Seconda parte - Federazione Italiana Gioco Bridge

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Seconda parte - Federazione Italiana Gioco Bridge
TRE DOMANDE
A DOMENICO CHIARO
Niki di Fabio
arliamo del Procuratore Federale,
insomma la pubblica accusa. Vediamo di conoscerlo meglio. 48 anni, origini siciliane, sposato, tre figli, in magistratura del 1983, attualmente Procuratore della Repubblica
a Bergamo, passata esperienza quale componente dell’ufficio indagini della FIGC
dal 1989 al 1998, Sostituto Procuratore
FIGB dal 1996 e titolare dell’Ufficio dal
2001. Gioca, naturalmente, a bridge e lo
potete trovare facilmente a qualche campionato anche a Salso.
P
– Anche per te allora la prima domanda (si fa per dire) a piacere: cosa ritieni di dire a quanti partecipano ad una
competizione di bridge e pur dicendo
che per loro è solo un divertimento,
manifestano a volte un tale eccesso di
agonismo da rischiare l’infarto...
«Credo che per queste persone sia inutile ogni tipo di consiglio o raccomandazione; si tratta per fortuna di una
assoluta minoranza, perché in generale
il mondo dei bridgisti è fatto da persone che amano troppo questo gioco per
rischiare di subire squalifiche che gli
impongano di stare lontano dai tavoli
anche solo per qualche settimana. Per
gli altri (quelli a cui mi riferivo prima),
più che consigli e raccomandazioni,
avrei da esprimere solo avvertimenti,
perché, come alcuni recenti vicende
hanno dimostrato, la Giustizia sportiva
nel nostro ambito può colpire tutti e
duramente, senza condizionamenti di
sorta... ».
– Vedo che fai riferimento a recenti vicende ed immagino che ti riferisci alle
recenti e clamorose condanne in sede
disciplinare che hanno riguardato anche atleti di rilievo internazionale; la
fine del 2005 è stato un periodo di lavoro molto duro per la Giustizia sportiva, come ti senti ora che è ormai passata la burrasca?
«Certo, non è stato facile approntare
e portare a compimento i primi “maxiprocessi” della nostra Giustizia sportiva, ma tralasciando l’esame nel merito
dei provvedimenti (le sentenze a cui mi
riferisco sono ormai state pubblicate e
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sono sotto gli occhi di tutti), colgo l’occasione per ringraziare quanti hanno
reso possibile lavorare anche in questa
occasione in assenza da ogni possibile
condizionamento, così com’è giusto che
sia nell’interesse dell’intero mondo brigistico. Questa serenità ha consentito
peraltro ai nostri organi giudicanti –
cui va il mio plauso e la mia ammirazione – di valutare con il massimo scrupolo ed attenzione ogni singola posizione, con risultati che pure in qualche
caso non sono stati coincidenti con le
mie richieste, a conferma che non vi è
stato alcun “appiattimento”. A questo
punto, credo che il messaggio dovrebbe
essere forte e chiaro: nessuno è intoccabile e gli aspiranti “furbetti” sono avvertiti...
– A proposito di “aspiranti furbetti”,
forse non tutti avranno notato che in
alcune recenti sentenze sono stati ribaditi alcuni importanti principi a proposito di chi ha l’abitudine di utilizzare “segnali morse”. Possiamo dire qual-
cosa a riguardo?
«Sì, effettivamente, già prima della ormai nota sentenza relativa ai fatti di
Genova e Bordighera in qualche altra
sentenza era stato affermato il principio dell’assoluta validità della prova
cosiddetta logica (cioè per indizi) nel
giudizio disciplinare e su questa base si
era arrivati in quei casi alla condanna
per illecito sportivo di tesserati che avevano fatto ricorso a segnalazioni illecite nel corso del gioco, pur in assenza di
un accertamento riguardo ai possibili
codici di segnalazione. Questo principio è poi stato affermato più volte ed
oggi deve dunque considerarsi ormai
acquisito dalla nostra Giustizia sportiva, di tal modo che tutte le volte che
ragionevolmente posso dedursi il ricorso a segnalazioni illecite (sia per numero di mani “inquisite” e sia per lo
spessore tecnico dei giocatori coinvolti), sarà possibile affermare la sussistenza dell’illecito sportivo, anche quando rimangano ignoti i segnali di “orientamento”... Ma attenzione, questo non
significa che ogni mano sospetta darà
luogo ad un processo disciplinare: l’accertamento di un illecito sportivo a mezzo di prova indiziaria rimarrà un fatto
eccezionale e giustificato da un rigoroso procedimento logico di deduzione
che potrà fondarsi, come ho detto, solo
sul significativo livello tecnico del giocatore (che impedisca di ritenere ragionevole l’errore o la giocata causale) o
su una rilevante quantità di segnalazioni di mani sospette».
