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RASSEGNA STAMPA
mercoledì 3 febbraio 2016
L’ARCI SUI MEDIA
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
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LEFT
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
Da Corriere.it – Corriere Sociale del 02/02/16
«Migrare non è reato», flash mob dei volontari
a Palazzo Chigi
ROMA – «Chi fugge da guerre, torture e miseria in cerca di una possibilità di esistenza
deve essere tutelato e non punito, merita protezione e non ghetti». Con il messaggio
«Clandestina è la legge. Migrare non è reato», veicolato attraverso ombrelli e il lancio
dell’hashtag #migrarenonèreato, i volontari e gli attivisti di varie associazioni e movimenti
questa mattina a Roma, davanti a Palazzo Chigi, hanno organizzato un flash mob per
chiedere al Governo italiano di «abrogare il reato di clandestinità».
I MOTIVI DELLA PROTESTA
Alla manifestazione hanno partecipato diciotto associazioni con l’obiettivo di «riaccendere
l’attenzione dell’opinione pubblica e del dibattito politico sul reato di immigrazione
irregolare che il Governo ritarda ad abrogare pur avendo da quasi due anni ricevuto
mandato dal Parlamento». Una legge che i promotori del flash mob ritengono «ingiusta,
perché punisce una persona unicamente in base al suo status. Inutile, perché non ha
alcun effetto deterrente sull’immigrazione irregolare e non ferma le stragi in mare, come
confermano i dati». Queste le associazioni che hanno aderito e partecipato alla
manifestazione: Medici per diritti umani – Medu, Amnesty International, Roma che
Accoglie, Asgi, A Buon Diritto, LasciateCientrare, Casetta Rossa, Be Free, Action, CIR,
Cittadini del Mondo, Focus- Casa dei Diritti Sociali , Borderline Sicilia Onlus, Diritti Umani
Senza Frontiere, ARCI di Roma, Laboratorio 53, Senza Confine, Borderline-Europe.
http://sociale.corriere.it/migrare-non-e-reato-flash-mob-dei-volontari-a-palazzo-chigi/
Da Redattore Sociale del 02/02/16
Montecitorio, associazioni in piazza contro il
reato di clandestinità
Flash mob di 18 organizzazioni sotto il Parlamento per richiamare
l'attenzione sui ritardi del dibattito politico in tema di reato di
clandestinità. Consegnata lettera appello alla Commissione giustizia.
“Clandestina è la legge, non può avere cittadinanza nel nostro
territorio”.
ROMA – “Migrare non è reato”, “Welcome refugees”, No borders, no nation, stop
deportation”. Sono questi gli slogan che hanno accompagnato il flash mob che si è tenuto
oggi, a piazza Montecitorio a Roma. Organizzato da 18 associazioni (Medu, Roma che
Accoglie, Amnesty International, Asgi, A Buon Diritto, LasciateCientrare, Casetta Rossa,
Be Free, Action, CIR, ARCI di Roma, Laboratorio 53, Cittadini del Mondo, Senza Confine,
Focus- Casa dei Diritti Sociali, Borderline-Europe, Borderline Sicilia Onlus, Diritti Umani
Senza Frontiere), l’evento ha l’obiettivo di richiamare l’attenzione sul dibattito politico
relativo al reato di clandestinità, che secondo le associazioni promotrici il Governo “ritarda
ad abrogare pur avendo da quasi due anni ricevuto mandato dal Parlamento”. Per questo
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sotto Montecitorio, un gruppo di cinquanta volontari e attivisti, ha aperto gli ombrelli per
formare la scritta #Migrare non è reato.
“Il reato di clandestinità è una legge ingiusta, inutile, dannosa e clandestina – spiegano le
organizzazioni -Ingiusta, perché punisce una persona unicamente in base al suo status.
Inutile, perché non ha alcun effetto deterrente sull’immigrazione irregolare e non ferma le
stragi in mare, come confermano i dati. Dannosa, perché produce ghettizzazione,
razzismo e disagio sociale. Clandestina, perché il governo avrebbe dovuto provvedere alla
sua abrogazione ma ritarda, adducendo motivazioni di inopportunità temporale,
psicologica e di percezione di insicurezza”.
“Già nell’aprile 2015, insieme ad Amnesty International, A Buon Diritto e Asgi abbiamo
scritto una lettera aperta al Presidente del Consiglio chiedendo al Governo di esercitare la
delega del Parlamento per procedere alla cancellazione del reato – spiega Alberto
Barbieri, presidente di Medu (Medici per i diritti umani) – Noi crediamo che questa legge
sia ingiusta perché punisce la persona solo per il suo status e non perché ha commesso
qualche reato. Sulla sua inutilità si sono espressi anche i magistrati: è la legge a essere
clandestina, il Parlamento ne ha decretato l’abrogazione e quindi non può avere
cittadinanza nel nostro territorio giuridico”. Tra gli organizzatori del flash mob anche i
volontari del centro Baobab di via Cupa a Roma, chiuso dal commissario Tronca. “Con
diverse associazioni ci siamo messi in rete per organizzare questa giornata – spiega
Roberto Viviani, uno dei volontari -. L’intento è tenere alta l’attenzione sui migranti, per noi
le ragioni di opportunità non reggono, quando siamo di fronte al drammi veri e propri”.
Migranti. Protesta "Migrare non è reato" 2
Alla fine della manifestazione, i promotori hanno consegnato una lettera appello a Walter
Verini (Pd), membro della Commissione Giustizia della Camera. “Sono stato anch’io
sorpreso dal rinvio dell’abrogazione – afferma – ma ne capisco il senso. Ritengo che prima
togliamo il reato di clandestinità e meglio è, ma parlare di questi temi e non incontrare la
condivisione nel paese rischi a di essere un’arma a doppio taglio. Se non si inquadra in
una politica europea è controproducente”. In piazza, insieme ai manifestanti, anche alcuni
parlamentari come Stefano Fassina (Sinistra italiana) , Giulio Marcon (Sel) ed Erasmo
Palazzotto (Sel).
Leggi anche
http://roma.fanpage.it/flash-mob-a-montecitorio-abolire-il-reato-di-clandestinita-foto/
Da Reggio sera del 02/02/16
Mafia, Mezzetti: “Le minacce a Vecchi sono
gravissime”
L'assessore regionale alle Politiche per la legalità: "Lo schema è
sempre lo stesso: prima l'isolamento, poi le minacce e infine si
colpisce". La solidarietà di Arci, Confcooperative e dell'assessore
Tutino
REGGIO EMILIA – “Le allusioni minacciose contenute in questa lettera sono di una
gravita’ che richiede tutta l’attenzione necessaria da parte delle autorita’ competenti e
solidarieta’ da parte della comunita’ politica e sociale”. Cosi’ l’assessore regionale alle
Politiche per la legalita’ della Regione Emilia-Romagna, Massimo Mezzetti, commenta la
missiva recapitata dall’imputato nel processo Aemilia Pasquale Brescia, detenuto nel
carcere di Bologna, alla redazione del ”Resto del Carlino” di Reggio Emilia e rivolta al
sindaco del capoluogo Luca Vecchi.
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“Attenzione – sottolinea Mezzetti – perche’ lo schema sembra essere quello tristemente
conosciuto: prima si getta l’ombra del sospetto su persone, uomini di legge o
amministratori che siano, impegnate a far rispettare la legalita’ nel proprio territorio, per
isolarle, poi si passa alle minacce e infine le si colpiscono. Abbiamo gia’ visto in passato
questo film e non dobbiamo ricadere nell’insidiosa trappola”.
Le vicende “poste all’attenzione dell’opinione pubblica nei giorni scorsi che riguardano il
sindaco – conclude l’assessore regionale – che non hanno nessun risvolto penale e
saranno chiarite nei modi e nelle sedi dovute, non possono e non devono nel modo piu’
assoluto indurre ad alcuna debolezza o timidezza nel denunciare le minacce e gli
avvertimenti di stampo mafioso giunti a Luca Vecchi e alla sua famiglia, cui va tutta la
solidarieta’ e la vicinanza mia personale e a nome della giunta regionale”.
Solidarieta’ al primo cittadino arriva anche dai presidenti dell’Arci regionale Federico
Amico e di Reggio Daniele Catellani. “La battaglia politica non puo’ imbracciare le armi
della diffamazione, e’ il momento di lasciare alle vicende giudiziarie il loro corso, di sicuro
non e’ il momento di adombrare su una persona specchiata come Luca Vecchi ipotesi di
illeciti o collusione. E’ il momento di stringerci attorno al sindaco di Reggio Emilia e
invitarlo ad andare avanti, non chiederne le dimissioni. E’ il momento di reagire, anche sul
piano simbolico”.
Quindi “oggi piu’ che mai diventa essenziale che il processo prosegua il suo corso proprio
a Reggio Emilia. E, oggi piu’ che mai, e’ il momento di lavorare per costruire una grande
partecipazione il prossimo 21 marzo, la Giornata della Memoria e dell’Impegno in ricordo
delle vittime innocenti delle mafie, indetta da Libera, che nella nostra regione si terra’
proprio a Reggio Emilia”. Confcooperative si dichiara vicina al sindaco auspicando che “sia
forte la reazione e la voce di Reggio Emilia contro i tentativi come questo di intimorire,
screditare o minacciare in quanto tali la sua cittadinanza e le sue istituzioni”.
Dalla giunta comunale di Reggio si fa sentire anche l’assessore all’Ambiente Mirko Tutino:
“Oggi piu’ che mai sono dalla parte del mio sindaco – scrive su Facebook – credo che le
inquietanti notizie di queste ore rendano chiaro tutto il fastidio generato dalle scelte di
questa amministrazione a coloro che hanno interessi poco puliti da difendere”.
Avere scritto “protocolli sulla legalita’ che non hanno precedenti e che non lasciano il
minimo spazio ai malavitosi, aver superato il massimo ribasso negli appalti pubblici, aver
combattuto le attivita’ economiche usualmente abbinate al riciclaggio, aver requisito aree
ed immobili: sono scelte forti, che non sono piaciute a tutti”, spiega Tutino. Ma “noi
andiamo avanti, chi guida questa citta’ ha la schiena dritta. Ed umanamente, un grande
abbraccio a Luca Vecchi”.
http://www.reggiosera.it/2016/02/mafia-mezzetti-le-minacce-a-vecchi-sonogravissime/11188/
Leggi anche:
- http://gazzettadireggio.gelocal.it/reggio/cronaca/2016/02/02/news/i-veleni-sullacampagna-elettorale-di-vecchi-sa-quali-mani-ha-stretto-1.12885448
- http://ilpuntontc.com/2016/02/02/reggio-emilia-provincia-e-sindaci-uniti-contro-ognimafia.html
Da SanteramoNews del 03/02/16
Finanziamento attraverso il bando “Giovani
per la valorizzazione dei beni pubblici”
Palazzo Marchesale, il commento dell’Arci Stand By
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Il circolo affidatario del luogo pubblico, promette di "farne un ambiente
di coworking: uffici condivisi, giovani creativi, idee, spazi per liberi
professionisti, nuove competenze”
A poche ore dall’ufficializzazione della notizia diffusa in primis dal Primo Cittadino,
dell’affidamento del Palazzo Marchesale al circolo Arci “Stand By;” aggiudicatario del
finanziamento di 200mila euro ottenuti attraverso il Bando “Giovani per la valorizzazione
dei beni pubblici”, dal Dipartimento della gioventù e del Servizio civile nazionale della
Presidenza del Consiglio dei Ministri, i componenti del direttivo del circolo commentano
con una nota “Un successo a cui abbiamo lavorato molto e a lungo; il progetto risultato
vincitore è infatti il frutto un percorso iniziato nel 2012 e costato mesi di confronto, studio,
ricerche e sacrifici. Oggi, lunedì 1 febbraio 2016, possiamo comunicare di avere inviato a
Roma tutta la documentazione richiesta e di essere ora in attesa della convocazione per la
firma definitiva del finanziamento”.
Prosegue il testo. “Abbiamo intenzione di costruire una struttura in grado di incontrare le
esigenze dei giovani e della comunità, valorizzando e restituendo alla città. Palazzo
Marchesale è stato, fino ad oggi, un bene pubblico usato al disotto delle sue possibilità; il
nostro fine è quello di investire le risorse economiche che siamo riusciti a intercettare, per
attrezzare e condividere gli spazi concessi (alcune stanze dei piani superiori) per farne un
ambiente di coworking: uffici condivisi, giovani creativi, idee, spazi per liberi professionisti,
nuove competenze”.
“Uno spazio per tutti, uno spazio di tutti – si legge nella nota - ed è per questo che,
invitiamo coloro che abbiano delle idee da mettere in circolo, a scriverci all'indirizzo email
[email protected]. Da subito partirà intanto una comunicazione capillare a
disposizione di chiunque voglia saperne di più”.
http://www.santeramolive.it/news/Attualita/411104/news.aspx
Da Varese News del 02/02/16
Filmstudio 90, le date delle proiezioni in
“esilio”
Dopo il sequestro della storica sala dell’associazione la normale
rassegna di cinema ha trovato ospitalità in nuovi spazi al castello di
Masnago, alla sala Montanari e nella sede dell'Arci
Filmstudio 90 ha annunciato ufficialmente le date delle prossime proiezioni che si
svolgeranno in “esilio” rispetto alla normale attività cinematografica degli spazi di via De
Cristoforis.
Dopo il sequestro della storica sala dell’associazione l’attività cinematografica ha trovato
ospitalità in nuovi spazi nella città di Varese.
Una prima serata è prevista per giovedì 4 febbraio alle ore 20.30 presso il Castello di
Masnago, in via Cola di Rienzo 42, con la proiezione sarà “Salvatore Giuliano”, pellicola di
Francesco Rosi del 1962. La serata recupera l’ultimo incontro del corso “Quando i più
bravi eravamo noi”, in collaborazione con Varesecorsi. L’ingresso è a offerta libera.
” Filmstudio 90 on the road” prende invece il via sabato 6 febbraio alle 21 con un film di
Claudio Caligari, “L’odore della notte” (durata 100’) con Valerio Mastandrea, Marco
Giallini, Giorgio Tirabassi. La proiezione in questo caso si terrà presso la sede Arci di via
Monte Golico 12. Anche in questo caso l’ingresso è a offerta libera ed è riservato ai soci
Filmstudio 90 e Arci.
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Presso la sala Montanari, ex cinema Rivoli, di via dei Bersaglieri 1, domenica 7 febbraio
alle 16 si terrà una proiezione della rassegna “Cinemaragazzi”: è in programma “La tela
animata” di Jean-François Laguionie (durata 76’). Anche in questo caso l’ingresso è
riservato a soci Filmstudio 90, Cinemaragazzi e Arci con offerta libera.
Nella mattina di martedì 2 febbraio si è svolta l’udienza presso il tribunale del riesame di
Varese con la richiesta della revoca del sequestro preventivo della sala dell’associazione.
Entro pochi giorni quindi, sapremo se il cineclub varesino potrà riaprire l’attività per i soci,
o se bisognerà attendere nuovi sviluppi.
http://www.varesenews.it/2016/02/filmstudio-90-le-date-delle-proiezioni-in-esilio/481717/
Leggi anche
http://www.varesereport.it/2016/02/02/varese-filmstudio-is-back-ecco-le-pellicole-in-tuttala-citta/
Da il Tirreno del 02/02/16
Terminata l’autogestione al Montale
Per quattro giorni, corsi di fotografia e incontri su temi sociali al posto
delle lezioni standard
PONTEDERA. Si è conclusa ieri mattina l’autogestione dell’istituto Eugenio Montale.
L’iniziativa degli studenti era iniziata giovedì scorso, quando ragazzi e ragazze dell’istituto
si erano attivati per stilare un calendario di dibattiti su temi d’attualità e laboratori di attività
alternative a quelle didattiche.
Tra i banchi del Montale si sono seduti in questi giorni Renzo Zorzi dell’ Aquateam di
Castelfranco di Sotto, società sportiva che, oltre agli atleti normodotati, coinvolge quelli
affetti da disabilità; Tommaso Cino, impegnato nell’accoglienza degli immigrati; Maria
Chiara Panesi, presidente dell’Arci Valdera; e lo psicologo Daniel Amram. «L’autogestione
ha permesso a tutti gli studenti coinvolti di alternare momenti di confronto ad attività
ricreative e divertenti», racconta uno dei rappresentanti del Montale, Syrio Martinelli, che
prosegue: «Volevamo instaurare una cogestione, per la cui realizzazione occorre la
collaborazione dei professori, che però non hanno approvato la nostra idea. Quindi
abbiamo deciso di dare vita all’autogestione». Nelle aule del Montale le lezioni si sono
fermate per quattro giorni e al posto di zaini e quaderni, di fronte alla lavagna, sono
spuntate macchine fotografiche e pennarelli. «Abbiamo allestito laboratori di fotografia,
scrittura creativa, musica e teatro». Martinelli, infine, ringrazia tutti i “colleghi”: «Grazie agli
studenti del Montale che hanno approcciato all’autogestione nella maniera giusta e grazie
agli altri rappresentati d’istituto Matteo Simaku, Andrea Retini e Martina Maurizio». (t.s.)
http://iltirreno.gelocal.it/pontedera/cronaca/2016/02/02/news/terminata-l-autogestione-almontale-1.12886048
Da Modena Today del 02/02/16
Castelfranco Emilia. Nasce il progetto NOI,
Nonni Organizzati Insieme, per combattere la
solitudine
Nasce a Castelfranco Emilia il progetto NOI, Nonni Organizzati Insieme,
per una cooperazione tra Comune e Regione per migliorare il welfare di
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comunità. Si vuole offrire l'opportunità di socializzazione e conoscenza,
finalizzate alla prevenzione dei momenti di solitudine
Nasce a Castelfranco Emilia il progetto NOI, Nonni Organizzati Insieme, per una
cooperazione tra Comune e Regione per migliorare il welfare di comunità. L’idea è quella
di offrire delle opportunità di socializzazione e conoscenza, finalizzate alla prevenzione dei
momenti di solitudine e delle sue conseguenze. Il progetto NOI è stato quindi ideato e
realizzato a favore della popolazione anziana con la finalità di contrastare condizioni di
solitudine e di isolamento sociale, fattori riconosciuti a rischio per la salute psicofisica
dell’individuo.
GLI EVENTI NOI. Nello specifico sono stati svolti diversi tavoli di lavoro, da cui sono nate
esigenze, in questo caso della popolazione anziana, su cui lavorare insieme. Partecipanti
e volontari si incontrano due volte alla settimana, martedì e giovedì, dalle 8,30 alle 11 e a
seconda delle richieste si svolgono attività con tematiche diverse riguardanti l’aspetto
ludico, informativo conoscitivo, sanitario, attività motoria, musicale, attività che sono tenute
da professionisti del territorio che si avvicendano secondo un calendario prestabilito, in
modo gratuito.
IL SERVIZIO E IL TRASPORTO. Il servizio è aperto due volte a settimana, e gestito e
sostenuto interamente dalle Associazioni di Volontariato e dalle Confederazioni di
Categoria, nello specifico: Amici del Cuore, Arci Solidarietà, Cittadinanza Attiva, Cupla,
FNP, La San Nicola, Le 3°A, Il Club degli Hobby, SPI. I trasporti, per chi non può accedere
autonomamente, sono assicurati a titolo gratuito dall’associazione Auser, così pure i locali,
messi a disposizione dall’Arci Polisportiva Stalla di Castelfranco E.
“L’esperienza del welfare di comunità, – commenta l’Assessore Manni - è una esperienza
innovativa nel panorama dei nostri servizi. Questo spazio dedicato agli anziani, come altri
del territorio, risponde ai bisogni di salute, soprattutto in un’ottica di prevenzione e di
affiancamento delle famiglie Non smetterò mai di ringraziare chi ha sostenuto, creduto e
costruito questo progetto con il Comune”
http://www.modenatoday.it/cronaca/castelfranco-emilia-nasce-progetto-noi-nonniorganizzati-insieme-contro-solitudine.html
Da Radio Bombo del 02/02/16
Registro delle unioni civili a Trani: la richiesta
parte dai Cinque stelle
Il Movimento 5 stelle di Trani ha depositato presso la presidenza del consiglio comunale
una proposta di delibera per l'istituzione del regolamento delle unioni civili mediante
apposito registro.
«Il nostro è un contributo concreto e propositivo che ci auguriamo veda il supporto di altri
consiglieri comunali affinché i diritti civili delle coppie di fatto vengano affermati al di là di
ogni schieramento», scrivono le due firmatarie del documento, Antonella Papagni e Luisa
Di Lernia, che qualche settimana fa avevano risposto, insieme all'Arci di Trani, all'appello
lanciato dall'Arcigay, "Svegliati Italia".
In Italia, sono in tutto 327 i comuni nei quali è stato approvato un registro delle unioni civili.
Pochi quelli del Centro e del Sud: Bagheria, Palermo, Macerata, Ancona, alcuni comuni
del Lazio, Napoli, Portici, Messina, Bari e altri. Nella Bat, hanno approvato il registro San
Ferdinando di Puglia, dove le coppie di fatto vedono riconosciuti i propri diritti a partire dal
2012, e Barletta, nel 2014.
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Le due consiglieri comunali pentastellate chiedono che al registro delle unioni civili
possano iscriversi persone maggiorenni di sesso diverso o dello stesso sesso, residenti e
coabitanti nel Comune di Trani, senza parentela tra loro. Questo permetterebbe alle
"coppie di fatto" di poter intervenire insieme sui diritti l'uno dell'altro.
Federica G. Porcelli
http://www.radiobombo.com/notizie/68689/registro-delle-unioni-civili-a-trani-la-richiestaparte-dai-cinque-stelle
Da Repubblica.it del 02/02/16
Teatro Alias Alessandro Benvenuti
Alessandro Benvenuti in scena per la giovane associazione "Firenze, le piazze degli anni
'70", con un testo poco noto, scritto in quegli anni "Residence Rovine Palace". Una
presentazione video fatta da due soci che raccontano brevemente gli scopi
dell'Associazione che saranno esposti anche dopo lo spettacolo Giovedi 4 febbraio, alle
ore 21, al teatro Alias presso il Circolo ricreativo Arci Lippi, in via Fanfani, 16.
Video di Sergio Canfailla.
http://video.repubblica.it/edizione/firenze/teatro-alias-alessandrobenvenuti/227111/226402
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ESTERI
Del 3/02/2016, pag. 14
Hillary prima, ma è in affanno e Sanders parla
da vincitore
FEDERICO RAMPINI
HILLARY Clinton è già in affanno. Di fronte all’unico politico americano che si autodefinisce “socialista” la favoritissima strappa poco più che un pareggio nel primo test
dell’Iowa. NON sarà un’incoronazione dinastica la sua, non sarà una marcia trionfale verso
la nomination. Il 2016 si preannuncia per la First Lady ed ex segretario di Stato come una
gara a ostacoli, con una base democratica che apprezza la sua competenza ma diffida dei
suoi legami con l’establishment e con Wall Street. A guidare questa “insurgency”,
insurrezione del popolo di sinistra, è l’improbabile senatore del Vermont Bernie Sanders,
di 5 anni più anziano di Hillary, privo come lei di carisma, tuttavia amato e rispettato
soprattutto dai giovani per la sua coerenza e la sua integrità morale.
Le primarie dell’Iowa nel formato assembleare e partecipativo del “caucus” offrono le
prime sorprese nella corsa per la nomination all’elezione presidenziale, anche grazie ad
una forte affluenza di elettori. I sondaggi della vigilia vengono smentiti. Tra i democratici la
Clinton era partita all’inizio della campagna con un vantaggio che sembrava incolmabile,
l’estate scorsa nell’Iowa aveva un margine di 40 punti sull’inseguitore. Dopo una
spettacolare rimonta di Sanders, alla vigilia del caucus Hillary conservava un margine di 5
punti. Alla fine soffre l’umiliazione di un quasi-pareggio, 49,9% contro 49,6%, solo per una
manciata di voti lei conquista un delegato in più di Sanders, che contesta lo spoglio e
chiede una riconta. Ma il bottino dei delegati non è importante, l’Iowa è un piccolo Stato
che elegge solo l’1% del totale nazionale. Come primo test di una lunga stagione di
primarie l’Iowa dice che i giochi sono molto aperti tra i democratici.
Significativo è il tono dei commenti dei due protagonisti. «Grazie Iowa, stasera tiro un
sospiro di sollievo», ammette la Clinton, che cerca di trovare il lato positivo della sfida
serrata: «Una gara così strenua ci fa bene, ci costringe ad essere migliori ». È Sanders ad
avere il linguaggio del vincitore, parla di «pareggio virtuale », ricorda di aver condotto «una
campagna senza grandi mezzi, senza ricchi finanziatori alle spalle, con un tremendo
handicap di partenza».
La prossima tappa dovrebbe essergli favorevole: martedì si vota nel New Hampshire, uno
Stato del New England dove la base democratica è molto liberal. Là i sondaggi assegnano
il vantaggio a Sanders. Per la Clinton la geografia diventa più favorevole a metà febbraio
quando si tengono primarie nel Nevada e South Carolina, dove ci sono più ispanici e
afroamericani, due constituency che l’ex segretario di Stato e suo marito Bill coltivano da
decenni. Ma i calcoli fatti a freddo possono subire improvvise smentite: anche nell’Iowa la
macchina elettorale dei Clinton sembrava formidabile, capillare e professionale. L’incubo
per Hillary è un bis del 2008, quando la sua candidatura partì con incollato l’aggettivo
“ineluttabile”, per poi infrangersi contro il “fenomeno” Barack Obama.
Può scoppiare un “fenomeno” Sanders, oggi? Il senatore del Vermont avendo 74 anni
potrebbe essere il padre di Obama. Come candidato anti-establishment è singolare: fa
politica da una vita, è un veterano del Senato di Washington. Ma verso Sanders
convergono forze della società civile, movimenti che vogliono cambiare la fisionomia del
partito democratico. Tra i suoi sostenitori c’è MoveOn, l’organizzazione “digitale” nata a
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Berkeley nel 1999 proprio in reazione agli scandali dell’èra (Bill) Clinton, per rilanciare la
partecipazione dal basso. A preparare la candidatura Sanders ha contribuito Occupy Wall
Street, il movimento esploso dopo la crisi del 2008 per contestare le diseguaglianze; e
BlackLivesMatter, la più recente mobilitazione contro le violenze razziste della polizia.
L’insurrezione della sinistra di base si ripete da un ciclo elettorale all’altro: sostenne
Howard Dean nel 2004 (fu John Kerry a vincere la nomination, poi sconfitto da George
Bush) e Barack Obama nel 2008. La sua forza è nella Generazione Millennio ma fa
proseliti anche nella classe operaia e tra le Union sindacali. Su molti temi la Clinton si è
spostata a sinistra, ha fatto proprie le posizioni radicali, per contenere l’avanzata di
Sanders. Anche lei propone il raddoppio del minimo salariale, più tasse sui ricchi, nuove
norme contro la speculazione di Wall Street. Su un terreno Sanders ha più credibilità: i
rapporti tra denaro e politica. Molto più delle email top secret che transitavano dal suo
indirizzo personale (scandalo cavalcato dalla destra) nella base democratica Hillary è
danneggiata dai 600.000 dollari ricevuti come onorario per le sue conferenze alla Goldman
Sachs, più i milioni di donazioni da Wall Street per la sua campagna elettorale. Lei obietta
che un “socialista” non avrà mai la maggioranza dei voti nella sfida finale. Sanders è
convinto di aver sdoganato la parola socialismo, che per molti giovani americani oggi è
sinonimo di sanità pubblica e università gratuita. La Clinton sostiene che solo il suo
pragmatismo può sbloccare l’agenda riformista trovando intese coi repubblicani al
Congresso. Sanders al contrario sostiene che la sua “rivoluzione politica”, aumentando
l’affluenza alle urne, può ribaltare i rapporti di forze e portare al Congresso una
maggioranza progressista di proporzioni “rooseveltiane”. Il nonno che fa sognare la
Generazione Millennio sarà un avversario coriaceo, a giudicare dal primo test.
