Tesori nazionali di Alex Gartenfeld

Transcript

Tesori nazionali di Alex Gartenfeld
Tesori nazionali
di Alex Gartenfeld
In Penn Station Ciborium, l’opera realizzata da Keith Edmier nel 2013 per “Empire State”, si
intreccia una complessa rete di riferimenti, forme e proposte di relazioni. Mentre i pilastri del ciborio
di Edmier mutuano il vocabolario del progetto originale di McKim, Mead & White per la
Pennsylvania Station a Manhattan ovest, la cupola richiama il progetto di Pio Piacentini per il
Palazzo delle Esposizioni, che fu inaugurato nel 1883. Quest’ultimo riferimento, unitamente al
profilo generale della struttura, allude al baldacchino del Bernini nella Basilica vaticana, creando
un’arcana simmetria tra le due opere. Alla base del ciborio si trovano reliquie dello studio
dell’artista, sepolte nel fango dei Meadowlands del New Jersey, dove furono scaricati i detriti della
Penn Station, demolita entro il 1966. Calchi di ostriche – un oscuro riferimento a una delle storiche
risorse naturali di New York (portata quasi all’estinzione dall’inquinamento delle acque all’inizio del
Novecento) – si arrampicano sui pilastri dalla base. Al tempo stesso altare e palcoscenico, scultura
e architettura, l’opera di Edmier suggerisce una fondamentale fluidità di ruoli tra oggetto e
osservatore. Come scrive nella presentazione dell’opera, l’artista immagina “un rapporto simbiotico
con la rotonda del museo, in particolare per quanto riguarda la circolazione e la distribuzione”, in
cui un contenuto variamente allusivo è incorporato in gerarchie formali che investigano la
dislocazione e il rinnovamento urbani, imperi passati e presenti, e il ruolo dell’artista in questi
intrecci.
Oltre alla Penn Station originaria, demolita quando la Pennsylvania Railroad Company vendette i
diritti di sopraelevazione del lotto, la scultura di Edmier evoca la prima stazione Termini, rasa al
suolo dal governo di Mussolini in vista dell’Esposizione universale del 1942. L’artista istituisce un
collegamento storico tra l’astrazione speculativa della pratica immobiliare nella New York del
Novecento – la demolizione della Penn Station comportò la chiusura di uno degli spazi pubblici più
grandi della città – e il momento in cui, a Roma, l’urbanistica razionale internazionalista preparava
il progetto civilizzatore dell’esposizione (che, alla fine, fu ridimensionato a causa della Seconda
guerra mondiale). La correlazione tra questi due esempi – quello newyorchese di corporativismo
neoliberista e quello fascista italiano – fa propria la tesi di Negri e Hardt secondo cui l’impero,
benché decentrato e deterritorializzato, rimane ugualmente legato alla logica materiale della
produzione.
Quasi cinquant’anni or sono, Andy Warhol realizzò l’opera d’arte forse più iconica in cui sia
coinvolto un edificio di New York: Empire, film in 16 mm della durata di otto ore, consistente in una
ripresa fissa dell’Empire State Building dalla prime ore della sera fino a notte fonda, in cui lo
spettatore poteva “vedere il tempo passare”, come spiegò lo stesso Warhol. Empire è un
documento della presenza necessaria tanto per creare quanto per osservare l’opera, una
marcatura del tempo sottolineata dallo sfarfallio retinico del mezzo tecnico. Esaltato e
inevitabilmente annoiato dall’immobilità dell’edificio, all’epoca il più alto di New York, l’artista unisce
questo affascinante simbolo della città al potere della visione prolungata – un tipo di visione che
allo spettatore di Empire è richiesto letteralmente, e che è sottinteso nello stesso, perdurante
concetto di impero.
Tuttavia, nei decenni trascorsi dalla realizzazione di Empire, nemmeno Warhol avrebbe potuto
prevedere quanto New York sarebbe stata radicalmente cambiata dalla tecnologia e dall’avanzata
del capitalismo del XXI secolo.