– A proposito di segnalazioni di mani
sospette, molti tesserati non comprendono bene quale sia a volte il destino
di queste ultime. Vogliamo dare qualche chiarimento a riguardo?
«Nel nostro ordinamento federale è
ancora previsto un archivio segnalazioni nel quale dovrebbero pervenire tutte
quelle notizie relative a giocate o licite
sospette, che non si ritengano avere tuttavia il rilievo di vera e propria denuncia disciplinare. Se la segnalazione è
genericamente indirizzata alla Federazione (e non al Procuratore federale) o
non ha all’evidenza il rilievo di denun-
cia disciplinare (perchè si limita a segnalare appunto un comportamento sospetto del tesserato), la stessa verrà avviata automaticamente all’archivio segnalazioni; viceversa, tutte le segnalazioni indirizzate al procuratore federale o che abbiano il contenuto di vera e
propria denuncia disciplinare, saranno
trasmesse al mio ufficio per la necessaria valutazione e daranno luogo all’iscrizione di procedimento disciplinare
che sarà definito con l’archiviazione o
con la citazione a giudizio dinanzi al
G.A.N. (Giudice Arbitro Nazionale). Ma
attenzione: una segnalazione che non
abbia minimo fondamento logico e che
appaia animata da esclusivo intento calunniatorio, potrebbe dar luogo ad una
incolpazione a carico dello stesso denunciante per violazione dell’art. 1 R.G.F.,
proprio perché in palese violazione degli obblighi di lealtà sportiva che sono
imposti a tutti i tesserati. Sarà dunque
opportuno che prima di inoltrare la segnalazione, soprattutto per i giocatori
meno esperti, si tenga conto anche delle valutazioni espresse in merito dall’arbitro ed, ove possibile, delle spiegazioni fornite in merito dagli interessati».
– Vi sono stati di recente modifiche al
nostro codice di giustizia sportiva che
riguardano la procedura; vuoi provare
a spiegare in parole semplici quali
sono le modifiche più rilevanti?
«Sì, in effetti il CONI ha di recente
approvato (e rese operative) le modifiche introdotte dal Consiglio Federale
su sollecitazione dell’apposita Commissione della quale fanno parte gli appartenenti agli organi di Giustizia. Lo scopo era quello di velocizzare ancora di
più l’iter del nostro procedimento
disciplinare, consentendo fra l’altro il
ricorso a strumenti di comunicazione
(quale il fax o la posta elettronica) che
sono ormai entrati nell’uso quotidiano
di tutti. Per sintetizzare, posso dire che
è stata eliminato ogni filtro da parte del
GAN per il rinvio a giudizio, in quanto
la citazione davanti all’organo giudicante viene ora disposta dal Procuratore Federale, dopo la contestazione degli addebiti all’interessato. Nell’atto di
contestazione il tesserato sarà ora invitato ad indicare un numero di fax od
un indirizzo di posta elettronica al quale si possano inviargli le successive comunicazioni, con l’avvertenza che, in
difetto di indicazioni, queste ultime saranno inoltrate all’associazione di riferimento (sarà dunque poi onere degli
organi direttivi di quest’ultima informare il tesserato del contenuto delle comunicazioni eventualmente pervenute
a suo nome), mentre sia il termine per
Bridge Mare Relax
22 maggio - 1° giugno 2007
rispondere alla contestazione, che quello per fissare il giudizio è stato ridotto a
10 giorni liberi. In tal modo sarà possibile essere chiamati a rispondere in sede disciplinare anche entro un mese
dalla data del fatto».