Del 3/02/2016, pag. 15
Il senatore del Texas è arrivato primo stracciando il miliardario
newyorchese Ma nella corsa comincia a brillare la stella del Terzo uomo
Cruz batte Trump in nome di Dio ma
l’establishment tifa per Rubio
VITTORIO ZUCCONI
WASHINGTON.
Il Bello, il Bullo e il Pio, ovvero i tre repubblicani Rubio, Trump e Cruz escono avvinghiati
dalle pianure dello Iowa e portano in queste ore nel New Hampshire il triangolo di una
mischia che per qualcuno di loro potrebbe già diventare mortale. La battaglia per strappare
l’investitura del Partito che fu di Reagan e dei Bush cambia radicalmente la scenografia
geografica, demografica e politica nel grande mosaico della repubblica nordamericana.
Il vertice del triangolo è il campione della Destra Cristiana, Ted Cruz, il figlio di un pastore
protestante che due anni fa presentò ai leader delle potenti comunità religiose in una
chiesa dell’Iowa il figlio, imponendogli le mani e battezzandolo come il politico in missione
per conto di Dio. Unanimente detestato dai colleghi senatori, oratoria meccanica e
stridente da avvocato quale era, Cruz ha saputo opporre la croce alle falangi secolariste
del newyorchese Donald Trump, frettolosamente e poco credibimente convertito negli
ultimi giorni. Fino alla partecipazione a una funzione religiosa culminata in un sermone
sulla virtù dell’umiltà che Trump commentò con un esemplare ossimoro trumpista: «Sono
io l’uomo più umile del mondo».
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Ma il piano di battaglia di Ted Cruz, messo a punto nel suo quartiere generale del Texas
del quale è senatore studiando Von Clausewitz e Sun Tzu e realizzato con 150mila
volontari casa per casa e 1.900 suoi rappresentanti spediti in tutti i caucus, le assemblee,
non funzionerà necessariamente in New Hampshie. Gli eredi dei Puritani del New
England, negli Stati della costa atlantica settentrionale, sono quanto di più diverso si possa
immaginare dai devoti farmer della Prateria. Stato di enormi sobborghi dormitorio in
crescita nel Sud che gravitano attorno a Boston e nel Nord punteggiato di minuscoli
villaggi risucchiati dal fascino verde e nevoso del Vermont, i suoi abitanti sono
conservatori, ma non bigotti, libertari e fortemente indipendentisti come vuole il motto dello
Stato, “Vivi Libero o Muori”, orgogliosi della loro capacità di ribaltare i risultati prodotti dal
lontano e odiato Iowa. Forse per vendicarsi d’avere perduto la primogenitura delle
Primarie, strappata a loro dai due partiti e consegnata allo Iowa. Fu il New Hampshire che
salvò Clinton dal pozzo dove l’Iowa l’aveva gettato nel 1992.
È nel duello tra il pupillo della Destra Cristiana e il formidabile bullo della Religione
Secolarista dell’eccezionalismo materialista americano, The Donald, che il Terzo Uomo,
Marco Rubio, spera di intrufolarsi. Dei tre, sicuramente il più telegenico, meno urticante
dell’arrogante avvocato o dell’istrionico miliardario, è il più vicino alla tradizione
Repubblicana, ripresentata in salsa latina. Coetaneo di Cruz, che ha appena sei mesi più
di lui,40enne e più presentabile del fanatico crociato o del bullo Trump, Rubio è destinato
a prendere il posto lasciato vacante dai Bush, miserevolmente caduto prima ancora di
cominciare a correre, nel cuore non solo dell’establishment del Partito, ma dell’elettore
bianco di classe media, delle soccer mom, delle mamme che vagano nei sobborghi
accudendo ai figli e lavorando, dei finanziatori bruciati dalla nullità Jeb Bush.
E su di lui, colpevole, agli occhi degli estremisti, di avere cosponsorizzato una legge che
tentava di legalizzare gli immigrati senza documenti poi rinnegata, non pesano quei dubbi
costituzionale che invece fanno ombra a Cruz, nato cittadino americano, ma in Canada, a
Calgary. Un problema, per la Costituzione che chiede non solo la cittadinanza per sangue,
ma anche per luogo e che Trump tornerà a usare. Come ha fatto, invano, in Iowa, dove
faceva tallonare l’avversario da un attore vestito da Giubba Rossa, come la famose
Guardie a Cavallo canadesi. Tanto per rammentare.
Da una lotta nel cuore della Grande Prateria, il triangolo repubblicano si sposta alla
battaglia nei sobborghi, dove il Vangelo più letto è il codice fiscale e le citazioni bibliche
pesano meno del parere del fiscalista. E in questo terreno Trump, che parla il linguaggio
del denaro, potrebbe trovare più ascolto, anche tra i pronipoti di Puritani che avevano da
bravi calvinisti, a dispetto della loro fama di moralisti, un occhio attentissimo alle finanze e
all’economia.
I sondaggi, sia tra i democratici sia tra i repubblicani, danno indicazioni proibitive per gli
inseguitori, assegnando a Trump tra i Repubblicani e a Sanders, figlio del vicino Vermont
anche se in realtà venuto da Brooklyn come il suo pesantissimo accento rivela, più di 20
punti percentuali di vantaggio. Ma scommettere sugli umori di questo Stato, così
demograficamente e socialmente diverso dall’Iowa, ma ancora etnicamente candido come
il suo panorama invernale con appena l’1,3% di afroamericani, è sempre un rischio. Qui si
voterà davvero per la prima volta, senza le stranezze delle assemblee, dei bigliettini, delle
monetine per assegnare delegati, dei gruppi raccolti nelle palestre sotto le insegne del
proprio leader come legionari senza preiscrizioni, dunque permettendo a chiunque di
votare per chi vuole anche nel partito opposto.
Solo se Trump dovesse essere battuto ancora, lui che ha fatto del mito del winner il credo
fondante della propria mistica, il New Hampshire potrebbe essere decisivo e sgonfiare la
sua cotonatura arancione. Ma per Cruz e per Rubio tutto sarà rimandato al tepore del Sud,
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a quella South Carolina dove la croce tornerà a parlare. E a dire se i Repubblicani
vorranno andare alla sfida finale di novembre guidati da un Bullo, da un Bello o da un Pio.
del 03/02/16, pag. 1/9
Con Bernie torna la politica
Primarie Usa. Alle radici del quasi pareggio alle primarie democratiche
in Iowa. Saranno scompaginati i piani clintoniani, specie se il risultato
dovesse ripetersi in New Hampshire. Ma il compito del
"socialdemocratico" Sanders resta titanico
Guido Moltedo
Yes, Bernie can, si potrebbe commentare così il risultato dei caucus in Iowa di lunedì,
riecheggiando il semplice e celebre slogan della prima campagna presidenziale di Barack
Obama del 2008: Yes, we can.
In realtà, per capire quel che è successo, sarebbe più appropriato replicare quello slogan
proprio come fu formulato allora, perché dietro Bernie Sanders, ancora più che otto anni
fa, il we, il noi, è davvero la ragione principale e il motore di questa sua straordinaria
affermazione, ancora più significativa perché conseguita di fronte alla poderosa, ricca e
sperimentatissima machine clintoniana. Il noi è la grande mobilitazione, soprattutto
giovanile, che è dietro il successo di un veterano della politica che, contro i luoghi comuni
correnti assurti a leggi inconfutabili, ha condotto e conduce coerentemente e
insistentemente una campagna elettorale di sinistra, di una sinistra schietta che per molti
aspetti non è più di casa neppure in Europa, neanche in quella di tradizione
socialdemocratica a cui pure Sanders si riferisce come modello.
Certo, il messaggio della lotta alle ingiustizie e alle diseguaglianze, della denuncia di una
«economia truccata», fa leva e suscita entusiasmo anche perché trova in Sanders un
consumato e persuasivo «messaggero». Lunedì sera, la folla dei sostenitori che
l’acclamava l’ha salutato con un corale we feel the bern. Andiamo sul dizionario dello
slang americano in continuo aggiornamento, l’Urban Dictionary, per tradurre: «Sentiamo il
bern», cioè l’illuminazione della logica e dei fatti di Bernie Sanders.
Con Sanders torna la politica, e vanno in fumo tutte le storie messe in giro dell’antipolitica
trionfante o, peggio, della confusione alimentata da commentatori ignoranti o in mala fede,
anche in Italia, che pongono specularmente sullo stesso piano il messaggio chiaro e,
appunto, logico della politica al servizio della giustizia sociale e il populismo demagogico di
personaggi inquietanti come Donald Trump che investono miliardi nelle paure e nelle
frustrazioni del ceto medio bianco e cavalcano i suoi sentimenti di rivalsa.
L’esito del voto in Iowa rappresenta una political revolution, come ha detto Sanders
commentando il «virtuale pareggio» ottenuto lunedì nel duello con Hillary Clinton, duello
divenuto davvero tale con la definitiva uscita di scena del terzo candidato democratico,
Martin O’Malley. Il senatore socialista e/o socialdemocratico, come egli si definisce, è
andato molto vicino alla vittoria, un obiettivo possibile martedì prossimo 9 febbraio in New
Hampshire, seconda tappa delle primarie presidenziali, dove Sanders è avvantaggiato
dalla prossimità di questo stato con il suo il Vermont, ed è quello che dicono tutti i più
recenti sondaggi che lo vedono in testa su Hillary con un ampio distacco.
In termini di delegati alla convention che si terrà a fine luglio prossimo a Filadelfia, il
bottino di Sanders in Iowa è di 21 voti contro i 23 di Hillary. In New Hampshire sono in
palio 24 delegati. Se si pensa ai 4764 delegati che comporranno la convention di Filadelfia
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convocata per conferire la nomination democratica, il compito di Sanders appare titanico.
Basti dire che quasi un quinto dei delegati, 713, lo è di diritto (parlamentari, governatori,
alti dirigenti del partito, esponenti emeriti come gli ex-presidenti e vicepresidenti), e di
questi 347 si sono già schierati a favore di Hillary, solo tredici per Bernie. 350 devono
ancora decidere, alcuni potranno anche cambiare parere, ma è già ampiamente evidente
che l’apparato democratico sostiene decisamente Clinton.
Eppure, come anche accadde nel 2008, proprio questa smaccata potenza di fuoco che
esibisce Clinton – unita alla notevole disponibilità di soldi e di reti organizzative locali – può
alimentare quel sentimento diffuso nei suoi confronti, della candidata «inevitabile», calata
dall’alto, voluta e sostenuta dagli interessi costituiti e dunque imposta alla base elettorale
delle primarie.
Sanders diventa così il campione della partecipazione dal basso, incarna una possibile
alternativa. Ed è interessante anche per questo il dato dei nuovi elettori, in gran parte
giovani, che in maggioranza hanno votato per lui in Iowa.
Psicologicamente è anche importante l’impatto di una partenza ad alta carburazione.
Nell’immediato è un elemento che scompiglia i piani clintoniani, specie se il risultato
positivo in Iowa dovesse essere confermato dal previsto successo in New Hampshire. A
quel punto l’aspirazione presidenziale di Sanders sarebbe presa in seria considerazione e
non sarebbe più trattata con condiscendenza dall’establishment e dai media come
l’effimera scommessa di un vecchio politico sostenuto da giovani idealisti. D’altra parte, il
circo mediatico è incredibilmente interessato a che la competizione democratica sia una
vera corsa e che duri il più possibile.
Sulla sorte di Sanders pesa la sua scarsa presa su blocchi elettorali importanti per il
Partito democratico, come quello africano americano e quello ispanico. Inoltre, quando la
corsa si intensificherà e arriverà negli stati che contano davvero in termini di delegati alla
convention, il divario di mezzi finanziari e organizzativi nei confronti di Hillary si farà molto
sentire.
Naturalmente, peserà sull’orientamento degli elettori democratici, nelle prossime tappe
delle primarie, quanto succederà nel campo repubblicano. Chi emergerà determinerà
anche in una certa misura la dinamica nella corsa democratica. E viceversa. I due campi
s’influenzano reciprocamente. In quello repubblicano, prima dell’inizio delle primarie, si
dava per scontato che Hillary sarebbe stata la candidata democratica e, sulla base di
quell’assunto, avrebbe guadagnato più punti chi avesse picchiato più duro nei suoi
confronti e si fosse presentato come quello più adatto a sconfiggerla. Anche per questo
Donald Trump è cresciuto nei sondaggi, come un perfetto anti-Hillary. La sua esibita
misoginia ne è un evidente conferma.
In casa repubblicana, il voto dell’Iowa non chiarisce il reale stato delle cose. Ormai si è
talmente abituati a valutare gli esiti delle competizioni sulla base delle previsioni che si
considera Ted Cruz il front runner e Trump in caduta. Può essere, ma c’è anche da fare i
conti con Marco Rubio. Tutti e tre, nel voto dell’Iowa, hanno superato il venti per cento e
sono separati tra loro da pochi punti. Si profila così una corsa a tre, tre candidati nessuno
dei quali in sintonia con l’apparato del Grand Old Party. L’unico che potrebbe rientrare nei
ranghi ed essere sostenuto è Rubio, ma paradossalmente gli manca l’appoggio del clan
Bush. Jeb è fuori corsa, ormai, potrebbe spostare sul suo ex-figlioccio, Marco, i suoi voti e
soprattutto il suo consistente patrimonio di fondi elettorali, ottenuto quando i potentati vicini
al GOP puntavano su di lui. Ma poiché i Bush sono convinti che proprio la candidatura di
Rubio sia all’origine della disfatta di Jeb, molto difficilmente dirotteranno sul giovane
senatore della Florida gli oltre cinquanta milioni di dollari rimasti in cassa per la sua
campagna finita in miseria.
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L’inizio di queste primarie – una maratona con altre 25 tornate elettorali in 49 stati che si
concluderà a metà giugno – conferma che le organizzazioni partitiche, intrecciate in
America con la forza dei clan e delle dinastie, per quanto ancora potenti, cedono terreno a
movimenti dal basso e ad aggregazioni nuove, al punto da esserne perfino soppiantate.
Quella che fino a non molto tempo fa sarebbe stata la sfida più ovvia – Clinton-Bush – è
già fuori scena. Forse Hillary riuscirà a tenere duro e alla fine a diventare presidente. Ma
se questo avverrà non sarà per certi suoi punti di forza legati al potere ma perché alla fine
sarà percepita – in un confronto con un Cruz o un Trump – come simbolo dell’ultima diga
alla barbarie, anche in quanto donna e anche avendo necessariamente fatto propri punti
importanti del «berniesmo».
del 03/02/16, pag. 3
Dalle retrovie avanza la sorpresa Rubio
«Sono l’unico che può arrivare in fondo»
di Massimo Gaggi
Il terzo posto lancia il giovane senatore repubblicano della Florida. «Il
mio turno è adesso»
DES MOINES (Iowa) «Mi hanno attaccato in tutti i modi. Dicevano che non ho i capelli
abbastanza grigi, che le mie scarpe hanno i tacchi troppo alti. Mi hanno detto che non
avevo chance, che dovevo mettermi in fila e aspettare il mio turno. Ma il mio turno è
adesso. Sono l’unico che può sbarrare la strada a Hillary Clinton e che può rilanciare
l’America dopo i danni fatti da Obama». A sentirlo ieri sera, prima ancora della fine dello
scrutinio delle schede in Iowa, Marco Rubio sembrava un presidente «in pectore», più che
un candidato arrivato terzo a una primaria importante ma «di periferia».
Donald Trump, classificatosi secondo davanti a lui, si è limitato a un saluto di due minuti:
ringraziamenti agli elettori con un sorriso forzato («grazie comunque, comprerò una
fattoria in questo Stato»), qualche menzogna («non avevo mai pensato di vincere qui»,
dimenticando tutti i suoi «we will win, and win big!») e la partenza per il New Hampshire
dove sondaggi più favorevoli annunciano un’ampia vittoria.
Ma è il senatore della Florida ad avere ottimi motivi per festeggiare e presentarsi come il
candidato conservatore più credibile per la corsa alla Casa Bianca. Il Partito repubblicano
è terrorizzato dall’ascesa di Trump, corpo estraneo nella storia del Grand Old Party, ma
anche da quella dell’integralista Ted Cruz che vuole trasformare le battaglie politiche in
crociate. Così da tempo i leader studiano i candidati «eleggibili»: specie Jeb Bush e Rubio,
oltre ai governatori del New Jersey e dell’Ohio, Chris Christie e John Kasich.
Ma Jeb, che doveva essere la guida dei moderati, non ha mai preso quota, e gli altri
hanno sempre stentato nei sondaggi. Rubio, che in Iowa non aveva molti supporter né ha
investito molto (a differenza di Cruz che qui ha schierato 12 mila volontari), sperava di
arrivare terzo, limitando i danni. E terzo è arrivato, ma il suo distacco da Trump è così
limitato (un punto percentuale, stesso numero di delegati conquistati) da giustificare
un’impennata delle sue ambizioni: è il candidato che fin qui ha insistito di più sui
programmi, quello con una visione più completa (anche se piuttosto marziale) del ruolo
dell’America nel quadro internazionale. E anche il leader che ha attaccato con più durezza
ed efficacia Hillary Clinton e Barack Obama.
È anche per questo che Rubio piace all’establishment repubblicano che da oggi penserà
sempre di più a lui. Gli altri candidati moderati in Iowa non sono andati oltre il 2-3% dei
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voti. La corsa è appena iniziata, vedremo tanti colpi di scena. Possibili già in New
Hampshire (al voto martedì prossimo) dove Rubio e Jeb Bush si presentano appaiati nei
sondaggi (10% ciascuno). Per il figlio e fratello di presidenti una chance per tornare in
gara, forse non ancora l’ultima. Anche Kasich sembra deciso a tenere duro mentre
Christie, con casse elettorali quasi vuote, rischia di gettare la spugna se non arriva
un’impennata.
Da oggi per Rubio inizia un’altra partita: ha molte chance in più, ma verrà attaccato più
duramente. Fin qui lo aveva fatto soprattutto la campagna di Bush, puntando su un paio di
punti deboli: l’accordo bipartisan sottoscritto da Marco nel 2013 per una sanatoria degli
immigrati illegali (mai divenuta legge) e una bugia sulla storia del padre che non scappò
da Cuba nel 1959 per le persecuzioni di Fidel Castro, ma andò via nel ‘56 quando al
potere c’era il dittatore Fulgencio Batista. Quelle della campagna di Jeb sono carezze
rispetto alle cannonate che Trump sparerà contro Rubio.
del 03/02/16, pag. 6
Case palestinesi demolite in massa
Cisgiordania occupata. I bulldozer dello Stato ebraico sono entrati in
azione a Khirbet Jenbah lasciando 12 famiglie (circa 80 persone) senza
riparo. Si tratta del provvedimento più ampio eseguito in quella zona
negli ultimi dieci anni.
Michele Giorgio
GERUSALEMME
L’esercito israeliano ha revocato il blocco di Ramallah attuato da domenica pomeriggio
fino a ieri mattina, in risposta all’attacco compiuto da un agente della polizia palestinese
(poi ucciso) vicino alla colonia di Bet El (tre soldati feriti). La situazione è migliorata per i
movimenti della popolazione civile ma la tensione resta alta. In quella zona un ragazzo
palestinese di 14 anni ieri è stato ferito gravemente dal fuoco di soldati israeliani a Jabal al
Tawil, una località a ridosso dell’insediamento colonico di Psagot divenuta nelle ultime
settimane uno dei principali punti di scontro tra militari e giovani palestinesi.
Si intensificano anche le demolizioni di case palestinesi. Le forze armate israeliane hanno
distrutto ieri 24 abitazioni a Khirbet Jenbah, a sud di Hebron lasciando 12 famiglie (circa
80 persone) senza riparo. Si tratta del provvedimento più ampio eseguito in quella zona
negli ultimi dieci anni. E a questo potrebbero seguire presto abbattimenti di altre case
“illegali” anche Khirbet al Halawah. Con ogni probabilità dopo il 9 febbraio, data entro la
quale la Corte Suprema israeliana farà conoscere la sua decisione rispetto al ricorso
presentato dai legali delle famiglie palestinesi minacciate dal provvedimento. Tutta
quest’area è al centro di uno scontro legale che dura da diversi anni, causato anche dalla
presenza della cosidetta “zona di tiro 918”, un enorme poligono di tiro usato dall’Esercito,
e di insediamenti ebraici che ospitano in prevalenza i coloni israeliani più estremisti. Tutti i
1.500 palestinesi che abitano nella “zona di tiro 918” rischiano l’espulsione. Ieri due case
palestinesi “abusive” sono state demolite anche a Gerusalemme Est.
La ripresa, forte, delle demolizioni di case palestinesi “abusive” secondo alcuni sarebbe
una risposta di Israele alle recenti uccisioni di alcuni coloni ebrei a sud di Hebron. E’
possibile che la determinazione con la quale ieri le forze israeliane hanno abbattuto le
case di Khirbet Jenbah, rappresenti anche un messaggio all’Unione europea. In questa
zona come in altre dell’Area C, l’Ue ha finanziato progetti per migliorare le condizioni di
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vita della popolazione palestinese suscitando le proteste del governo Netanyahu. Mentre
chiede a palestinesi e coloni il rispetto della legalità, Israele non tiene conto delle leggi
internazionali che vietano la costruzione di insediamenti colonici. Non solo. Spesso i coloni
violano la stessa legge israeliana pur di raggiungere i loro obiettivi. Un giornalista
israeliano, Raviv Drucker, ha raccontato ieri sera in un servizio per la sua tv, Canale 10,
che dietro all’edificazione di 14 di 15 avamposti ebraici ci sono documenti falsificati e
truffe. Per anni, ha denunciato Drucker, la polizia israeliana non ha mosso un passo per
accertare falsi nelle vendite di terre da parte di palestinesi. Una società dal nome arabo (al
Watan) coinvolta in diverse transazioni era gestita in realtà da un esponente del
movimento dei coloni molto ben visto nell’ufficio di Netanyahu.
del 03/02/16, pag. 15
Gaza L’inverno senza gas gela anche il futuro
Famiglie prive di riscaldamento per la penuria di energia nel territorio
governato da Hamas. Eppure, poco al largo, un giacimento sottomarino
potrebbe assicurare il benessere: il conflitto rende tutto difficile
dal nostro inviato a Gaza
Davide Frattini
L a «Dolphin I» sta spiaggiata sulla sabbia grigia del porto di Gaza, arenata come le
speranze dei palestinesi di arricchirsi con quel tesoro a 850 metri di profondità nel
Mediterraneo. Sedici anni fa Yasser Arafat è salito su questa nave, superando il mal di
mare e rischiando di perdere la keffiah nel vento, per accendere la fiaccola con il primo
combustile portato in superficie dai test. Là sotto — sostengono gli ingegneri britannici del
gruppo BG che aveva vinto la concessione per sfruttare Gaza Marine — ci sono 32
miliardi di metri cubi in gas naturale, valore stimato quattro miliardi di dollari. «È un dono di
Allah al nostro popolo. Fornirà le fondamenta per la nascita di uno Stato», proclama
Arafat. Poche settimane dopo scoppia la seconda Intifada e a prosperare è solo la
violenza.
Mohammed Jaja mostra le bombole arrugginite, sono vuote come le stanze di questa casa
buia anche quando c’è il sole, campo rifugiati di Shati — la Spiaggia — un nome che in
inverno significa lo sfavore del vento gelido dal mare. Sono due mesi che aspetta di
poterne riempire almeno quattro, ha pagato in anticipo i 35 shekel (8 euro) a bombola, un
patrimonio a Gaza dove il 40 per cento della popolazione sopravvive sotto la soglia di
povertà, quegli 1,90 dollari al giorno fissati dalla Banca Mondiale per contabilizzare la
miseria. Mohammed faceva l’imbianchino, è disoccupato (come il 43,9 per cento degli
abitanti), in famiglia sono in nove. «Tiriamo avanti con questo fornello a kerosene: lo
usiamo per cucinare, per provare a scaldarci, per bollire l’acqua e lavarci». Il gas da
cucina manca ad Ahmed e a tutta la Striscia, non ne arriva abbastanza, quel poco viene
usato anche per far marciare le auto, di benzina e gasolio ce ne sono ancora meno.
Anche nell’ufficio di Ahmed Abu Ala Alamrain, che pure lavora all’altisonante Autorità per
l’Energia e le Risorse naturali, l’elettricità va e viene. L’unica centrale di Gaza riesce a
funzionare a metà del potenziale e comunque a pieno regime potrebbe coprire solo il 22
per cento delle esigenze, il resto viene fornito da Israele (26 per cento) e dall’Egitto (6 per
cento): totale 43 per cento. Quel che manca significa sei-sette ore di elettricità al giorno
per 1,8 milioni di persone. O lasciando da parte i numeri: vivere al buio, al freddo d’inverno
e al caldo asfissiante d’estate. «La centrale funziona a gasolio — spiega Alamrain — e per
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i rifornimenti dipendiamo da Israele, che ci schiaccia con l’embargo, e dall’Autorità
palestinese: a Ramallah sborsiamo una tassa sul combustibile, negli ultimi sei mesi era
stata abolita, adesso vogliono il 20 per cento del valore. Non tengono conto di quel che già
abbiamo pagato per il gasolio non ancora ricevuto».
Altri dirigenti sono più espliciti: «La centrale è una calamità per Gaza, se non fosse stata
costruita potremmo importare l’elettricità direttamente dalla rete israeliana e ci costerebbe
meno». Perché il governo palestinese e il presidente Abu Mazen — accusano dalla
Striscia — sfruttano l’impianto (che nei 59 giorni di guerra dell’estate 2014 è stato
bombardato dagli israeliani) e la distribuzione di gasolio come mezzi di pressione politica
su Hamas, il movimento fondamentalista che nel 2007 ha tolto il controllo di Gaza ad Abu
Mazen con un colpo militare. Da Ramallah replicano che Hamas non consegna i soldi
raccolti con le bollette (in realtà l’80 per cento delle famiglie non paga).
La soluzione starebbe a meno di trenta chilometri al largo. Già Tony Blair, quando era
inviato del Quartetto, progettava di far passare la sua «road map» sotto il Mediterraneo.
L’ex premier britannico resta convinto che i guadagni prodotti dal giacimento di gas
naturale Gaza Marine possano rilanciare l’economia palestinese e il processo di pace. È
quello che scrive anche il Parlamento europeo in un dossier dell’aprile 2014: «Lo
sfruttamento del bacino rappresenterebbe un vantaggio per entrambi. I palestinesi
potrebbero finalmente ridurre la dipendenza dagli aiuti internazionali, gli israeliani non
dovrebbero più fornire l’energia per Gaza e la Cisgiordania rischiando di non essere
pagati».
