Credere di credere
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Credere di credere
Andrea Babini CREDERE DI CREDERE la religione e la retorica Nel breve periodo fra la Pasqua cristiana e il 1° Maggio, quest'anno si è verificato un fenomeno alquanto curioso, una di quelle congiunzioni astrali che è dato vedere solo poche volte nella vita. Curioso, certo, ma non per questo -ahimè- straordinario. Come infatti moltissimi di noi hanno potuto (o dovuto) accorgersi, questa congiunzione altro non è stata che un susseguirsi, in brevissimo tempo, di una serie di eventi che hanno concentrato su di sé l'attenzione di milioni di persone, in Italia e nel mondo: a partire dalla morte di Sathya Sai Baba, passando per la già ricordata Pasqua dei cristiani, la Festa della Liberazione, il matrimonio del principe William con Kate Middleton, e finendo con la Festa Internazionale dei Lavoratori (o, più popolarmente, il 1° Maggio) e la concomitante cerimonia di beatificazione di Karol Józef Wojtyła (alias Giovanni Paolo II). Insomma, tutta una serie più o meno concatenata di eventi che, a mio parere, hanno in comune un elemento: l'incarnazione del mito. A scanso di equivoci, chiarisco subito che non è mia intenzione (qui, almeno) dare giudizi di valore né tantomeno fare della facile ironia sui vari eventi sopraddetti. Solo, mi piacerebbe provare a capirne il carattere che chiamerei 'simbolico'. La prima osservazione che farei è questa: non c'è mito senza rito. A cui aggiungerei: non c'è rito senza simboli. Ma nel momento in cui i simboli (che, in quanto tali, sono non-logici) hanno bisogno di una spiegazione (logica), che significato ha il rito? E, di conseguenza, quale ne ha il mito? È un po' quanto succede all'indovinello: da antica formula 'divinatoria', riguardante quindi direttamente la 'divinità', per cui la forma dell'espressione era tutt'uno con la sostanza espressa, si è via via passati alla domanda giocosa, più o meno intellettuale ma comunque posta sul piano del gioco, in cui è la forma a far cogliere (ma solo se uno ha abbastanza acume) la sostanza. Siamo ormai usciti da un mondo in cui le parole e le cose si intrecciavano, la dimensione del reale e quella dell'interpretazione dello stesso si specchiavano una dentro l'altra, e di conseguenza si creava una sorta di 'specchio magico' attraverso cui si intravvedeva l'immagine della divinità, a un mondo in cui la cose (e le persone) sono altro da noi, e quindi abbiamo bisogno che qualcuno ce ne spieghi il senso e ci dia un significato valido perché noi vi ci accostiamo. Colui che spiega è il 'retore', la spiegazione è 'retorica'. Il rito (e, di conseguenza, il mito) ha ormai bisogno di un retore che lo spieghi. Con un gioco di parole si potrebbe dire che 'il rito è retto dal retore'. Affinché un simbolo venga capito, o meglio affinché abbia un significato, c'è bisogno di un sistema di credenze che sta 'a monte' del simbolo stesso, e che dà al simbolo la possibilità di farsi segno visibile di qualche cosa che 'gli sta dietro'. L'esempio più semplice: l'acqua versata addosso a colui che riceve il battesimo cancella il peccato solo se prima si crede che esista una condizione di peccato, oppure, per fare un esempio di altro tipo: la bandiera rossa individua in chi la sventola 'un rivoluzionario' perché era rosso il sangue 'versato per la libertà'. Il mito evoca, rimanda ad una dimensione altra; il rito spiega: è razionale, codificato. Il rito è la forma di cui il mito ha bisogno per essere comprensibile agli uomini. I simboli sono i legami fra il mito e il rito: sono oggetti, animali, gesti e parole, quindi cose in qualche modo sensibili e che al tempo stesso mantengono aperto il passaggio con l'ultra-sensibile. (I simboli dei riti più antichi rendono bene l'idea: la carne dell'animale sacrificato, carne che verrà mangiata da degli