– Da ultimo vorrei conoscere la tua
opinione su quanto detto dal nostro
GAN, Edoardo D’Avossa in occasione
dell’intervista che immagino avrai letto sulla rivista di marzo-aprile dell’anno scorso. Cosa ne pensi della figura
del delegato regionale della procura ?
«Tutte le modifiche che proponeva il
nostro GAN nel corso della sua intervista per velocizzare (ulteriormente) i tempi della nostra Giustizia sono state rese
come ho detto operative già a partire
dal luglio dello scorso anno e dunque
fanno ormai parte del presente più che
del futuro; quanto all’idea di costituire
una rete di commissari che possano controllare le fasi finali dei campionati, credo che possa essere valida a patto che
non si finisca per creare una rete di incaricati “fissi” francamente sproporzionata rispetto alle esigenze. Sono pronto
a valutare le eventuali offerte di collaborazione di tesserati che abbia voglia
e capacità di collaborare con la Procura Federale, ma – sia chiaro – il tutto dovrà essere (come lo è per tutti gli organi
di giustizia) “gratis et amore dei... ”.
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LE ORIGINI
DEL BRIDGE
Luca Marietti
D
DA HOYLE AL WHIST
ue cenni veloci alla genealogia dei
nostri ferri del mestiere.
Sembra che le carte da gioco siano
state inventate intorno all’anno 1120 dai
cinesi e che vennero introdotte in Europa verso il 1300.
Il simbolismo dei semi è di influenza
francese: le PICCHE sono la nobiltà, le
QUADRI i mercanti, le FIORI i contadini e le CUORI il clero.
Risale al 1937 la proposta di introdurre un nuovo quinto seme, le AQUILE; l’esperimento era probabilmente
nato con l’ambizione di vendere qualche mazzo di carte in più, ma fallì miseramente nel volgere di qualche mese.
Per scovare le prime tracce di quello
che sarebbe evoluto all’alba del ’900
nell’attuale Contract Bridge dobbiamo
viaggiare nel tempo fino a circa metà
del Seicento, per la precisione nel 1674,
quando tale Cotton diede il nome appunto di Whist al capostipite del Whist
vero e proprio.
Sembrerà strano ma questa prima versione del Whist veniva giocata con solo
48 carte, dal momento che dal mazzo
venivano tolti i 2; solo più tardi, al tempo in cui Hoyle e Semyour pubblicarono i primi classici testi sui giochi di
carte, si giunse all’utilizzo del mazzo
completo.
Riguardo dell’etimologia del termine
Trump, ovvero l’atout, esso deriva dall’italianissimo gioco del Trionfo, che risale addirittura a prima del quindicesimo secolo.
L’ordine dei semi era quello classico
non per il bridge, ovvero CUORI, QUADRI, FIORI e PICCHE, da cui la frase
Come Quando Fuori Piove per ricordare appunto tale gerarchia.
Ed ecco spiegato, per chi se lo fosse
mai chiesto, perché il 2 di PICCHE è
considerato simbolo del minimo assoluto.
E andiamo alla storia; è l’inverno del
1736 quando un gruppo di gentiluomini inglesi, tra cui Edmond Hoyle e Lord
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Edmond Hoyle
Folkstone, si riuniscono abitualmente
al Crown Coffee House. Appassionati
di carte, decidono di abbandonare il gioco del Picchetto per studiare e dedicarsi al Whist.
Le regole che si impongono sono le
seguenti:
– Far giocare la mano più forte
– Studiare la mano del compagno così come la propria (non poco semplice,
dal momento che non esisteva la figura
del morto)
– Non forzare la mano del compagno
senza una stretta necessità
Hoyle va poi ben oltre e nel 1742
pubblica quello che sarebbe divenuto il
padre di tutti i trattati sull’antenato del
bridge, ovvero A Short Treatise on the
Game of Whist. L’impatto del testo è tale che nel volgere di pochi anni il Whist
è il gioco di carte più in voga in tutta
l’Inghilterra.
La prima edizione venne stampata a
Londra in poche copie, quasi a livello
personale, da John Watts. Da esse vennero poi prodotte innumerevoli versioni copiate; uno pei primi casi di pirataggio in grande stile, tanto che l’autore
e l’editore pubblicarono le edizioni successive vergandole con le proprie firme.