Finché è stato inviato del Quartetto, Blair ha spinto il gruppo BG a negoziare con i governi
israeliani e il presidente Abu Mazen per far partire il progetto, un gasdotto avrebbe
trasportato il combustibile alle raffinerie del porto di Ashkelon e da lì sarebbe stato
distribuito ai palestinesi e venduto allo Stato ebraico. In mezzo ci sono state un paio di
guerre con Israele che hanno bloccato le trattative e in ogni caso Hamas si è opposta:
«Sarebbe un furto, una moderna dichiarazione Balfour che svende una risorsa nazionale
all’occupante», ha attaccato Ziad Zaza, tra gli economisti del movimento. È una risorsa
palestinese da quando gli accordi di Oslo che i fondamentalisti non riconoscono l’hanno
garantita a Yasser Arafat e all’Autorità di Ramallah, intesa confermata da Ehud Barak nel
1999.
Adesso che le pressioni vengono dal Qatar e che la crisi energetica di Gaza diventa
sempre più grave, i leader Hamas potrebbero cambiare idea. Mohammed al-Hamadi,
ambasciatore dell’emirato e incaricato della ricostruzione nella Striscia, ha rilanciato l’idea
di una condotta con cui gli israeliani riforniscano la centrale elettrica per ora con il gas
trovato al largo delle loro coste, sempre nel bacino del Levante. L’obiettivo per il futuro è
cominciare l’estrazione da Gaza Marine — secondo gli esperti ci vorrebbero 30 mesi — e
le eccedenze sarebbero vendute: tra i compratori ci sarebbe già la Giordania. Benjamin
Netanyahu, il primo ministro israeliano, chiede in cambio assicurazioni che i profitti siano
gestiti da Abu Mazen e non finiscano ad Hamas. «Altrimenti servono solo a pagare la
prossima guerra contro di noi».
del 03/02/16, pag. 5
Tornado e reparti speciali. Così l’Italia
prepara l’intervento anti-Isis in Libia
Prende forma la coalizione internazionale. Ma prima serve un governo
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Fabio Martini
roma
Il pressing degli americani su Roma dura da mesi, Matteo Renzi ha già fatto sapere alla
Casa Bianca che l’Italia non ha alcuna intenzione di entrare in guerra in Libia, eppure nella
trattativa in corso tra gli Usa e i Paesi alleati nella coalizione anti-Isis si sta facendo strada
un nuovo punto di caduta, sul quale si sta trattando ancora, ma che rappresenterebbe una
svolta di portata strategica: se e quando il nuovo governo libico sarà operativo, a quel
punto partirebbero le procedure per un intervento anti-Isis ma guidato, secondo il modello
Iraq, dagli stessi libici e al quale si aggregherebbero unità speciali internazionali, con la
partecipazione di Stati Uniti, Italia, Gran Bretagna, Olanda, Francia e, possibilmente,
anche di alcuni Paesi arabi.
LE UNITÀ SPECIALI
Ed esattamente dentro queste unità speciali- ecco il punto di svolta - troverebbero spazio
le eccellenze militari italiane: Tornado e reparti speciali di piccole dimensioni ma di forte
impatto operativo. Certo, sarebbe un impegno gravoso per l’Italia e in particolare per
Matteo Renzi che, pur conoscendo i vincoli politici e militari con gli Stati Uniti, negli ultimi
mesi ha tenuto il punto, in questo coerente con la linea non-interventista e
fondamentalmente pacifista che ha connotato la politica estera italiana nel dopoguerra.
Oltretutto l’accordo è più ampio e prevede interventi mirati di varia natura ed è
esattamente a questo «pacchetto» che si riferiva alcuni giorni fa il «New York Times»,
quando raccontava sia pure in termini generali di «un nuovo fronte» in Libia, aperto dagli
americani, affiancati da inglesi, francesi e italiani.
LA COALIZIONE
Certo, quando ci sono di mezzo le armi, quando ci sono soldati da mandare a combattere
e quando ci sono catene di comando da affinare, le trattative si prolungano sino all’ultimo
minuto utile. E infatti dura da mesi e - sinché un governo non si sarà insediato in Libia durerà ancora il negoziato tra gli Stati Uniti e i suoi alleati nella coalizione anti-Isis per
decidere cosa fare in quel Paese così insidiato, ma le prime, attendibili indiscrezioni sui
compromessi già raggiunti sono trapelate da sherpa di varie nazionalità, ai margini della
Conferenza organizzata alla Farnesina dal ministro degli Esteri Paolo Gentiloni.
ISIS E AL QAEDA
Sono due i punti di partenza della vicenda. Il primo risale ad alcuni mesi fa e riguarda la
presenza sul territorio libico delle milizie dello Stato islamico, tra Sirte verso i terminal
petroliferi di Sidra, verso Misurata e in Tripolitania e anche di nuclei qaedisti schierati in
Cireanica occidentale ma in espansione. Da mesi gli americani premono su Roma per una
presenza italiana di tipo militare.
Renzi ha sempre risposto picche, anche a prescindere dall’impegno americano, che
hanno sempre escluso un proprio impegno a terra. Ma nelle trattative all’interno della
coalizione e anche per effetto di diversi incontri italo-libici, è maturata una prima intesa: gli
italiani potrebbero fornire personale militare per l’addestramento della polizia e
dell’esercito ma anche per la protezione di obiettivi sensibili (a cominciare dagli aeroporti).
LONDRA E ROMA LEADER
E soprattutto partecipare ad azioni di unità speciali, di terra e di aria, agli ordini di ufficiali
libici. Una coalizione con due Paesi-leader, Italia e Gran Bretagna e dentro la quale i gli
altri Paesi darebbero un apporto diverso: gli americani fornirebbero droni, aerei e
intelligence; i tedeschi si sono ritagliati un ruolo nell’addestramento militare, in Tunisia. I
francesi si concentrerebbero sul confine sud, quello che si affaccia sul Mali dove si
concentano gli interessi di Parigi.
MODELLO IRAQ
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Naturalmente le incognite sono ancora tante. Anzitutto lo strumento giuridico-diplomatico:
si immagina anche in questo caso di seguire anche in questo caso il modello Iraq, che ha
“chiamato” la coalizione, bollando l’Isis come «una organizzazione terroristica globale». E
se il piano principale dovesse incontrare difficoltà insormontabili, scatterebbe il piano b:
raid aerei sui quartier generali terroristi.
Del 3/02/2016, pag. 6
“Schiacceremo l’Is”
Gli Usa aumentano il budget: 7,5 miliardi
Pressing sugli alleati
A Roma vertice della coalizione contro il Califfato Kerry: “Battaglia
lunga, serve l’impegno di tutti”
VINCENZO NIGRO
«Cercheremo di schiacciare l’Is in ogni angolo, ma questa guerra sarà lunga, ci vorrà del
tempo, abbiamo già provato a farlo per smantellare Al Qaeda, è un impegno più lungo per
tutti». Questo è John Kerry, il Segretario di Stato americano, ieri alla conferenza di Roma
contro l’Is. Nel frattempo il suo collega alla Difesa Ashton Carter a Washington fa qualcosa
che serve a “misurare” l’impegno raddoppiato degli Usa contro i miliziani dello Stato
Islamico: nel nuovo bilancio il Pentagono aumenta i fondi contro il gruppo islamista del 50
per cento, salendo a 7,5 miliardi di dollari.
Per un giorno fa tappa a Roma la grande alleanza internazionale che in Iraq e Siria (e
presto in Libia) combatte il “Daesh”. Alla Farnesina 25 ministri degli Esteri per una
conferenza che serve a confermare la volontà politica di Stati che hanno interessi e
sensibilità diverse nella guerra contro il gruppo militante sunnita. In Siria e Iraq ci sono
stati molti successi, dice il ministro degli Esteri italiano Paolo Gentiloni: «Abbiamo sottratto
il 40% per cento del territorio che il Daesh aveva conquistato in Iraq, e il 20 % in Siria,
stiamo andando avanti ». Kerry ringrazia Roma per il suo contributo, anche se le richieste
di nuove truppe vengono confermate a tutti: «L’Italia è stata grandiosa, il suo impegno
nella coalizione è uno dei più grandi in termini di persone, di contributi finanziari e militari
in Iraq e, in particolare, per il suo ruolo di leadership in Libia».
Proprio in Libia lo Stato islamico continua ad espandersi pericolosamente, ma per il
momento la coalizione guidata dagli Usa non può intervenire militarmente. «Ci vuole un
governo di accordo nazionale dei libici», ripete Gentiloni. E così il suo collega francese
Laurent Fabius. La Francia nelle utime settimane era stata protagonista di una richiesta di
anticipare i tempi di una reazione militare di fronte all’espansione dell’Is in Libia. Aveva
trovato un parere diverso dell’Italia, che aspetta un governo di unità nazionale in Libia per
provare a unificare il maggior numero possibile di milizie prima di lanciare un’offensiva
contro l’Is che sia innanzitutto libica. È un gioco di equilibri: se si aspetta troppo, i danni
dell’Is in Libia saranno assai pesanti. Se si anticipa l’attacco militare straniero, chissà
quante delle milizie islamiste non ancora schierate con il “califfo” Al Baghdadi correranno a
combattere contro l’Occidente invasore. Per questo ieri Fabius ha ripetuto molto
chiaramente che, anche rispetto agli allarmi lanciati dal suo premier Valls e dal ministro
della Difesa Le Drian, Parigi ha deciso di seguire il processo politico. E di ridurre le
possibili differenze con l’Italia. «L’Italia ha preso una sorta di leadership in Libia, come è
logico che sia», dice Fabius, «andiamo nella stessa direzione per favorire la nascita di un
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governo di unità nazionale. È totalmente inesatto parlare di un intervento militare
francese». Il negoziato per far votare il governo di unità nazionale è talmente complicato
che questa mattina da Tobruk arriverà a Roma il presidente del parlamento della Libia
orientale, quello sostenuto dagli egiziani e messo sotto tutela dai miliziani del generale
Khalifa Haftar. Il presidente si chiama Agila Saleh e alla Farnesina incontrerà Kerry e
Gentiloni. Agila Saleh deve convocare il parlamento di Tobruk e portarlo a votare la fiducia
al nuovo governo. Il premier Serraj non ha voluto nel governo come ministro della Difesa il
generale Haftar. Che però è quello che tiene sotto tutela Agila Saleh, e che minaccia molti
dei deputati di Tobruk. Kerry e Gentiloni dovranno convincere Saleh a far votare dal suo
parlamento un governo che non comprende Haftar.
Del 3/02/2016, pag. 6
LA STRATEGIA. IL PENTAGONO TEME LE MIRE DI MOSCA
“Spese di difesa da quadruplicare in Europa”
IL Pentagono vuole quadruplicare la spesa per la difesa in Europa. Il ministero della Difesa
americano ha intenzione di riorientare le spese di bilancio per coprire quelle che il
segretario Ashton Carter considera le “principali emergenze” che gli Stati Uniti sono
chiamati ad affrontare, minacce per il paese maggiori di quella rappresentata dai gruppi
estremisti quali lo Stato Islamico: gli interventi militari russi aldilà dei suoi confini e i
progressi tecnologici e militari di Mosca e Pechino. Lo ha anticipato ieri il Washington
Post, citando funzionari che anticipano le proposte di bilancio del Pentagono per l’anno
fiscale 2017. I progressi russi e cinesi in materia di innovazione militare «impongono una
competizione che dovrà essere affrontata nel prossimo decennio», ha dichiarato un alto
funzionario della Difesa citato dal giornale. Circa la metà dei nuovi investimenti che Carter
si appresta a proporre è legato a ciò che viene vista come una crescente minaccia da
parte di Mosca, dove il presidente russo Vladimir Putin ha dimostrato la sua volontà di far
ricorso alla forza militari, dall’Ucraina alla Siria. Se approvato dal Congresso, il piano di
spesa quadruplicherà i fondi destinati a sostenere la presenza militare americana in
Europa nell’ambito di un’iniziativa voluta da Obama sulla scia della mossa russa in
Ucraina nel 2014. La “European Reassurance Initiative” verrebbe rafforzata ed ampliata
grazie ad una spesa di 3,4 miliardi nel 2017.
La richiesta di 3,4 miliardi di dollari per armi ed equipaggiamenti destinati alle forze in
Europa equivale a quattro volte lo stanziamento attuale pari a 789 milioni di dollari, quanto
serve, fra le altre cose, a mantenere in modo permanente militari dell’ordine di una
brigata nell’est Europa, scrive il New York Times.
Lo stanziamento complessivo chiesto dalla Casa Bianca per il Pentagono il prossimo anno
ammonta a 580 miliardi di dollari e include anche un aumento del 35 per cento, sette
miliardi di dollari, per il contrasto dell’Is. «E’ una risposta a lungo termine a un nuovo
ambiente della sicurezza in Europa. Riflette una nuova situazione, con la Russia diventata
un attore più difficile», spiegano fonti della Difesa al quotidiano di New York.
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del 03/02/16, pag. 25
Un piano globale contro il terrorismo e
l’estremismo violento
Grave minaccia È una sfida che richiede una risposta comune, e ci
obbliga ad agire in modo da risolvere i problemi, piuttosto che
moltiplicarli
Ban Ki Moon
L’ estremismo violento rappresenta un attacco diretto alla Carta delle Nazioni Unite e una
grave minaccia per la pace e la sicurezza internazionale. Gruppi terroristici come Daesh,
Boko Haram e altri hanno rapito senza scrupolo alcuno giovani ragazze, hanno privato
sistematicamente le donne dei loro diritti, hanno distrutto istituzioni culturali, hanno distorto
i valori di pace delle religioni, e hanno ucciso brutalmente migliaia di innocenti in tutto il
mondo. Questi gruppi sono diventati un’attrazione per i combattenti terroristi stranieri, che
sono facile preda di appelli semplicistici e illusori canti di sirena.
La minaccia dell’estremismo violento non si limita ad una sola religione, ad una singola
nazionalità o ad un solo gruppo etnico. Oggi, la maggior parte delle vittime è rappresentata
da musulmani. È dunque una sfida che richiede una risposta comune, e ci obbliga ad agire
in modo da risolvere i problemi, piuttosto che moltiplicarli. Molti anni di esperienza hanno
mostrato che politiche miopi, leadership fallimentari, approcci eccessivamente duri e
un’esclusiva attenzione alle misure di sicurezza insieme ad una totale mancanza del
rispetto dei diritti umani, hanno spesso contribuito a peggiorare la situazione. Non
dimentichiamolo mai: i gruppi terroristi non cercano soltanto di scatenare azioni violente,
ma anche di provocare reazioni aspre. Occorrono quindi sangue freddo e buon senso.
Dobbiamo evitare di essere guidati dalla paura o di lasciarci provocare da chi cerca di
sfruttarla. Contrastare l’estremismo violento non deve essere controproduttivo.
La settimana scorsa ho presentato all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite un Piano
d’azione per prevenire l’estremismo violento, che adotta un approccio pratico e
comprensivo per contrastare le cause di questa minaccia. Il Piano si concentra in
particolare sull’estremismo violento che sfocia nel terrorismo, presentando più di settanta
raccomandazioni per un’azione concertata a livello globale, regionale e nazionale e basata
su cinque punti interconnessi:
1) Prevenzione innanzitutto. La comunità internazionale ha il diritto di difendersi da questa
minaccia con mezzi legali, ma occorre concentrarsi in particolare sulle cause
dell’estremismo violento se vogliamo risolvere il problema nel lungo periodo. Non c’è una
via unica che conduce all’estremismo violento. Tuttavia sappiamo che l’estremismo ha
terreno fertile quando i diritti umani vengono violati, lo spazio politico è ristretto, le
aspirazioni a una maggiore inclusione vengono negate, e quando troppe persone —
specialmente i giovani — conducono vite prive di senso e di prospettiva. Come vediamo in
Siria, Libia e altrove, gli estremisti violenti rendono conflitti già di per sé irrisolti e prolungati
ancora più difficili da gestire. Conosciamo anche gli elementi chiave per il successo:
buona capacità di governo, stato di diritto, partecipazione politica, educazione di qualità,
lavoro dignitoso, pieno rispetto dei diritti umani. Dobbiamo fare uno sforzo particolare per
arrivare ai giovani e riconoscerne il potenziale di costruttori di pace. Anche la tutela e
l’emancipazione delle donne devono essere al centro della nostra risposta.
2) Una leadership basata su principi e istituzioni efficaci.Le ideologie nocive non nascono
dal nulla. Oppressione, corruzione e ingiustizia alimentano il risentimento. Gli estremisti
sanno come coltivare l’alienazione. Questo è il motivo per cui ho sollecitato i leader a
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lavorare duro per costruire istituzioni inclusive e responsabili di fronte alle persone.
Continuerò a chiedere loro di prestare ascolto alla voce dei loro popoli e quindi di agire.
3) La prevenzione dell’estremismo va di pari passo con la tutela dei diritti umani. Troppo
spesso, le strategie nazionali di lotta al terrorismo non hanno seguito un processo corretto
intaccando anche la tutela dello stato di diritto.Definizioni sbrigative di terrorismo o di
estremismo violento sono spesso utilizzate per criminalizzare le azioni legittime di gruppi
di opposizione, organizzazioni della società civile e difensori dei diritti umani. I governi non
dovrebbero utilizzare queste etichette approssimative come pretesto per attaccare o
mettere a tacere le critiche. Ancora una volta, gli estremisti violenti cercano
deliberatamente di incitare questo tipo di reazioni eccessive. Non dobbiamo cadere nella
trappola.
4) Un approccio a tutto campo. Il Piano propone un approccio onnicomprensivo. Occorre
abbattere le separazioni tra pace e sicurezza, sviluppo sostenibile, diritti umani e attori
umanitari a livello nazionale, regionale e globale — e anche all’interno delle Nazioni Unite.
5) L’impegno delle Nazioni Unite. Intendo rafforzare l’approccio delle Nazioni Unite in
quanto sistema a sostegno degli sforzi degli Stati membri per affrontare le cause
dell’estremismo violento. Il Piano resta soprattutto un appello urgente all’unità e all’azione
che cerca di far fronte a questo flagello in tutta la sua complessità. Insieme, impegniamoci
a dare vita a una nuova forma di cooperazione globale per prevenire l’estremismo
violento.
Segretario Generale dell’Onu
Del 3/02/2016, pag. 9
Lotta al terrorismo gli intellettuali contro
Hollande
Da Piketty a Cohn-Bendit appello su “Le Monde” “Parlamentari, non
cambiate la Costituzione”
ANAIS GINORI
«Parlamentari, in nome delle libertà, rifiutate questo testo! ». La mobilitazione contro la
revisione costituzionale voluta da Hollande cresce di giorno in giorno.
L’ultimo attacco viene da un gruppo di intellettuali di sinistra che ha pubblicato un appello
su Le Monde. «Pensate all’interesse supremo dei francesi prima di votare » chiedono, tra
gli altri, l’economista Piketty, lo scrittore Attali, l’ex europarlamentare Cohn-Bendit e il
sociologo Rosanvallon.
La riforma, in discussione all’Assemblée Nationale da qualche giorno, sta spaccando la
Francia. Annunciata subito dopo gli attentati del 13 novembre, la legge costituzionale
propone di inserire lo stato di emergenza nella Carta e di revocare la nazionalità ai cittadini
colpevoli di reati di terrorismo. È su questa cittadinanza “usa-e-getta” che si concentrano
le critiche. Il governo aveva deciso di applicare la norma solo alle persone con doppio
passaporto, salvo poi fare retromarcia per non essere accusato di discriminazione tra
francesi. Il riferimento alla binazionalità è scomparso ma rimane il problema di come fare
per non creare apolidi. Se l’attuazione pratica di questa misura rimane vaga, è il simbolo
che fa discutere. «Cosa sarebbe il mondo se ogni paese decidesse di espellere i suoi
connazionali giudicati indesiderabili? », si domanda l’ex ministro della Giustizia, Christiane
Taubira, nel pamphlet che ha appena pubblicato dopo le sue dimissioni causate proprio
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dalla riforma costituzionale. Sono tante le voci che si stanno levando contro il testo che
dovrebbe essere votato in prima battuta la settimana prossima, per poi passare al Senato.
«Il progetto del governo tratta in modo impari i francesi, apre la strada alla creazione di
apolidi e soprattutto inserisce nella Costituzione una minaccia per le nostre libertà
politiche, fondamento stesso della democrazia», scrivono i promotori dell’appello. A
preoccupare sono anche le condizioni per cui si potrebbe togliere la cittadinanza: non solo
reati contro la sicurezza dello Stato ma anche «l’attacco grave alla vita della Nazione».
Una definizione ambigua, secondo i firmatari dell’appello: «Significa aprire la porta alla
revoca di nazionalità anche per reati di opinione, attività sindacale o per l’opposizione a un
potere autoritario». La legge costituzionale dovrà essere approvata da deputati e senatori,
per poi essere presentata davanti al Congresso, ovvero le Camere riunite. Hollande dovrà
ottenere due terzi dei voti per far passare la riforma. Ma la fronda a sinistra aumenta.
Anche a destra, dove alcuni esponenti avevano invocato le misure proposte dal leader
socialista, si cominciano a levare voci di dissenso. François Fillon ha annunciato che non
sosterrà il progetto di revisione costituzionale perché «le leggi ci sono già». E il favorito
alla primarie a destra, Alain Juppé, si è schierato contro: «La lotta al terrorismo — ha detto
— si fa aumentando le forze dell’ordine e dando più potere all’intelligence».
Del 3/02/2016, pag. 7
Iraq, più soldati italiani: saranno mille
GIAMPAOLO CADALANU
L’ITALIA torna in forze in Iraq: siamo pronti ad aumentare l’impegno nella lotta contro gli
integralisti di Daesh, il sedicente Stato Islamico, anche se questo vorrà dire schierare forze
significative su una terra che già ha preteso tante vittime italiane. Sullo scenario iracheno,
fra Erbil, Bagdad, Kirkuk e le forze dell’Aeronautica basate in Kuwait sono già operativi
circa 700 militari, inquadrati nella “Coalition of the Willing” a guida americana su richiesta
del governo iracheno. A essi, visto che Bagdad ha finalmente sciolto le riserve affidando
alla Trevi di Cesena l’appalto per l’intervento di restauro urgente sulla diga di Mosul, si
affiancheranno i 450 previsti per la difesa dei lavori, e forse altri 130 operatori di soccorso,
con elicotteri attrezzati per il recupero dei servizi e un campo di asistenza. La decisione su
quest’ultimo contingente dovrebbe essere sancita venerdì nel Consiglio dei ministri, e
significa che sotto il tricolore opereranno quasi 1.300 militari, di cui 900-1000 in Iraq: il
contingente italiano diventerà così il secondo come consistenza nello schieramento
internazionale dopo quello statunitense, che conta 3.700 uomini. Visto il ruolo del nostro
Paese, fra le ipotesi in ballo a livello di coalizione c’è anche la nascita di un comando
italiano per l’Iraq, che verrebbe affidato a un generale di divisione.
L’attuale schieramento si articola in questo modo: a Erbil, nel Kurdistan, sono presenti 200
istruttori, in prevalenza paracadutisti, ora in via di avvicendamento con i bersaglieri. I
dettagli sulle brigate di appartenenza sono tenuti riservati dalla Difesa, per motivi di
sicurezza. Il compito di questi istruttori è fornire ai peshmerga l’addestramento di base,
indispensabile per un esercito che comprende anche combattenti di età matura, che
hanno diritto all’inquadramento militare in virtù del loro passato fra le file dei guerrieri curdi.
Sono pieni di motivazione, ma spesso poco preparati alla guerra, e le loro tecniche
d’assalto rudimentali espongono l’esercito peshmerga a perdite rilevantissime. Il fiore
all’occhiello del contingente italiano è soprattutto il corso per gli artificieri e sminatori,
preziosissimo per contrastare le bombe trappola di Daesh e salvare la vita ai combattenti
curdi. A Bagdad un centinaio di carabinieri si occupa dell’addestramento della polizia
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irachena, curando di garantire accanto alle tecniche di arresto e investigazione anche
elementi di tutela dei diritti umani. Il Pentagono insiste perché un contingente di carabinieri
sia spedito anche a Ramadi, di recente riconquistata dalle truppe governative. A Kirkuk,
nel nord, una decina di operatori delle Forze speciali si occupa di un addestramento
avanzato dei colleghi curdi, in vista di missione delicate dietro le linee dei fondamentalisti.
In Kuwait, infine, ci sono 400 persone dell’Aeronautica, impegnate a seguire le missioni
dei droni Predator e quelle dei caccia Tornado, per ora limitate a compiti di ricognizione.
Proprio perché Roma cambi i suoi “caveat” dando via libera ai bombardamenti, il
Pentagono preme sulle Forze Armate italiane: l’ultima occasione è stata una lettera del
segretario alla Difesa Ashton Carter, indirizzata alla collega Roberta Pinotti. Ma per il
momento il cambio di modalità operative non sembra nei programmi, tanto più che in
termini strategici la presenza di quattro bombardieri in più nello schieramento che colpisce
Daesh sembra ricoprire un ruolo molto modesto.
I costi dell’intera operazione Iraq saranno sicuramente alti: nella legge di stabilità è stato
accantonato uno stanziamento extra di 600 milioni, che però difficilmente potrà bastare se
contro Daesh si aprirà anche il fronte libico, con l’avvio delle operazioni sulle coste
mediterranee.
Del 3/02/2016, pag. 8
“Salviamo le città sotto assedio”
Sul tavolo di Ginevra il destino delle popolazioni allo stremo usate
anche come arma politica nelle trattative L’allarme dell’Onu e delle Ong.
Damasco dà l’ok al passaggio di aiuti umanitari verso Madaya
ANNA LOMBARDI
«A Madaya ci sono scheletri che camminano: è dai campi di concentramento che non
vedevamo nulla di simile». È la denuncia del segretario di Stato americano John Kerry,
che dal meeting della coalizione anti Is di Roma, ieri ha lanciato un appello ai negoziatori
riuniti a Ginevra nel tentativo di trovare una soluzione al conflitto siriano. «Affamare le
popolazioni come strumento di guerra è inaccettabile. Dai negoziati arrivi il via libera agli
aiuti umanitari ». Un appello che rispecchia i ripetuti allarmi dell’Onu e delle organizzazioni
non governative. Un primo passo è già stato fatto. Il regime siriano ha accettato di far
giungere aiuti alla città siriana tristemente nota di Madaya, il villaggio ostaggio dei ribelli
assediato da sei mesi dall’esercito di Damasco. Qui da dicembre ci sono state 46 morti per
fame, compreso Ali, l’adolescente spirato a metà gennaio sotto gli occhi dei soccorritori
dell’Unicef entrati per un giorno. «Un piccolo segno », l’ha definito Staffan De Mistura,
l’emissario dell’Onu che sta conducendo i negoziati. Ma potrebbe non bastare: visto che
secondo le stime delle Nazioni unite ci sono sono 486.700 persone prigioniere nei 15
villaggi strangolati dalla guerra fra Damasco e i ribelli, compresi luoghi di cui si parla meno
come Deir Ez-Zor, Daraya e Ghouta. Senza dimenticare le due città sciite di Kefraya e
Foua, dove pure già ci sono stati diversi morti per fame, assediate dai ribelli di Al Nousra.
