La prima cosa bella

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La prima cosa bella
i film per discutere – la recensione del Centro Berne
La prima cosa bella
Un bambino guarda sua madre che sfila su un
palcoscenico e diventa per una sera, al mare, una
reginetta di bellezza, è impacciata, intimidita da tanto
inaspettato regalo, e felice.
Ma il figlio se ne vergogna. Ma perché non ne è fiero?
La figlia più piccola, lì accanto, invece ne gioisce e
forse anche vorrebbe emularla, ma non osa, vede di
fianco a lei sguardi corrucciati, tenebrosi e muti
rimproveri. Così si controlla, incrociando lo sguardo
livido del fratello abbassa in gran fretta le manine
festanti. Non capisce e si frena.
Anche il marito effettivamente è serio e per nulla
contento, i maschi, si capisce, sono entrambi gelosi
(e invidiosi) di tanta vitalità.
Quando la madre scende dal palco e rientra nei ranghi c’è
rabbia, vergogna, riprovazione, forse anche qualche punitivo e nascosto gesto violento, lei piange
umiliata “ma cos’ho fatto di male?”.
In quel piccolo tempo sospeso e unico, in quel micro evento, Virzì inscena un tipico Copione
familiare e il copione del suo film.
Il bambino per tutta la vita guarderà quella madre e il suo mondo espressivo come un pericolo,
non sa perché naturalmente, in quel tempo è ancora un bambino, ma gli si formerà dentro un
divieto profondo e cupo a mostrarsi, a esprimersi, a essere lui stesso spontaneo e vitale.
Il film segue quel bambino, prende il suo punto di vista mogio, triste e refrattario a ogni
coinvolgimento emotivo, è commovente vedere come, suo malgrado, viene coinvolto nel
trambusto continuo della vita di sua madre. Lui la spia, la giudica, la patisce, tra l’indifferente
e il rassegnato, fino a scoppiare quando un evento, davvero insopportabile per un ragazzo, gli
viene offerto quasi come un dono intimo, segreto, che dovrebbe accomunare e invece divide.
E allora fugge, comincia ad abbandonarla finalmente al suo destino, abbandonando anche quella
sorellina, piccola e tremante, che mai osa intromettersi o ribellarsi.
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Valerio Mastrandrea, che interpreta il ragazzo diventato adulto, ci regala un personaggio stranito,
svagato, molle, triste.
Seppure non la sappia riconoscere quella vitalità materna gli vive dentro, rifiutata e compressa, è
sopravvissuta miracolosamente dentro di lui nella poesia, nella donna con cui vive, lei sì bella,
vitale, sana e simpatica.
E sopravvive pure nella sua sommessa creatività, nella trasgressione, e in quel suo bellissimo
sguardo disincantato, ironico, distaccato e così intelligente. Una vitalità che appena viene sentita
subito viene frenata. E’ troppo forte per lui. Vuole perfino lasciare quel tesoro di compagna che
rappresenta proprio la sua parte allo stesso tempo negata e cercata.
“Tu sei molto meglio di me” lui le dice e lei ride. “Sei proprio matto!”.
Poi d’improvviso la notizia che la madre sta morendo e qui inizia per il protagonista, un vero e
proprio calvario. Sfuggente, riluttante, imbarazzato, introverso, e sempre sul punto di scappare,
Bruno (appunto Mastrandrea) è costretto a tornare a Livorno dove sono rimaste a vivere la
mamma e la sorella.
E da qui inizia il suo percorso che lo porterà a re-incontrare sua madre e a ri-conoscerla.
Prima lo fa col suo solito modo: bellissima la scena del ballo fra lui e la madre, lei raggiante per
lo spicchio di vita che ancora le è concesso e lui accasciato fra le sue braccia, vuoto e pesante.
Bellissima la battuta che Bruno, sempre ironico e provocatorio, spara in faccia al fratello
rivelato: “la nostra è una mamma importante, ha rovinato la vita a me e a mia sorella, se vieni
anche tu a trovarla forse riesce a rovinare la vita anche a te”.
Ecco, per me è questo il tema forte di questo film: i figli conoscono i loro genitori dagli effetti
dei loro comportamenti, da ciò che subiscono (e sempre subiscono) e capiscono, e con quelle
poche rozze e spesso male interpretate informazioni si cuciono addosso un abito e uno “stile” che
indosseranno tutta la vita. Interpreteranno quel personaggio per tutta la vita.