Oggi gli originali sono quasi introvabili
e una delle pochissime è esposta alla
Bodleian Library ad Oxford.
Nella sua opera Hoyle non spiega le
regole di base del gioco ma cerca di approfondire le strategie da seguire, è più
un manuale per esperti che un corso
base.
Riguardo all’autore si sa poco, di
certo sembra che abbandonò gli studi
di legge per quelli dei giochi, e di lui si
occuparono anche alcuni quotidiani
benpensanti di Londra. In uno di essi
compare il seguente trafiletto al riguardo: “Tra le famiglie più importanti del
Regno è comparsa recentemente una
nuova figura del Tutor, la cui funzione
è quella di completare l’educazione delle giovani Dame; alla stregua di un maestro di danza egli passa le ore al istruire le fanciulle ai piaceri mondani dei
giochi di carte. Per quanto assurdo possa sembrare, un numero sempre maggiore di genitori sembra richiedere questo tipo di servigio per le proprie figlie”. D’altronde, conclude benevolmente l’articolo, “sembra appurato che
il gioco delle carte coltiva la socialità
ed educa la gentilezza.”; altri tempi, cari miei.
Hoyle diviene il più ricercato istruttore di Londra non solo per le giovani
damigelle, ma anche per i loro cavalieri e per i genitori, e tutti comprano per
una ghinea a copia il suo manuale.
La sua autorità era tale da vedere coniata un’espressione comune, “according to Hoyle”, che fino a circa metà
del ’900 indicava in generale per i giochi di carte il concetto di giocare alla
regola, seguendo le regole dei testi.
Agli articoli adulatori che come sempre accompagnano l’uomo di successo
del momento si unisce un libercolo satirico che fa il verso al nume del gioco.
Hoyle ha la caricatura del Professor
Whiston, che dà lezioni a Sir Calculation Puzzle. Quest’ultimo è in un certo senso l’antenato dell’Esperto Sfortunato di Simon nel suo famosissimo
Perché perdete a Bridge; applica alla
lettera, o crede di applicare, tutti gli insegnamenti del maestro, ma non riesce
mai a indovinare un colpo, e il Profes-
sor Whiston ha il suo bel daffare a spiegare perché teoria e pratica non vanno
d’accordo.
Tornando a Hoyle in persona, forte
del successo che lo accompagnava egli
pubblicò successivamente The Gamesters’ Companion, The Polite Gamester,
e infine Hoyle’s Games considerato ancora oggi il più importante trattato di
sempre sui giochi di carte, che spazia
dal Whist al Picchetto così come dagli
Scacchi al Backgammon.
Lord Byron scrisse testualmente che
“Troia deve ad Omero quello che il
Whist deve a Hoyle”.
Il grande merito di Hoyle fu che la
diffusione del gioco varcò i confini dell’aristocrazie a cui era precedentemente confinato, divenendo popolare a livello di ogni ceto sociale. Un giornale
dell’epoca arrivò ad asserire che nel gioco del Whist ”oggi come oggi ogni ragazzino dagli otto anni in su se la cava
più che bene”.
Più che nelle case il gioco era diffuso
in tutte le Coffee House di Londra e
pian piano entrò nei più esclusivi club
privati, dove i Lord così come gli alti
prelati avevano la passione del gioco
radicata ai massimi livelli.
Tanto per raccontarne una, all’entrata
dei Circoli c’era un Libro delle Scommesse, su cui i soci firmavano gli impegni reciproci; nel novembre 1754 venne
riportato che “Lord Mountfort scommette cento ghinee con Sir John Bland
che Mr. Nash sopravviverà a Mr. Cibber”. Qualche mese dopo l’esito riportato è che “sia Lord M. che Sir B. sono
trapassati prima che la scommessa si
fosse conclusa”.
Terreno fertile per un gioco d’azzardo
quale il Whist.
La prima edizione Americana di
Hoyle’s Games venne pubblicata a Philadelphia nel 1790.
SALE LA FEBBRE PER IL GIOCO
Il primo codice delle regole del gioco
venne pubblicato presso la Caffetteria
White and Sander’s nel 1760 e nel 1851
fu la volta del più famoso regolamento
del Portland Club, redatto da Caelebs.
