abbraccia, il pragmatismo. La particolare versione di pragmatismo alla quale Price aderisce è strettamente legata alla pratica (practice-subjectivism), ovvero focalizzata sull’uso effettivo che gli uomini
fanno del concetto di causa e sulla funzione che questo svolge nelle loro
vite [Price 2001].
Gli autori della teoria azionistica vogliono mantenere una posizione neutrale rispetto al dibattito tra realismo e antirealismo e si dichiarano agnostici sul tema.Tutto ciò che si sostiene è solo che la nostra conoscenza e
il nostro uso del concetto di causa è interamente derivato dalla nostra
esperienza di agenti. L’esistenza o meno dei nessi causali in natura non è
oggetto di riflessione, e non si vuole sostenere che se non ci fossero
agenti non ci sarebbero relazioni causali.Tuttavia alcuni, come ad esempio Gillies [2005], ritengono che si possa facilmente leggere nella teoria
di Price e Menzies un’inclinazione antirealista.
Questa posizione si presenta inoltre come compatibile tanto con una concezione deterministica quanto con una concezione indeterministica del
mondo. Quest’ultima viene contemplata sostenendo che una causa è ciò
che un agente libero può manipolare per aumentare la probabilità che
si verifichi l’effetto. La causalità viene così definita in base alla probabilità
che un agente assegna al raggiungimento dello scopo che si prefigge B,
posto che decida di mettere in atto il mezzo A per conseguirlo. Le probabilità vengono interpretate come «probabilità condizionali, valutate entro
la prospettiva in cui si trova l’agente, supponendo che la condizione antecedente sia realizzata inizialmente come frutto di una sua azione libera»
[Menzies e Price 1993, 190].
Infine, Price e Menzies annoverano tra i meriti della teoria anche quello di
rendere conto dell’asimmetria causale: «le probabilità riferite all’agente
comprendono l’asimmetria richiesta tra causa ed effetto, senza fare esplicitamente appello alla direzione del tempo», ammettendo così «possibilità
quali la causalità a ritroso, l’azione istantanea a distanza, e una fondazione
causale del tempo stesso» [Price 1991, 159]. Queste affermazioni sono in
realtà piuttosto controverse: da un lato, l’asimmetria causale viene ricondotta alla nostra esperienza di agenti, e non richiede quindi una diretta
trattazione del tempo; d’altro canto, però, l’esperienza degli agenti viene
descritta nei termini di ricordi di azioni passate, svolgimento di azioni presenti, per fini futuri, e quindi preliminarmente allineata alla direzione in
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cui scorre il tempo. I rapporti, quindi, tra la teoria azionistica e la riflessione sulle caratteristiche della freccia del tempo restano articolati e complessi. Richiederebbe un approfondimento anche la nozione di “agente
libero”, nozione cruciale per lo sviluppo di tutta la posizione e non definita in modo preciso. Alla teoria azionistica, che equipara fondamentalmente la relazione di causa-effetto a quella mezzi-fini, va in ogni caso riconosciuto il merito di avere portato alla ribalta la concezione manipolativa,
stimolando vivaci riflessioni sui rapporti che possono intercorrere tra questa e gli altri principali approcci alla causalità.
3.5.3 Obiezioni all’approccio manipolativo
Le varie teorie manipolative sono state oggetto di alcune critiche comuni,
alle quali hanno cercato di rispondere in modo completo soprattutto
Price e Menzies. L’approccio manipolativo è stato anzitutto accusato di
essere circolare: «la circolarità è evidente: avere un impatto su una variabile significa avere un’influenza causale su di essa. Se non si sa già che
cos’è la causalità, e se non si sa già che i propri interventi causano le alterazioni, e non sono causati da queste, la teoria manipolativa non dirà nulla»
[Hausman 1986, 145]. Concetti come quelli di agente o di azione possono
essere intesi solo in termini di capacità di produrre o realizzare qualcosa,
e ciò è esplicabile, a sua volta, solo ricorrendo alla nozione di causa. Price
e Menzies hanno risposto a questa obiezione facendo appello al nostro
apprendimento della nozione di causa e ad una analogia tra il concetto di
causa e quello di colore. Da bambini tutti impariamo che cosa significa, ad
esempio,“rosso” perché ci vengono indicati numerosi oggetti che vengono descritti con tale termine; notando qual è la caratteristica comune di
tutti questi oggetti, apprendiamo la nozione di colore rosso.Analogamente, sin da bambini sono semplici fatti quotidiani, interventi e manipolazioni comuni, che ci fanno elaborare una definizione ostensiva, non linguistica della causalità, senza bisogno di acquisire prima altri concetti, e quindi
senza che si presenti alcuna circolarità.
Le teorie manipolative, e in modo particolare la teoria azionistica, sono
state accusate anche di avere un carattere antropocentrico troppo forte, in
quanto indissolubilmente legate al concetto di agente. Da parte di Collingwood questo aspetto viene assunto direttamente come parte integrante della teoria: le proposizioni causali che elaboriamo per descrivere i rapporti tra fenomeni del mondo fisico sono «descrizioni di relazioni tra eventi naturali espresse in termini antropomorfici» [Collingwood 1940, 323].