Bruno però è costretto a rivedere sua madre, si dibatte, si sorprende, si ribella, ma finalmente alla
fine capirà che ciò che aveva rifiutato da picciolo era veramente “la prima cosa bella”.
Scopre una “madre coraggio” allegra, vitale, positiva, innamorata della vita, pronta al sacrificio
anche per i figli, nonostante l’ingenuità e spesso l’immaturità.
Ma anche lo spettatore ripercorre assieme a Bruno, e grazie ai flash back che ricostruiscono la
drammatica vita della famiglia, le traversie di questa donna scacciata e rincorsa da un marito
geloso, violento, un carabiniere che certo la ama, ma drammaticamente incapace di essere fiero
del valore che pure ha sposato.
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Bruno rivaluta i sacrifici, le botte, le umiliazioni, la povertà, le scelte disumane, ma anche la
fierezza, la gioia di vivere e di essere al mondo, l’autenticità e l’espressività libera e genuina
anche quando può risultare invadente, fragorosa, egocentrica.
Meravigliosa la scelta della sceneggiatura e della regia di concludere la vita e il film con il
matrimonio della madre con il vicino di casa (interpretato da Marco Messeri, un genio del
dettaglio espressivo e della misura nella comicità) che silenziosamente, ma accoratamente e
protettivamente, l’ha amata per tutta la vita.
Una gioia immensa che corona le vite di entrambi, che riappacifica, che svela gli affetti, che
costringe tutti a prendere finalmente parte alla vita, a guardarsi dentro e scoprire cosa conta
veramente.
E tutto questo avviene perché Anna ancora una volta sceglie l’amore e la sua espressione.
Perfino la sorella piccola, adattata e timorosa fino ad allora, esplode in un gesto rivelatorio e
liberatorio, fa il salto che sempre aveva temuto di fare, non ha più bisogno del fratello maggiore
per farlo, anzi gli fa vedere lei come si fa, a darsi finalmente la vita che si erano tolti.
Questo è un film sugli equivoci che influenzano i caratteri dei bambini e ne formano il Copione
di vita, un film che invita da grandi a conoscere i propri genitori al di là dei ricordi che abbiamo
inconsciamente selezionato e interpretato, un film che si affianca a quello, appena uscito e pure
bellissimo, di Rubini, “l’uomo nero” dove invece è un padre a essere al centro di un
ri-conoscimento e di una ri-valutazione.
Ci sarebbe molto da dire sull’esuberanza di certe madri o anche di certi padri, che i figli spesso
vivono come problematica, ed è pur vero che un genitore dovrebbe essere più liberatorio che
invadente, più stimolante che prepotente, ma è pur vero che molto, come sempre, dipende dalla
misura. E la misura dovrebbe essere sempre data dall’armonia della coppia genitoriale, non dalla
contrapposizione dei caratteri, non dalla polarizzazione che finisce sempre per esasperare i
comportamenti genuini o repressivi e per metterne alcuni in cattiva luce.
Non è l’esuberanza materna a rovinargli la vita, come ha sempre pensato Bruno, ma come questa
esuberanza è stata gestita in famiglia, espulsa, abbandonata a se stessa, non protetta né
valorizzata. E’ quello che ne ha fatto il marito che conta, ed è quello che hanno imparato a farne,
dentro di sé, sia Bruno che la sorellina.
Ho lasciato per ultime le figure femminili perché ne voglio parlare con ammirazione.
La prima parte femminile che ho ammirato è quella di Virzì (e dei suoi sceneggiatori immagino)
che ha saputo cogliere nella malattia e nella morte, la bellezza della vita. E’ l’aver saputo
ricostruire e rappresentare il dolore con la consapevolezza che per gli esseri umani nulla, come il
dolore vero, può essere così unificante, intenso, vitale, profondo, e alla fine, e non è un non
paradosso, vivificante.
Le donne lo sanno, e soprattutto le madri che nel dolore e nella gioia danno la vita.