Benjamin Franklin, in una lettera spedita alla moglie durante un viaggio in
Inghilterra, racconta che “il Cribbage è
ormai fuori moda e ormai, da Parigi a
Londra, tutti giocano a Whist” (il Cribbage è uno dei primissimi giochi di carte, inventato si dice da un soldato inglese all’inizio del ’600).
Charles Maurice de Talleyrand-Périgord fu un aristocratico francese che ancora oggi viene considerato come il più
influente diplomatico della storia europea.
Lavorò anche in qualità di Primo Ministro sotto il Regno di Luigi XVI e poi
Charles Maurice de Talleyrand-Périgord
sotto Napoleone, e a lui viene attribuita
la seguente sentenza: “E così, povero
giovane, non giochi a Whist? Quale triste età avanzata stai preparando per te
stesso!”.
Il più grande giocatore dell’epoca fu
un altro francese, Deschapelles, il cui
nome è noto ancora oggi per un colpo
che prende il suo nome.
E anche in Italia il Whist godeva di
molta popolarità. Sembra che a Firenze, nei palchi dell’opera, sul finire del
’700 gli appassionati giocassero sulle note delle loro arie preferite.
A Londra nel 1793 nacque la rivista
Sporting Magazine, in cui una regolare
rubrica era dedicata al Whist.
Per rimanere in Inghilterra c’è da notare che il gioco era particolarmente
diffuso tra i militari, molti dei quali
pubblicarono volumi al riguardo.
Un buon esempio di quanto il Whist
venisse giudicato una valida palestra
per affinare il senso tattico ce lo può
fornire la dedica che il Generale Scott
riserva al Duca di Wellington nella prefazione del suo Easy rules of Whist:
“My Lord, nessun libro potrebbe essere
più indicato del presente per venir dedicato a Vostra Signoria. Sebbene nel
gioco del Whist molto dipende dalla
fortuna, la massima parte è determinata dall’intelligenza del giocatore. Le vostre vittorie in guerra sono state ottenute grazie alla vostra abilità in quello che
mi permetto di chiamare Il Gran Gioco
Militare. Per Vostro merito il mondo ora
è in pace e potrete dunque dedicarVi a
sconfiggere i nemici immaginari al tavolo di Whist seguendo gli stessi principi logici che tanta fama Vi hanno portato”.
Una bella sviolinata, non c’è che dire,
ma non so se il Duca avesse apprezzato, dal momento che dedicare un libro
intitolato Le facili regole del Whist è come dire che il destinatario queste regole è meglio che se le rilegga.
Dal codice di Portland prese spunto
la neonata American Whist League
quando nel 1891 codificò e modificò
alcune regole; tra queste ci fu che il premio partita si otteneva all’ottenimento
di sette e non cinque prese.
Il più grande impulso allo sviluppo
del Whist venne dall’avvento del Duplicato, che di fatto diede il via all’attività agonistica. Protagonista di tale
innovazione fu un personaggio che sarebbe diventato uno dei grandi Immortali del Bridge, Milton C. Work.
A questo proposito vale la pena di
soffermarci su questo grande personaggio. Credo che a molti bridgisti il suo
nome non suoni nuovo: il conteggio dei
punti così come ancora oggi tutti noi lo
utilizziamo, quattro l’ASSO, tre il RE e
così via, ha il nome appunto di Punti
Milton C. Work, con tanto di nome, cognome e secondo nome puntato.
Un’invenzione che prese piede universalmente solo parecchio tempo dopo la morte dell’autore, avvenuta nel
lontano ’34.
Fino agli anni Cinquanta l’influenza
degli insegnamenti di Ely Culbertson
fece sì che la massima parte dei bridgisti utilizzasse il suo metodo di valutazione della mano, basato sulle vincenti.
Ma non è questo che volevo raccontarvi, bensì la storia di un’intuizione
che di fatto diede vita al bridge di competizione così come oggi lo concepiamo.
La nascita e lo sviluppo del bridge a
partire dal suo predecessore, il whist,
senza dichiarazione e senza morto, furono in massima parte basate sulla partita libera, in cui sul breve termine l’influenza della sorte determinava spesso
le fortune dei contendenti.