“Empire State”, la prima di una serie di mostre che l’ente committente dedica ad alcune città, ha
offerto l’opportunità di presentare una panoramica completa della produzione artistica più recente
di New York City. Si tratta di un progetto per un verso impossibile, e moderatamente assurdo per
l’altro. Per capire fino in fondo come funziona l’arte a New York, infatti, sarebbe necessario un
ampio studio sociologico del suo imponente sistema di musei, gallerie e strutture private e non
profit – un sistema che, malgrado la sua estensione, è spesso svilito dal valore reale e speculativo
dell’arte, e ciò è dovuto anche alla vicinanza di un florido mercato. Di fronte a questo mercato e in
questo milieu globalizzato, come reagiscono gli artisti? Una delle strategie adottate è quella di
interrogare le realtà socio-geografiche della città e i rapporti di potere che ne regolano e
suddividono lo spazio.
Utilizzando mezzi e tecniche diversi, l’opera di John Miller si focalizza sulla formulazione sociale
del soggetto urbano nello spazio pubblico. Uno dei suoi contributi a “Empire State” è un wallpaper
senza titolo, composto da due fotografie modificate tratte da “Middle of the Day”, la serie a cui sta
lavorando in questo momento. Miller scatta queste foto passeggiando per il quartiere dove si trova
il suo studio tra mezzogiorno e le due del pomeriggio, più o meno l’ora in cui un lavoratore tipico fa
la pausa pranzo, aprendo così un confronto tra il suo lavoro immateriale e quello di chi, magari,
consuma il proprio pasto per la strada. Per quest’opera Miller ha selezionato e ingrandito due
immagini: un mucchio di cartacce gettate per la strada, riprese in primo piano, e una folla di
persone non identificate, fotografate da lontano. La prima, mentre suggerisce, senza alcuna
ostentazione, la trasformazione degli scarti materiali in immagine, rappresenta anche un elemento
che richiede la negoziazione (o la dissoluzione) della responsabilità privata individuale e degli
amministratori locali. La materialità richiede considerazione.
Con le fotografie di “Middle of the Day” Miller intende, come ha detto egli stesso, rivisitare il
tentativo di Baudelaire di “ricavare un’esperienza estetica da qualcosa di inatteso o da qualcosa
che normalmente sarebbe considerato antiestetico”, riconsiderando l’attività del flâneur
ottocentesco senza abbandonare la poesia. Anche la seconda immagine del wallpaper, che
sembra rappresentare un gruppo familiare, si richiama a qualcosa che ha a che fare con il
“gironzolare”: il turismo. Quale altra famiglia, se non una in gita, avrebbe il tempo di andare in giro
per la città a metà giornata? Le condizioni che hanno radicalmente ridefinito la città nel corso
dell’ultimo ventennio hanno reso la condizione del flâneur una condizione di lusso. La serie “Middle
of the Day” – che comporta il lavoro immateriale di raccogliere immagini per la strada –
rappresenta un curioso rovesciamento della condizione urbana degli artisti a New York alla metà
del secolo scorso. Intorno al 1955, quando Downtown Manhattan era ancora una zona di
produzione industriale, Robert Rauschenberg andava in giro rovistando tra i rifiuti in cerca di
materiali per i suoi combine paintings, affermando una volta che si sentiva “molto ricco perché
aveva la possibilità di raccogliere dalla strada la spazzatura della Consolidated Edison”.