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La tristezza psicologica di Bruno, la passività della sorella, la gelosia del marito, l’invidia della
zia, sono dolori secondari, auto procurati, seppure inconsciamente, sono Copionali, mentali, ma
il dolore di fronte alla malattia, alla perdita di una persona cara, alla propria morte che viene, è
ancestrale, naturale, fa parte della coscienza intensa della specie umana che da sempre conosce il
proprio destino mortale. Fa venir voglia di ballare, di sposarsi, di cantare, di mangiare zucchero
filato, di fare shopping in centro, di abbracciare e di baciare le persone, fa venir voglia di vivere
con l’intensità che spesso colpevolmente, noi esseri umani, dimentichiamo fra i crucci di ciò che
poteva essere e non fu. Altro che sonnecchiare al parco, come si riduceva a fare Bruno!
Persi dietro le recriminazioni perdiamo vita e meno male che ogni tanto un grande film o una
disgrazia scampata ce lo ricorda.
E poi Micaela Ramazzotti e Stefania Sandrelli, che interpretano la madre da giovane e ai giorni
nostri, sono bravissime nell’interpretare un femminile che non deve essere confuso con la fatuità.
La vitalità e la bellezza nell’esprimersi e nel mostrarsi possono essere pure o volgari.
Possono essere originarie, autentiche, spontanee, senza scopo né malizia, proprio come sono di
persona Micaela e Stefania, ci scommetto.
La bellezza non è mai fatua quando è espressione di vitalità, intensità, spontaneità, fiducia negli
altri, apertura. E’ fatua, falsa e manipolatoria quando esprime solo un aspetto esteriore ostentato
come unico valore, come strumento di seduzione esclusivo, che non ha nulla dentro, se non la
voglia di piacere ed emergere.
E’ la vera bellezza e la vera esuberanza a spaventare gli uomini che non ce l’hanno e che per
raccoglierne un po’ cercano di appropriarsene sposando la donna che le possiede, salvo poi
sentirsene minacciati e invasi. Prima le vogliono e poi le combattono come fanno sia il marito di
Anna che il figlio Bruno, guarda caso, con la sua compagna.
Come sempre cerchiamo nel nostro partner ciò che non abbiamo noi, ma poi invece di
approfittare di tanta fortunata e gratuita risorsa, e imparare, tentiamo di assoggettare quel
possibile dono, di comprimerlo, di negarlo. E questo imparano pure i figli.
Il matrimonio finale è proprio, al contrario, il desiderio di entrambi di lasciarsi completare,
evolvendo come persone, grazie alle risorse che l’altro possiede, anche con la morte che
incombe.
Non è certo un colpo di testa, ma finalmente la realizzazione di sé, grazie alla vicinanza
dell’altro.
Marco Messeri accudisce la bellezza che ha amato silenziosamente fino all’ultimo e Stefania
Sandrelli finalmente trova requie e pace fra le sue braccia protettive.
Il finale mi ha ricordato un altro bellissimo film “Respiro” di Crialese.
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Anche lì c’è una madre spregiudicata e un po’ troppo bambina naturale per una Favignana
maschilista e tradizionale, anche lì la protagonista (Valeria Golino) talvolta esagera e,
sprovveduta com’è, aggrava la sua situazione con qualche colpo di testa improvviso ma anche lì,
alla fine di fronte a una tragedia scampata, tutto il paese si tuffa in mare per riaccoglierla e per
ritrovare una naturalità, una fisicità, un’appartenenza solidale e corale, che sconfigge pregiudizi e
disprezzo, invidie e gelosie. Nell’acqua ritroviamo l’armonia e la calma, la compassione e la
conoscenza.
Ritroviamo i corpi bisognosi di calore e fluidità, di leggerezza e scivolamento, di sensualità e
nudità, di spensieratezza ed entusiasmo per la vita. Proprio quello che avevamo all’inizio della
vita, nel liquido amniotico, di certo spensierato, accudente, protettivo.
Un’ultima cosa voglio aggiungere sulla regia, sulla sceneggiatura, sul montaggio, non so su che,
ma raramente in un cinema ho pianto e sorriso allo stesso tempo. Mi piacerebbe molto sapere
come si fa a essere così intensi e leggeri, gravi e buffi allo stesso tempo.
Se si compra il dvd non si perdano di vista i contenuti speciali.
G.P.
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