Raffaela Paggi “Che cosa vuol dire aiutare gli altri a crescere

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Raffaela Paggi “Che cosa vuol dire aiutare gli altri a crescere
DENOMINARE PER CAPIRE E CAPIRSI
Raffaela Paggi
“Che cosa vuol dire aiutare gli altri a crescere, introdurli a compiere ciò per cui
sono stati generati? Vuol dire offrire a loro il proprio modo per rapportarsi con il
reale”1. Se il principale strumento che la natura consegna all’uomo per
rapportarsi al reale in modo cosciente è la parola, il linguaggio, non potrà non
essere preoccupazione fondamentale di chi voglia educare un giovane quello di
consolidare, ampliare e affinare la sua competenza linguistica, intesa come
capacità di attestare l’essere.
Aristotele nell’esordio dell’opera Della interpretazione, trattato sul giudizio che
mette al centro della riflessione il rapporto tra enunciazione, verità e realtà,
scrive:
Anzitutto bisogna stabilire che cos’è il nome e che cosa il verbo, indi che
cos’è la negazione, l’affermazione, l’enunciazione e il discorso. Ora, i
suoni che sono nella voce sono simboli delle affezioni che sono
nell’anima, e i segni scritti lo sono dei suoni che sono nella voce. E come
neppure le lettere dell’alfabeto sono identiche per tutti, neppure le voci
sono identiche. Tuttavia ciò di cui queste cose sono segni, come di
termini primi, sono affezioni dell’anima identiche per tutti, e ciò di cui
queste sono immagini sono le cose, già identiche2.
Dalla parola si può dunque risalire al pensiero di cui è simbolo e le parole, in ogni
lingua diverse, sono segni delle immagini di oggetti, identiche per tutti. Studiare
le parole, come esse funzionano, quale percorso utilizzano per attestare il
pensiero, le regole che permettono di utilizzarle per formare testi, che veicolano
significati, significa dunque indagare gli oggetti, mettere a tema la realtà che si
attesta nel suo nesso con il pensiero dell’uomo attraverso la parola. Parlare delle
parole significa parlare delle cose, significa parlare dell’uomo, del rapporto uomorealtà, per questo lo studio della lingua è propedeutico ed essenziale per qualsiasi
1
Giorgio Pontiggia, Il rischio di educare nella scuola, a c. di M. Riboldi, “I quaderni della
sussidiarietà”, n. 2, Milano 2007, p. 50.
2
Aristotele, Dell’interpretazione, 1. 16 a cura di M. Zanatta, BUR, Milano 2000, p. 79.
disciplina, non appena quelle letterarie, e per questo è fondamentale che nella
scuola sia data una rilevanza particolare allo studio della grammatica e del
lessico della lingua madre innanzitutto, e in seguito di altre lingue e dei linguaggi
disciplinari. Afferma Husserl:
“Il linguaggio – leggiamo in Mill [Logica, libro I, cap. 1, §1]- è
palesemente uno degli strumenti e dei mezzi privilegiati del pensiero, ed
ogni imperfezione dello strumento, ogni suo uso scorretto frena e
complica necessariamente, come è evidente ad ognuno, l’esercizio di
questa tecnica più che di qualsiasi altra cosa, distruggendo ogni fiducia
nella bontà dei risultati… Accingersi allo studio dei metodi scientifici
prima di aver raggiunto la familiarità con il senso ed il corretto uso delle
diverse specie dei termini, significherebbe agire in modo non meno
assurdo di chi volesse fare osservazioni astronomiche, prima di aver
imparato ad usare correttamente il cannocchiale”3.
Recentemente il matematico francese Laurent Lafforgue diceva che l’abbandono
dell’analisi grammaticale è uno dei principali fattori del crollo della capacità di
ragionamento e del rispetto delle regole più elementari della logica che i professori
di matematica e di scienze constatano negli allievi, tanto al liceo quanto
all’università.
La
grammatica
nella
scuola
primaria
è
fondamentale
per
l’apprendimento del ragionamento e della logica, non di una logica puramente
meccanica, ma di una logica fine e sottile, la cui attivazione è inseparabile dalla
comprensione del senso della frase:
L’abandon de l’analyse grammaticale est un des principaux facteurs de
l’effondrement de la capacité de raisonnement et du respect des règles
de logique les plus élémentaires que les professeurs de mathématiques
et de sciences constatent chez les élèves, aussi bien au lycée qu’à
l’université et jusque dans les classes préparatoires aux grandes écoles.