La pratica medioevale di affamare il nemico per piegarlo è d’altronde tornata
prepotentemente in auge ovunque, usata come arma politica nelle trattative. A poco è
servita la condanna del Segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon che a metà
gennaio l’ha equiparato a un crimine di guerra. In Iraq, infatti, sono allo stremo i 60 mila
cittadini di Falluja, la strategica città irachenain mano allo Stato Islamico assediata dalle
forze governative che cercano di riconquistarla. Mentre a Taiz, in Yemen, 250 mila abitanti
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sono isolati da agosto a causa degli scontri interconfessionali tra salafiti che la occupano e
militanti del gruppo zaidita al-Houthi che la assediano. Solo lo scorso 22 gennaio, Medici
senza frontiere è riuscita a far arrivare due camion di aiuti.
Ecco perché sbloccare la situazione siriana è ancor più importante. E tutti gli occhi sono
puntati sulla Conferenza dei donatori della Siria che inizia domani a Londra: l’obiettivo è
racimolare 9 miliardi dollari per i 13 milioni di siriani in «situazione di vulnerabilità in patria
e fuori». Peccato che l’anno scorso, degli 8,5 miliardi richiesti ne siano stati elargiti solo
3,8. Troppo pochi per salvare gli abitanti di Madaya e degli altri villaggi sotto assedio.
Del 3/02/2016, pag. 8
Il diario. “Sono un adulto e peso ormai meno di 50 kg” Un ex studente e
la sua lotta quotidiana per sopravvivere
“Vi racconto come stiamo morendo di fame e
di freddo qui a Madaya”
Sono un adulto, eppure peso meno di 50 chili. Ho visto bambini morire di fame, mi sono
sentito impotente. Il mio mondo si è sbriciolato intorno a me. La popolazione di Madaya
non ha latte, pane, soldi. Fa freddo.
Sono nato a Madaya in un quartiere semplice e splendido nel quale cui tutti si
conoscevano e si volevano bene. Ma durante l’assedio abbiamo vissuto qualcosa di simile
alle altre famiglie: essere continuamente in lotta per la sopravvivenza. Per la maggior
parte di noi restare senza cibo per due o tre giorni di fila è la regola.
Comincio a raccontarvi dal 2011, l’inizio della rivoluzione siriana: studiavo giurisprudenza
a Damasco, avevo grandi ambizioni, la mia famiglia era orgogliosa. In un primo tempo la
rivoluzione è scoppiata sotto forma di proteste in serie: la popolazione chiedeva libertà.
Poi il regime ha trasformato radicalmente la rivoluzione, le proteste pacifiche sono
diventate occasioni di scontri armati. Il regime ha ucciso innocenti. E a Madaya alcuni si
sono sentiti costretti a imbracciare le armi per difendersi. Nel novembre 2014, il regime ha
cambiato tattica, usando la fame come arma per stringere d’assedio la città e continuare a
bombardarci con i letali barili bomba. Durante i raid aerei ho assistito alla morte di intere
famiglie. In quel periodo, il prezzo dei generi alimentari ha iniziato a lievitare. Poiché ci
troviamo in una zona vicina alla frontiera tra Libano e Siria, anche Hezbollah ha
collaborato con il regime per stringerci d’assedio, con l’idea di fare irruzione in città.
Il conflitto è scoppiato all’inizio del giugno 2015 a Zabadani, città vicina alla nostra. Per
sfuggire ai bombardamenti e agli scontri a fuoco, gli abitanti di Zabadani hanno iniziato a
ripiegare verso Madaya. Già allora soffrivamo per la penuria di alimenti, ma con l’aumento
della popolazione le scorte scomparivano. Pochi mesi dopo, il Libero esercito siriano ha
stipulato con il regime e Hezbollah una tregua per Zabadani. I civili hanno versato somme
enormi di denaro per poter scappare dalla città. Il mio vicino di casa ha speso circa tremila
dollari. La maggior parte di noi non possedeva tanto. Nei mesi seguenti, il regime ha
inasprito l’assedio. Di settimana in settimana si assottigliavano le scorte. Allora sono
iniziate le vere sofferenze per Madaya. Ogni giorno la battaglia è diventata sfamarci,
scaldarci da quando è arrivato il freddo. Non abbiamo potuto abbandonare la città: il
regime ha minato il territorio circostante, chi si avventura per cercare cibo o legna resta
vittima delle mine. La nostra preoccupazione quotidiana è garantire qualche grammo di
cibo ai bambini. La mia famiglia patisce la fame.Il prezzo dei generi alimentari è triplicato.
Con l’inasprirsi dell’assedio e lo sterminio di chi cerca via di fuga o cibo, i prezzi hanno
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continuato ad aumentare. Abbiamo iniziato a raccogliere l’erba, le foglie degli alberi finché
c’erano. Dopo poco non si trovava più neppure l’erba. Quando una tempesta di neve ha
investito la regione, ad alcuni non è restato altro che cibarsi delle proprie bestie.
In inverno la gente ha iniziato a morire. Ho visto spirare neonati, le madri non riuscivano
più ad allattarli.Le parole non possono a spiegare ciò che stiamo vivendo. All’inizio
dell’assedio, la gente ha venduto gli elettrodomestici e i mobili di casa, pur di comprarsi da
mangiare, ma ora non si trovapiù cibo. C’è chi ha venduto la casa in cambio di cinque chili
di alimenti. Voi forse pensate sia inconcepibile, ma è la verità. È quello che sta
succedendo. Come siamo arrivati a questo punto? Perché questa situazione non interessa
a nessuno? Ce lo chiediamo di continuo. Ormai non penso più al futuro: quale futuro?
Ricordo il giovane studente che ero, ma non lo riconosco più... Sono stanco, adesso. Noi
lottiamo per sopravvivere, ma questo non sembra interessare a nessuno.
del 03/02/16, pag. 2
Finmeccanica e marò “L’India ha proposto lo
scambio all’Italia”
Il vertice segreto a New York. Manager racconta l’incontro tra Renzi e il
premier Modi che chiede prove dei rapporti tra Agusta Westland e i
Gandhi
di Marco Lillo |
Un patto segreto è stato proposto a Matteo Renzi dal primo ministro indiano Narendra
Modi per scambiare le prove del processo Finmeccanica-India contro la famiglia di Sonia
Gandhi con la libertà dei due marò arrestati nel 2012 per la morte di due pescatori indiani.
Massimiliano La Torre e Salvatore Girone sarebbero ostaggi di questo scambio. Lo
afferma – in una lettera che Il Fatto pubblica integralmente sul suo sito – un ex agente
commerciale di Finmeccanica, Christian James Michel, già processato e assolto dai giudici
di Busto Arsizio per le presunte mazzette sulla vendita degli elicotteri all’India nel 2010 da
parte di Agusta Westland, gruppo Finmeccanica.
La lettera è stata spedita alle due corti internazionali competenti sul caso dei marò: l’Itlos
di Amburgo e la PCA dell’Aia. Il primo è il Tribunale Internazionale delle Nazioni Unite sul
diritto del mare. La seconda è la Corte Permanente di Arbitrato con sede a The Hague
(L’Aia). “Durante le mie investigazioni – scrive Michel – sono venuto a sapere che durante
il summit Onu a New York che si è tenuto dal 24 al 30 settembre 2015, Narendra Modi si è
incontrato con il presidente del consiglio italiano Renzi.
Hanno parlato dei due marò. Il primo ministro indiano ha proposto al premier italiano, in
cambio di prove sul fatto che il consulente chiave di Finmeccanica-Augusta Westland
(riferito alla mia persona) ha avuto una qualche relazione con qualche membro della
famiglia Gandhi (tra le forze principali di opposizione al governo indiano), che il premier
indiano avrebbe agevolato il caso che vede imputati i due marò”. Lo scenario è quello di
un giallo internazionale. Sonia Gandhi (69 anni, nata in Italia e sposa nel 1968 del figlio di
Indira Gandhi, Rajiv, primo ministro dell’India ucciso nel 1991) è presidente dell’Indian
National Congress e ha dominato la scena politica fino al 2014 quando ha perso le
elezioni. Sonia e il figlio Raoul Gandhi restano tra i principali rivali politici di Modi anche se
non se la passano bene. Recentemente sono stati arrestati e poi sottoposti a libertà
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provvisoria per accuse relative ad acquisti immobiliari del partito. A detta di Michel ora
Modi vorrebbe chiudere la partita con i Gandhi usando contro di loro le prove dei legami
con l’uomo chiave dell’affare degli elicotteri, da ottenere grazie al presunto scambio con
Renzi.
Quali sono le fonti di Michel? “Sono stato informato di questa situazione – scrive l’ex
agente di Finmeccanica – da tre diverse e separate fonti che vorrei divulgare in modo
confidenziale”.
Il governo indiano pur non escludendo un incontro a margine del summit di New York, ha
definito ‘ridicola’ l’ipotesi dello scambio. L’accusa non è riscontrata e proviene da un
agente che i pm italiani volevano arrestare perché avrebbe ricavato una plusvalenza
milionaria da una triangolazione tra Finmeccanica, il governo indiano e una sua società
con base a Dubai che per il pm Eugenio Fusco camuffa una mazzetta. Nel corso
dell’indagine furono trovati alcuni appunti a penna con i nomi dei personaggi indiani vicini
a Sonia Gandhi da avvicinare per convincere il governo a comprare dodici elicotteri per
560 milioni di dollari.
I manager di Finmeccanica e Michel sono stati tutti assolti a Busto Arsizio. L’India era
parte civile ma non ha fatto appello, a differenza del pm. Dopo il cambio di governo nel
2014, però l’aria è cambiata. “Sono vittima di una vendetta politica”, scrive Michel “ordinata
dal primo ministro Narendra Modi che ha ordinato senza alcuna base legale al CBI
(Central Bureau of Investigation indiano) di agire contro di me con un ordine di arresto per
un crimine per il quale sono stato assolto completamente in Italia”.
Il Fatto Quotidiano aveva notato già allora una possibile relazione tra le strane vicende
legale dei marò e delle mazzette sugli elicotteri. Se esisteva questa relazione allora poteva
giocare a favore di Michel. Ora contro. La sua condanna avrebbe imbarazzato il vecchio
governo mentre farebbe felice il premier attuale.
Michel nella lettera afferma che gli indiani gli fecero arrivare segnali: “Se avessi voluto
denunciare una qualche relazione di un membro della famiglia Gandhi con le accuse sul
caso degli elicotteri, tutte le accuse e le indagini contro di me sarebbero cadute”.
Poi punta il dito su Finmeccanica. Nonostante i suoi problemi giudiziari, a detta sua, la
società partecipata al 30% dal governo avrebbe raggiunto un accordo con i suoi legali per
pagare gran parte delle sue prestazioni contestate. Poi “inspiegabilmente nella prima
settimana di ottobre i legali di Finmeccanica hanno negato di volere pagare le cifre”.
Secondo Michel “la ragione di questo improvviso cambiamento nell’atteggiamento di
Finmeccanica è dovuto chiaramente alla conversazione di New York e alle istruzioni date
a Mauro Moretti, il presidente di Finmeccanica indicato dal presidente del Consiglio
italiano”.
Alla fine, secondo Michel, anche i marò potrebbero finire schiacciati da questo scambio
(tutto da dimostrare) tra Renzi e Modi. Ecco perché l’agente commerciale di una società
che vende anche armi riscopre una vena filantropica e scrive ai giudici internazionali: “I
due marò non sono di fatto persone comuni sottoposte a un’indagine e un processo per
accertare un crimine di omicidio ma, a causa delle azioni intraprese dal primo ministro
indiano, sono di fatto degli ostaggi politici e io suggerisco che le vostre organizzazioni li
trattino come tali”. Il Fatto ha inviato in serata a Palazzo Chigi la lettera di Michel ma –
forse per l’ora – non è stato possibile ottenere una risposta.
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Del 3/02/2016, pag. 2
Il Ppe a trazione tedesca dà l’aut aut a Renzi
“La flessibilità è finita”
Weber: anche il socialista Moscovici la pensa così Il premier: non
prendiamo più lezioncine dai partner
ANDREA BONANNI
BRUXELLES.
Non si calmano le acque tra Roma e Bruxelles. Dopo le polemiche di lunedì, ieri la
schermaglia è continuata, coinvolgendo questa volta il capogruppo del Ppe, il tedesco
Manfred Weber e, sia pure con toni più concilianti, il commissario agli affari economici
Pierre Moscovici. Renzi, dal suo viaggio in Africa, è tornato a criticare l’atteggiamento
europeo. «Non prendiamo lezioncine da nessuno dei nostri amici europei. Noi siamo
l’Italia e ogni anno mettiamo 20 miliardi sul piatto di Bruxelles, avendo indietro molto
meno: 11 miliardi».
Ma la replica non si è fatta attendere. «La Commissione negli ultimi anni ha dato la
massima flessibilità sull’applicazione del Patto di stabilità. Tanto che oggi persino i
commissari socialisti, a cominciare da Pierre Moscovici, constatano che non ci sono più
margini di manovra. Questa è la situazione in cui ci ritroviamo, e sarebbe auspicabile che
tutti ne prendessero atto», ha dichiarato Weber. Il capo dei popolari rispondeva alle
accuse di Renzi, secondo cui «il fatto che le spese per salvare i bambini che navigano
dalla Turchia alla Grecia siano fuori dal patto di stabilità è finalmente un fatto positivo, ma
pensare di considerare in modo diverso le spese per salvare i bambini eritrei che arrivano
in Sicilia mi sembra assurdo e illogico ».
«Penso che la questione se certi costi riguardanti i bambini immigrati provenienti dalla
Libia debbano essere presi in conto nel calcolo del deficit pubblico o no, debba essere
decisa dalla Commissione europea. E comunque non credo che quei costi siano
determinanti per i conti pubblici italiani», ha polemizzato Weber.
Anche il commissario agli affari economici e monetari, Pierre Moscovici, socialista, tirato in
ballo da Weber, ha invitato ad abbassare i toni della polemica. «Naturalmente la flessibilità
esiste ancora in Europa. E l’Italia è il Paese che ne beneficia di più su investimenti e
riforme. Abbiamo un dialogo aperto con le autorità italiane sulle nuove richieste di
prendere in considerazione le spese per i rifugiati o la lotta al terrorismo. La Commissione
darà le sue risposte a maggio. Concentriamoci su questo. Tra Italia ed Europa lo scontro è
inutile, dobbiamo cercare il compromesso ».
La sortita di Weber ha trovato una immediata replica da parte di Gianni Pittella, presidente
del gruppo parlamentare socialista a Strasburgo, alleato dei popolari ma che minaccia
conseguenze politiche. « Il principio di fressibilità non è un affare tra il governo italiano e la
Commissione Ue, è una conquista del gruppo socialista e democratico. Il collega Weber
rischia di sabotare le intese politiche alla base della coalizione che sostiene il presidente
Juncker», ha dichiarato Pittella.
Sulla questione è intervenuto anche Mario Monti, davanti alla commissione Esteri del
Senato. «L’Italia rischia di trascurare che ci sono dei pregiudizi: nostri verso i Paesi del
Nord e loro verso di noi. Stiamo attenti a ciò che può succedere combinando due cose
apparentemente disgiunte: la questione monetaria e la questione dell’immigrazione».
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Del 3/02/2016, pag. 3
Il retroscena
Il potente ministro delle finanze di Berlino alza il livello dello scontro in
vista delle prossime elezioni locali
La lotta Merkel-Schaeuble e la rivolta dei
falchi di Berlino “Basta con il ricatto italiano”
TONIA MASTROBUONI
«Mica vorrete consegnare l’Europa a Trump»: sorriso storto di Wolfgang Schaeuble, risate
dal pubblico. È lunedì sera: in una saletta gremita dell’operosa e ricca Duesseldorf, il
ministro delle Finanze si lascia andare a qualche ragionamento sull’emergenza profughi.
Nei giorni in cui il barometro della Cdu segna tempesta - è piombata ai minimi da anni, al
34% - Schaeuble non riesce a nascondere la sua crescente irritazione. In un clima
rilassato, da soirée teatrale, il potente guardiano dei conti, abbandonato ogni riferimento
delle scorse settimane al «paese che frena», per la prima volta usa le parole «Italia » e
«ricatto».
Il discorso non fa una piega, dal punto di vista tedesco. Bisogna dare i tre miliardi
promessi alla Turchia, scandisce, «perché impedisca ai rifugiati di venire in Europa». Ma
quei soldi «potrebbero diventare di più». Quindi, «non ci faremo ricattare dall’Italia, che
non vuole pagare la sua parte. E la comunità internazionale – conclude – deve dare più
soldi per i campi profughi in Libano e Giordania». Schaeuble, si sa, ha già annunciato che
dedicherà ogni centesimo del surplus di bilancio – ad oggi oltre dodici miliardi di euro – per
i profughi. È la principale sfida di questa fase politica. E a Duesseldorf il navigato politico
conservatore ribadisce persino che il pareggio di bilancio non è un tabu, se si tratta di
finanziare spese extra per i rifugiati. Ma per funzionare, la strategia di Berlino sui rifugiati –
che mira anche a riconquistare una parte di elettorato in fuga - ha bisogno di una sponda
internazionale. E l’Italia si pone da settimane, non senza qualche buona ragione, come un
ostacolo. In più, a Berlino sono i giorni in cui nei corridoi dei ministeri e tra i banchi del
Bundestag si torna a sussurrare di una wagneriana “Kanzlerdaemmerung”, di un presunto
crepuscolo della cancelliera. Nel suo discorso di lunedì sera, Schaeuble – considerato
l’unico legittimo pretendente al trono - l’ha nuovamente difesa. Ma con i sondaggi a picco
e la destra populista dell’Afd a un clamoroso 12%, nei giorni scorsi è anche cominciata la
controffensiva della Kanzlerin e del suo governo. Con l’occhio rivolto alle tre elezioni di
marzo in Renania-Palatinato, Sassonia-Anhalt e Baden- Wuerttenberg (la regione di
Schaeuble, peraltro), Merkel ha avviato una prima, seria stretta sui rifugiati.
Inoltre è ormai un classico di qualsiasi elezione, regionale, federale o europea che sia, che
la cancelliera e la Cdu/Csu indossino l’elmetto dell’austerità. Fonti vicine al ministro delle
Finanze sdrammatizzano sulle parole forti che rimbalzano dai colleghi tedeschi nel Ppe
come Manfred Weber sulla flessibilità e l’Italia: la posizione dura di Berlino sui conti
pubblici è un classico, in un clima elettorale. Dopo, sarà un’altra storia – sempre che il
dossier turco non sfoci in una crisi diplomatica seria. Merkel, intanto, ha ingranato il passo
del gambero. Sabato si è rivolta direttamente ai profughi: «Quando in Siria tornerà la pace
e quando l’Isis sarà sconfitto in Iraq, vogliamo che torniate nelle vostre patrie, consapevoli
di ciò che avete ricevuto da noi». Quei giorni sembrano piuttosto lontani, al momento, ma
la cancelliera ha ricordato che alla fine della guerra in ex Jugoslavia, il 70 per cento dei
profughi è tornato nei Paesi di origine. Inoltre, il governo sta varando un pacchetto sui
rifugiati che inserirà tre nuovi Paesi – l’Algeria, il Marocco e la Tunisia – tra i Paesi
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considerati “sicuri”. E durante il suo viaggio a Kabul, il ministro dell’Interno Thomas De
Maizière ha ripetuto ieri che l’esecutivo vorrebbe inserire nella lista dei Paesi che non
danno automaticamente diritto all’asilo anche l’Afghanistan. «Ovvio che la situazione è
complicata, ma l’Afghanistan è grande. Ci sono aree sicure e insicure».
L’aspetto più interessante è che la stretta sui profughi sta entusiasmando anche i
socialdemocratici. Gli unici a dolersi della «fine della “politica del benvenuto” » che era
stato finora il punto di orgoglio di Angela Merkel, sono stati Verdi. La Spd ha fatto sapere
attraverso i suoi big che sottoscrive in pieno l’idea di ridurre drasticamente gli arrivi. Il
vicecancelliere Gabriel lo ha detto esplicitamente, mentre il ministro degli Esteri Steinmeier
ha caldeggiato lunedì l’idea che i migranti del Maghreb possano essere respinti nei loro
Paesi anche senza un documento di riconoscimento. L’umore sta cambiando.
Del 3/02/2016, pag. 4
Welfare, la Ue cede a Londra
Il Consiglio europeo accorda alla Gran Bretagna il “freno d’emergenza”
sui benefici per gli immigrati comunitari Mossa per scongiurare la
Brexit. Cameron: “Progresso sostanziale”. Ma gli euroscettici: “No, è
uno schiaffo”
ENRICO FRANCESCHINI
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
«Essere o non essere insieme in Europa», twitta il presidente del Consiglio Europeo
Donald Tusk, «questo è il problema». La sua bozza di accordo rappresenta un passo per
fare restare la Gran Bretagna nella Ue, ma non è la soluzione definitiva del dilemma. Se il
primo ministro David Cameron la accoglie come un «progresso sostanziale », l’ala
euroscettica del suo stesso partito conservatore la definisce «uno schiaffo», mentre Nigel
Farage, leader dei populisti antieuropei dell’Ukip, la considera addirittura «patetica».
Reazione scontata da parte dei nemici dell’Unione, che tuttavia apre una nuova fase di
incertezza. Continuando a negoziare per ottenere di più prima del summit europeo del 1819 febbraio che dovrebbe approvare ufficialmente l’intesa, il premier britannico sarà preso
tra due fuochi: quello dei suoi oppositori interni che non si accontenteranno di nulla e
quello di Polonia e altri paesi dell’Europa dell’est secondo cui la Ue gli ha concesso già
troppo. Se Cameron riuscirà nell’impresa potrà poi convocare per giugno il referendum
sull’Unione Europea schierandosi per il sì all’Europa, con ragionevoli speranze di farcela.
Altrimenti la trattativa si prolungherà, il referendum potrebbe farsi in settembre e il risultato
diventerebbe più imprevedibile.
Il punto chiave della bozza resa pubblica ieri da Tusk a Bruxelles, frutto di mesi di
negoziati con il governo Cameron, è la concessione di un “freno d’emergenza” per 4 anni
ai benefici assistenziali (integrazione dei salari più bassi, assegni familiari, alloggi popolari)
agli immigrati comunitari: quello che voleva Downing street, come misura per rallentare
un’immigrazione europea che cresce al ritmo di 300 mila arrivi l’anno. Ma le modalità del
provvedimento sono da definire e i benefici andrebbero “gradualmente” ripristinati. C’è
insomma ancora da discutere, su questo come sugli altri punti dell’accordo (sovranità dei
Parlamenti nazionali, integrazione europea, protezione dei diritti dei paesi fuori
dall’eurozona).
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«Progressi concreti, che mi permetterebbero di battermi per restare in Europa - commenta
Cameron - con la mano sul cuore sento di avere ottenuto quanto avevo promesso». In
Inghilterra tuttavia i pareri discordano. Per il Guardian si tratta di «concessioni parziali».
Per il Financial Times è «un fragile accordo». Il Telegraph cita nel titolo le parole di un
deputato Tory euroscettico: «La Ue dà uno schiaffo in faccia al Regno Unito». Per Farage,
leader Ukip, è un patto «davvero patetico ». E il capo del Labour, Jeremy Corbyn,
favorevole a restare nella Ue (pur senza entusiasmo), accusa il premier di «correre dietro
agli euroscettici». Cameron si difende così: «Gli immigrati non avranno più accesso
immediato al welfare britannico, la sterlina non sarà discriminata rispetto all’euro, il nostro
Parlamento potrà respingere le idee pazze di Bruxelles ». Lo attendono mesi difficili, per
superare il dilemma «essere o non essere insieme in Europa ».
Del 3/02/2016, pag. 4
Pensioni, la troika ad Atene. E torna lo spettro
Grexit
ETTORE LIVINI
Una rondine non fa primavera. E la decisione di S&P di promuovere il rating della Grecia
non è bastata a riportare il sorriso ad Atene. Anzi. L’orizzonte politico sotto il Partenone si
è rannuvolato all’improvviso: il braccio di ferro con la Ue sui migranti e le proteste per la
riforma delle pensioni fanno scricchiolare il governo Syriza. E Tsipras giocherà nei
prossimi mesi la partita decisiva per traghettare il paese fuori dalla crisi o resuscitare —
come molti temono — lo spettro della Grexit. Il primo esame al premier è iniziato ieri. La
troika è sbarcata nella capitale per dare l’ok a due riforme — previdenza e prestiti in
sofferenza — necessarie a sbloccare gli aiuti. Il copione è il solito: senza l’ok dei creditori,
Bruxelles non riaprirà il portafogli. E senza i soldi di Ue, Bce e Fmi, la telenovela della
tragedia ellenica è destinata a ripartire. Appuntamento a luglio, quando con 3,5 miliardi di
prestiti in scadenza non ci sarebbe la liquidità per pagare stipendi e pensioni statali. Un
déja vu amaro. Ma anche un rischio serio. Tsipras è riuscito per ora a rispettare il tabellino
di marcia dell’austerity. Le pensioni però sono un’altra storia: il 50% dei greci ha come
prima fonte di reddito l’assegno previdenziale. E un taglio rischia di scatenare la piazza. I
sintomi ci sono tutti: gli agricoltori bloccano da settimane le principali arterie del paese, ieri
si sono fermati i mezzi pubblici ad Atene. I sindacati hanno convocato per domani uno
sciopero generale cui hanno aderito farmacisti, notai, camionisti e dipendenti statali.
Tsipras è tra l’incudine e il martello: il paese dice no ai tagli, la troika — Fmi in testa — ne
vuole di più e diversi. Lui ha provato a uscire dall’angolo salvando le pensioni esistenti e
aumentando gli oneri a carico dei nuovi assunti. Lo scaricabarile generazionale però è
servito a poco. Se la maggioranza Syriza-Anel scontenta i cittadini, rischia di sfaldarsi in
Parlamento. Se non seguirà i diktat dei creditori, potrebbe ritrovarsi a corto di liquidità. E il
corto circuito previdenziale coincide con la crisi tra Bruxelles e Atene sui migranti. La
Grecia, con i suoi pochi mezzi, ha fatto miracoli salvando migliaia di vite. La Commissione
però non è contenta. E ha dato tre mesi di tempo al Governo per blindare le frontiere. Se
processo di identificazione e hotspot non saranno a regime, la Ue chiuderà i confini con la
Macedonia e il flusso di arrivi (un milione nel 2015) si arenerà sotto il Partenone.