Il mezzo espressivo scelto da Miller, il wallpaper, approfitta del suo supporto con un effetto
ambivalente, che richiama tanto la decorazione di interni quanto la personalizzazione. Al tempo
stesso, il suo contenuto visivo – particolarmente evidente nell’immagine delle cartacce
appallottolate – rimanda agli scarti, inevitabili in ogni catena di produzione. L’effetto di
avvolgimento orizzontale del wallpaper, consentendo la soggettività di punti di vista multipli,
coinvolge l’osservatore in questo processo. Con le linee prospettiche e l’andamento da paesaggio,
il wallpaper di Miller evoca il panorama, o ciclorama, l’intrattenimento di massa fin-de-siècle
considerato una sorta di proto-cinema. L’allusione è a quei panorami che rappresentavano le
ambizioni di classe della nuova borghesia emergente a passeggio per i viali di Parigi. Come ha
osservato lo storico dell’arte Jonathan Crary, il panorama ha avuto un ruolo fondamentale nella
rappresentazione visiva della vita borghese in città e dei sogni di autonomia che la
accompagnavano. Questo controllo funziona attraverso la “razionalizzazione capitalistica
dell’attenzione visiva”, addestrando l’individuo ad agire come “consumatore mobile di una serie
incessante di merci illusorie come le immagini”.
Marx e Engels hanno detto che “la borghesia […] si crea un mondo a propria immagine e
somiglianza”. Nell’opera di Miller, il turista è presentato come un consumatore generalizzato, che
costantemente regola con un impegno a bassa intensità la propria relazione con le immagini e gli
oggetti della città, portando la propria soggettività in un’esperienza del mondo. Molti degli artisti
presenti in “Empire State” si sono accostati agli oggetti d’arte come a un genere di souvenir,
alludendo in questo modo tanto all’aura dell’artista quanto alla banalità della rappresentazione.
Nella “proposta” di opere per “Empire State”, Darren Bader riproduce immagini turistiche dei
classici monumenti romani, applicando rudimentali tecniche da Photoshop immaginando in questo
modo modifiche che potrebbero essere apportate da un pubblico non qualificato o adolescente:
l’effetto è una sorta di poetica dell’assurdo. Tra gli esempi vi è un toupet in cima all’Arco di
Costantino, l’artista sdraiato accanto alla statua dell’incorruttibile santa Cecilia a Trastevere, una
quantità di pile uguale al volume della vasca della Fontana di Trevi. Queste opere sono proposte il
cui aspetto surreale deriva dall’immaginare i volumi.
Altri artisti presenti in “Empire State” si confrontano con la natura elegiaca dei materiali. Nella
produzione degli ultimi tre anni, Virginia Overton è arrivata a usare sempre di più l’installazione
come mezzo per misurare il tempo e renderlo evidente.
Durante la sua durata l’artista cerca tra i rifiuti all’interno e nei dintorni del luogo dove si svolge
l’esposizione materiali che poi integra nell’opera stessa. L’aura composita della suo lavoro nasce
dall’equilibrio che l’artista sa trovare tra ciò che propriamente fa parte dell’opera e ciò che non lo è.
Ryan Sullivan trasmette le sfarzose connotazioni della pittura astratta imbevendo di lavoro
incarnato le sue superfici: campi di colore increspato che funzionano al tempo stesso come studi di
panneggi e pieghe della pelle, associando la seduttività della pittura al degrado, dato che Sullivan
trae la sua ispirazione dal fango e dalla sporcizia delle strade di New York. In Everything #21
(2010-2013), Adrian Piper tratta i vincoli che determinano il suo approccio come un ready-made
estetico. La ripetizione della frase “Everything will be taken away” (“Ogni cosa sarà portata via”)
scritta con il gesso possiede un lirismo intrinseco: rischia costantemente di svanire in concreto.
In contrasto con questa evanescenza materiale è la condizione della pittura come oggetto reificato
che si è sviluppata nel corso dell’ultimo decennio. I pittori collocano l’oggetto in una più ampia rete
di movimento e di scambio, una tendenza che lo storico dell’arte David Joselit ha definito
“passaggio” o “transitività”. I ritratti di R.H. Quaytman, dipinti e serigrafati (alcuni dei quali realizzati
per “Empire State”), raffigurano i rapporti tra amici e luoghi del mondo dell’arte. In questa selezione
di opere, i personaggi vanno dalla defunta gallerista Pat Hearn (rappresentata da un’immagine
della stanza sul retro della sua galleria) a K8 Hardy davanti a una delle famose finestre di Breuer
del Whitney Museum of American Art (opera eseguita per la Whitney Biennial del 2010).