En effet, la grammaire est, dès l’école primaire, constitutive de
l’apprentissage du raisonnement et de la logique, non pas d’ailleurs
3
E. Husserl, Introduzione alle Ricerche logiche, a cura di G. Piana, Il Saggiatore-Mondadori, Milano 1988, §1, p.
267.
d’une logique purement mécanique mais d’une logique fine et subtile,
dont la mise en oeuvre est inséparable de la compréhension du sens des
phrases.
Les professeurs constatent parallèlement la très grande difficulté que les
élèves éprouvent pour comprendre des énoncés abstraits, comme les
énoncés mathématiques, ou pour formuler des assertions susceptibles
d’être vraies ou fausses, alors même qu’elles consisteraient en de
simples phrases composées d’un sujet, d’un verbe et d’un complèment.
Dès que la phrase à comprendre ou à former sort du langage courant,
c’est-à-dire dès que les mots qui la composent ne sont pas ceux de la
langue de tous les jours, la connaissance habituelle et instinctive de la
langue
ne
suffit
pas,
une
connaissance
plus
structurée
est
indispensable, et cette connaissance plus structurée s’appelle la
grammaire. Si elle n’a pas été pratiquée dès l’enfance, elle n’est pas
intériorisée, et toute utilisation de la langue un peu abstraite devient
semblable à celle d’une langue étrangère dont on ne connaîtrait que
quelques mots épars qu’on serait impuissant à composer entre eux. Les
professeurs de langues constatent de leur côté que les élèves déjà sortis
de la première enfance et ignorants de la grammaire du français,
tendent irrésistiblement à traduire mot à mot, ce qui n’est pas traduire4.
La conoscenza basilare e istintiva della lingua non è sufficiente per accedere a
certi saperi: occorre una conoscenza più strutturata, che permetta una
traduzione tra linguaggi disciplinari differenti non parola per parola, bensì da
testo a testo, facendo emergere il senso veicolato. L’introduzione alla realtà
attraverso le diverse discipline, avviene dunque a partire dalla conoscenza della
grammatica e del lessico della propria lingua, in primis -come suggerisce
Aristotele- dal nome e dal verbo, tenendo presente che il verbo in fondo ha potere
denominativo tanto quanto il nome:
4
Cfr. Laurent Laforgue, Allocution au déjeuner de “DLF” le 11 mars 2006 au Sénat: Court plaidoyer en faveur de la
grammair. www.moldavie.fr/article.php3?id_article=308.
In se stessi, dunque, e detti per sé i verbi sono nomi e significano
qualcosa – infatti chi parla ferma il pensiero e chi ascolta ha acquietato
il suo -, ma non significano ancora se è o non è5.
La criticità, intesa come attestazione di un giudizio, è dunque azione successiva
alla denominazione: se non si offre al giovane la possibilità di imparare a
denominare l’essere, affermarlo in tutta la sua varietà e complessità, sarà per lui
arduo sviluppare una competenza critico-argomentativa utile a capire la realtà e a
capire se stesso.
Il nome e la denominazione
Il nome, altrimenti detto sostantivo dal latino nome substantivum (il nome di una
realtà) in opposizione a nome adiectivum (il nome che si aggiunge al nome, ora
comunemente chiamato aggettivo), è sicuramente la parola più familiare all’uomo
sin dai suoi primi passi nel “giardino della realtà”, in quanto la sua funzione
semantica è quella di indicare ciò che c’è o ciò che può essere, ovverosia di
denominare l’essere, il quale “si dice in molti modi” (Aristotele, Metafisica, Z 1).
L’essere risulta agli occhi dell’uomo un insieme indistinto, una massa informe e
muta finché il parlante attraverso i nomi non evoca gli oggetti e li pone in
rapporto con sé, in base ai suoi bisogni e ai suoi interessi euristici:
E il compito di insegnare il nome delle cose è un po’ un accompagnare
alla prima conoscenza della realtà: “dare” (insegnare) a un bambino i
nomi delle cose è “dargli” (mettergli in mano) la realtà. E qui la
dimensione affettiva è rilevante.