«Costruiremo un campo profughi da 400mila persone nella capitale », minaccia l’esecutivo
belga. Le conseguenze sarebbero apocalittiche per un’opinione pubblica già resa
euroscettica da 5 anni di crisi e sacrifici. Il fantasma della Grexit, appena uscito dalla porta,
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rischia così di rientrare dalla finestra. L’addio a Schengen e la trasformazione del paese in
«un cimitero di anime», copyright del ministro dell’immigrazione Mouzalas, è per molti
falchi del Nord un’opzione reale. Lo stesso ministro tedesco delle finanze Schaeuble
aveva ventilato una sospensione temporanea dall’euro di Atene. Dietro le quinte però sta
prendendo quota l’ipotesi di un do ut des: la Ue potrebbe offrire a Tsipras un taglio al
debito in cambio dell’impegno a gestire in Grecia l’emergenza profughi. Pura merce di
scambio in una partita dove denaro e voti alle elezioni contano più dei valori.
del 03/02/16, pag. 6
Spagna, il leader Psoe accetta l’incarico
«esplorativo»
Sanchez si prende un mese di tempo. Continua pressione da sinistra
per governo «del cambio», ma la fronda in casa socialista è forte
Luca Tancredi Barone
BARCELLONA
Qualcosa si è finalmente mosso nel complicato puzzle istituzionale spagnolo. Il re Filippo
VI ha deciso di rompere gli indugi e affidare al segretario socialista Pedro Sánchez
l’incarico di formare il governo. Ieri si è chiuso il secondo giro di consultazioni del capo
dello Stato dopo la rinuncia di Mariano Rajoy di dieci giorni fa. Gli ultimi a parlare col
monarca sono stati i leader del Psoe e del Pp.
Alle sette di sera Rajoy è comparso in conferenza stampa per ripetere che non aveva i
numeri per la grande coalizione, l’unica soluzione che potrebbe mantenere in sella il Pp.
Ma fra le righe molti leggevano un malcelato desiderio di tornare alle urne. Secondo
Rajoy, l’alternativa alla sua proposta è solo un governo «sperimentale» con gli
indipendentisti. E lo scienziato che dovrà far funzionare quest’esperimento è Sánchez, che
già in mattinata si diceva pronto a un eventuale incarico.
Ieri notte, alle nove, è stato l’ultimo dei leader politici a parlare e confermava che si
sarebbe preso almeno un mese per tessere quelle che oggi appaiono come impossibili
alleanze. Dopo aver criticato l’atteggiamento di Rajoy e la corruzione sempre più evidente
del partito popolare (la cui cupola a Valenza al completo è finita in carcere lunedì),
Sánchez, con piglio molto serio, ha chiesto di dialogare, «a destra e sinistra», «per
risolvere i problemi degli spagnoli».
Nel discorso il presidente incaricato ha elencato i temi chiavi della proposta socialista: il
lavoro, l’economia verde, la cultura e la scienza, un patto contro il maschilismo e la riforma
delle istituzioni e infine la Catalogna – proponendo dialogo ma senza cedere neanche un
millimetro sull’autodeterminazione. Per ottenere tutto questo, Sánchez ha implorato i partiti
di abbandonare i veti incrociati.
Già, perché Podemos continua a fare pressioni da sinistra – addirittura in un tweet della
federazione di Saragozza, cancellato dopo che era diventato virale, era girato
l’organigramma di un possibile governo Psoe-Podemos-Izquierda Unida in cui, oltre alla
vicepresidenza, Podemos ostentava la bellezza di quattro ministeri (su 10) come Interni,
Difesa e Giustizia e, sempre secondo i viola saragozzani, Alberto Garzón sarebbe
addirittura il ministro dell’Economia.
Nella sua conferenza stampa subito dopo Rajoy, Iglesias ha insistito nell’idea che si è già
perso troppo tempo, ha chiesto a Sánchez di parlare di un governo «progressista e del
cambio», e ha insistito che Podemos non darà mai il suo voto a un governo Psoe32
Ciudadanos, e che non è possibile un governo Psoe-Podemos-Ciudadanos, dato che
questi ultimi sono «il bastone» del partito popolare.
Per quanto riguarda Ciudadanos, il loro veto è a un governo Psoe-Podemos, per le stesse
ragioni per cui non lo appoggerebbe il partito popolare. Albert Rivera ieri ha cercato di
vendersi come l’ago della bilancia, e non ha nascosto il suo desiderio di entrare in un
governo del Psoe appoggiato dal Pp – anche se ha criticato l’immobilismo di Rajoy, con
cui sembra abbia parlato solo brevemente al telefono.
Qualsiasi formula, allo stato dei fatti, è comunque monca: al Pp e Ciudadanos, se tutti gli
altri votano contro, mancano 12 voti per la maggioranza, e a Psoe-Podemos-Iu ne
mancano invece 14. In ambo i casi saranno chiave i voti o le astensioni dei “maledetti”
catalani e baschi.
E questi voti sono avvelenati soprattutto per i socialisti: nell’ultimo comitato federale di
sabato del Psoe il sangue è sgorgato a fiotti. Lunedì sono state filtrate alla stampa le
registrazioni dei durissimi attacchi dei capi regionali del partito contro una possibile
alleanza con Podemos e con gli indipendentisti.
A legare le mani di Sánchez non sono dunque solo i veti altrui, ma anche – e soprattutto –
quelli interni. Infine, il segretario socialista lo ha confermato anche ieri notte: qualsiasi
accordo verrà sottoposto alla base socialista.
del 03/02/16, pag. 4
Correscales, una marcia di 800 km contro la
precarietà
Paesi Baschi. Parte la più grande raccolta fondi della storia spagnola
Davide Angelilli
BILBAO
La “rivoluzione delle scale”, la ribellione degli schiavi di Telefónica-Movistar: così i media
avevano definito lo sciopero statale e indeterminato convocato dai lavoratori autonomi e
delle imprese appaltate e subappaltate della multinazionale spagnola. Uno sciopero contro
l’ennesimo contratto a ribasso imposto dalla multinazionale, che ha deciso salari e
condizioni di lavoro inaccettabili per i lavoratori e le lavoratrici.
Una lotta che lo scorso anno ha messo in ginocchio il “gigante azzurro” delle telefonia
spagnola per quasi ottanta giorni consecutivi, bloccando i servizi di attivazione di nuovi
contratti e la riparazione di avarie. Un totale di oltre duecentomila utenze impossibilitate
solamente nel primo mese di una mobilitazione accesa dall’azione e la partecipazione
diretta dei lavoratori e delle lavoratrici. Scardinando non solo le logiche frammentarie del
lavoro ai tempi del neoliberismo, ma anche le arrugginite dinamiche dei sindacati, la
primavera dei precari ha saputo coinvolgere numerosi collettivi e movimenti sociali.
Poi, dopo l’annuncio di un accordo raggiunto con la multinazionale lo scorso giugno, le
“giunte di lavoratori autorganizzati” avevano deciso di porre fine allo sciopero. Un accordo
che fin da subito avevano definito «vuoto e senza contenuti né principi. Pensato
appositamente dai grandi sindacati (Comisiones Obreras e Unión General de los
Trabajadores) per frenare lo sciopero e le sue rivendicazioni».
I precari avevano quindi promesso di ritornare presto a montare sulle loro scale. Quelle
scale diventate simbolo della lotta perché utilizzate per arrampicarsi di fronte alle filiali
della multinazionale. Una forma efficace e creativa di catturare la visibilità dei mezzi
d’informazione, ma anche dei passanti, che ha accompagnato tutto il movimento.
33
Una promessa mantenuta. Perché proprio mercoledì scorso, a Bilbao, i lavoratori e le
lavoratrici autorganizzati, accompagnati da numerosi movimenti sociali, sindacati e
formazione politiche, hanno presentato con una conferenza stampa un nuovo progetto
comune e cooperativo contro la frammentazione e la precarietà lavorativa: Correscales
2016.
Una strategia per rilanciare la rivoluzione delle scale con una grande maratona a staffetta,
che partirà il prossimo 17 febbraio da Bilbao per arrivare, dopo sette giorni di marcia
ininterrotta, a Barcellona. Ma la maratona di ottocento chilometri sarà solamente la
ciliegina sulla torta di un progetto più ambizioso: la raccolta fondi più grande nella storia
dello Stato spagnolo (che dopo ottanta giorni è già arrivata a più di centomila euro).
I lavoratori stanno creando un’enorme cassa di resistenza, a sostegno di una piattaforma,
alternativa e coinvolgente, contro il lavoro precario e il suo giocare al ribasso con la vita
dei cittadini. Correscales è infatti una «pratica collettiva di centinaia di movimenti sociali,
collettivi, organizzazioni, che condividono un tragitto di dignità contro la precarizzazione
materiale, emotiva, dei tempi della vita delle persone». Insomma, uno strumento per
rilanciare le lotte sindacali nello Stato spagnolo, a partire dai Paesi Baschi e dalla
Catalogna, dove più forte è stato l’appoggio dei movimenti sociali alla lotta dei lavoratori
nella scorsa primavera.
La grande maratona terminerà proprio di fronte all’inaugurazione del Mobile World
Congress (la più grande fiera al mondo della telefonia mobile) che si aprirà il 22 febbraio al
Mobile World Center di Barcellona.
Una scelta «chiara e netta per denunciare, con una grande azione comunicativa, lo
sfruttamento che c’è dietro l’innovazione tecnologica del capitalismo», dicono da
Correscales. E, nella conferenza di lancio, hanno sottolineato che Correscales è un
progetto multidimensionale, economico, sociale, comunicativo. Un’idea nata dalla volontà
di far arrivare ad altri collettivi di lavoratori quella forza ed entusiasmo che ha saputo
generare la primavera di lotta degli autonomi di Telefonica-Movistar. Una multinazionale
che –spiegano- «è senz’altro un caso esemplare di un’impresa pubblica strategica e
redditizio, prima gestita male, poi privatizzata e successivamente frammentata
produttivamente in successive catene di esternalizzazione, subcontrattazione e
precarizzazione nell’offerta di servizi».
La grande maratona dei precari sarà allora molto di più che la nuova fase della lotta degli
autonomi di Telefónica-Movistar. Correscales è l’inizio di una nuova forma sociale di
movimento, per superare la frammentazione che frena la potenzialità delle lotte. Una
strategia sociale fluida ma resiliente, capace di incidere e radicarsi nel mondo del lavoro
contemporaneo, tessendo complicità e intrecciando vertenze. Un’alleanza spontanea ma
ben ponderata tra movimenti sociali, sindacati conflittuali e forze politiche, lanciata da
un’assemblea di lavoratori anche contro l’inerzia e la complicità dei sindacati più grandi.
Quando si dice fare di necessità virtù.
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INTERNI
del 03/02/16, pag. 5
Dimenticare Quarto. I 5 Stelle ci provano
Adriana Pollice
NAPOLI
«E’ arrivato il momento che ciascuno si ascolti per sapere se davvero si sente pronto ad
assumersi questo incarico. Oppure se ritiene di poter contribuire meglio continuando a fare
rete con gli altri cittadini»: con un post pubblicato lunedì sera sul blog del Meetup di
Napoli, Roberto Fico ha avviato le procedure per selezionare i candidati del Movimento 5
Stelle alle prossime elezioni comunali.
Dopo l’inchiesta di Quarto, che ha coinvolto il sindaco pentastellato Rosa Capuozzo, era
circolata la voce di una possibile rinuncia alle elezioni partenopee, lo stesso Roberto Fico
aveva ripetuto «non è fugato niente». Sabato scorso il Movimento si è riunito, alla fine ha
prevalso la voglia di misurarsi mettendosi alle spalle la vicenda del comune flegreo.
Massima attenzione nella selezione dei candidati: il timore non è solo quello di imbarcare
fiancheggiatori dei clan, ma anche quinte colonne di avversari politici, facendo magari
eleggere persone vicine al Pd o al sindaco, Luigi de Magistris. «Vi chiedo di riflettere nei
prossimi due o tre giorni -prosegue Fico -, da soli, in silenzio per decidere, con il più
grande senso di responsabilità e onestà possibili, chi pensa, in tutta serenità, di poter
essere un consigliere comunale o il portavoce Sindaco». Le candidature vanno presentate
presso l’associazione culturale Città del Sole tra domani e sabato prossimo.
Ogni candidato dovrà rispettare una lista di requisiti: non essere iscritto ad alcun partito o
movimento politico; nessuna condanna in sede penale, anche non definitiva; non avere
assolto più di un mandato elettorale; risiedere nella circoscrizione. Infine: «Non verranno
certificate liste con persone che hanno corso contro il Movimento in precedenti elezioni».
I 5 Stelle partono a Napoli dal risultato delle elezioni regionali del 2015, dove sono risultati
il primo partito in città, con il 24,85%. Per la selezione probabilmente si farà come a Roma:
invio delle candidature, vaglio dei requisiti, votazione on line. Per competere al comune e
nelle municipalità è necessario mettere in campo circa 230 candidati, probabile dunque
che i 5S finiscano per rinunciare a qualche municipalità. Luigi di Maio ieri ha suonato la
carica via facebook: «È il momento di concretizzare il percorso del Movimento 5 Stelle
fatto insieme ai cittadini in questi anni. Candidarsi è prima di tutto un onere, il mio invito è
quello di riflettere bene e agire con grande responsabilità. Il risultato non è scontato. Ma
dobbiamo provarci: ora o mai più».
del 03/02/16, pag. 11
Il ritorno di Grillo showman «Io leader
politico? Scherzavo»
Il comico in scena tra sketch e richiami al Movimento. E Di Maio è in
prima fila
MILANO Clima da grande attesa e lunghe code ( per via dei controlli meticolosi)
all’ingresso, Beppe Grillo torna a teatro per uno show comico — «Grillo vs Grillo», otto
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date per ora in calendario tra Milano e Roma — e richiama una folla «no logo»: nessuna
bandiera, nessuna maglietta del Movimento. Tra la folla, un po’ defilati, si palesano anche i
volti dei Cinque Stelle. C’è Gianroberto Casaleggio, che dribbla le domande dei cronisti, e
Luigi Di Maio che commenta con un semplice «Non penso» alla domanda se Grillo si stia
defilando dalla politica. Poi aggiunge «il futuro è un movimento che ha come garante
Grillo, ma che continua a camminare sempre più sulle proprie gambe». Il colpo d’occhio è
da tutto esaurito o quasi.
Poi si presenta Grillo. Un ologramma, il politico. E da il via al suo mini-comizio. «Siamo
163 parlamentari, ne abbiamo mandato via qualcuno: sono rimasti in due». Cita nani e
ballerine e finge di venir accusato per le battute. E qui entra in gioco il suo alter ego.
«Sono stato 5-6 anni con questo sdoppiamento di personalità» dice il vero showman. «Ma
non si può pensare che uno possa restare con questa dicotomia». «Io non ci pensavo a
diventare un leader, come ho fatto a creare un Movimento che è diventato il primo partito
politico italiano? Io scherzavo», ironizza.
Lo showman ripercorre tra battute sui portuali e sulla Finanza. Canta — un brano di Duilio
Del Prete — e continua a ribadire che «la sua vita è sempre stata giocata su una battuta in
più o in meno», come quella sui socialisti che gli è costata la cacciata dalla Rai. Fino
all’incontro con Casaleggio (anche lui sul palco in versione ologramma), che punta sul
blog e vuole una legge — dice Grillo — «per sterminare i cormorani».
Poi il fondatore del M5S parla della sua visione di società: «il lavoro salariato sta
scomparendo» dice per spiegare il reddito di cittadinanza, finanziato con l’«Iva al 50% sui
consumi». Per Grillo questo è lo spettacolo che sancisce «il passo di fianco» dal
Movimento, che segna il suo ritorno all’attività di showman. Un ritorno, in realtà, pianificato
da tempo. La svolta del leader sarebbe pian piano maturata due anni fa con il progressivo
affermarsi di alcuni parlamentari come nuovi volti dei Cinque Stelle. A segnare il cambio di
ruolo, come una sorta di staffetta, la presenza in sala alla «prima» di Luigi Di Maio.
Emanuele Buzzi
Del 3/02/2016, pag. IV RM
Elezioni comunali verso una nuova data 5
giugno primo turno
La richiesta dell’Ucei: il 12 cade la Pentecoste ebraica Pd agitato, Orfini
espelle i consiglieri pro-Scipioni
GIOVANNA VITALE
IL DECRETO del ministro dell’Interno arriverà non prima di fine mese, ma un primo
orientamento sulla data del voto amministrativo già c’è: il 5 giugno, con eventuale
ballottaggio fissato per il 19.
Dunque con un piccolo anticipo rispetto alle intenzioni iniziali, quando sembrava che il
governo avesse cerchiato in rosso domenica 12 giugno, con secondo turno obbligato il 26.
A ridosso, per quanto riguarda l’Urbe, del tradizionale ponte di San Pietro e Paolo: ipotesi
che aveva subito impensierito tutti gli aspiranti al soglio capitolino, preoccupati che la
prospettiva di una mini-vacanza potesse spingere i romani verso il mare, a discapito delle
urne. In realtà, la vera ragione per cui il Viminale, d’intesa col premier, ha deciso di
cambiare programma è un’altra. Il mutamento dovuto al pressing dell’Ucei, che avrebbe
rappresentato al governo l’esigenza di non votare durante lo Shavuot, la Pentecoste
ebraica, che quest’anno cade proprio il 12 e il 13 giugno. E siccome però per legge il
36
primo turno elettorale deve tenersi tra il 15 aprile e il 15 di giugno, ecco che l’unica data
possibile, al netto degli incastri con altre festività e “ponti” (tra cui quello del primo giugno)
risulta proprio il 5. Come peraltro il prefetto Gabrielli avrebbe svelato ieri a Storace nel
corso di una conversazione sul tema, dal leader della Destra prontamente svelata.
Intanto, in campo Pd, gli schieramenti a favore dei due principali sfidanti alle primarie si
stanno posizionando. Con la candidatura di Morassut, al principio caldeggiata pure dalla
maggioranza per evitare il flop ai gazebo, che sta cominciando a creare qualche ansia al
favorito Giachetti. Il quale, nel tentativo di allargare un consenso che rischia di restare
confinato nel recinto dei renziani della prima ora e di ritorno (dai giovani turchi di Orfini a
zingarettiani e franceschiniani), ha deciso di far presiedere il suo Comitato elittorale a
Ileana Argentin: deputata ex fedelissima di Bettini, mariniana di ferro poi pentita, da
sempre in prima linea nella difesa dei disabili. E sin da subito convinta sostenitrice di
«Roberto perché è un uomo fuori dalle correnti», spiega, «stare con lui vuol dire stare con
Roma e non abbandonare nessuno, dal primo all’ultimo dei cittadini».
A far scattare l’allarme, l’apprezzamento riscosso dai primi passi di Morassut, più largo del
previsto: nella sua squadra potrebbero infatti entrare sia la corteggiatissima Estella Marino
sia Roberto Agostini in quota minoranza. Mentre l’insofferenza dei renziani di rito
rughettiano nei confronti della “cerchia magica” di Giachetti potrebbe portare sulla sponda
avversa gli ex consiglieri Grippo e Nanni. Fra gli indicatori, la presentazione del libro
dell’ex assessore domani in Via Goito, che avrà fra i relatori proprio Angelo Rughetti e il
leader della minoranza Speranza.
Infine, ad aggiungere caos al caos, l’anatema lanciato ieri da Orfini contro i sei consiglieri
dem del VI municipio che, col sostegno della lista Marino, hanno votato la fiducia al
minisindaco Scipioni: «Nel Pd non avranno alcun futuro».
del 03/02/16, pag. 18
L’ex terrorista Faranda in cattedra
per parlare di giustizia alla scuola del Csm
Rivolta dei togati, un pm: “Allora chiamiamo Brusca a discutere di
criminalità”
Riccardo Arena
La rivolta parte dalla mail di un’avvocatessa, Cristina Faravelli, che è nella mailing list della
corrente di Area, la sinistra dell’Anm: «C’è un tema che riguarda la vostra formazione scrive - e indirettamente tutti noi, cittadini, magistrati e avvocati e la memoria degli uomini
morti per difendere lo Stato…”. Adriana Faranda, la brigatista dissociata, con l’altro ex
terrorista Franco Bonisoli, salirà o dovrebbe salire in cattedra domani per parlare - alla
Scuola superiore della magistratura di Scandicci, diretta emanazione del Csm - di
«giustizia riparativa», tema di un corso che inizia oggi e finirà venerdì. Vero è che con lei ci
sono anche Agnese Moro e Sabina Rossa, figlie di Aldo Moro e Guido Rossa, e Manlio
Milani, presidente del Comitato dei parenti delle vittime della strage di piazza della Loggia,
ma la scelta provoca una rivolta proprio nella sede virtuale in cui discutono i magistrati
progressisti. Al punto che si sono mossi il vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini, e i
«capi di corte», il primo presidente della Cassazione, Giovanni Canzio, il pg Pasquale
Ciccolo, per chiedere al comitato direttivo della scuola di formazione dei magistrati «di
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rivalutare l’opportunità di tale scelta». E il dissenso del comitato di presidenza dell’organo
di autogoverno dei giudici sarà discusso oggi.
L’ironia del pm
Da Palermo un pm ironizza e sollecita un intervento di Giovanni Brusca sui temi della
criminalità organizzata, un altro magistrato antimafia è «umanamente e sinceramente
vicino» alla figlia di Guido Galli, ucciso da Prima Linea il 19 marzo 1980. È lei, Alessandra
Galli, giudice come il padre, che scrive: «Mi sono interrogata tante volte sulla giustizia
riparativa. Sono sinceramente sconcertata per la decisione». L’ex postina delle Br non si è
mai pentita ed «è inaccettabile il dialogo in una sede istituzionale con chi ha ucciso per
sovvertire lo Stato e la Costituzione alla quale noi, come magistrati, abbiamo giurato
fedeltà. Sono più che amareggiata. Attonita».
Giustizia di parte
È ancora la Faravelli a ricordare che proprio la Faranda e Bonisoli sono tra coloro che
raccontano la loro esperienza nel «Libro dell’incontro» (uscito l’anno scorso per il
Saggiatore) di cui cita un passo: «Lo Stato, con la giustizia penale, fa ricorso alla violenza,
anzi ne detiene il monopolio. I gruppi eversivi hanno voluto riprendersi (o arrogarsi) una
parte di quel monopolio, per dirigerlo unilateralmente verso finalità corrispondenti a un
ideale chiamato anch’esso ‘giustizia’». E giù altri passaggi sul «coro nefasto di una fetta
non piccola della società». Insomma, poche idee ma confuse, che portano il procuratore di
Torino, Armando Spataro, già pm negli anni di piombo ed ex leader dei Verdi della
magistratura, a dirsi «stupito» per le tesi degli ex terroristi: «”Selettività nel tagliare fuori
complicità di apparati istituzionali”? Ma di che parliamo? Per la giustizia riparativa non
bastavano i professori?».
Non comprende «lo scandalo» Valerio Onida, giurista ed ex presidente della Scuola:
«Perché escludere la testimonianza di ex terroristi che hanno fatto un lungo percorso sul
piano umano e della rieducazione e hanno avviato un dialogo con le vittime?». Sulla
stessa linea l’ex Gip di Palermo Piergiorgio Morosini, oggi consigliere a Palazzo dei
Marescialli: «Può essere utile avere una maggiore consapevolezza, da parte dei magistrati
chiamati ad occuparsi di pagine oscure della vita del Paese».
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LEGALITA’DEMOCRATICA
Da Avvenire del 03/02/16, pag. 11
Azzardo senza regole, così la mafia fa affari
ANTONIO MARIA MIRA
L’azzardo si conferma uno dei maggiori affari della mafie che gestiscono sia il mercato
illegale che quello legale. Lo denuncia la Dia nell’ultima Relazione semestrale nella quale
lancia un preciso allarme su una situazione che sta favorendo i clan. «Il settore dei giochi
e delle scommesse, specie online – denuncia la Direzione investigativa antimafia – ,
potrebbe continuare a rappresentare un centro di interessi per queste organizzazioni che,
già in passato, hanno dimostrato di saper sfruttare il vuoto di una mancata armonizzazione
normativa tra gli Stati».
La conferma del grande interesse delle mafie sull’affare delle scommesse sottolineato
anche il primo presidente della Corte di cassazione, Giovanni Canzio in occasione
dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. «I gruppi mafiosi si sono progressivamente
radicati nel tessuto economico e sociale dei centri urbani ove, dedicandosi ad attività
imprenditoriali apparentemente lecite, provvedono al riciclaggio di denaro proveniente
dalle attività tradizionali come estorsioni, traffico illegale di droga, gioco d’azzardo e
videogiochi, gestione delle sale scommesse». I numeri parlano chiaro. Basti pensare che
nei primi dieci mesi del 2015 la Guardia di Finanza ha sequestrato ben 1.109 punti
clandestini di raccolta scommesse, molti dei quali aperti proprio grazie ai vuoti normativi.
È proprio il settore delle scommesse a tornare più volte nella Relazione. Così gli
investigatori scrivono che i clan camorristi «si siano rivelati pronti a sfruttare la
permeabilità delle Istituzioni », in particolare «per il settore del gioco e delle scommesse,
dove la camorra sembrerebbe aver riadattato le vecchie metodologie operative alle più
complesse tecniche di gestione fraudolenta del gioco online». Infatti, prosegue la Dia
citando i rapporti con altri Paesi, «la spiccata vocazione dei gruppi campani ad infiltrarsi,
anche fuori regione ed all’estero, negli apparati economici e finanziari, potrebbe
ragionevolmente portare alla scoperta di nuove realtà territoriali - allo stato
apparentemente non compromesse - ritenute invece funzionali al reinvestimento dei capitali illeciti».
Si conferma così, sottolinea la Dia, «la capacità di modifica delle modalità operative delle
organizzazioni camorristiche e la loro attitudine ad atteggiarsi a soggetto economico in
grado di operare sul mercato legale per acquisire una posizione dominante, se non
monopolistica, di attività economiche». Non meno coinvolti i clan pugliesi, forti di stabili
rapporti con le mafie straniere. «Una particolare menzione – denuncia la Dia – merita la
capacità di queste organizzazioni di avviare, su tutto il territorio nazionale ed all’estero,
fiorenti attività di raccolta, anche online, di scommesse abusive e di distribuzione e
imposizione di apparecchiature. I profitti verrebbero ulteriormente amplificati
dall’alterazione dei software e delle schede elettroniche degli apparecchi ».
Non può mancare la ’ndrangheta, «protagonista di assoluto rilievo del narcotraffico
internazionale, che – avverte la Dia – potrebbe accrescere ulteriormente i propri interessi,
come già avvenuto in passato, sfruttando tutta una serie di ambiti a forte impatto sociale
vitali per l’economia e la gestione amministrativa e finanziaria del Paese, quali ad
esempio, per citare i più storicamente esposti, la gestione di congegni elettronici da
intrattenimento e scommesse online».
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Da Avvenire del 03/02/16, pag. 11
Più credito contro l’usura
Accordo tra banche e fondazioni
Aumento della rapidità applicativa, semplificazione operativa ed efficienza del sistema di
garanzie per assicurare il miglior utilizzo dei fondi di prevenzione dell’usura, sono i
principali obiettivi delle Linee guida in materia di convenzioni tra banche, fondazioni e
associazioni definite tra la Consulta Nazionale Antiusura “Giovanni Paolo II”, e
l’Associazione bancaria italiana (Abi).