Anche per Price e Menzies il carattere antropocentrico della teoria non ne
costituisce affatto un limite; esso viene anzi ribadito come l’aspetto più originale, interessante e che meglio caratterizza la teoria azionistica.
Un’ultima obiezione, alla quale risulta più difficile fornire una risposta,
concerne l’applicabilità delle teorie manipolative: se la causalità deriva
direttamente dalla nostra esistenza in quanto agenti, come possiamo rendere conto dei rapporti causali che riguardano fenomeni naturali sui quali
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l’uomo non può intervenire direttamente, quali terremoti o eruzioni vulcaniche? Price e Menzies hanno risposto riprendendo e sviluppando una
strategia suggerita già da Gasking. Immaginiamo di prendere in considerazione un vulcano e la sua eruzione, ovvero un evento che non è certo
provocato da un intervento umano, né sembra poterlo essere. Possiamo
costruire un modellino di vulcano che riproduca in scala, in tutti i dettagli, il funzionamento dell’originale. In linea di principio, possiamo poi
costruire dei modelli perfettamente uguali a questo, ma via via più grandi,
fino a giungere ad un modello delle identiche dimensioni del vulcano
reale. Quest’ultimo modello assomiglierà in tutto e per tutto al vulcano
vero, ma sarà da noi manipolabile. Per analogia, sostengono Price e Menzies, potremo descrivere nei termini causali della teoria azionistica anche
il fenomeno naturale originale. Ipotizzando dunque la costruzione di
modelli molto simili agli originali, trattiamo i fenomeni naturali a noi inaccessibili come se fossero anch’essi manipolabili. La versione, indebolita,
della teoria azionisitica che tiene conto di ciò sostiene che «due eventi
sono causalmente correlati nel caso in cui le circostanze in cui si presentano abbiano caratteristiche intrinseche tali da instaurare una relazione di
tipo mezzo-fine, oppure molto simili alle caratteristiche di una situazione
in cui si presenta una coppia di eventi correlati come mezzo e fine» [Menzies e Price 1993, 197, corsivo aggiunto].
Il tentativo di adattare la teoria azionistica ai fenomeni naturali non direttamente modificabili solleva almeno due obiezioni. In primo luogo, la strategia adottata da Price e Menzies pare introdurre dei semplici modelli ad
hoc, che non rendono conto delle caratteristiche causali effettive del
mondo; in secondo luogo, resta da chiarire quali siano le caratteristice che
rendono tali modelli “molto simili”ai fenomeni originari. In generale, il successo che l’approccio manipolativo ha riscosso è stato maggiore nelle
scienze sociali, il cui oggetto di studio ammette la possibilità che vengano
compiuti interventi manipolativi diretti, che in quelle naturali.
3.5.4 Manipolazione e controfattuali
La teoria azionistica di Price e Menzies risulta compatibile con l’approccio controfattuale, poiché definisce causali non solo i nessi effettivamente manipolabili, ma anche quelli che potrebbero essere manipolati: esiste
una relazione causale tra due eventi «nel caso in cui se un agente libero
fosse presente e capace, potrebbe produrre il primo evento come mezzo
per produrre il secondo» [Menzies e Price 1993, 198]. Un’ulteriore teoria
manipolativa di stampo, però, esplicitamente e fortemente controfattuale
è stata sostenuta negli ultimi anni da James Woodward, che la propone
tanto come teoria della causalità quanto come teoria della spiegazione.
Woodward si prefigge di disancorare l’approccio manipolativo dal concetto di azione umana, e di preservarlo così dall’accusa di antropocentrismo. Egli propone una teoria definita interventionist, secondo la quale
una relazione tra due variabili X e Y è causale nel caso in cui se qualcuno
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intervenisse su X accadrebbe quanto segue: a) verrebbe prodotta una
modifica del valore di Y, e b) la relazione tra X e Y resterebbe invariata.
Come si vede, non si fa alcun riferimento diretto all’azione umana, ed è
quindi possibile pensare ad un intervento anche come a qualcosa che si
verifica autonomamente nel mondo naturale.
La nozione cardine della teoria di Woodward è quella di “invarianza nel
caso di intervento” (invariance under intervention), dove «un intervento
su X che coinvolge Y è un cambiamento del valore di X che produce una
modifica di Y [...] solo mediante un percorso che passa attraverso X»
[Woodward 2002a, S370]. Gli interventi vengono concepiti come manipolazioni impiegate per individuare i legami esistenti tra X e Y.Tali manipolazioni possono essere tanto reali quanto, più spesso, solo ipotetiche.
Nella teoria di Woodward un ruolo cruciale è pertanto svolto dai controfattuali, che descrivono sommariamente ipotetici esperimenti manipolativi. Sono controfattuali il cui antecedente viene reso vero da interventi, e
vengono battezzati interventionist counterfactuals, o active counterfactuals. Woodward ritiene possibile fare un uso prettamente sperimentale
dei controfattuali, trattandoli in modo non problematico e senza incorrere in questioni metafisiche. Essi vengono introdotti semplicemente per
indicare interventi che si potrebbero verificare, senza alcun riferimento a
presunti mondi possibili.