Un caso famoso che permette di capire l’importanza della dimensione del
linguaggio nello sviluppo naturale dell’uomo è la vicenda di Victor
dell’Aveyron, un ragazzo allevato dai lupi e ritrovato, all’età di circa 16
anni, nei boschi del sud della Francia. Victor, affidato alle cure del
giovane medico Jean Itard, non recuperò mai la capacità di esprimersi,
di utilizzare il linguaggio come sistema semiotico. Ma dalle descrizioni di
Itard emerge soprattutto il fatto che Victor non riusciva a distinguere
5
Aristotele, Dell’interpretazione, op. cit., p. 83.
come significativi gli oggetti che lo circondavano, non solo — banalmente
— perché non li aveva mai visti prima, ma perché nessuno l’aveva
“accompagnato” a prendere possesso della realtà e a penetrarne il
significato umano, cioè il significato per l’uomo, nessuno l’aveva
accompagnato a “riconoscere” le cose dando loro un nome. Perciò nulla
suscitava il suo interesse. Niente lo toccava davvero: in questo la sua
umanità era profondamente danneggiata, perché deprivata della sua
“naturale” implementazione culturale.
La lingua, in effetti, fa parte della benevolenza con cui un essere umano
viene accolto nella vita”6.
La denominazione è dunque la prima mossa della conoscenza per il bambino, ma
anche per l’uomo maturo, lo studioso, lo scienziato, i quali sono perennemente
chiamati a definire i termini degli oggetti e dei concetti che indagano e che
mettono a tema nelle loro ricerche. La competenza denominativa, che si inizia a
sviluppare sin dalla tenera età e sin dalla prima scolarizzazione, è fondamentale
anche nel proseguo del cammino di studi e basilare in ogni disciplina, in quanto
strumento per accorgersi che la realtà non è indifferente:
La condizione grazie alla quale la realtà diventa significativa è che essa
ci appaia come non indifferente. Non tutto ha lo stesso valore. …
affermare che la realtà non è indifferente all’uomo equivale a dire che
questi percepisce la realtà come differente. Percepire affettivamente la
realtà significa allora coglierla come a) distinta. B) Interessante. … In
latino, aliquid deriva da queste due voci: aliud quid, che significano “un
altro qualcosa”. Ogni cosa è altra rispetto alle altre cose. … di
conseguenza ogni cosa merita un’attenzione che la discrimini dalle altre
cose. … Dunque, l’ipotesi che qui propongo è che educare significhi
allenare l’attenzione affinché essa sappia guardare correttamente la
realtà7.
La denominazione è strettamente connessa non solo alla realtà nel suo esserci,
ma anche nel suo poter essere, alla sfera cioè della possibilità, tant’è che non si
6
7
E. Rigotti, S. Cigada, La comunicazione verbale, Apogeo, Milano 2004, p.39.
José Marìa Barrio Maestre, Esperienza educativa e realtà, in Il rischio educativo nella scuola, op. cit., pp. 36,37.
pensa nemmeno di dare un nome a ciò di cui non si ammette almeno la
possibilità che esista nel nostro mondo o in altri mondi. Si pensi alla funzione
creatrice della parola ad esempio in letteratura: si può nominare ciò che non è
ancora o non sarà mai e evocarlo così dal nulla. La parola dunque non ha solo
potere conoscitivo ma anche ri-creativo e creativo della realtà (biblicamente il
primo compito affidato da Dio all’uomo Adamo è quello di dare un nome a ogni
cosa creata).
Un ultimo aspetto che ci induce a considerare la denominazione come una delle
azioni primarie dell’uomo, in quanto unico essere parlante (e dunque componente
essenziale del fare scuola se essa ha lo scopo di favorire che lo studente sia ciò
che è, ciò che è destinato ad essere) è la sua funzione nella comunicazione. In
essa infatti la denominazione è utilizzata per istituire riferimenti con oggetti
presenti, con classi di oggetti, con concetti, eventi… tutto ciò insomma che può
essere messo a tema in un discorso (e infatti preferenzialmente la funzione logica
di soggetto è svolta nella frase da un sintagma nominale, una combinazione di
parole avente come nucleo un nome). In un atto comunicativo è infatti
imprescindibile il riferimento a un contesto comune tra mittente e destinatario, e
tra i principali responsabili della delineazione di tale contesto vi è proprio la
denominazione.