Ai nostri tempi la partita è stata quasi
completamente soppiantata dal bridge
di gara, a squadre o a coppie che sia, in
cui il fine è quello di confrontare sullo
stesso terreno, ovvero le medesime smazzate. E sembra a tutti noi banale il concetto dei boards che passano da un tavolo all’altro.
Ma, come per quasi tutte le invenzioni, finché non ci si pensa il concetto è
tutt’altro che intuitivo.
Andiamo allora alla storia.
L’anno è circa il 1880 e Milton C. Work
è un giovane studente dell’Università
della Pennsylvania che ha ereditato dal
padre la passione per il whist.
A quei tempi gli unici testi sull’argomento erano a firma di tale Henry Jones, un inglese che scriveva sotto lo
pseudonimo di Cavendish. Il nostro Milton leggeva con avidità tutte le sue pubblicazioni sull’argomento, fino al giorno in cui gli capitò sott’occhio un capitolo dedicato al tentativo di eliminare il
fattore fortuna dal tavolo da gioco.
Mr. Jones raccontava di avere radu-
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L E ORIGINI
D E L BRIDGE
nato otto amici dividendoli in due squadre di quattro; aveva selezionato nella
prima coloro che a suo parere erano più
ferrati e nell’altra i meno esperti.
Alla fine, avendo fatto giocare un certo numero di smazzate uguali nelle due
sale, la compagine favorita aveva vinto
con facilità. A parere dell’autore l’esperimento aveva favorito i più bravi diminuendo l’effetto della sorte.
Milton decise di dare un seguito alla
storia; radunò i suoi amici appassionati di carte fondando con loro il Club del
Whist dell’Università della Pennsylvania e dando loro da leggere i pochi testi
in circolazione.
Forti di un minimo di preparazione
comune di base lanciarono allora la sfida a un gruppo di preminenti uomini
di affari che erano riuniti sotto il titolo
di Saturday Night Whist Club, il club
del whist del sabato sera.
Questi erano in teoria i migliori giocatori di Philadelphia che a cadenza settimanale si riunivano a casa di uno dei
membri a rotazione per interminabili
partite il cui fine era di radunare abbastanza soldi da organizzare a fine stagione un gran banchetto a spese dei perdenti. Non avevano mai sentito parlare
di testi tecnici e tanto meno di duplicato ma erano senza dubbio tutti giocatori di esperienza.
Incuriositi dalla proposta e desiderosi di dare una lezione ai giovani rampanti, accettarono il confronto. La sede
di gara fu la residenza di uno dei membri del Saturday Night, il Capitano John
P. Green, vice presidente delle Ferrovie
della Pennsylvanya.
Ed ecco come tecnicamente si svolse
quello che di fatto fu il primo duplicato interclub. Due stanze in cui i membri
di una squadra sedevano NORD-SUD
in una ed EST-OVEST nell’altra. Su ogni
tavolo un mazzo di carte e tredici fiches.
Durante il gioco ognuno teneva le proprie carte accanto a sé e la linea che si
faceva la presa prendeva una fiche; non
era ancora venuto in mente di tenere la
carta coperta orizzontale o verticale a
seconda di chi se aggiudica.
A fine mano le tredici carte di ognuno venivano mescolate per non indicare la sequenza del gioco, il risultato veniva annotato e i quattro di una sala andavano a giocare la mano conclusa nell’altra.
Così via fino alla fine, nessun board e
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Il team di Philadelphia.
due soli mazzi di carte.
I giovani fecero valere la preparazione di gruppo vincendo agevolmente e i
senior accettarono di buon grado la lezione formando poco tempo dopo con
loro l’Hamilton Club di Philadelphia,
che iniziò a occuparsi di Whist competitivo.
Il risultato fu pochi anni dopo la nascita della Lega Americana di Whist.
Un paio di anni dopo John T. Mitchell, forse il cognome vi dice qualcosa, introdusse il primo board da duplicato, rendendo di fatto semplice ed attuabile il whist di gara.
