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Recensione al volume Le scritture dell'ira, apparsa su "RR Roma nel
Rinascimento", 2016, pp. 216-218.
Le scritture dell’ira. Voci e modi dell’invettiva nella letteratura italiana. Atti di
convegno, Roma, Fondazione Marco Besso, 16 aprile 2015, a cura di GIUSEPPE
CRIMI e CRISTIANO SPILA, Roma, Roma TrE-Press, 2016, pp. 206
http://romatrepress.uniroma3.it/ojs/index.php/ScrittIra
Il volume, curato da Giuseppe Crimi e Cristiano Spila estende al campo della
letteratura italiana lo studio di un codice, che potremmo più correttamente
definire genere letterario, recentemente al centro di un nuovo interesse da
parte della critica: l’invettiva. L’ampio e dettagliato saggio di Spila (Il discorso
irato: elementi e modelli dell’invettiva, pp. 7-27), che ripercorre le origini
oratorie e bibliche di tale tipo di scrittura, fa da introduzione ad una raccolta di
contributi che spaziano dalle critiche di genere (Paola Cosentino, L’invettiva
misogina: dal Corbaccio agli scritti libertini del ‘600, pp. 29-49) agli strali
mariniani (Massimiliano Malavasi, “Simulando rigor, stringe la sferza”: appunti
su un lavoro del Marino, pp. 83-118; Gian Pietro Maragoni, Questioni aperte
sull’Invettiva contra il vizio nefando, pp. 119-130), dal romanzo europeo
ottocentesco (Daniela Mangione, Da Sterne a Guerrazzi: misure e contesti del
furore, pp. 131-144) alle invettive in prosa e poesia del XX secolo (Maria
Panetta, Tra politica e letteratura: le ‘pacate invettive’ di Benedetto Croce, pp.
145-158; Carla Chiummo, L’invettiva nella poesia italiana del secondo
Novecento, pp. 159-198). All’ambito della cultura della Roma rinascimentale
pertengono invece i saggi di Paolo Procaccioli (Il fiele dopo il miele (e il
pugnale). Aretino contra Giberti, pp. 51-66) e di Giuseppe Crimi (Uno scontro
tra flagelli: le rime di Franco contro Aretino, pp. 67-82).
La nota disputa che contrappone il datario apostolico e cardinale di Verona
Gian Matteo Giberti a Pietro Aretino, disputa che condurrà al ferimento di
quest’ultimo per mano di Achille Della Volta nel 1525 e quindi al suo
allontanamento da Roma, viene riletta da PAOLO PROCACCIOLI mediante una serie
di documenti letterari: alcune epistole dei due contendenti, una serie di
pasquinate, la Canzone in laude del Datario del 1525 e soprattutto una letterainvettiva a Gian Mattheo Mulo Vescovo di Verona indegnamente conservata in
due manoscritti e qui pubblicata per la prima volta in appendice (pp. 62-66). Il
dissidio, ben noto anche a letterati come Agostino Beaziano, Pietro Bembo e
Francesco Berni, viene interpretato non soltanto in chiave privata, ma “alla luce
di dinamiche più ampie di natura soprattutto politica” (p. 57), che fanno di
Giberti una delle cause (se non la principale) della “ruina pubblica” (p. 63) di
Roma e dell’Italia intera. Nella sua invettiva Aretino condanna l’operato di
Giberti sia dal punto di vista diplomatico (“et poi ci maravigliamo dello essere
andata in Bordello Italia”, ibid.), sia dal punto di vista pastorale (“cominciasti a
far miracoli con le riforme e sotto cotali furfanterie cercavi la tirannide nella
maniera che havesti a Roma”; ibid.), sia dal punto di vista teologico (“che
dispute farai tu con quello Martino Luthero che ... ha prevaricato le leggi
christiane?”: p. 65). Tale prospettiva religiosa viene marcata con maggior
insistenza nell’ultima parte della lettera, in cui Aretino contrappone alla
pochezza del cardinale di Verona (“Che libri di Religione hai tu composto?”:
ibid.) la propria ricchissima produzione sacra (“e perciò leggi l’Apocalipse che
io ho fatto et i sette Salmi, leggi la Passione de Christo da me composta leggi
l’Apocalisse ch’io espongo, e poi ti appicca che salà la più pietosa opera che
facessi mai”: ibid.). L’invettiva diviene così non soltanto mezzo di iroso attacco,
ma anche strumento per tracciare le coordinate del nuovo itinerario letterario
Perseguito da Aretino.
Al Flagello dei principi, Pietro Aretino, si richiama ancora GIUSEPPE CRIMI, che
rilegge le Rime contro Pietro Aretino e la Priapea di Nicolò Franco (raccolte
uscite a stampa nel 1541 e poi più volte accresciute fino al 1548) alla luce “di
un immaginario ben preciso, in cui la parola si fa arma” (p. 69). Le rime
rancorose di Franco acquistano così la dimensione di una vera e propria
“tenzone a senso unico” (ibid.) in cui la parola ferisce, la lingua e la penna si
fanno spade, i testi poetici armi, i versi pugnalate, secondo un uso metaforico
ben radicato nella tradizione biblica e letteraria. Particolarmente fortunato
risulta il tema della spada come strumento di riprensione, un motivo che
richiama in causa, tra gli altri, La spada di Dante Alighieri di Niccolò Liburnio
(1534), e che viene quindi trasposto in immagine nell’Iconologia di Cesare Ripa
nella descrizione della Riprensione, la cui illustrazione campeggia anche sulla
copertina del volume
FRANCESCO LUCIOLI