Si potrebbe insomma dire che uno dei compiti principali della scuola è quello di
affinare la denominazione, favorendo una progressiva competenza astrattiva. Si
pensi infatti all’incremento di consapevolezza che comporta la denominazione
delle azioni e dei concetti:
se l’infante ha bisogno per lo più di denominare
oggetti, crescendo la sua esigenza sarà quella di dare un nome a situazioni,
azioni, eventi, concetti. E il processo che porta a comprendere il significato di
nomi astratti come libertà, amicizia, ideologia, verità… si configura come una vera
e propria ricerca del nesso che lega fatti e parole, una ricerca cioè del senso della
realtà.
Il verbo e la denominazione
Il nome e il verbo sono le parti fondamentali del discorso, in quanto la loro
funzione preferenziale è quella di denominare (dire l’essere) e di predicare
(affermare l’essere in un certo modo):
Per produrre senso, cioè per dare vita a un lógos, occorre mettere
insieme almeno due elementi di cui uno dice un modo d’essere e l’altro
un essere che può essere in quel modo. Questa unione non si limita a
nominare i diversi aspetti della realtà, ma afferma l’esistenza o la
presenza o assenza dell’azione (in generale, della situazione), l’esistenza
o non esistenza di un’entità. Anzi, il lógos elementare che si costituisce
con l’intreccio del verbo con il nome “indica già in qualche modo le cose
che esistono e che accadono, o che sono accadute, o che stanno per
esistere”: per questo dobbiamo dire che afferma e non solo denomina8.
Senza volersi addentrare in questa sede nel grande tema della predicazione e
della testualità, si vuole solo accennare al fatto che anche il verbo ha in un certo
senso una funzione denominativa, in quanto parola capace di nominare una certa
scena, una certa situazione, potere che condivide con i nomi astratti, collocandola
nel tempo e in rapporto a un soggetto.
Si pensi al nome “furto” e al verbo “rubare”: entrambi dicono una scena. Una
scena composta da tre argomenti legati da un predicato: “qualcuno prende
qualcosa senza averne la licenza a qualcun altro che non vorrebbe cederla”. Si
pensi a quante situazioni possono essere nominate da tale verbo: rubare è
sottrarre furtivamente oggetti, ma anche pretendere che l’altro provi un
sentimento nei nostri confronti senza che lui lo voglia; utilizzare le parole di
qualcuno senza citarlo;
concedersi la licenza di non lavorare quando si è
retribuiti per farlo; carpire informazioni su una persona senza il suo permesso…
Avere consapevolezza del significato dei verbi, vedere con gli occhi della mente la
scena che indicano, usarli in modo appropriato per descrivere quanto accade, è
già un grande passo in termini conoscitivi, in quanto aiuta il parlante a leggere
lealmente e criticamente le situazioni che si vengono a creare nella realtà e in cui
si viene coinvolti.
8 8
E. Rigotti, S. Cigada, La comunicazione verbale, op. cit, p.86.
Alcune implicazioni didattiche
Se la scuola primaria ha il compito di avviare quel processo di conoscenza
strutturata della lingua che si compirà con il proseguo degli studi, anche nella
differenziazione
disciplinare,
domandiamoci
ora
quali
possano
essere
le
implicazioni didattiche di un’attenzione particolare alla denominazione, in tre
ambiti fondamentali: l’oralità, la scrittura, la riflessione sulla lingua.
L’oralità
Non bisogna mai dimenticare che la lingua nasce come emissione di suoni
significativi: essa è anzitutto uno strumento orale, solo in seguito, nella storia
dell’uomo diviene scritta. Occorre dunque a scuola dedicare in primo luogo e
sempre un’attenzione e una cura particolare all’oralità:
− la correzione paziente e persistente della corretta pronuncia delle parole e
dell’intonazione delle frasi in vista dell’acquisizione dell’ortoepia (in primis
testimoniata dall’insegnante),
− il dialogo,
− la narrazione (sia da parte dell’adulto che del bambino),
− la lettura ad alta voce,
− la declamazione di testi appresi mnemonicamente,
− l’interrogazione orale (da preferire ai test di verifica degli apprendimenti),
− la drammatizzazione,
sono attività privilegiate per lo sviluppo della competenza linguistica. Il nome e il
verbo, ancor prima di essere classi del discorso, sono infatti suoni riconosciuti
come significativi da una certa comunità di parlanti.