uomini, produce il fumo che, impalpabile e informe, si perde verso le narici della divinità; il corno di montone è fatto di osso, ma all'interno è cavo, proprio per far passare e generare quel suono che altro non è che aria vibrante, soffio che scuote i timpani del dio.) Ma in un mondo fatto solo di immagini -perché tali sono quelle che ci hanno mostrato e fatto conoscere gli eventi di cui si parlava all'inizio- come la parola 'si attacca' alla cosa? Come può il simbolo tenere aperto il legame fra il rito e il mito? Se l'immagine è tanto vera quanto la cosa e tanto illusoria quanto il non-sensibile, l'immagine stessa fa da 'canale di comunicazione' fra mito e rito. Quindi l'immagine sostituisce il simbolo, o meglio: il simbolo non è più tale, perché è stato sostituito da qualcosa d'altro: l'immagine. Ben si capisce, però, come l'immagine non regga il confronto, e questo per una ragione ben precisa: mentre il simbolo 'viene dalla terra, si alza verso il cielo e alla terra ritorna', ha cioè un'origine materiale che via via assume un significato ideale/ spirituale, l'immagine è 'fatta solo di se stessa', e il suo è un movimento che nasce e finisce con lei. A questo punto facciamo un passo indietro e riprendiamo il punto dal quale eravamo partiti: l'incarnazione del mito. Se, come si è detto, il mito si incarna attraverso i simboli e in essi si manifesta attraverso una ritualizzazione degli stessi, possiamo chiederci: il mito si incarna ugualmente attraverso le immagini? Nel momento in cui diciamo che le immagini sono 'deboli' rispetto ai simboli, in quanto non condividono con essi la pesantezza della materia, allora potremmo anche affermare che il mito che si manifesta per immagini è un mito debole e scarno. E un tale mito non può non fondare che riti ambigui e inconsistenti. Sacerdoti di tali riti sono i retori, coloro cioè che non conoscono la materia che costituisce le cose, ma solo le parole che le descrivono: costoro non possono comunicare attraverso simboli, ma soltanto attraverso immagini, e i riti che loro officiano non hanno niente di simbolico né di mitico. Ogni uomo nasce all'interno di un mito, o meglio: un insieme di diversi miti. Durante la sua esistenza egli sceglie il mito in cui credere, quello i cui simboli meglio incarnano il senso che quell'uomo dà al mito stesso. Con tali simboli egli costruisce una ritualità, che è propria, e una ritualità che invece è condivisa con altri. Ma quell'uomo può fare questo perché con i simboli condivide innanzitutto una materialità, una concretezza che fa sì che li senta come suoi e se li rappresenti come tali perché ne condivide la parte sensibile; poi ne impara l'aspetto immateriale, intuisce il loro ruolo di 'elementi di passaggio' che lo mette in comunicazione con un 'qualcosa' che sa e non coglie, che coglie e non sa. I simboli sono per lui la manifestazione del mito in cui crede perché attraverso essi può comunicare con il mito stesso. L'uomo sa che quel mito è 'il suo' mito, non è 'assoluto', poiché dal mito egli non rimane lontano, ma sempre ne partecipa, attraverso i simboli che egli stesso ha scelto. Il mito, il suo mito, si muove con lui, è in rapporto con colui, ed egli fa altrettanto. L'uomo conosce la materialità dei simboli: è lui ad averli fatti e ad aver dato loro il compito che essi svolgono. Così l'uomo sa che il mito in cui crede è un mito che in una certa misura 'dipende' da lui, perché la relazione che lo lega al mito passa solo per i 'suoi' simboli. Se l'uomo sa questo, anche sa di credere, e quindi sa di 'credere di credere'. L'uomo simbolico crede di credere. Tutto invece cambia se il simbolo lascia il posto all'immagine; l'uomo non ha con essa un contatto diretto, non può sceglierla e farla propria: l'immagine gli sfugge, cambia aspetto. L'immagine è fatta solo di se stessa. L'uomo così non ha più un contatto