“Tali Linee Guida hanno lo scopo di facilitare il rapporto di collaborazione tra le Banche e
le Fondazioni Antiusura in materia di finanziamenti Antiusura - ha dichiarato il Segretario
della Consulta Nazionale Antiusura, mons. Alberto D’Urso -; è il risultato di un lungo
confronto tra i dirigenti dell’ABI e i referenti delle Fondazioni Antiusura, rivolto ad eliminare
talune criticità o a semplificare delle procedure che in questi anni hanno reso difficile o in
alcuni casi impedito l’accesso al credito delle persone in difficoltà finanziarie, a rischio o
sotto usura”.
Le Linee Guida sono anche un supporto interpretativo dell’Accordo Quadro nazionale del
2007 sulla prevenzione e contrasto all’usura, anch’esso sottoscritto al fine di favorire
l’erogazione di finanziamenti a soggetti che incontrano difficoltà di accesso al credito e
potrebbero essere a rischio usura.
L’accordo bancario si raggruppa in quattro paragrafi: il primo riguarda l’Istruttoria delle
pratiche, nel quale è richiesto che la banca individui, all’intero della propria struttura, uno o
più referenti per la gestione dei rapporti convenzionali con le Fondazioni Antiusura, in
grado di facilitare la risoluzione di eventuali problematiche inerenti singole pratiche di
finanziamento; il secondo concerne l’operatività del “Moltiplicatore”, il quale determina
l’ammontare massimo dei finanziamenti erogabili dalla banca in relazione alle risorse
finanziarie messe a copertura dalla Fondazione; il terzo parla di Garanzie aggiuntive che
la banca può richiedere; infine, il quarto riguarda l’Escussione delle garanzie nei confronti
del soggetto finanziato inadempiente secondo tre tempistiche alternative concordate in
convenzione.
“Il protocollo d’intesa - ha concluso mons. Alberto D’ Urso - ispirerà l’applicazione nella
stipula di nuove convenzioni con le banche con le quali le Fondazioni Antiusura
intrattengono rapporti in favore delle persone indebitate. Queste linee guida rappresentano
solo l’inizio di un percorso di collaborazione reciproca tra la Consulta, le Fondazioni
Antiusura e l’ABI, pronte ad essere aggiornate e integrate qualora ce ne fosse bisogno".
del 03/02/16, pag. 3
Il trattato “dimenticato” salva i superlatitanti a
Dubai
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Emirati, l’Italia non ratifica. Al riparo l’ex deputato Matacena condannato
per mafia
di Ferruccio Sansa
Amedeo Matacena può stare tranquillo. Per ora nessuno toccherà l’ex parlamentare
reggino di Forza Italia e armatore dello Stretto, per il quale finì nei guai l’ex ministro
Claudio Scajola accusato di averne favorito il tentativo di fuga in Libano. Come Marcello
Dell’Utri. Anche Matacena, del resto, è stato condannato in via definitiva per concorso
esterno in associazione mafiosa, nel suo caso la ‘ndrangheta. Per un attimo ha tremato,
quando l’Italia ha firmato il trattato di estradizione con gli Emirati Arabi. Ma le manette
possono attendere: il patto è ancora lì, in attesa da mesi di essere ratificato. Gli Stati arabi
restano il paradiso di latitanti che hanno messo su ristoranti. Gente che può contare su
amicizie nel centrosinistra come nel centrodestra.
A settembre il ministro Andrea Orlando è volato negli Emirati per firmare l’accordo. Con i
soliti toni trionfalistici. Cosa è successo da allora? Niente, l’accordo non è ancora
operativo, contrariamente a quanto promesso da Orlando. “Noi abbiamo fatto la nostra
parte, ora tocca alla Farnesina”, rispondono al ministero della Giustizia. Ma se chiami gli
Esteri, strabuzzano gli occhi: “Veramente a noi risulta che toccherebbe a loro”. Alla fine si
trova una risposta: “La questione deve essere calendarizzata. Toccherà alla Farnesina
portarla in Parlamento, ma si farà in tempi brevi”. C’è una data? Macché.
Intanto i latitanti dormono fra due guanciali. A Dubai ha trovato rifugio anche Samuele
Landi, inseguito da ordini di arresto e due condanne non definitive a complessivi 15 anni
legate al crac di Eutelia, la compagnia telefonica di cui era amministratore delegato. Il più
noto però resta Matacena: “Faccio il maître in un ristorante”, ha raccontato l’ex
parlamentare. Quale ristorante? Secondo gli investigatori potrebbe essere uno dei locali
aperti da Andrea Nucera, re del mattone a Savona, un altro latitante a Dubai. Tra i suoi
clienti c’è anche un ambasciatore italiano. Cin cin, un brindisi alla giustizia.
Difensore di Simona Musso, compagna di Nucera e anche lei latitante negli Emirati, è
stato Franco Vazio (Pd), vicepresidente della commissione Giustizia della Camera che
deve occuparsi della ratifica dell trattato. “A novembre ho dismesso l’incarico”, assicura
Vazio. Ma che dire di Enrico Nan, un passato da onorevole del centrodestra, poi passato a
Futuro e Libertà e infine sfilatosi dalla politica? Nan è stato l’avvocato storico di Nucera.
Non solo, era anche vicepresidente e consigliere di Carisa, gruppo Carige. Per i
finanziamenti della banca ligure a Nucera (quando ormai si apriva la voragine di un crac
da 400 milioni) a Savona è in corso un processo (Nan non è indagato).
E ancora: Nucera nel 2006 – quando non era ancora un latitante, ma un imprenditore
riverito da tutta Savona, con tanto di aereo privato – vendette un appartamento in un suo
palazzo, nella centrale piazza Diaz, a Federico Berruti, commercialista (nonché socio della
moglie di Vazio) e soprattutto sindaco della città. Nello stesso palazzo comprò anche
Luciano Pasquale, recordman delle poltrone: è stato presidente della Carisa, della Camera
di Commercio, nonché direttore dell’Unione industriali di Savona.
Ma l’affare più incredibile lo fece con l’Agenzia delle entrate: nel 2010 – come ha scritto
Mario Molinari sul sito Ninin – l’Agenzia delle Entrate siglò un contratto di sei anni (ancora
in corso) con una società di Nucera per affittare un immobile di 2.090 metri quadrati da
usare come uffici a Genova. Canone annuo 315 mila euro. All’epoca non era ancora
latitante, ma già doveva allo Stato milioni di euro (in tutto sarebbero 100). Ammise in parte
lui stesso in una lettera del 2011: “Ires anni 2008 e 2009 per euro 5.098.958,00 e Irap anni
2008 e 2009 per euro 1.304.440,00”. Insomma, l’Agenzia creditrice per milioni pagava il
canone all’imprenditore che le doveva una fortuna.
“Se Nucera tornasse, potrebbe rispondere a domande sulle sue frequentazioni con
politici, banchieri e magistrati che hanno fatto carriera”, sorride Christian Abbondanza della
41
Casa della Legalità, “Forse, per evitare tanti mal di pancia, qualcuno preferisce che faccia
il ristoratore”.
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
Del 3/02/2016, pag. 9
Schengen. Il commissario Dombrovskis ha chiesto di intensificare i
controlli alle frontiere con la Turchia
Bruxelles chiede ad Atene: rimpatri per chi
non ha diritto
Bruxelles attraverso il commissario Ue Valdis Dombrovskis ha chiesto ieri ad Atene, senza
mezzi termini, di fare di più per proteggere le frontiere esterne dell’Unione, impegnandosi
sul fronte delle registrazioni, dei pattugliamenti in mare, delle strutture necessarie per
l’identificazione dei migranti e del rapido rimpatrio per i non aventi diritto all’asilo.
Le raccomandazioni, tese a colmare le «gravi carenze» riscontrate dalla valutazione
Schengen, sono in un documento che la Commissione Ue ha adottato ieri e che ora dovrà
ottenere il via libera dal Consiglio Ue in rappresentanza degli Stati membri. Per Atene il
gioco si fa duro.
Con questa iniziativa Bruxelles fa un passo avanti nel processo che apre la porta, al
termine di un iter in quattro fasi, all’attivazione dell’articolo 26 del codice Schengen, quello
che prevede l’estensione dei controlli alle frontiere interne di uno o più Paesi, fino a due
anni. Nelle raccomandazioni, si chiede ad Atene di migliorare i procedimenti di
registrazione dei migranti in arrivo, incluso assicurare sufficienti risorse umane e scanner
per la raccolta delle impronte digitali, e il controllo dei documenti di viaggio col supporto
dei database del Sistema informativo Schengen (Sis), di Interpol e quello nazionale al fine
di combattere il terrorismo internazionale e possibili infiltrati tra i rifugiati.
Il documento prevede anche che sia organizzato un sistema di sorveglianza delle coste tra
la Grecia e la Turchia, con l’ausilio di imbarcazioni, elicotteri e pattugliamenti di terra. Con
quali mezzi finanziari non viene però specificato. Si parla anche di lotta al riciclaggio e
maggiori controlli su trafugamenti di reperti archeologici.
Il monitoraggio di tutte le navi (detect all vessels è l’impegnativo termine usato dal
documento in lingua inglese) dovrà essere organizzato in modo da individuare anche le
piccole imbarcazioni che passano il confine marittimo tra Grecia e Turchia. Inoltre si
chiede ad Atene di allestire le strutture necessarie durante il procedimento di
registrazione. Ma anche il lancio immediato di «rimpatri dei migranti che non hanno diritto
a restare». Una richiesta di non poco conto.
Le carenze alle frontiere esterne, constatate dalla valutazione Schengen, sono state
riscontrate con ispezioni a sorpresa condotte in due isole e alla frontiera terrestre con la
Turchia a novembre. Nel solo mese di gennaio, con le condizioni atmosferiche contrarie,
sono arrivati 62mila migranti in Grecia provenienti dalle coste turche.
Fonti Ue sottolineano che con questa azione siamo ancora nella prima fase della
procedura. Solo dopo questo via libera (che potrà arrivare anche dalla riunione degli
ambasciatori di oggi), Bruxelles potrà avviare la fase successiva (articolo 19A di
Schengen), con «raccomandazioni specifiche» ad Atene, che dovranno essere approvate
dal Consiglio europeo (formato Schengen) a maggioranza qualificata, e rispetto alle quali
la Grecia avrà poi tre mesi per adeguarsi. Con questa mossa, la Commissione Ue sta
manovrando l’ultima leva possibile per salvare l’area di libera circolazione dal “caos”,
parola greca. Di fatto si prepara a permettere a Germania e Austria di estendere i controlli
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ai loro confini: i due Paesi a metà maggio avranno utilizzato tutto il tempo previsto dagli
articoli ordinari del Codice.
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DONNE E DIRITTI
Del 3/02/2016, pag. 1-19
Il racconto. Tre vittime in ventiquattro ore
E dall’inizio dell’anno sono già dieci le donne uccise da mariti, ex
compagni o parenti
Marinella e le altre quegli sguardi da non
dimenticare
MICHELA MURGIA
È QUESTIONE di concentrazione: di certe cose non ci occupiamo fino a quando non si
verificano tutte insieme in modo tale che diventa impossibile ignorarle. Così tre donne
massacrate per mano dei loro compagni in appena due giorni hanno riacceso il faro
dell’attenzione pubblica sul tema del femminicidio. Si chiamano Marinella, Carla e Luana,
ma è facile appropriarsi di un nome per rendere le persone personaggi e dire che quelle
storie erano le loro e non la nostra.
Ciascuna di queste donne va immaginata con il nome che diamo a noi stesse. A Catania il
primo febbraio una è morta per mano del marito, che l’ha strangolata davanti al figlio di 4
anni. Lo stesso giorno a Pozzuoli una di loro, incinta al nono mese, è stata ridotta in fin di
vita dal compagno che le ha dato fuoco. Ieri un’altra è morta quasi decapitata dal marito,
poi fuggito contromano in autostrada. Fanno scalpore, eppure non sono le prime notizie
dell’anno sulla violenza alle donne. Il 2016 era cominciato da appena due giorni quando i
carabinieri hanno scoperto a Ragusa una donna segregata in casa dal suo convivente,
che da due anni a suon di botte le impediva di andarsene. Lo stesso giorno ad Ancona
una donna veniva picchiata da quello che era stato il suo fidanzato, prima che lo lasciasse
per le violenze. Il 3 di gennaio una donna di Città di Castello è stata uccisa da suo figlio
con dieci coltellate, e il 5 a Torino una’altra è quasi morta per le violenze inflittele dal
marito, che l’ha più volte colpita in testa con un bicchiere prima che un vicino chiamasse la
polizia. Il 9 gennaio a Firenze una donna è morta strangolata da un uomo che prima c’era
andato a letto e poi l’ha uccisa per derubarla. Strangolata è morta anche la donna che il 12
di gennaio è stata trovata nel suo letto, ammazzata dall’uomo che frequentava. Il 15 e il 16
di gennaio due nonne sono stata uccise dai rispettivi nipoti: una è stata massacrata a
Mestre con una sega elettrica, l’altra a Sassari con un vaso di cristallo. Il 27 gennaio a
Cetraro una donna è stata uccisa per strada dal suo ex cognato, che le dava la colpa della
fine del proprio matrimonio. Il 30 gennaio una donna è stata ferita gravemente dal marito,
che prima di aggredire lei con un coltello aveva ucciso i loro figli di 8 e 13 anni.
In questo elenco non ci sono le decine di violenze, i maltrattamenti, le riduzioni della libertà
e i tentati omicidi in ambito familiare le cui eco spesso non ci arrivano neppure. Sappiamo
però che erano tutte a carico di donne che vivevano accanto a noi, in questa strana Italia
ancora divisa tra voglia d’Europa e Family Day, ma incapace di riconoscere che c’è
qualcosa di sbagliato e distruttivo nel modo in cui impostiamo i rapporti di relazione che
chiamiamo “famiglia”. Che sia tradizionale o arcobaleno, che lo stato la riconosca o meno,
quel sistema di legami e la sua faccia oscura ci riguardano tutti e tutte, allo stesso modo.
Finché non affronteremo il nodo del potere nascosto in quello che chiamiamo amore, il
Paese che ammazza le donne non sarà un buon posto per nessuno.
( Michela Murgia è scrittrice, il suo ultimo romanzo è Chirù, per Einaudi)
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del 03/02/16, pag. 20
“Viviamo in una società di soggetti liberi ma i
maschi non evolvono”
Cristina Comencini: “Problema culturale”
Fulvia Caprara
Il femminicidio non è un problema delle donne, «riguarda la società tutta e, in particolare,
gli uomini, che devono interrogarsi, scrivere, parlare, di un argomento che, invece,
tendono ad allontanare da se stessi». Regista di cinema e teatro, oltre che autrice di
romanzi di successo, Cristina Comencini è da sempre fortemente impegnata sul fronte
delle battaglie femminili: «La violenza fa parte della cultura ancestrale degli uomini, la
novità è che, adesso, viene usata contro la libertà delle donne». Non a caso in passato,
osserva l’autrice, «quando le donne erano subalterne», il fenomeno non c’era, o
comunque non si manifestava con le proporzioni di oggi: «Prima una donna non poteva
permettersi di lasciare un uomo, adesso succede che, se lei lo vuole abbandonare, lui
reagisce ammazzandola».
Tre anni fa Comencini ha dato il via alla campagna «Mai più complici» contro i femminicidi
che prima «non si chiamavano così, venivano definiti “delitti passionali”». Nel testo teatrale
«L’amavo più della sua vita» ha messo in scena le contraddizioni alla base delle esplosioni
più violente, facendo parlare due personaggi, la migliore amica della morta e il migliore
amico di chi l’ha uccisa: «L’entrata in società di donne libere impone cambiamenti, è un
discorso antropologico, che richiede un profondo lavoro culturale, da avviare fin dai banchi
di scuola. Eravamo abituati a una società dove c’era un solo elemento libero, adesso ce
ne sono due».
Per questo non serve nascondersi dietro un dito, sostenendo, magari, che certi episodi si
verificano solo in «miserrime condizioni» di degrado sociale. Non è così, e le cronache lo
confermano ogni giorno: «Sono fatti che spesso avvengono nella piccola borghesia. Le
iniziative di questi anni, dai centri anti-violenza all’applicazione del «Codice rosa», il
percorso preferenziale per il ricovero in pronto soccorso delle donne aggredite, «sono
importantissimi», ma non vanno alla radice della questione: «Negli anni le donne hanno
fatto un gran lavoro su se stesse, sulla sessualità, sulla decisione di avere o meno figli,
sulla loro subalternità, sul fatto che, per tanto tempo, hanno continuato a chiamarla
amore... un lavoro che, per noi, era vitale e che veniva da millenni di vite chiuse in casa».
Gli uomini, invece «non evolvono», sono rimasti fermi, incapaci di accettare realtà mutate :
«L’uomo lasciato da una donna si sente un niente, non sa che fare, si ritrova vittima di
vecchi retaggi ».
Soprattutto, dice ancora Cristina Comencini, l’uomo non si è mai posto, a differenza delle
donne, l’obiettivo di autoanalizzarsi per capire. E poi, intorno, c’è un contesto sociale che
non ha ancora metabolizzato il mutamento : «Un conto è sentirsi diversi dalle generazioni
precedenti, un altro è accettare nel profondo il senso del cambiamento». Ci vuole tempo,
consapevolezza, e capacità di condividere: «La libertà a due è una cosa nuova per tutti, se
ne devono occupare le istituzioni e lo Stato. Se non si lavora su questa realtà, il fenomeno
dei femminicidi non potrà che aumentare».
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DIRITTI CIVILI E LAICITA’
Del 3/02/2016, pag. 10
Unioni civili, il Pd stoppa Alfano e apre la
trattativa sui voti segreti
Bocciate le questioni di costituzionalità. I dem vanno avanti sulle
adozioni ma cercano l’accordo con l’opposizione sul numero degli
scrutini a rischio e degli emendamenti
GOFFREDO DE MARCHIS
Ridurre i voti segreti a 10-15. Lasciando che i senatori siano liberi di esprimersi sulla
materia più delicata, l’adozione, con tutte le garanzie di una scelta di coscienza. È
l’impresa, forse impossibile, su cui lavora il Pd in questa settimana dopo che il Senato ha
respinto ieri a larga maggioranza le pregiudiziali di costituzionalità e le mozioni
sospensive. Il tentativo dimostra che Renzi non ha alcuna intenzione di rispondere
all’appello di Angelino Alfano: la stepchild adoption non verrà ritirata. «Non è aria», dice il
capogruppo Luigi Zanda. E il ministro della Giustizia Andrea Orlando affonda: «Non si
tratta di tenere unito il governo, il tema è dare riconoscimento omogeneo ad alcuni diritti.
C’è l’autonomia del Parlamento che ha sempre rivendicato su questi temi libertà di
coscienza e poi c’è anche una libertà rispetto alle geometrie politiche». Argomento chiuso.
Ma il punto rimane lo stesso: l’adozione ha i voti per essere approvata? A Palazzo Chigi
sono convinti che con decine di voti segreti e quindi di possibili incidenti, l’intero impianto
della legge può saltare. «Si rischia la roulette russa. Anzi, la roulette semplice», scherza
ma non tanto Zanda. Per questo il Pd ha messo in mora il patto siglato qualche giorno fa
con la Lega, ovvero via il supercanguro firmato Marcucci (l’emendamento che ne cancella
automaticamente migliaia) e via, contemporaneamente, le 5000 modifiche ostruzionistiche
del Carroccio. Non era uno scambio alla pari, ha stabilito il Pd. «Con il supercanguro
abbiamo già lo strumento per neutralizzare Calderoli. C’è bisogno di uno sforzo in più»,
spiega Zanda. Ricomincia perciò una trattativa per limitare altri emendamenti leghisti.
Evitare la guerriglia vuole dire dare a tutti la chance di approfondire la legge senza per
questo negare la possibilità di bocciare le adozioni dei figliastri contro le quali si muove un
fronte trasversale che va dal Pd a Forza Italia all’Ncd alla Lega. Se gli oppositori vogliono
cogliere l’occasione, è questa. Altrimenti, si prenderanno la colpa, anche elettorale, di
voler cancellare dei diritti elementari, non solo le adozioni. Questo è uno degli argomenti
da usare nella trattativa. Poi ci sono altri trucchi parlamentari.
I voti di ieri si sono svolti per alzata di mano. A occhio, 190 senatori hanno respinto le
pregiudiziali mentre 100 hanno votato a favore contando anche le assenze. Sono numeri
poco indicativi perché i 30 senatori cattolici del Pd hanno votato con il resto del gruppo. E i
5stelle non hanno avuto modo di fare scherzi al governo. Lo scrutinio segreto potrebbe
avere tutt’altro esito. Per le votazioni vere se ne riparla la prossima settimana, dopo
martedì. C’è tempo dunque per uno scambio con il centrodestra. Ma l’impresa sembra
molto difficile. Si capirà dove poter intervenire una volta eliminate le modifiche
ostruzionistiche. La Lega vorrebbe comunque lasciare 500 emendamenti sull’articolo 5
(stepchild adoption). Ecco, lì occorre intervenire perché sono potenzialmente 500 voti
segreti. Per questo, il Pd tratta ma allo stesso tempo nasconde altri mini- canguri
nell’enorme fascicolo delle correzioni, in grado di far saltare un bel po’ di votazioni. Una
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sfida a scacchi. E nella quale sarà fondamentale il ruolo di Piero Grasso. Tocca a lui
decidere l’ammissibilità dei voti segreti.
Il clima però è già abbastanza chiaro. Il fronte dei contrari è agguerrito. Se Alfano
annuncia il referendum abrogativo, ieri Gaetano Quagliariello e Carlo Giovanardi hanno
ipotizzato il conflitto di attribuzione presso la Consulta. Insomma, pensano di “denunciare”
il Senato per il mancato esame in commissione del ddl Cirinnà. Ed è solo l’inzio.
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INFORMAZIONE
del 03/02/16, pag. 5
Di Bella a Rainews
Malumori in cda non sul nome, ma sul
metodo Cdo
Il direttore generale della Rai Antonio Campo Dall’Orto presenterà oggi in consiglio
d’amministrazione, insieme alla presidente Monica Maggioni, la nomina di Antonio Di Bella
a direttore di Rainews 24. Ex direttore del Tg3 e di Raitre, attualmente corrispondente da
Parigi, Di Bella diventerà direttore mettendo fine all’interim che va avanti da agosto (prima
con Mirella Marziali poi con Giancarlo Gioielli), dopo la noma dell’ex direttrice Maggioni a
presidente Rai.
Contro il perdurare di direzioni «precarie» il comitato di redazione aveva indetto uno
sciopero per il 5 febbraio, che a questo punto dovrebbe rientrare. Ma la protesta si
sposterà in cda, dove a far discutere non è il nome di Di Bella, ma il metodo Campo
Dall’Orto. Al dg, che ha appena acquisito anche i poteri di amministratore delegato previsti
della nuova legge, si contesta il mancato coinvolgimento dei consiglieri nelle nomine
editoriali (avvisati solo ieri della decisione su Di Bella). Arturo Diaconale, consigliere
indicato da Fi, spiega: «Io già ho votato contro la nomina di Carlo Verdelli, non per la
persona, ma proprio perché non mi piace questo metodo. O si trova un modo di
collaborare o ognuno si prenderà le sue responsabilità».
Oggi in cda si dovrebbe parlare anche della decisione di spostare l’inchiesta di
Presadiretta (Raitre) sull’educazione sessuale dopo la fascia protetta.
Del 3/02/2016, pag. 12
Giannini: “La Rai mi può licenziare, il Pd no”
SILVIO BUZZANCA
ALDO FONTANAROSA
All’accusa di aver ingiuriato il ministro Boschi la settimana scorsa a Ballarò, Massimo
Giannini ribatte con energia. Ieri sera in diretta il conduttore definisce «penose» e
«strumentali » le contestazioni che gli sono arrivate dal Pd in settimana, semplicemente
perché «il fatto non sussiste». Giannini non ha mai attaccato - spiega la Boschi e la sua
famiglia sul piano personale. Quando ha parlato di «rapporto incestuoso » (nella puntata
del 26 gennaio), il giornalista si riferiva al «pasticcio creato intorno a Banca Etruria tra
management, politica, massoneria, finanza».
Giannini si augura, poi, che la politica non voglia «decidere i palinsesti» e che non prenda
corpo una «torsione del concetto di servizio pubblico tv», utile secondo qualcuno solo «se
serve a chi governa». Quindi il giornalista cita Roberto Saviano, che ha contestato le
presunte ingerenze della maggioranza sull’informazione: «Quello che sotto Berlusconi era
inaccettabile, ora è grammatica del potere ». Infine ecco lo slogan che Giannini ha già
anticipato via Twitter prima della diretta tv: «La Rai mi può licenziare. Il Pd, con tutto il
rispetto, no». Anche il Partito Democratico usa Twitter per replicare. Alessia Morani,
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vicepresidente del gruppo alla Camera, scrive: «È sbagliato usare la tv pubblica per
attacchi politici e personali. L’intervento di Giannini non rispetta l’equilibrio
dell’informazione ». E il deputato Andrea Romano aggiunge: «Sono un ammiratore di
Giannini, ma l’uso personale della televisione lo abbiamo già visto. E le imitazioni non
funzionano mai». A proposito di interventi in diretta, il Consiglio di amministrazione della
Rai discuterà oggi delle parole di Riccardo Iacona. Lunedì sera, il conduttore di
Presa Diretta si è dissociato dalla decisione dell’azienda di ritardare la messa in onda del
servizio “Il tabù del sesso” per tenerlo fuori dalla fascia protetta.
Sempre oggi, a meno di imprevisti, il Consiglio nominerà Antonio Di Bella alla direzione di
RaiNews 24. Il numero 1 dell’azienda Campo Dall’Orto avrebbe potuto imporre Di Bella nei
prossimi giorni quando sarà amministratore delegato della Rai con poteri quasi illimitati.
Per diplomazia, Campo Dall’Orto propone Di Bella oggi, mentre sono ancora in vigore le
vecchie regole che impongono di trovare una maggioranza in Consiglio.
Oggi il manager ricorderà il solidissimo curriculum di Antonio Di Bella, già direttore di RaiTre e del Tg3. Spiegherà che l’ex corrispondente dagli Usa è l’uomo giusto per guidare
Rai-News 24 nell’anno delle elezioni presidenziali americane e ricorderà infine il lavoro - a
suo parere eccellente - che Di Bella ha svolto da Parigi nei giorni degli attentati terroristici.
Alla fine, Campo Dall’Orto troverà la maggioranza dei voti in Cda. A favore dovrebbe
votare anche Carlo Freccero (5Stelle) per stima personale verso Di Bella. Certo è
l’appoggio alla nomina del direttore editoriale Verdelli (che non vota) e del presidente
Monica Maggioni, che oggi riceverà una delega pesante. Sotto di sé avrà la struttura di
controllo disciplinare “Internal Auditing”.
Di Bella batte la concorrenza di Marco Franzelli (vice direttore di Rai Sport) e di Caterina
Doglio, caporedattore a Rai-News24.
del 03/02/16, pag. 35
La nuova tv è arrivata
Più di un milione si fa il palinsesto su misura
Mentre rimane vasto il bacino di chi “scarica” illegalmente c’è il caso
“In Treatment”: per la serie 2 milioni di download
Gianmaria Tammaro
Da una parte c’è la televisione: quella che abbiamo imparato a conoscere, l’intrattenimento
a portata di telecomando, palinsesti che fanno a gara tra di loro, e un condimento salatissimo - di pubblicità. Dall’altra c’è Internet. E un nuovo modo di intrattenere. Un
mercato che non abbiamo ancora capito come interpretare.