Una valida competenza orale si fonda innanzitutto sulla pronuncia corretta dei
suoni (fonemi e accenti) e sull’uso controllato dell’intonazione (prerequisiti
imprescindibili della correttezza ortografica e dell’uso della punteggiatura, ma
anche, in seguito della comprensione di testi sempre più complessi: non può
leggere e comprendere l’Iliade in versi alle medie chi non si è formato nella scuola
primaria una valida competenza di lettura ad alta voce, rispettosa dei suoni delle
parole e dell’intonazione. Si pensi alla responsabilità che l’intonazione ha nella
strutturazione sintattica della frase (si confrontino le due frasi:
Luca mangia lentamente
Luca (pausa) mangia lentamente
Nella prima Luca è soggetto di mangia (III persona singolare) e l’enunciato risulta
assertivo, funzionale a descrivere una certa scena.
Nella seconda il soggetto della frase è “tu” , il verbo è di modo imperativo (II
persona singolare) e l’enunciato risulta imperativo, funzionale a dare un comando
(la
scena
implicata
è
antitetica
alla
precedente:
Luca
sta
mangiando
velocemente!).
Si pensi ancora a quale ricchezza sia negata a chi non è educato a cogliere il
senso nel suono allorché gli sarà proposta un’esperienza poetica, come ad
esempio la lettura di Temporale di Giovanni Pascoli:
Un bubbolìo lontano. . .
Rosseggia l'orizzonte,
come affocato, a mare:
nero di pece, a monte,
stracci di nubi chiare:
tra il nero un casolare:
un'ala di gabbiano.
O alle difficoltà che incontrerà chi non è educato ad ascoltare e osservare la
parola e le parole che si celano in essa quando si troverà a dover comprendere
termini matematici come il poligono circoscritto e inscritto in un cerchio, il
massimo comun divisore e il minimo comune multiplo, l’equazione e la
disequazione…
Oralità non significa naturalmente solo ascolto delle singole parole e ortoepia, ma
anche racconto, narrazione, ascolto da parte del bambino dell’insegnante che
legge le storie, che espone, che illustra, che spiega e ascolto da parte
dell’insegnante che dedica tempo alle storie che il bambino racconta. Storie vere,
storie sue, o inventate, o apprese dai libri, che necessitano di tempo per essere
dette. Il fattore “tempo” è coessenziale all’insegnamento, non solo perché i tempi
di concettualizzazione sono lunghi, ma anche perché la conoscenza è tale quando
avviene un’esperienza, e per questo occorre spazio e tempo.
La scrittura
Vi è un legame inscindibile tra scrittura ed esperienza. Scrivere significa attestare
(= rendere testo) l’esperienza di uno che vive e legge la vita, e al contempo
significa fare esperienza perché nello scrivere si è costretti a rivedere e rileggere la
vita. Vale la pena scrivere perché vale la pena chiarire e comunicare a sé e
all’altro la propria conoscenza della vita.
Ciò ha alcune implicazioni immediate:
-Si impara a scrivere vivendo, vivendo con intensità, ovvero osservando e
giudicando quello che si ha da vivere. Ma si impara a scrivere anche scrivendo! E’
un luogo comune quello che si impara a scrivere leggendo, a meno che non si
intenda la lettura un’esperienza di vita che ha anche delle ricadute sulla scrittura
(non a caso il programma di scrittura è strettamente legato a quello di lettura).
Quello di attestare l’esperienza deve diventare un habitus, vale molto di più far
scrivere sempre, lasciare sempre un compito, anche breve, di scrittura che
neanche accanirsi nella correzione (a volte si fa scrivere meno, timorosi di non
riuscire a correggere tutto, mentre è importante che i ragazzi scrivano spesso, la
correzione è innanzitutto compagnia, sostegno, solo in alcuni momenti è
valutazione).
-Scrivere è produrre un testo e il testo per sua natura è comunicativo, ha
destinazione pubblica. Occorre dare risalto a ciò, moltiplicando le occasioni di
lettura alla classe degli scritti dei ragazzi, di pubblicazione sui giornalini
scolastici, sul sito della scuola, di partecipazione a concorsi. La declamazione alla
classe del proprio scritto si rivela molto più stimolante a scrivere meglio che
neanche l’insistenza della correzione dell’insegnante. I compagni ascoltano,
hanno facoltà di intervenire alla fine per proporre correzioni, a volte si apre un
dibattito sull’argomento.
-Dagli anni ’70 in poi si è molto insistito in ambiente scolastico sul fornire
le tecniche di scrittura, dimenticando però che la tipologia testuale è conseguente
al tipo di esperienza che si va ad attestare e che non esistono testi esclusivamente
narrativi o descrittivi o commentativi.