All’idea di intervento è legata quella di invarianza, e da questa si ricava
quella di generalizzazione causale: «se una generalizzazione G che mette
in relazione X e Y descrive una relazione causale [...], essa deve risultare
invariante nel caso di almeno alcuni interventi su X, [...] nel senso che G
deve continuare a valere [...] anche in presenza degli interventi» [Woodward 2002a, S370]. La teoria manipolativo-controfattuale di Woodward è
anche una teoria della spiegazione: abbiamo una spiegazione quando
«abbiamo identificato i fattori o le condizioni che, qualora vengano manipolati, produrranno dei cambiamenti nell’oggetto della spiegazione»
[Woodward 2003, 10]. La spiegazione presenta quindi una forte componente controfattuale: Woodward ritiene che le spiegazioni «forniscano
conoscenza esibendo delle relazioni di dipendenza controfattuale [...] di
quel particolare tipo associato a relazioni che sono potenzialmente sfruttabili ai fini della manipolazione e del controllo» [2003, 13]. Una spiegazione causale adeguata, in altri termini, deve mostrare come l’explanandum sarebbe stato diverso se le condizioni e i fattori citati nell’explanans
fossero stati sottoposti a modifiche mediante interventi. Una spiegazione
che faccia appello soltanto a regolarità nomologiche, e non a relazioni tra
possibili cambiamenti delle variabili coinvolte, non viene considerata una
spiegazione soddisfacente. Woodward insiste molto nel proporre la sua
concezione della spiegazione come appartenente alla concezione ontica
della spiegazione, e come applicabile a tutte le discipline scientifiche.
La teoria di Woodward ammette anche l’esistenza di meccanismi causali,
definiti come quei meccanismi il cui comportamento è governato da gene-
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ralizzazioni causali. I meccanismi causali devono essere modulari. Il requisito della modularità, ampiamente dibattuto, prevede che in un meccanismo causale si possa compiere un intervento su di una variabile coinvolta
in una generalizzazione causale senza che vengano mutate le altre regolarità causali che governano il sistema: «dev’essere possibile aggiungere un
nuovo modulo […] o sostituire un modulo con un altro, senza modificare
o distruggere i rimanenti moduli della struttura» [Woodward 2002a, S375].
La posizione di Woodward, elaborata prima in collaborazione con Hausman e più recentemente con Hitchcock, presenta, in sintesi, una forte
anima manipolativa (approfondita anche grazie a studi sull’invarianza in
economia ed econometria), che si coniuga soprattutto con alcuni aspetti
dell’approccio controfattuale, senza opporsi a quello meccanicistico.
3.6 Causalità per omissione
In tutte le posizioni considerate fino a qui si è parlato di eventi-cause ed
eventi-effetto: tutte sono state presentate come tentativi di comprendere
in che senso un evento possa essere considerato causa di un altro. Un problema trasversale, però, a tutti gli approcci è costituito dalla cosiddetta
“causalità per omissione” (o “omissiva” o “causalità per assenza”, absence
causation). Il nodo fondamentale è il seguente: è possibile considerare
cause, o effetti, eventi che non si verificano? Com’è possibile che un evento negativo, ovvero il non-verificarsi di qualcosa, causi un altro evento?
Di fronte a relazioni espresse in termini causali del tipo “l’assenza di cibo
causa fame” o “la disattenzione del padre ha causato l’incidente stradale
del bambino”, sorge anzitutto il problema di definire con precisione quali
eventi possano essere annoverati come “eventi positivi”, e quali invece
come “eventi negativi”.Ad esempio,“il fumo causa attacchi cardiaci” sembra indicare un caso di causalità produttiva normale, ma è anche possibile leggere l’asserzione come:“il fumo impedisce che certi processi cellulari avvengano normalmente”, e, quindi, come: “l’assenza di particolari
processi cellulari normali causa attacchi cardiaci”. Quest’ultima proposizione descrive un caso di causalità per omissione, di cui è responsabile l’evento negativo: «il non-verificarsi di processi cellulari normali» [Dowe
2000, cap. 6]. Un’ulteriore difficoltà deriva dal fatto che anche in casi apparentemente molto semplici rischiamo di essere costretti ad ammettere un
numero altissimo, potenzialmente infinito, di cause per assenza: possiamo
ad esempio dire che il fatto che siamo vivi è causato dall’assenza di gas
venefici nell’aria, dal mancato ingerimento di sostanze velenose, e così via.
Al di là di queste questioni preliminari, il quesito cruciale è: possiamo ritenere i casi di omissione come relazioni causali a tutti gli effetti, al pari delle
altre? Il problema riguarda le varie concezioni della causalità in misura
diversa. Per quanto concerne le teorie probabilistiche, sembra in generale
che un cosiddetto evento negativo possa valere come causa proprio come
uno positivo; è sufficiente considerare la variazione di probabilità che esso
determina rispetto al verificarsi dell’effetto. La causalità omissiva non