diretto con il mito, al punto tale da aver bisogno di qualcuno che faccia da mediatore, che si metta fra lui e il mito, anzi addirittura fra lui e le immagini, che le fermi, le spieghi e le traduca in parole. Le immagini infatti non possono diventare simboli, lo si è detto. Le immagini possono solo diventare parole, perché sia le une che le altre non contengono materia, ma solo la mostrano. E colui che si frappone, colui che parla e fa parlare le immagini è il retore: è lui a dare un nome alle immagini, è lui a metterle a disposizione degli uomini. Ma se il retore ha potere sulle immagini e sulle parole, in un mondo in cui il simbolo non è più, perché le immagini hanno preso il suo posto, e l'uomo non comunica più direttamente con i suoi miti, allora in quel mondo il retore è colui che ha anche potere sugli uomini stessi. Il retore ha potere anche sui miti? In un mondo fatto di immagini e di parole, in cui i simboli hanno perso valore, l'uomo vede il mito lontano, immobile e silenzioso. L'uomo dimentica di poter comunicare con il mito, di avere la possibilità di farlo proprio, e così alla fine l'uomo dimentica anche il mito stesso, e le uniche cose in cui continua a credere sono le immagini e le parole. Ragione per cui l'uomo non-simbolico, l'uomo 'immaginante' non sa di credere: vede, sì, e guarda. Ma non ha coscienza né contatto con ciò in cui crede. Insomma, non crede di credere. Cosa significa tutto questo per la religione? Una religione è fatta di miti, di simboli e, naturalmente, di riti. Ma cosa conosce, cosa sa l'uomo religioso di oggi dei miti, dei simboli e dei riti della sua religione, sia essa 'religiosa' o 'laica'? L'uomo religioso non ha forse a che fare continuamente con delle immagini, e la sua religione non è forse fatta ormai solo di immagini? Non ha il continuo bisogno di qualcuno che gli mostri e gli illustri nuove immagini, perché egli possa mantenere il suo status di religiosità? Non solo l'uomo religioso ha continuamente a che fare con immagini, ma queste hanno quasi definitivamente sostituito e soppiantato i simboli religiosi che erano propri di coloro che la sua religione hanno fondato e fatto crescere. L'uomo religioso, per rimanere tale, ha sempre più bisogno dell'uomo retore, al punto che anche colui che svolgeva la funzione del sacerdote è ridotto (non suo malgrado, perché il suo destino è lo stesso dell'uomo religioso) a retore, in quanto non solo deve 'tradurre' il mito, ma è costretto, per officiarlo, a dover interpretare lo stesso rito. Dove interpretare è spiegare volta per volta quelli che non sono più simboli, ma semplici immagini, che nel momento in cui non sono spiegate e rese comprensibili, cessano di avere senso per primi da coloro che dicono di credere in esse. Essi dicono, ma non sanno, non sono consapevoli del proprio credo, perché non hanno più la capacità di relazionarsi con il mito, attraverso i simboli in cui esso si incarna. I simboli sono a tal punto diventati semplici immagini che 'i credenti' non saprebbero forse nemmeno più se credere in esse, se non ci fosse un sacerdote-retore che dice loro di continuare a farlo. Si spenga la lampada del proiettore, si stacchi la spina del video, ed essi rimangono di fronte ad uno schermo vuoto. Taccia il retore ed essi rimangono muti e sordi. È ancora capace l'uomo di distogliere lo sguardo, smettendo di essere solo un 'visionario', che vive solo nelle parole di qualcun altro, e di tornare a raccontarsi attraverso le cose che riesce ancora a toccare? Ho cominciato a scrivere queste righe quando gli avvenimenti dell'inizio era appena successi, e ho finito di scriverle nei giorni in cui si celebrava il rito di incarnazione di un altro grande mito: il cosiddetto 'attentato alle Torri Gemelle' conosciuto anche più semplicemente come '11 Settembre'. Credo che il cerchio si sia chiuso perfettamente.