Le tecniche e le tipologia testuale devono essere ben conosciute dall’insegnante,
ma non necessariamente o non sempre messe a tema con i ragazzi. E’ un
percorso vano quello consistente nel fornire schemi classificatori di generi testuali
per dedurre da essi la produzione di testi. I concetti e le categorizzazioni, infatti,
come le parole non si trasmettono ma si scoprono riflettendo insieme su quanto si
fa.
-Proprio perché sono molti i tipi di esperienza che si possono fare, diversi
devono essere anche i tipi di testi da proporre nell’arco del quinquennio. Anche
perché ognuno trovi quello più consono al suo modo di esprimere se stesso.
Dettato (la bella grafia e l’ortografia corretta è un habitus che va assunto durante
le elementari, perché a questa età vince l’uso sulla riflessione).
“Pensierino” (in un “pensierino” sono già all’opera tutte i requisiti di testualità,
tutte le regole linguistiche morfologiche, sintattiche, semantiche, pragmatiche. Il
pensierino è dunque il primo tentativo organico di attestazione dell’esperienza e
contemporaneamente di riflessione sulla lingua).
Riassunto. Riassumere significa trarre da un testo l’essenziale a partire da un
preciso punto di vista. Il riassunto è un’operazione importantissima a scuola,
perché per ridire in breve un testo sono costretto a coglierne l’intenzione
comunicativa e dunque a ricercare il vero scopo per cui l’autore ha scritto il testo.
Si potrebbe quasi dire che fino a una certa età il modo migliore per fare
esperienza di un testo, coglierne il significato in rapporto a me che leggo è farne il
riassunto.
Racconto di un’esperienza personale (scolastica e non) o condivisa.
Testi di presentazione. Non esiste il testo esclusivamente descrittivo, ha senso
invece abituare i ragazzi a presentare oggetti, ambienti, personaggi in ordine a
precisi scopi. Presentare significa rendere presente al lettore attraverso la parola,
che dovendo assolvere a un compito ri-creativo, si affina, si aggiusta, subisce
un’azione selettiva da parte dello scrittore in base al senso che ha colto nella
realtà da descrivere, ipotesi di senso che verifica e approfondisce scrivendo.
Riscrittura di testi con cambio di genere . Utile esercizio per addentrarsi nel testo,
comprenderlo, immedesimarsi nei significati in esso incarnati. Si tratta di una
sorta di traduzione endolinguistica preziosissima per imparare a cogliere il senso
del testo (ciò che rimane inalterato nella traduzione è il senso che pertanto
emerge nella consapevolezza del traduttore) e propedeutica ad altri tipi di
traduzione utili alla conoscenza (si pensi all’apprendimento di altre lingue,
all’espressione di situazione e concetti attraverso il linguaggio matematico, al
procedimento della sostituzione insostituibile nella riflessione linguistica…).
Scrittura creativa di testi d’invenzione. L’invenzione di storie è operazione assai
complessa e contemporaneamente valorizzatrice di una delle caratteristiche
dell’infanzia: la fantasia, intesa come capacità di creare ed esplorare mondi
possibili, conoscendo i quali si finisce per conoscere meglio se stessi e il mondo
reale. Ancor più efficace della scrittura introspettiva, la scrittura creativa va
incentivata, ma non bisogna ingenerare l’idea che sia sufficiente riempire degli
schemi formali con contenuti di fantasia per creare una fiaba, un racconto
d’avventura, un giallo: la letteratura è ben altro, in quanto è un modo di attestare
il proprio personale rapporto con le domande ultime, con il significato ultimo
dell’esistenza.
-Anche il momento della correzione deve avere i connotati di un’esperienza,
intesa come vita giudicata, come vivere ciò che fa crescere. Da ciò deriva che la
correzione debba puntare all’essenziale, affinché sia in grado di dare poche e
chiare indicazioni allo studente su come procedere nel lavoro per rendere il testo
sempre più adeguato allo scopo. Un testo non pertinente è un testo non riuscito,
infelice, quindi non sufficiente. Il voto dipende poi dal rispetto degli altri requisiti
di testualità la coesione e la coerenza, la correzione formale e la sensatezza del
dire (o novità). Ognuno di questi aspetti deve essere, almeno tentativamente,
presente nei testi dei nostri studenti dalla prima alla quinta. Cosa deve cambiare
allora? L’oggetto di riferimento di cui il testo tratta, che deve diventare via via più
complesso; il destinatario: dalla prima alla quinta devono capire che non si scrive
per l’insegnante, ma per il mondo; l’organizzazione del testo: dalla prima alla
quinta deve crescere la linearità della narrazione.