Milton C. Work divenne negli anni a
venire un preminente personaggio nel
giovane mondo del bridge, senza per
questo lasciare da parte la sua principale attività, che era quella di docente
di lettere presso l’Università della Pennsylvanya.
E non solo.
Tra le sue mansioni per così dire alternative c’era quella di allenatore della
squadra universitaria di baseball; di
giorno allenava i suoi ragazzi e di sera
li conduceva dalla passione del poker a
quella prima del whist e poi del bridge.
Ricordate che a quei tempi si scatenò
una tale passione per il nostro amato
gioco che tutti, dall’industriale fino all’operaio che immaginiamo sospeso alle travi nella costruzione dei grattacieli
di New York, dal banchiere all’impiegato, tutti dicevo approfittavano di ogni
momento di svago per una partita con
amici o colleghi.
In molti treni per i
pendolari c’erano
apposite carrozze
attrezzate con tavoli da gioco.
Si giocava persino in piscina.
Ma ora, a proposito di treni, rientriamo nei binari
del nostro filo conduttore.
Sempre nel 1891
venne sperimentato il metodo Howell per i movimenti dei tornei;
era più o meno lo
stesso che ancora
oggi sfruttiamo
quando il numero
di coppie è troppo
limitato per un
normale Mitchell.
Vi ricordo che
all’epoca parliamo di Whist e non
ancora di Bridge.
Il primo testo in
cui si parla di Bridge risale a qualche
anno prima, il 1886, e si intitola Birritch, or Russian Bridge.
Già, il nome Bridge non indica il
ponte immaginari che si instaura tra i
due compagni di gioco ma sembra essere semplicemente l’inglesizzazione di
un termine russo.
La differenza tra il Whist e il suo giovane successore era che il seme di atout
non veniva sorteggiato ma scelto di mano in mano dal mazziere o dal suo compagno nel caso il primo non avesse preferenze.
Nei primi anni del ’900 capitò che alcuni giocatori, trovandosi solo in tre,
provarono a giocare lasciando esposte
le carte del quarto. Leggenda racconta
che furono tre soldati in trincea a sperimentare per primi tale novità.
L’introduzione del morto rese di fatto
molto più divertente il gioco e poco per
volta il concetto prese piede anche per
i tavoli da quattro giocatori. Il nuovo
gioco, chiamato Auction Bridge, venne
sperimentato nei circoli di Londra.
Il rango dei semi divenne quello attuale, con le PICCHE in cima e le FIORI
in fondo.
L’Auction divenne Plafond e il Plafond piano piano fu soppiantato dal
nuovo arrivato, il Contract, in cui la
grossa novità era data dalla licita e dai
premi per i contratti di slam, ideati da
Harold Vanderbild, che incontrarono
subito grande successo.
E l’esplosione vera e propria avvenne
quando Ely Culbertson comprese che
unificando i metodi di dichiarazione in
un unico sistema standard e pubblicando a prezzo modico i primi trattati sul
gioco della carta il mondo era pronto
per gettarsi nelle braccia di quello che
negli anni trenta sarebbe divenuto lo
svago più in voga nell’America stretta
dalle morse della Grande Depressione
economica.
Anche qui vale la pena di soffermarci sul come e quando venne pubblicato
il primo libro di grande successo sul
gioco del bridge.
L’anno è il 1929, l’America sta entrando nel periodo buio della Grande
Depressione Economica e Ely Culbertson è un laureato in Economia appassionato di bridge immigrato in America
in tenera età, di sangue russo per parte
di madre e scozzese per parte di padre.
Josephine, sua moglie, compagna e
consigliera, lo convince ad imbarcarsi
in un drastico cambio di vita con le seguenti parole: “Ricorda che oggi come
oggi ci sono in giro troppi mediocri
professori di Economia e troppo pochi
veri esperti di bridge.”.
Insieme si buttano allora in un’avventura a dir poco rischiosa, la pubblicazione di una rivista dedicata al gioco
del bridge.
Bridge World conta di attirare l’interesse della crescente schiera di appassionati che a ogni livello sociale si dedicano a questo gioco, ma i primi mesi
della sua pubblicazione scontano come
è ovvio le difficoltà dell’avvio, le spese
iniziali e una diffusione ancora non
abbastanza capillare da risultare remunerativa.