Negli ultimi due anni, il pubblico che al piccolo schermo preferisce lo streaming (il flusso
via web senza che i dati vengano scaricati su un computer) o l’on demand (programmi a
richiesta e a pagamento sempre disponibili) è cresciuto. Poco, se confrontato con i numeri
delle generaliste (Don Matteo, in prima serata, raggiunge circa 7 milioni di persone). Molto,
se teniamo conto del fatto che non è mai stato uno dei punti di riferimento di produttori e
investitori. E che di un pubblico «online» non si è mai parlato. Prima d’ora.
In due anni è cambiata la connessione e la diffusione del mezzo Internet, e sono
intervenuti nuovi protagonisti. Non più solo Rai, con la sua sezione Replay. È arrivato
Netflix e prima ancora TimVision (circa 400 mila abbonati a oggi) ha avviato il suo servizio
di streaming. Quindi è toccato a Infinity. E con loro Sky. Si stima - stando agli ultimi dati che a guardare film e serie tv in streaming sia più di un milione di persone. La verità, però,
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è un’altra ed è evidente a tutti: c’è un bacino di utenza che, ancora oggi, non viene
soddisfatto.
C’è ancora chi - per una questione di costi, praticamente superata oramai, e per una
questione di contenuti - preferisce vedere tutto illegalmente. E queste persone non si
possono contare: non c’è tracciabilità che tenga. Chiunque possiede una connessione
Internet – e nel 2014, secondo l’Istat, ad avere un accesso alla Rete erano il 64% delle
famiglie italiane - può accedere a piattaforme di streaming.
Il dato interessante, quindi, diventa un altro: la capacità effettiva che hanno i grandi
protagonisti della scena italiana di intercettare questo pubblico e di farlo passare allo
streaming e alla visione on demand legale. Di ridurre questo divario, abbassando i costi e
aumentando l’offerta di prodotti «visionabili». Tra i più bravi, c’è sicuramente Sky. E lo
dicono i dati. Il più importante, uno degli ultimi diffusi dalla televisione di Rupert Murdoch,
riguarda la seconda stagione di In Treatment, una serie non pensata per lo streamer o lo
spettatore occasionale, che scarica le puntate per vederle in un altro momento, ma che è
riuscita comunque a ottenere risultati incredibili: oltre 2 milioni di download (a partire dallo
scorso 23 novembre) e un quinto posto di tutto rispetto tra le serie tv di Sky Atlantic più
viste in streaming (e ci sono titoli come Gomorra, The Walking Dead e Elementary).
Il successo di In Treatment 2 ci dice una cosa: il pubblico sta cambiando e anche la
televisione deve, volente o no, cambiare. Ci dice che i gusti sono diversi. E che ora
bisogna puntare su un intrattenimento più di qualità - non di nicchia, attenzione - che tenga
conto degli interessi e delle passioni di una fetta di pubblico che, magari, la televisione non
l’ha mai vista (anche se, con almeno 80 milioni di televisori in giro, è difficile).
I servizi online diventano fondamentali. Allo stesso modo, quelli on demand. E più che
parlare del successo - vero o presunto è ancora opinabile vista la mancanza di dati ufficiali
- di Netflix, è importante sottolineare la crescita dei suoi competitor come Sky: In
Treatment 2 è la dimostrazione che un altro tipo di intrattenimento si può e deve fare
(aspettiamo la terza stagione, adesso), e che ci sono i numeri che giustificano la scelta di
un simile investimento. La televisione, quella che abbiamo imparato a conoscere, non è
più sola: è iniziata l’era dello streaming e dell’on demand.
Del 3/02/2016, pag. 10
Protezione dati, accordo Usa-Ue
Tutele per il trasferimento Oltreatlantico di informazioni raccolte da
social network e motori di ricerca
Dopo un ultimo e serrato round negoziale, Stati Uniti e Unione europea hanno trovato ieri
un nuovo accordo per gestire il trasferimento di dati sui due lati dell’Atlantico. L’intesa
giunge dopo che in ottobre la Corte europea di Giustizia ha considerato che l’attuale intesa
Safe Harbour, risalente al 2000, non protegge sufficientemente i cittadini europei, tra le
altre cose perché la legge americana consente alle autorità di quel paese di accedere ai
dati liberamente. Il nuovo accordo dovrà essere precisato nelle prossime settimane. «I
nostri popoli possono essere sicuri che i loro dati personali sono pienamente protetti – ha
detto in una conferenza stampa a Strasburgo il vice presidente della Commissione
europea Andrus Ansip -. Le nostre imprese, soprattutto le più piccole, hanno ora la
certezza legale di cui hanno bisogno per sviluppare le loro attività oltre Atlantico. Abbiamo
il compito di seguire passo passo il nuovo accordo per accertarci che sia all’altezza».
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La nuova intesa si chiama EU-US Privacy Shield. Il nome riflette bene la preoccupazione
del momento: proteggere la vita privata dei cittadini, soprattutto europei. «Per la prima
volta abbiamo ricevuto assicurazioni scritte e dettagliate dagli Stati Uniti sulle misure di
salvaguardia e sulle limitazioni applicabili ai programmi di sicurezza americani», ha detto
Ansip. «La controparte americana ha chiarito che non organizza una indiscriminata
sorveglianza di massa degli europei».
Ha aggiunto dal canto suo la commissaria alla Giustizia Vera Jourová: «Per la prima volta
gli Stati Uniti hanno dato l’assicurazione vincolante che l’accesso delle autorità pubbliche a
fini dell’applicazione della legge e della sicurezza nazionale sarà soggetta a chiare
limitazioni». Tra le nuove misure inserite nell’intesa vi è anche la figura dell’Ombudsman
che siederà al Dipartimento di Stato e che sarà chiamato a rispondere a tutti i dubbi e a
tutte le lamentele.
L’intesa prevede inoltre l’accesso dei cittadini europei a tribunali di arbitrato e in futuro
anche alle corti americane. Le società partecipanti all’accordo subiranno verifiche e
controlli, per evitare eventuali violazioni delle regole. Vi saranno anche limitazioni alla
possibilità delle società di trasferire informazioni a imprese partner. La signora Jourová si
è detta sicura che l’intesa sia in linea con i principi espressi dalla Corte europea di
Giustizia (si veda Il Sole/24 Ore del 7 ottobre). L’accordo sarà soggetto ogni anno a una
revisione. L’intesa Safe Harbour, che risale al 2000 e che ha permesso alle imprese
multinazionali di trasferire dati alle proprie filiali sui due lati dell’Atlantico, è evidentemente
invecchiata. Non solo perché in 15 anni sono nate reti sociali assai più sviluppate, come
Facebook o Twitter, ma perché dopo gli attentati di New York e di Washington del 2001 il
problema della sicurezza e della privacy è diventato particolarmente sentito. Sempre ieri
proprio sul fronte sicurezza, la Commissione europea ha presentato un piano d’azione per
lottare contro i canali finanziari del terrorismo internazionale. Tra le novità vi sono un
elenco dei controlli obbligatori dei flussi finanziari da parte delle banche, registri
centralizzati nazionali dei conti bancari e dei conti di pagamento, controlli sulle piattaforme
di scambio delle valute virtuali, ed eventualmente limitazioni alla circolazione delle
banconote da 500 euro. Tornando all’intesa EU-US Privacy Shield, Business Europe,
l’associazione imprenditoriale europea, ha reagito positivamente a un accordo atteso con
impazienza dal mondo economico. Il direttore generale Markus Beyrer ha spiegato: «La
libera circolazione dei dati tra la Ue e gli Usa è la più importante al mondo. Questo
accordo è essenziale perché garantisce un quadro affidabile per i trasferimenti
internazionali di dati (…) È importante ora finalizzare i dettagli».
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SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI
del 03/02/16, pag. 15
Intellettuali silenti e declino dell’Università
Saperi. L’11 febbraio a Napoli un convegno accende i fari sulla crisi
dell’università diventata un sistema burocratico dove dominano le
cordate e i gruppi di potere
Enzo Scandurra
Il declino lento e inarrestabile dell’Università, la sua rinuncia ad essere l’universo, luogo di
produzione di sintesi convincenti, ben esprime e rappresenta il collasso narrativo
dell’Occidente e lo stato dell’afasia contemporanea.
Il dibattito sul suo ruolo si è, anni fa, incagliato (e lì è rimasto) intorno a questo nodo
fondamentale: sapere per il mercato o sapere per essere capaci di scelte consapevoli?
Ha prevalso il primo termine: quello che va bene al mercato, va bene anche all’università e
così a partire da Luigi Berlinguer si è sviluppato quel processo di declassamento e di
delegittimazione che sembra non conoscere fine.
Se sentiste parlare gli studenti, avreste modo di conoscere quanto essi non vedono l’ora di
abbandonarla come un luogo inutile, un castigo necessario, nell’attesa (sempre più
disperata) di un posto di lavoro. Forse fa eccezione qualche studente, sopravvissuto al
collasso, che tenta di ricomporre una qualche sintesi all’interno dei dottorati di ricerca, poi
niente, silenzio.
Avendo smarrito i propri fini, l’Università è diventata un sistema burocratico-amministrativo
fallimentare e improduttivo, senza alcuna capacità di scorgere i segnali del cambiamento e
tanto meno di possedere la capacità di interpretarlo e incidere sulle trasformazioni che
sconvolgono il mondo contemporaneo. E’ capace l’università, tanto per fare solo alcuni
esempi tra mille possibili, di fornire una qualche narrazione adeguata dei cambiamenti
climatici in atto, della questione ambientale, della crisi economica, della crisi del modello
urbano? No, non ne è capace, anzi si limita, nel migliore dei casi, a fornire dei rimedi
parziali, delle risposte inadeguate, essendo in tutt’altre faccende affaccendata.
Come affermava Pietro Barcellona, non esiste più una comunità scientifica, ma solo
alleanze fra cordate e gruppi di potere, là dove i nostri figli avrebbero disperatamente
bisogno di un Paese che si appropri del proprio futuro, che sappia progettare ponti e
cattedrali, scoprire i segreti delle stelle e i miracoli delle nanotecnologie, senza perdere di
vista, però – aggiungeva Pietro – che il vero problema è sempre il destino dell’uomo nel
tempo che ci tocca vivere. E alla scomparsa della comunità scientifica si aggiunge quella
drammatica della scomparsa della figura del Maestro.
Anziché una ricomposizione, i saperi vengono continuamente disarticolati, scomposti,
separati gli uni dagli altri fino al nozionismo più esasperato (i famosi Cfu, crediti formativi),
così da preparare il terreno a quei mitici concorsi universitari in ordine ai raggruppamenti
disciplinari (Ssd), vero e propri pilastro culturale intorno al quale si organizzano accordi
elettorali, cordate accademiche e produzione di inadeguati e falsi saperi. E che dire delle
pubblicazioni scientifiche sulla base delle quali una fantomatica Agenzia (Anvur) è
chiamata a giudicare ogni membro della morente comunità accademica? Intorno ad esse
– le pubblicazioni scientifiche – sono sorte migliaia di nuove riviste accreditate, fiorisce
l’unica attività editoriale ancora produttiva del Paese.
Per anni screditata dagli attacchi dei mass-media (luogo di malaffare, di corruzione, di
svendita degli esami, ecc.), l’Università ha finito con l’adeguarsi alla cattiva immagine che
di essa ne è stata fatta tra la gente comune, rinunciando perfino a far valere le proprie
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ragioni, non rintuzzando la concorrenza sleale delle varie libere università sorte come
funghi. Del resto, se essa è demandata solo a fornire sterili nozionismi, perché un privato
non potrebbe riscuotere maggiori successi?
Conosco sempre più docenti che hanno chiesto di essere messi in pensione prima del
tempo. Almeno da questo punto di vista, essi si sono arresi. Il declino dell’università, che
pure essi hanno ostacolato, avversato e combattuto con passione, ha finito con lo sfinirli.
Asor Rosa ha paragonato questo esodo a quello dei dinosauri in estinzione: «Questo
lungo e faticoso cammino – rispetto all’approdo finale, ossia lo stato presente delle cose –
fa sentire chi l’ha compiuto nelle condizioni di quegli animali primitivi che a un certo punto
uscirono di scena per il totale mutamento delle condizioni generali del pianeta» (“Il Grande
silenzio, intervista sugli intellettuali”).
Coloro che sono rimasti, si sono adeguati, così che dopo il Grande silenzio è subentrata
anche la Grande tristezza. Sembra una questione archiviata; le cifre e i numeri che
circolano sul suo stato di salute (meglio sarebbe dire sulla sua malattia terminale) ne
attestano la morte presunta. Forse a metterci sopra la pietra tombale sarà l’annunciato
(ennesimo) provvedimento di Renzi sulla “Buona Università”.
Ma in un’affollata assemblea di dottorandi e ricercatori precari, a Roma qualche giorno fa,
ho sentito esclamare: «Dobbiamo scatenare una controffensiva culturale di portata
equivalente a quella scatenata da Confindustria, verso la metà degli anni Novanta,
iniziando a criminalizzare l’università italiana. Dimostriamo loro che non siamo
bamboccioni improduttivi; noi produciamo scienza, nuovi saperi, cultura vivente….».
Benvenuta e salutare è allora l’iniziativa per l’Università promossa l’11 febbraio a Napoli
da, Arienzo, Bevilacqua, Bonatesta, Carravetta, Catalanotti, Olivieri (Lettera-Appello al
mondo dell’Università, su il manifesto del 22 gennaio). Coraggio si ri-parte!
Non dalle aule della Bocconi; questa volta si parte dalle macerie del Sud. E gli intellettuali
dove sono? Perché non escono dal Grande Silenzio per scendere in campo a fianco di
questi ragazzi, senza i quali il silenzio diventerà tombale?
del 03/02/16, pag. 4
Israele, l’università sforna-invenzioni e il
riflesso vetero-arabo dei nostri prof
Raccolta firme, 169 docenti italiani contro gli scambi di ricerca con
l’ateneo di Haifa
di Leonardo Coen
Alla fine del 2014, il Politecnico di Torino, l’Università di Torino e il Technion di Haifa
stringono un accordo di collaborazione e di ricerca che riguarda alcune problematiche
essenziali: la salute, l’energia, l’acqua. L’Israel Institute of Technology di Haifa (conosciuto
come Technion) è una delle università più prestigiose al mondo. Un polo d’eccellenza che
vanta 4 Nobel, l’ultimo è Dan Shechtman, che lo ottenne nel 2011 per la scoperta sui
quasicristalli. Lo scorso novembre, quando al Campus di Agraria di Grugliasco si tenne il
primo incontro previsto dalla convenzione – sulla tematica dell’acqua – un gruppo di
studenti interruppe i lavori.
Il giorno dopo apparve sulla facciata del Politecnico uno striscione di protesta in cui si
accusava l’università torinese di aver stretto accordi con un ateneo israeliano che forniva
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sostegno scientifico all’occupazione “militare” e alla “colonizzazione” della Palestina. Tre
mesi e mezzo dopo, esplode il caso: circola infatti per le università italiane una petizione di
accademici e ricercatori italiani per boicottare l’accordo col Technion e, più in generale,
contro le istituzioni universitarie israeliane. La sottoscrivono in 169. Nel documento si
legge: “Non accetteremo inviti a visitare istituzioni accademiche israeliane; non
parteciperemo a conferenze finanziate, organizzate o sponsorizzate da loro, o comunque
non collaboreremo con loro”. La petizione piace ad Hamas (Movimento per la Resistenza
Islamica egemone nella striscia di Gaza), che ne parla con enfasi sul suo sito ufficiale e
lancia un saluto ai firmatari.
Federico Bussolino, vicerettore dell’Università di Torino (che conta 2 mila docenti),
insegna biochimica a Medicina, si occupa di oncologia sperimentale. Pare sinceramente
indignato per l’iniziativa: “Rispetto le opinioni altrui, è il gioco della democrazia, però la
decisione di avviare questi progetti con Technion furono approvati a larga maggioranza dal
nostro Senato accademico, lo stesso è avvenuto per il Politecnico. La democrazia ha un
suo significato, anche a questi livelli.
La cultura e la scienza non devono essere strumentalizzate dalla politica. La libertà totale
della scienza va a vantaggio dell’umanità, nella sua totalità. L’accordo con il Technion è
totalmente accademico. Quanto a certe accuse, se noi abbiamo rapporti con industrie
israeliane, la risposta è no. La scienza va oltre le ideologie, nel nostro caso prevede
scambi tra studenti, dottorati e ricercatori su tematiche biomediche. La collaborazione
internazionale a livello scientifico è per il benessere di tutti”.
L’indipendenza dalla politica, sostiene Marco Gilli, rettore del Politecnico, è uno dei “valori
cardine dell’università”. Gli accordi non prevedono nulla che abbia a che fare “con guerra o
politica, la scienza è il miglior modo per superare le conflittualità. Boicottare Israele è
boicottare la ricerca scientifica”, ha detto, nel constatare che tra i firmatari della petizione ci
sono alcuni docenti torinesi, “un numero esiguo di ricercatori”, in rapporto ai 50mila
accademici italiani. Più caustico Piero Abbina, presidente dell’Italian Technion Society (un
ente privato che ha lo scopo di far conoscere in Italia l’attività dell’università di Haifa): “Il
boicottaggio non è solo contro Israele e le sue politiche. È di chiaro stampo antisemita”.
La polemica è destinata a seminare zizzania. Il sindaco di Torino, Piero Fassino, è sceso
in campo contro i firmatari del documento: “Il nostro obiettivo è far sì che Torino sia una
città tollerante, aperta, capace di riconoscere ogni identità”. Per questo, ha aggiunto,
stigmatizza chi propone di boicottare l’accordo dell’Università e del Politecnico con il
Technion. Dove, peraltro, il 15% dei docenti e il 20% degli studenti è arabo e dove
l’eccellenza della ricerca non ha confini etnici o religiosi, in linea con la storia e la
tradizione della città di Haifa. Forse è proprio questo ciò che infastidisce gli estremisti
ideologici.
Del 3/02/2016, pag. 21
Hanno un potenziale altissimo. Ma quasi nessuno, da grande, cambierà
il mondo Sul perché gli esperti concordano: la società ingabbia il loro
talento. Ecco come liberarlo
La solitudine dei piccoli geni “Così salveremo
la loro creatività”
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Una ricerca Usa sugli enfant prodige “Gli adulti facciano un passo
indietro”
MARIA NOVELLA DE LUCA
Hanno Iq prodigiosi ma difficilmente vincono il Nobel. Imparano magnificamente a suonare
Mozart ma raramente compongono un brano. Vincono le Olimpiadi di matematica, eppure,
da adulti, non è detto che risolvano nuove formule. Soprattutto spesso soffrono.
Intrappolati da vincoli, regole, scuole sbagliate e maestre insofferenti che ne imprigionano
e soffocano la creatività. Sono i bambini gifted, con il dono, plusdotati è il termine
scientifico, geni, più semplicemente. Sono il 2% della popolazione scolastica italiana, ma
nemmeno la metà riesce ad esprimere compiutamente il proprio talento. Oggi si sa che
spesso il loro “dono” viene confuso, addirittura, con i disturbi dell’attenzione, e possono
essere studenti eccellenti, o, invece, scarsissimi. Pochi finora si erano soffermati però
sulla “creatività perduta” dei bambini geni. E sul perché ai ragazzini prodigio non seguano
poi adulti altrettanto affermati. Adam Grant, docente di Psicologia alla Warthon School
della Pennsylvania University, ha provato a dare una risposta, sostenendo che molto
dipende da quella creatività bloccata nell’infanzia, e da quanto la vita dei piccoli geni sia
spesso costellata da diagnosi sbagliate e difficoltà di adattamento sociale. In un lungo
articolo sul New York Times, dal titolo “How to raise a creative children. Step one: back
off”, Grant spiega che per liberare in tutti, ma soprattuto nei piccoli geni quella forza
sepolta da troppe convenzioni, genitori, prof, coach e tutor devono fare un passo indietro.
«Nell’età adulta molti bambini prodigio diventano eccellenti professionisti, leader nei loro
posti di lavoro, eppure non cambiano il mondo. Perché?». Possono essere brillanti medici
ma non sovvertire le sorti della Scienza, o abili avvocati senza riuscire però a trasformare
le leggi. Per Grant, dietro a tutto questo c’è una società che ingabbia il talento, lo incanala
affinché non sfugga dalle maglie della normalità. «Bambini così intelligenti vengono spinti
a cercare la perfezione, e loro sentono terribilmente il peso delle aspettative ». Invece la
creatività è tutt’altro, è la passione assoluta per qualcosa, «dietro a artisti, musicisti, grandi
atleti spesso c’erano famiglie normalissime che non sognavano certo il figlio superstar...».
Eppure i bambini gifted hanno intelligenze così straordinarie che la loro creatività potrebbe
essere esplosiva. «Sapete come li curiamo? Con la psicoterapia, ma soprattutto con la
filosofia ». Anna Maria Roncoroni, neuropsicologa, fondatrice e presidente dell’Aistap,
Associazione italiana per lo Sviluppo della Plusdotazione, i piccoli geni li conosce bene. È
da lei che arrivano genitori con figli definiti “strani” dai professori, piccoli che in classe si
annoiano, magari hanno voti altissimi, ma sembrano asociali e arrabbiati. «La loro
creatività si spegne di solito nell’impatto con la scuola. In Italia almeno è così: l’importante
è livellare, e chi è troppo intelligente aspetta gli altri... Per un bambino però la noia è il
nemico più grande. Diventano nervosi, intrattabili. Noi cerchiamo di smontare il loro
desiderio di perfezionismo, lavoriamo con la psicoterapia, ma creiamo anche gruppi dove i
ragazzi di talento si possano incontrare e riconoscere». E poi naturalmente stage nelle
università, summer camp. Ma la particolarità è che negli incontri dell’Aistap solitamente si
parla di filosofia. «I gifted hanno bisogno di confrontarsi con temi alti. Hanno bisogno di
mettere alla prova la loro intelligenza, anche su questioni speculative e spirituali. In questo
modo — conclude Anna Maria Roncoroni — la loro creatività sepolta può emergere di
nuovo. Ritrovano la serenità. Ed è questo che conta».
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CULTURA E SPETTACOLO
del 03/02/16, pag. 11
Salone del libro, gli editori escono dal CdA
Editoria. Il presidente dell'Associazione Italiana Editori si dimette dal
Consiglio di Amministrazione della Fondazione del libro
B. V.
La decisione è arrivata come un fulmine. A renderla pubblica è stato Federico Motta,
presidente dell’Aie (Associazione Italiana Editori) che, con una nota, ha annunciato le sue
dimissioni dal consiglio di amministrazione della «Fondazione per il Libro, la Musica e la
Cultura», l’ente che organizza il Salone del Libro di Torino. «Alla luce dei profondi
cambiamenti e preso atto del ruolo progressivamente marginale di Aie in seno al CdA,
riteniamo non più indispensabile la nostra presenza nel CdA stesso della Fondazione». La
nota di Motta si conclude, confermando la partecipazione degli editori all’annuale
appuntamento torinese dell’editoria.
Le dimissioni di Motta arrivano dopo un periodo di tempo dove si sono susseguite diverse
ipotesi di ingresso di alcune banche nella Fondazione. È quanto afferma il presidente della
regione Piemonte Sergio Chiamparino, che si dichiara dunque sorpreso della decisione di
Motta: «mi sembra che il tema dell’ingresso delle banche nella Fondazione – ha affermato
Chiamparino a proposito del nuovo assetto della Fondazione – fosse stato affrontato con
argomenti convincenti durante l’ultima riunione dei soci».
Sulla stessa lunghezza d’onda la reazione polemica di Giovanna Milella, presidente della
Fondazione per il libro. «Stupisce – ha dichiarato Milella – la decisione del rappresentante
dell’Aie in un momento di profondo riassetto della Fondazione per il Libro, con la manifesta
disponibilità di divenirne soci da parte di Ministeri e Istituti bancari». Inoltre, per Milella, il
riassetto della Fondazione per il Libro è «un obiettivo che i soci della Fondazione per il
Libro intendono comunque portare a compimento nei tempi più celeri». L’obiettivo, va da
sé, è quello di fare «dell’edizione del Salone 2016 l’occasione del rilancio di una
manifestazione che è il più grande evento italiano dedicato al mondo del libro, e tra i più
importanti del panorama internazionale».
Sono però mesi che attorno al Salone del libro si sono addensate nuvole, che hanno
oscurato il successo dell’appuntamento torinese. A settembre ci sono state le dimissioni
della direttrice del Salone, Giulia Cogoli, in polemica con il presidente della Fondazione. Al
suo posto è stato richiamato Ernesto Ferrero. L’incidente sembrava chiuso, ma ad aprire
un altro fronte di polemiche sono state le notizie sui numeri dei partecipanti alle ultime
edizioni: per alcuni giornali sono stati «gonfiati» al fine di restituire un successo di pubblico
che non coincide con la realtà. Infine, la magistratura sta conducendo un’inchiesta dopo
che nel bilancio è risultato un buco di milioni di euro. Ultimo atto, l’uscita dell’Aie dal
consiglio di amministrazione della Fondazione. E tutto questo a poco più di due mesi
dell’inizio dell’edizione 2016, dedicata a generici paesi arabi dopo le polemiche che
avevano accompagnato l’annuncio dell’Arabia Saudita «ospite». Una realtà dove la libertà
di espressione e di scrittura non è di casa.
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Da l’Araldo dello spettacolo del 02/02/16
Gianfranco Rosi, l’unico italiano in concorso
alla Berlinale
By Giulia Bianconi
Il regista presenterà sabato 13 febbraio al Festival del cinema di Berlino
il documentario “Fuocoammare”
Diciotto film a caccia dell’Orso d’Oro. Uno solo italiano. Il documentario diretto da
Gianfranco Rosi Fuocoammare è l’unica opera del nostro Paese in concorso alla 66esima
edizione del Festival del cinema di Berlino, in programma dall’11 al 21 febbraio.
Il vincitore del Leone d’Oro alla Biennale di Venezia 2013 con Sacro Gra - stando al
programma ufficializzato oggi – presenterà sabato 13 febbraio il suo film alla Berlinale.
Kermesse cinematografica dedicata quest’anno a tre importanti artisti scomparsi
recentemente: Ettore Scola, David Bowie e Alan Rickman.
Fuocoammare è ambientato a Lampedusa, isola siciliana in cui il regista si è trasferito oltre
un anno fa per girare la pellicola e dove è anche venuto a conoscenza della sua
partecipazione alla kermesse cinematografica tedesca. Rosi racconta la storia del 12enne
Samuele, bambino che come tanti suoi coetanei va a scuola e ama giocare. Ma il luogo in
cui vive è diverso da molti altri. Su questa terra, ormai da anni, approdano migliaia di
migranti in cerca di una nuova vita. Il piccolo Samuele e gli altri isolani assistono così,
talvolta senza averne piena coscienza, a una delle più grandi tragedie umane della storia
contemporanea.