Circa la correttezza formale occorre ricordare che i nostri alunni continueranno a
scrivere e a migliorare la loro testualità nella scuola media e via dicendo. Alle
elementari è importante insistere sull’ortografia, sulla punteggiatura limitandosi
all’uso dei punti (.!?) e della virgola, sulla struttura narrativa del testo, sulla
appropriatezza
lessicale,
intesa
come
affinamento
della
competenza
denominativa.
La riflessione sulla lingua
Gli studenti della scuola primaria si affacciano alla prima classe già dotati di una
capacità linguistica, che sicuramente col crescere dell’età può e deve affinarsi, ma
che va considerata come requisito necessario e sufficiente per studiare
grammatica. L’insegnante responsabile dell’apprendimento dell’italiano non deve
in fondo far altro che suggerire un metodo affinché lo studente prenda
consapevolezza dello strumento che usa per comunicare. Si potrebbe così
sintetizzare l’iter della didattica della lingua italiana (se lingua 1): dall’uso
inconsapevole, alla consapevolezza dello strumento, all’uso consapevole. Un
percorso che viene avviato nella scuola primaria, ma che si compie in quella
secondaria, allorquando il ragazzo sviluppa quella capacità di astrazione
necessaria per passare indifferentemente dal testo al sistema e dal sistema al
testo. Una strada che non si potrebbe rappresentare con una linea, quasi a
intendere che aggiungendo un passo dopo l’altro linearmente si compie, poiché è
caratterizzata da momenti di approfondimento della testualità in potenza e in atto
nello studente sin dagli inizi di ritorni per recuperare conoscenze e abilità non
ancora consolidate, di intuizioni che permettono di utilizzare consapevolmente
una struttura, muovendosi con agilità dal testo al sistema e viceversa.
La lingua infatti è un sistema, un insieme di parole e regole per costruire testi,
veri segni linguistici, ma non esiste a prescindere dai testi. “La lingua è un
sistema segnico di cui si ipotizza l’esistenza nella mente dei parlanti (un modello)
per spiegare il comportamento linguistico di una comunità di parlanti, che
eseguendo certi suoni veicolano determinati significati e costruiscono, a partire
da questi, dei messaggi”9.
Riflettere sulla lingua è possibile dunque se si
considerano oggetto di indagine i testi, se le strutture e le funzioni linguistiche
sono sorprese e spiegate all’opera in uno scambio comunicativo. Ciò implica che
nei primi anni della scuola primaria, riflettere sulla lingua coincida con imparare
a leggere e a scrivere, e che, a partire dal terzo anno, in cui si iniziano a
sistematizzare le conoscenze grammaticali, non lo si faccia in astratto, ma sempre
9
E. Rigotti, S. Cigada, La comunicazione verbale, Apogeo, Milano 2004, pp. 66-67.
in rapporto all’esperienza comunicativa di ricettori e produttori di testi. Non si
vuole con questo intendere che nella pratica didattica non vi siano momenti
distinti di lettura, scrittura, rilessione sulla lingua, ma che tali attività siano
sostanzialmente unitarie.
Contenuti e metodi essenziali della grammatica
Una didattica consapevole ha come prima responsabilità quella di interrogarsi
circa i contenuti e i metodi essenziali da trasmettere nella pratica scolastica
relativamente a una certa disciplina. Ma occorre altresì definire cosa si intende
per essenzialità. Vi sono infatti almeno quattro fattori da considerare per
decretare l’imprescindibilità didattica di un argomento:
1. la
sua responsabilità nell’introdurre lo studente alla specificità della
disciplina;
2. il suo contributo alla cultura di base dello studente, alla trasmissione di una
tradizione riconosciuta e canonizzata;
3. la sua funzionalità in rapporto all’apprendimento di altre discipline;
4. la sua rispondenza a un’esigenza effettiva dell’allievo in un particolare
momento di crescita10.
Tenendo conto di questi fattori, in un insegnamento che voglia tener conto di un
percorso dalla scuola primaria a quella secondaria di I grado, i contenuti
imprescindibili della grammatica si possono utilmente ricapitolare in quattro
grandi tematiche: la classificazione del lessico; la struttura morfosintattica
della frase; le funzioni logiche dei sintagmi all’interno della frase semplice; le
funzioni logiche delle frasi semplici nella frase composta e complessa.