La situazione è al limite della bancarotta quando Jo suggerisce al marito
una possibile via d’uscita: “Perché non
provi a scrivere quel gran libro di bridge di cui parli da anni?”.
“Già,” risponde Ely, “ma adesso ho
bisogno urgente di soldi, non ho certo
tempo per mettermi a scrivere”.
“Ma allora” replica Mrs. Culbertson
“annuncia sul prossimo numero che lo
stai per pubblicare e offri uno sconto ai
lettori che verseranno un anticipo per
prenotarlo”.
E così fu; Bridge World ricevette un
sacco di prenotazioni e con esse i fondi
per turare un po’ di falle.
Ma a questo punto bisognava scriverlo questo benedetto libro, e anche in
fretta.
Più facile a dirsi che a farsi.
Passano le prime settimane e la situazione ristagna.
“O scrivi o finisci in prigione, lo vuoi
capire?” insiste Josephine.
Mentre i termini si assottigliano i
Culbertson devono salpare per l’Europa
per un incontro internazionale e, colmo
dei colmi, due settimane prima dell’imbarco Ely viene ricoverato per un’operazione chirurgica.
La maggior parte delle pagine vengono dettate in ospedale e mandate direttamente in stampa e il capitolo finale
vede la luce proprio il giorno della partenza.
La prima edizione del “Contract
Bridge Blue Book” vende nel giro di un
paio di anni mezzo milione di copie e
così Bridge World come anche i suoi
fondatori sono salvi.
Quando pochi anni dopo esce anche
il “Red Book” sul gioco della carta seguito dal volume completo su licita e
gioco “Golden Book”, questi diventano,
difficile crederlo, i libri in assoluto più
venduti dell’anno in tutti gli Stati Uni-
ti; e non parlo di classifiche di settore,
intendo più venduti di ogni romanzo o
saggio di successo.
Marketing, ecco il segreto che distingueva Culbertson dagli altri pionieri
del bridge moderno.
Un esempio su tutti, Joshua Crane,
l’avete mai sentito nominare?
Definirlo una personalità poliedrica è
il minimo; nel palmares delle sue attività lo ritroviamo allenatore della squadra di football di Harvard senza avere
mai giocato, capitano della squadra
americana di polo, costruttore di uno
jacht che vinse importanti trofei internazionali.
Artista e musicista dotato di un certo
talento.
Golfista distintosi ad alto livello amatoriale.
E appassionato di bridge.
Joshua capitanò negli anni Trenta una
sua squadra inglese che giocava un sistema, da lui ovviamente creato, denominato Common sense system, Il sistema del buon senso.
Le basi prevedevano intanto di contare i punti col metodo Milton Work
del 4-3-2-1 ancora in uso attualmente;
aperture da una dozzina di punti in su,
preferenza per il palo lungo, per i Senza Atout sui minori, grande attenzione
ai valori distribuzionale una volta scoperto il fit.
Insomma, quello che tutti noi giocheremmo oggi come oggi ben volentieri
con un partner occasionale.
Vi ricordo che a quei tempi la bibbia
di Culbertson prevedeva il conto delle
prese onori e non dei punti, che le
risposte di due su uno a volte si basavano su una lunga e non sul punteggio.
Ebbene, chissà che evoluzione del
nostro gioco avremmo visto se
anche Crane si fosse saputo vendere come Culbertson.
C’è da dire a prova delle buone
intenzioni di Culbertson che quest’ultimo ospitò ben volentieri sulle
pagine della sua rivista alcuni articoli di Crane che spiegavano nei
dettagli le caratteristiche del suo
sistema.
E così, da allora, la storia ha fatto
il suo corso; da noi nacque la FIB,
poi la FIGB, nacque il mitico Blue
Team, e oggi c’è il nuovo grande
Blue Team.
In questi ultimi anni in cui il
board viene spesso soppiantato
dallo schermo del bridge ondine,
dobbiamo ricordare che nulla ci
darà mai la sensazione della sfida
dal vivo.
E tutto questo è stato possibile
grazie all’inventiva di quelli che
per noi bridgisti, razza a parte nel
mondo animale, sono stati i nostri
padri fondatori.
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