“E’ sempre difficile staccarmi dai personaggi e dai luoghi delle riprese, ma questa volta lo
è ancora di più – ha detto il regista, alla notizia della partecipazione al Festival – Più che in
altri miei progetti, ho sentito però la necessità di restituire al più presto questa esperienza
per metterla in dialogo con il presente e le sue domande. Sono particolarmente contento di
portare a Berlino, nel centro dell’Europa, il racconto di Lampedusa, dei suoi abitanti e dei
suoi migranti, proprio ora che la cronaca impone nuovi ragionamenti”.
Il regista, dopo aver svelato un mondo di persone “invisibili” nascosto dietro al Grande
raccordo anulare di Roma in Sacro Gra, senza dimenticare i lavori precedenti sempre
dallo stile documentaristico come Boatman e El sicario, torna a raccontare persone e
luoghi talvolta dimenticati.
Il film, prodotto da Donatella Palermo e dallo stesso Rosi, è una produzione 21Uno Film,
Stemal Entertainment, Istituto Luce-Cinecittà e Rai Cinema ed è una coproduzione italofrancese Les Films D’Ici e Arte France Cinema. Uscirà nelle sale italiane il prossimo 18
febbraio, dopo la presentazione nella Capitale tedesca, con Istituto Luce-Cinecittà.
Complessivamente sono ventitre i film selezionati per la Competizione principale, di cui
cinque fuori concorso e diciannove première mondiali. A presiedere la giuria che dovrà
decretare i vincitori sarà quest’anno l’attrice tre volte premio Oscar Meryl Streep, che nel
2012 ha ricevuto proprio nella Capitale tedesca un Orso d’oro alla carriera. Tra i giurati
anche l’italiana Alba Rohrwacher.
Tra i film in lizza, oltre al documentario di Rosi, ci sono anche Genius di Michael Grandage
con Colin Firth, Jude Law e Nicole Kidman sulla storia dell’editore Max Perkins che sarà
presentato il 16 febbraio e Alone in Berlin diretto da Vincent Perez (lo stesso di The
Secret) con Emma Thompson e Daniel Brühl in programma il 15 e ispirato alla storia vera
di Otto e Elise Hampel, che iniziarono una campagna contro Hitler distribuendo cartoline
anti-naziste per le strade di Berlino, dopo la morte del loro unico figlio.
L’apertura del festival, l’11 febbraio al Berlinale Palast di Potsdamer Platz (dove si
svolgerà principalmente tutta la kermesse), è affidata invece al film fuori concorso diretto
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dai fratelli Joel e Ethan Coen Hail, Cesar! (Ave, Cesare!) con Josh Brolin, George
Clooney, Ralph Fiennes e Scarlett Johansson, solo per citare parte del cast. La pellicola
racconta la storia di Eddie Mannix, un tuttofare nella Hollywood degli Anni ’50, che indaga
sulla scomparsa di un attore durante le riprese di un film. Fuori concorso anche Chi-Raq,
film di Spike Lee con Nick Cannon e Samuel L. Jackson, basato sulla commedia Lisistrata
di Aristofane in programma il 16 febbraio e interamente distribuito dagli Amazon Studios, e
della commedia francese Saint Amour con Gérard Depardieu, che sarà presentata il 19
febbraio.
Oltre alla Competizione principale, la Berlinale presenta altre sezioni interessanti:
Panorama, dedicata al cinema indipendente e artistico; Generation, rivolta a un pubblico di
bambini e adolescenti; Forum, che comprende film sperimentali o documentari realizzati
da giovani registi.
Nello stesso periodo del Festival del cinema di Berlino si svolgerà nella Capitale tedesca
dall’11 al 19 febbraio anche l’European Film Market, uno dei tre eventi commerciali più
importanti del settore cinematografico internazionale. Le sedi dell’Efm saranno anche
quest’anno il Martin-Gropius-Bau e il Marriott Hotel, entrambi sempre a Potsdamer Platz.
Del 3/02/2016, pag. 41
Escono i monumentali diari (1947-1997) del veterano della critica Mezzo
secolo di lottizzazioni, registi militanti, censure, grandi dive
Rondi
Cinema e intrighi di potere nell’Italia che non
c’è più
NATALIA ASPESI
Fu il suo «sempre compianto amico Giulio Andreotti» a suggerirgli di tenere un diario,
come faceva lui stesso, dicendogli «annotare tutto è, specie in particolari circostanze,
quasi una necessità » (in molti casi, si può insinuare, una necessità ricattatrice). E Gian
Luigi Rondi,
dalla tumultuosa vita culturale e istituzionale, protetto ma anche sorvegliato speciale della
politica in tempi in cui, pare impossibile, la politica soprattutto democristiana, era tanto più
invasiva e potente di oggi, gli ubbidì immediatamente. E il primo gennaio del 1947, a 26
anni, iniziò quasi ogni sera a scrivere tutto della sua vivacissima giornata piena di incontri
(e trame), ma quel diario, una testimonianza affascinante e importante di un’epoca in cui la
politica onnivora credeva ancora nella cultura e nella necessità di possederla, si è
interrotto nel 1997. Dice oggi Gian Luigi Rondi: «Dal 1993 ero stato presidente della
Biennale, non avevo mai tempo di fermarmi, a riflettere e a scrivere, e così mi passò
l’abitudine, forse anche la voglia». Cinquant’anni di vita privata e professionale di un
grande critico e personaggio delle istituzioni, cinquant’anni di cinema mondiale ma
soprattutto italiano, cinquant’anni di intreccio fra politica e cultura, racchiusi in 1320
pagine: un tomo enciclopedico di raffinata scrittura, che svela molti attimi inediti di un
passato mille volte svelato. Niente paura, malgrado la mole nell’epoca dei tweet, Le mie
vite allo specchio è una lettura molto appassionante, il romanzo di una Italia che non c’è
più, di un cinema che non c’è più, di personaggi importanti che non ci sono più, di una
potenza democristiana che forse c’è ancora ma molto travestita e molto meno imperiosa.
Lo stesso Rondi, in passato molto democristiano, ma prima, in guerra, partigiano tra i
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comunisti cattolici, comunque sempre fortemente antifascista, detestato e attaccato, al
tempo del suo massimo trionfo di critico e di responsabile di grandi eventi culturali da parte
delle molte sinistre dell’intellighenzia d’epoca, arrabbiata e talvolta (giudicata adesso)
pasticciona, oggi è iscritto al Pd.
Apriamo a caso il diario su una delle tante vite di Rondi. Due settembre 1970, a Venezia il
festival del cinema si è chiuso, il ministro dello spettacolo Gianmatteo Matteotti,
socialdemocratico, scontento della gestione di Ernesto G. Laura, chiede al critico, che fa
parte della giuria, di andarlo a trovare a Roma, dove gli offre di diventare il prossimo
direttore della Biennale cinema. Da quel momento passeranno nove mesi furibondi, per
promuovere, o impedire, la nomina, che arriva il primo giugno 1971: non come direttore,
ma come subcommisario, perché la Mostra è commissariata, dopo i casini dei rivoltosi,
ingenui, autolesionisti eroi del cinema italiano che però giustamente pretendono un nuovo
Statuto. È una storia illuminante della nostra politica culturale di quegli anni: la notizia è
ancora segreta ma subito la pubblicano, deplorandola, l’Unità e Paese Sera, Andreotti ne
parla a Forlani, Rondi a Gullotti, approvano alcuni grandi, tra cui De Sica e Fellini, il
commissario della Biennale Longo tentenna, ci vuole l’assenso di Forlani, però la Dc si
dice soddisfatta di Laura, i democristiani Rossini e Arnaud non vogliono Rondi perché
preferiscono Ammannati, Finocchiaro, socialista, rassicura, «non ci saranno ostacoli da
parte nostra perché oggi la Mostra spetta alla Dc», e chiamando “la banda del buco” il
critico pure socialista Lino Miccichè e “i suoi compari”, contrari a Rondi, dice di avere le
carte per ricattarli.
A Laura danno un’altra carica prestigiosa, Forlani e De Mita e la giunta esecutiva del loro
partito nominano Rondi candidato unico per la Dc e approvano il programma da lui
presentato. Il diario non tralascia una sola notiziola: l’Unità è arrabbiata e scrive che si
opporranno alla nomina «tutte le forze politiche e culturali le quali si battono per liberare il
cinema dal dominio padronale e burocratico ». Sono passati quattro mesi. il 1970 è finito e
la Mostra di Venezia non ha ancora un direttore. Alle ore 20 del 9 gennaio 1971 Emilio
Colombo presidente del Consiglio, comunica che «con Rondi si può procedere». I partiti di
maggioranza approvano, ottenendo in cambio altre sedioline per loro. Il 20 gennaio il
diario ci informa che le due associazioni di autori cinematografici «invitano la stampa a
denunciare le manovre di contrattazione sottogovernativa». Il 17 febbraio colazione di
Rondi con Antonello Trombadori del Pci e da quella parte «tutto si placherà se Gallo
otterrà la presidenza dell’Ente di Gestione ». Il 1 marzo, «Visconti mi dice che Antonioni,
Pasolini, Moravia e Guttuso sono andati da lui per chiedergli di ritirarmi il suo appoggio. Ha
rifiutato e sa che rifiuterà anche Fellini».
Ma la sinistra non demorde, Suso Cecchi d’Amico avverte che Laura Betti e il critico Lino
Miccichè raccolgono firme per un manifesto contro la sua nomina. Chi legge si sente
stremato da una guerra che appare troppo lunga e anche un po’ insensata; perchè è vero
che Rondi è democristiano, cioè il diavolo, è vero che è il cinecritico del quotidiano di
destra Ma Rondi, oltre ad aver creato molte cinemanifestazioni, è anche un critico
sapiente, che ha il fiuto per i grandi film, che sostiene checché ne dicano certi autori, il
buon cinema italiano: anche se poi, per non perdere il posto, si adegua al fastidio di
Angiolillo per tutto ciò che è vagamente di sinistra, per poi vergognarsene moltissimo. Il 4
marzo il diario riporta il manifesto degli autori che chiedono «che lo statuto fascista della
Biennale venga cambiato». E avanti nella piccola noiosa guerra, anche tra i comunisti, con
Trombadori (pro Rondi) e Napolitano (contro), sino al primo giugno: la nomina è fatta,
dopo tanto tempo perduto per una sola poltrona!
Nelle oltre mille pagine c’è posto anche per la venerazione di Rondi per Pio XII, la
diffidenza per Giovanni XXIII, la dedizione alla Mamma- Mamy, al Papà, alle Zie sempre
con la maiuscola, e l’affetto per il fratello Brunello, regista, c’è la moglie francese Yvette e i
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due figli, Joel e Francesco Saverio. Ci sono gli anni giovani, in mezzo ai divi e ai registi
che lo rispettano e temono: Gina Lollobrigida si fa sempre accompagnare da lui, Rossellini
lo vuole a Stromboli per fargli vedere le scene che sta girando e lui nota la disperazione di
Ingrid Bergman in un mondo che le è ostile, la vista di Claudia Cardinale lo turba, a cena
lo invitano tutti, Gassman e Fellini, Carlo Ponti e Alberto Lattuada.
Tempi finiti, quando il critico non era solo una colonna dei giornali, ma una star temuta e
osannata. Ma anche non del tutto libera, come quando Rondi scrive la recensione di Ladri
di Biciclette di cui è entusiasta, finendola con «grazie De Sica». Furore immediato di
Angiolillo perché «adesso quello è comunista. Quando esce parlane male». E Il
Gattopardo di Visconti? «Regia grandissima di Luchino». A Angiolillo però il film non è
piaciuto. «Così pur vergognandoni come un ladro, ho attenuato le lodi…sul piano morale
non mi stimo affatto».
Preziosissime le 18 pagine con l’indice dei nomi, soprattutto se si vuole sapere quante
persone Gian Luigi Rondi, 95 anni, tuttora critico brillante e presidente dei premi David di
Donatello è in grado di distruggere.
del 03/02/16, pag. 14
Intervallo sul cinema
Vincenzo Vita
Contrordine compagni. Non c’è più il pensiero unico, ce ne sono almeno due. Calma e
gesso, si sta parlando della riforma del cinema e dell’audiovisivo in discussione presso la
competente commissione del Senato. Infatti, la discussione ruotava attorno al disegno di
legge di Rosa Di Giorgi (sottoscritto da numerosi esponenti del partito democratico) – in
presenza pure dell’articolato di Francesco Giro di fede pidiellina – frutto di un lungo lavoro
istruttorio.
Modello di riferimento è quello francese, fondato su un centro nazionale per la
cinematografia che integra e supera le strutture ministeriali. Si aggiunge nell’ipotesi Di
Giorgi la «tassa di scopo», vale a dire il prelievo percentuale sui biglietti, e soprattutto sui
proventi degli editori televisivi, nonché dei gestori telefonici e dei fornitori di servizi di
comunicazione on line: gli «Over the top», vale a dire gli imperi digitali come Google.
Lacunoso qua e là, come sui temi dell’introduzione larga della didattica dei testi, incerto sul
delicato aspetto della redistribuzione delle risorse: però un punto di partenza. Tale da fare
immaginare possibile un’uscita dal vuoto pluriennale di una normativa di sistema, che
risale alla legge (Corona) 1213 del 1965: un anno d’amore, cantava Mina; e c’erano
ancora i Beatles.
Nel frattempo è cambiato il mondo.
Insomma, pur con riserve e necessarie modifiche, la strada sembrava spianata. Del resto
il ddl data 24 marzo 2015.
E, invece, ecco arrivare il governo, con un dispositivo decisamente oppositivo. Sparisce il
centro nazionale, viene sostituito il prelievo sui «ricchi» con una quota delle imposte – la
fiscalità generale – a carico dei protagonisti del settore (ma non gli «Over the top»), si
riduce al 15% del totale il flusso verso le opere a minor certezza di successo. Non meno di
400 milioni di euro in tutto, si dice. Non granché, visto che oggi affluiscono al comparto
circa 240 milioni (77 dal fondo dello spettacolo e il resto dal tax credit). E varie altre
differenze. Naturalmente, con molteplici (25?) decreti attuativi.
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Quasi un anno dopo, il governo smentisce di fatto la sua stessa maggioranza, suscitando
amarezza e sconforto nella quasi totalità delle associazioni interessate (a cominciare
dall’Anac e dai 100 autori), salvo forse l’organizzazione dei produttori.
Il rischio concreto è che ora il processo legislativo si interrompa o che si ribalti l’ordine
degli addendi, essendo la proposta del ministro Franceschini un collegato della manovra
economica, quindi formalmente prioritaria. Sarà praticabile una convergenza? Senza un
chiarimento politico vero non c’è da sperarci troppo. Del resto, già nelle due precedenti
legislature tentativi di riforma (Colasio, Franco) progenitori dell’attuale testo parlamentare
si impantanarono dopo incoraggianti inizi. Ovviamente, non c’è da augurarselo.
Tuttavia, è doverosa una scelta netta.
Dire «cinema» nell’era delle svariate piattaforme digitali significa evocare contenuti e
qualità. «Cinema» non è solo un medium, bensì anche un’opzione culturale che
attraversa, sostanzia l’insieme dei mezzi tecnici.
Significa mettere fine all’egemonia della televisione generalista, che ha occupato
l’immaginario collettivo, tra l’altro saccheggiando il patrimonio: solo la Rai nel 2015 ha
trasmesso 2.873 film -278 Rai1 (46 nel prime time), 1.425 Rai2 (56) e 1.170 (100) Rai3- di
cui solo il 40% italiani ed europei.
Ecco perché il cinema fiction e documentario ha bisogno di riconquistare centralità. Per
dare anima e memoria alla società dell’informazione.
del 03/02/16, pag. 17 (Roma)
Cultura e fondi per le Città d’Etruria
Stanziamenti regionali anche per Tivoli. Progetti per Cerveteri,
Tarquinia, Montalto
«Abbiamo scelto di investire sugli “hub” della bellezza». Con queste parole il governatore
del Lazio Nicola Zingaretti annuncia l’arrivo di un milione di euro per quattro progetti di
restauro e valorizzazione a Cerveteri, Tivoli, Tarquinia e Montalto di Castro, luoghi che
fanno parte del patrimonio Unesco.
A Cerveteri, con 300 mila euro, sarà restaurato un edificio, una volta cabina dell’Enel, per
la creazione di spazi di performing art, eventi culturali e promozione del territorio. A
Tarquinia con 312 mila euro sarà completato il primo piano di Palazzo Bruschi Falgari, con
il restauro della galleria e della sala grande. A Montalto di Castro, nel parco archeologico
di Vulci, stessa cifra, arriverà uno spazio destinato alla proiezione permanente in 3D della
Tomba François. E a Tivoli, con 259 mila euro, partiranno interventi per messa in
sicurezza e allestimento permanente dello spazio teatrale del santuario di Ercole Vincitore.
L’investimento non finisce qui: questa è una delle 45 azioni cardine della programmazione
europea stabilite dalla Regione per un importo di 10,2 milioni di euro nel triennio 20162018, dei quali 3,2 milioni nel 2016.
Si punta così molto sugli Etruschi, antichi e civilissimi abitanti della regione, dalle vestigia
uniche nel mondo. Per questo è stato creato un logo «Città d’Etruria» che uniforma il
sistema dei siti archeologici attraverso una comunicazione integrata: nuova segnaletica,
materiale divulgativo, realizzazione di infrastrutture di servizio alle visite e di infrastrutture
adeguate per raggiungere i luoghi, con 459 nuovi autobus del Cotral e 26 nuovi treni
regionali. Un patrimonio unico: «Basti pensare che - ha spiegato l’assessore regionale alla
Cultura Lidia Ravera - che Tarquinia con le sue cento e più tombe affrescate fra l’età
arcaica e quella ellenistica costituisce la più importante pinacoteca del mondo antico prima
di Pompei». «Valorizzando questo patrimonio si può costruire una nuova fase per la nostra
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economia - ha aggiunto Zingaretti - per produrre lavoro e benessere. Per questo,
nonostante la crisi, continuiamo a puntare su cultura e turismo».
Lilli Garrone
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ECONOMIA E LAVORO
del 03/02/16, pag. 2
Jobs Act, una ripresina pavida e anemica
Istat. L’aumento degli occupati a tempo indeterminato non rappresenta
nuova occupazione, ma una forma di stabilizzazione. Costerà poco alle
imprese disfarsi di questi lavoratori, che di fatto da disoccupati non
avranno nessun diritto in più
Marta Fana
La dinamica dell’occupazione, secondo l’ultima rilevazione sulle forze di lavoro Istat,
chiude pavidamente il 2015. Nell’arco dei dodici mesi il numero di occupati è cresciuto
complessivamente di un esiguo 109 mila unità.
Da un lato, la ripresina dell’occupazione pare restituire al lavoro italiano il suo carattere
duale in termini di genere: a beneficiarne sono infatti solo gli uomini (+132 mila) contro una
riduzione del numero di lavoratrici di -23 mila unità.
Dall’altro lato, i dati dell’Istituto di Statistica rivelano che la coorte, tra i 25 e i 49 anni, che
dovrebbe essere protagonista del mercato del lavoro continua a rimanere esclusa: la
perdita d occupati per questa classe di età è pari a 121,000 unità, accompagnata da un
aumento netto degli inattivi (+71 mila). Sono invece 189,000 gli occupati in più over 50 e
40 mila quelli under 25. Se ancora, il tasso di disoccupazione si è ridotto nell’anno,
attestandosi a dicembre all’11.4%, il numero di disoccupati (2,898,885) non pare dare
tregua all’ottimismo del governo. Chissà se il presidente della Bce, Mario Draghi, nel
chiedere «riforme strutturali efficaci per sostenere la ripresa ciclica» avesse o meno in
mente la scarsa efficacia del tanto acclamato JobsAct.
Dalla scomposizione per tipologia di contratto emerge che nel 2015 ci sono 135 mila
occupati in più a tempo indeterminato e 113 mila a termine, contro un calo di 138 mila
occupati indipendenti. Guardando la dinamica a partire da marzo – entrata in vigore del
Jobs Act – l’aumento dei nuovi occupati a termine supera quello relativo ai furono
lavoratori a tempo indeterminato (+139 vs +102 mila).
Ad ogni modo, in termini assoluti il mercato del lavoro in Italia pare arrancare e non
potrebbe essere altrimenti vista la dinamica di investimenti (ma anche dei consumi delle
famiglie) e più in generale quella del Pil.
Inoltre, osservando mese per mese il modesto aumento dell’occupazione a tempo
indeterminato non ci si può sottrarre ad alcune considerazioni di fondo. Il numero di
occupati a tempo indeterminato aumenta principalmente durante gli estremi: a inizio anno
e durante gli ultimi tre mesi. Una fotografia che infrange quella visione idealizzata, troppo
spesso elevata a certezza, che dipinge le imprese come attori benevolenti.
Come spiegano i dati amministrativi dell’Inps, l’aumento degli occupati a tempo
indeterminato non rappresentano nuova occupazione, ma una forma di stabilizzazione –
solo formale se avvenuta per mezzo di contratti a tutele crescenti. Costerà poco alle
imprese disfarsi di questi lavoratori, che di fatto da disoccupati non avranno nessun diritto
in più, se non paradossalmente di divenire disoccupati con maggiore facilità.
Una volta chiara la dinamica prevedibilmente insoddisfacente, nel metodo e nel merito
dell’operazione riformatrice, ci si potrebbe spingere a ipotesi ancor più maliziose: quante
imprese hanno nel corso dell’anno trasformato i propri dipendenti a tempo indeterminato in
tempo determinato per almeno sei mesi, così da poterli riassumere con contratti a tutele
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crescenti entro dicembre, beneficiando degli ingenti sgravi contributivi? In quali settori
operano?
Essere in grado di rispondere a tali quesiti aiuterebbe a comprendere le effettive
dinamiche del mercato del lavoro, il modo in cui le imprese sfruttano a loro favore lo già
sbilanciato rapporto di forza interno al mondo del lavoro. Gli sgravi sul costo del lavoro
appaiono infatti l’unica motivazione alle base delle assunzioni a tempo indeterminato, o
stabilmente precarie, soprattutto dal momento che queste non sono accompagnate da
nessuno sforzo da parte delle imprese in termini produttivi. Gli investimenti in capitale fisso
continuano a diminuire e di un rinnovato interesse per lo sviluppo di processi innovativi
nessun segno.
La stessa indifferenza pare caratterizzare il governo, che aveva puntato tutto sugli incentivi
per le imprese e sulla “retorica dell’art.18”, lo stesso che ha delegato la politica industriale
al mantra degli investimenti esteri senza curarsi delle politiche attive né del tessuto
industriale italiano – fatti salvi pochi marchi amici, mentre persino Eni decide di dismettere
il ramo chimico e lo stabilimento di Gela e come se non bastasse si adopera per la
cessione di Saipem e di Gas & Power.
del 03/02/16, pag. 2
Tanto rumore per nulla: dopo un anno gli
occupati in più sono come nel 2014
Istat. Report sull'occupazione a dicembre 2015. La «paradossale
coincidenza» (Cgil) è costata 1,8 miliardi nel 2015. Continua il crollo tra
le partite Iva: -58 mila a dicembre; -154 mila in un anno, ma nello statuto
del lavoro autonomo mancano forme di sostegno alla crisi dei redditi e
a quella dei compensi
Roberto Ciccarelli
Tanto rumore per nulla. Un miliardo e ottocento milioni di euro in incentivi alle imprese per
le assunzioni con il Jobs Act hanno prodotto in un anno, da dicembre 2014 (quando la
riforma non era ancora in vigore) al dicembre 2015, 109 mila occupati in più tendenziali. Il
saldo positivo, comunicato ieri dall’Istat, è lo stesso del 2014: 109 mila occupati su base
annua, con una crescita dello 0,5%. La coincidenza è stata fatta notare ieri dal segretario
confederale della Cgil Serena Sorrentino, che definisce «una paradossale coincidenza» il
risultato di fine anno. «Viene da chiedersi se davvero si può parlare di effetto miracoloso
del Jobs Act – aggiunge Sorrentino – e di riuscita delle politiche di elargizione alle imprese
dell’esonero contributivo se la tendenza è uguale all’anno precedente».
Ciò che, elegantemente, Sorrentino definisce «paradossale coincidenza», potrebbe anche
essere definito un costoso «buco nell’acqua». Tutto a spese del contribuente italiano che
nel prossimo biennio finanzierà le imprese con 3,7 miliardi nel 2016, 3,9 nel 2017, nel
2017, 2,1 nel 2018. A marzo – quando il Jobs Act di Renzi-Poletti avrà messo la prima
candelina sulla torta- il contribuente avrà speso 13,300 euro per ciascun nuovo assunto.
Secondo i calcoli della Uil, nei prossimi tre anni i nuovi assunti con il contratto a tutele
crescenti saranno costati 25 mila euro allo stato. Il risultato dei primi otto mesi della
pioggia di incentivi ne dimostra l’inutilità: anche senza la renzianissima riforma, il mercato
del lavoro avrebbe registrato gli stessi numeri.
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Sul calo di 21 mila occupati registrati a dicembre si sofferma Guglielmo Loy, segretario
confederale della Uil, “Il dato dimostra che l’occupazione sostanzialmente non è cresciuta,
nonostante sia stato l`ultimo mese utile per usufruire dei generosi incentivi.C`è da
preoccuparsi». Loy prosegue proponendo una sintesi dei dati annuali_ «Con dicembre –
afferma – si può fare una prima analisi sull`anno trascorso. Emerge che i disoccupati, tra il
2014 e il 2015, sono scesi di 200 mila unità; i lavoratori dipendenti sono aumentati di 193
mila, ma l`incremento a tempo indeterminato, pari a 80 mila0 unità, è molto meno forte
della crescita delle 113mila unità a termine”.
I ricchi incentivi si sono rivelati inutili per far rivivere un mercato del lavoro stagnante che a
dicembre ha registrato un’aumento della disoccupazione (+0,1 – 11,4%) e un altro
aumento dello scoraggiamento delle persone nella ricerca di occupazione. I dati Istat
confermano, una voltà di più, che a prevalere sono i rapporti di lavoro a termine, e non
quelli a tempo indeterminato. In più, gli incentivi hanno drogato il mercato dei dipendenti,
abbandonando i lavoratori autonomi e indipendenti. Sono loro i più penalizzati a dicembre:
– 54 mila; – 138 mila in nell’ultimo anno. Un’ecatombe.
Il crollo continua da mesi e incide complessivamente sul tasso di occupazione, tra i più
bassi dell’Eurozona con il 56,4%. Questa è un’altra prova che il Jobs Act e i sussidi alle
imprese non producono nuova occupazione. Davanti a questi dati sorprende che nella
misura appena annunciata dal governo sullo «Statuto del lavoro autonomo» sia
completamente assente una misura di sostegno alla parte innovativa e indipendente del
lavoro autonomo, sia in forma di equo compenso che in forma di reddito minimo.
Nel ritratto di un mercato del lavoro stagnante, si conferma la discriminazione di genere:
negli ultimi 12 mesi gli uomini sono risultati più occupati (+132 mila) rispetto alle donne (23 mila) tra le quali crescono le inattive: +154 mila. Tra i giovani, l’altra categoria più
colpita dalla crisi, la disoccupazione è ai minimi dal 2012 (37,9%), ma il calo è lentissimo (0,1% a dicembre) a causa del fallimento del programma a Garanzia Giovani»
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