Tali aspetti, fondamentali per chi voglia conoscere la lingua italiana, vanno tenuti
presenti come orizzonte in ogni attività didattica, a prescindere dal momento in
cui vengono sottoposti all’attenzione e alla riflessione sistematica degli studenti.
L’arte pedagogica dell’insegnante sarà messa alla prova proprio nella scelta del
momento opportuno in cui mettere a tema ciò che in modo latente è già presente
sin dalle prime mosse linguistiche dello studente: le congiunzioni, ad esempio,
sono già in uso sin dai primi anni delle elementari, ma la loro classificazione e la
10
Cfr. Onorato Grassi, Insegnamento e personalizzazione; in Educazione e Istruzione, CCSL, Milano 2004, pro
manuscripto, p. 28.
riflessione su come funzionano in ordine alla manifestazione dei nessi logici tra
frasi non si potrà proporre se non negli ultimi anni del percorso.
La classificazione delle parti del discorso
L’esigenza di classificare il lessico, ovverosia di individuare le proprietà che
assimilano in paradigmi e distinguono tra loro le parole di una lingua, è molto
antica. I filosofi e i grammatici greci, latini e i linguisti di ogni tempo si sono posti
il problema e la loro ricerca ha rivelato non solo delle verità linguistiche, ma al
contempo filosofiche ed esistenziali: trattare delle parti del discorso significa
infatti scoprire la particolare prospettiva secondo la quale ogni categoria lessicale
legge la realtà e attesta il rapporto che il parlante instaura con essa. In tal senso
la definizione di ogni parte del discorso non implica solo l’individuazione delle sue
caratteristiche morfologiche (cioè della forma che assume nel testo), ma anche le
sue potenzialità sintattiche (le combinazioni in cui si trova inserita nel testo), e il
suo valore semantico (cioè la sua funzione in ordine al senso che il testo veicola).
Tale attività, che richiede l’apprendimento di una serie di azioni da parte dello
studente (principalmente la generalizzazione e la sostituzione), deve essere
sempre presente nel percorso scolastico: dapprima (nella scuola primaria)
mettendosi alla prova con i casi non dubbi, in seguito (nella scuola secondaria di
I grado) prendendo in considerazione anche quelle parole che assumono diverso
valore in base al testo in cui sono inserite.
La struttura morfosintattica dell’enunciato e le funzioni logiche dei sintagmi.
Uno degli obiettivi fondamentali dell’insegnamento della grammatica è quello di
far scoprire il compito della sintassi nella strutturazione del testo, a partire dalla
frase semplice. La lingua italiana affida infatti a questo livello di strutturazione
del senso una responsabilità molto alta. Le parole non hanno funzione autonoma
nella frase, addirittura molte si disambiguano solo in rapporto a quelle con cui
concordano o con le quali intrattengono un rapporto di reggenza. Occorre dunque
da subito consegnare un metodo di osservazione delle parole all’interno della
frase che metta in risalto i nessi che intrattengono. Tale lavoro va intensificato poi
nella scuola secondaria, in quanto funzionale ad affrontare la terza questione,
quella della strutturazione logica della frase. È affidata infatti ai sintagmi e non
alle singole parole la responsabilità di svolgere le funzioni logiche in rapporto al
predicato.
Le funzioni logiche delle frasi semplici nella frase composta e complessa.
Tale tematica è quella in cui risulta più evidente il passaggio dall’uso
inconsapevole alla riflessione sull’uso a un uso più consapevole. Se infatti va
incoraggiata la scrittura di testi in cui il senso sia attestato da enunciati formati
da frasi che intrattengano rapporti di coordinazione e di subordinazione sin dagli
ultimi anni della scuola primaria e nei primi della scuola secondaria, sarà alla
fine del percorso che lo studente avrà acquisito la capacità di riflettere
sistematicamente sui nessi che le frasi intrattengono e potrà, di conseguenza
iniziare a scegliere con consapevolezza come disporre nei suoi testi il suo
pensiero, privilegiando ora la paratassi, ora l’ipotassi. Va sottolineato che
anticipare nel percorso la riflessione su fenomeni linguistici che non sono ancora
sperimentati dallo studente, anche perché non rispondono a suoi bisogni
comunicativi, è uno degli errori più nefasti pedagogicamente parlando.