Al diavolo con le mie gambe. Lettere di un poeta guastafeste
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Al diavolo con le mie gambe. Lettere di un poeta guastafeste
Atlante digitale del '900 letterario www.anovecento.net Al diavolo con le mie gambe. Lettere di un poeta guastafeste (a c. di Chiara Di Domenico, Roma, L’Orma, 2015) «Allora fuggii sui miei monti, sempre bestialmente perseguitato e insultato e scrissi in qualche mese i canti Orfici» (Dino Campana, Al diavolo con le mie gambe. Lettere di un poeta guastafeste, a cura di Chiara Di Domenico, Roma, L’Orma editore, 2015, p. 37) Così scrive Dino Campana ad Emilio Cecchi nel 1916 da Marradi ripercorrendo tutti i momenti cruciali degli ultimi due anni: partendo dalla furiosa invettiva contro i nemici/amici Giovanni Papini e Ardengo Soffici (definiti «ladri spie venduti e vigliacchi»), passando attraverso il racconto della veloce riscrittura del manoscritto perduto, per finire con un tenero saluto all’amico Cecchi, uno dei pochi di cui ancora si fida. Non è difficile capire perché Campana si ponga in maniera tanto ostile nei confronti dei fiorentini. Giunto a Firenze nel 1913 presso la rivista «Lacerba» con l’intento di stampare il suo manoscritto Il giorno più lungo, che verrà perduto da Papini di cui Dino riporta le parole: «Mi disse che non era tutto quello che si aspettava (?) ma era molto molto bene» (p. 38). In seguito Dino assume atteggiamenti ambigui nei confronti dei più grandi letterati dell’epoca tanto che passa da feroci invettive a richieste quasi disperate di collaborazione per supplire alla sua condizione economica precaria. Nel 1915 scrive, per esempio, a Soffici: «Ho trovato alcuni studi di psicanalisi sessuale di Segantini, Leonardo ed altri che contengono cose in Italia inaudite e potrei fargliene un riassunto per Lacerba. […]» (p. 26). Tuttavia, nel 1916 il dissidio con i lacerbiani ed i vociani giunge al culmine e Dino arriva persino a minacciare Papini scrivendogli: «verrò a Firenze con un buon coltello e mi farò giustizia dovunque vi troverò» (p. 36). Spesso a causa di queste lettere particolarmente furibonde, i suoi contemporanei e la critica successiva hanno ritenuto giusto etichettare Campana come un «povero pazzo». Tuttavia Dino fu un www.anovecento.net incompreso e un alienato per tutta la sua esistenza, a cominciare dalla sua infanzia. Infatti, a soli 15 anni Dino fu mandato dalla madre bigotta e dal padre nevrotico in un manicomio, proprio negli anni in cui quel luogo comprendeva senza distinzioni persone “affette” dalle più disparate forme di malessere. Ed a queste continue segregazioni, Dino spesso reagisce fuggendo; al riguardo Papini scriverà: «aveva girato molto per il mondo, più per disperazione che per ricerca». A cominciare da Genova, città alla quale Campana rimane particolarmente legato per tutta la vita, l’autore passa per Svizzera, Francia, Sardegna, Torino ed arriva perfino in Argentina. Affascinato dalla lettura di Leaves of Grass dell’americano Walt Whitman, Campana parte per il nuovo continente, alimentando l’idea del suo animo ribelle, turbolento e stravagante in continua fuga. A conferma della sua ammirazione per Whitman, Dino inserisce in apertura dei suoi canti Orfici un’epigrafe tratta da Song of Myself e scrive all’amico Cecchi: «Se vivo o morto lei si occuperà di me la prego di non dimenticare le ultime parole They were all torn and covered with the boy’s blood che sono le uniche importanti del libro» (p. 40). L’immagine, sebbene cruenta e sanguinosa, potrebbe rappresentare la gloriosa dichiarazione dell’indipendenza della poesia di Campana, che rompe i legami con le regole del passato e attacca sanguinosamente i suoi nemici avanguardisti italiani, dalla cui cerchia è rimasto sempre escluso a causa delle sue innovazioni stilistiche e formali. Se da un lato Campana sembra resistere arrogantemente e persino vantarsi di questa sua esclusione dai circoli culturali dell’epoca, dall’altro in una lettera a Prezzolini del 1914 percepiamo tutta la sua fragilità: «Io sono un povero diavolo che scrive come sente […] nessuno mi vuole stampare ed io ho bisogno di essere stampato: per provarmi che esisto, per scrivere ancora ho bisogno di essere stampato» (p. 19). Alla fine, Dino trova solamente un piccolo tipografo di Marradi disposto a pubblicare i suoi canti, nonostante si sia rivolto ai più importanti editori dell’epoca. Dunque, sebbene spesso Dino Campana viene visto come un poète maudit italiano, più probabilmente fu solo un poeta inquieto chiuso nella sua solitudine, vestito da contadino e con i capelli lunghi, un uomo che si sente apolide in cerca di una patria ideale, come egli stesso scrive nel 1916 a Cecchi: «Ora io dissi die tragödie des letzen germanen in Italien mostrando di aver nel libro conservato la purezza del Germano (ideale non reale) che è stata la causa della loro morte in Italia. Ma io dicevo ciò in senso imperialistico e idealistico, non naturalistico. (Cercavo idealmente una patria non avendone)» (p. 40). Contributo Alessia Pracella, V B (L.C. Virgilio, Roma) www.anovecento.net