Introducendo il tema della transitività nel vitatissimo saggio Painting Beside Itself, Joselit collega la
reattività al sito che caratterizza l’opera di Quaytman alla “gentrificazione” del Lower East Side, il
quartiere dove l’artista ha partecipato alla gestione della galleria cooperativa Orchard. Le
combinazioni stratificate e allusive di Quaytman suturano “spettatori e social network extrapercettivi, invece di limitarsi a porli in una relazione fenomenologica di percezione individuale”. I
suoi quadri, non appesi al muro ma saldamente appoggiati su una mensola, resistono alla
trascendenza.
Con un approccio polemico e performativo, Rob Pruitt dimostra spesso, sfruttando l’instabilità degli
oggetti, l’abisso tra le pratiche della critica e quelle dello spettacolo. Come contributo a “Empire
State”, Pruitt presenterà alcune opere della sua serie “History of the World” (2012). L’installazione
è formata da grandi sculture cromate di dinosauri, ciascuno dei quali è intento a guardare un
quadro raffigurante mucchi di rifiuti, basato su immagini riprese dal reality-show televisivo
Hoarders. Queste creature in fibra di vetro rimandano letteralmente alla “dinomania”, termine
coniato da W.J.T. Mitchell per definire la popolarità che gli scheletri di questi rettili in formato
gigante hanno ottenuto nelle mostre di storia naturale e al cinema – una popolarità che egli
attribuisce alla commercializzazione della morte tenuta a debita distanza da noi. Nel suo saggio
del 2000 intitolato Size Matters, Robert Morris riprende il termine per definire l’atteggiamento di
deferenza con cui viene recepita l’arte destinata al grande pubblico, costruita tipicamente per
glorificare l’organismo committente: le “dimensioni” suscitano un acritico timore reverenziale invece
che un impegno più profondo. Accostando i mitici rettili ai quadri, Pruitt presenta opere in due e tre
dimensioni creando un ambiente “immersivo”, in cui l’osservatore è assimilato a un turista (più che
al dinosauro) che si riconosce come parte di un feticismo consumistico.
Per il suo contributo a “Empire State”, Michele Abeles realizza una triangolazione tra il suo
interesse per il supporto materiale della fotografia, l’ambivalenza nei confronti del mercato
commerciale e il rapporto di quest’ultimo con la produzione di immagini. L’artista paragona la
vendita delle fotografie d’arte in edizioni limitate all’impatto subcosciente dei simboli, esponendo
quindi le sue immagini nella loro edizione completa, composta da cinque fotografie. Descrivendo il
suo lavoro per “Empire State”, scrive: “La bandiera di una nazione è la sua ‘firma’, e tanto il suo
rapporto con le rivendicazioni territoriali quanto lo svilimento derivante dalla sua reiterazione e
dalla divulgazione ecc. somigliano al modo in cui gli artisti sono costretti a rivendicare la propria
fetta di mercato”. Gli oggetti d’arte sono prodotti materiali che funzionano all’interno e all’esterno
della sfera estetica, e la cui circolazione è intrinseca al loro aspetto. In Flag Flag Flag (2013),
Abeles usa una combinazione di strati visivi e watermarks inventati, ordinandoli in sequenza tra
ritagli di altre immagini realizzate da lei stessa. Se le confusioni spaziali sembrano argomenti in
favore della mutabilità assoluta dell’immagine digitale, le opacità variabili della stessa
suggeriscono in realtà il supporto materiale del file TIFF. Abeles interpreta l’uso della materialità in
Jasper Johns come protesta contro la nazionalizzazione delle immagini e come un’enfatizzazione
della ripetibilità dell’oggetto.
Come scrivono Hardt e Negri, gli Stati Uniti non sono la fonte dell’ordine mondiale; piuttosto, è
l’Impero che produce se stesso a livello planetario. Nella rapida riurbanizzazione del mondo, New
York genera propaganda per l’economia terziarizzata, quella al momento favorita dall’impero, che
richiede l’esternalizzazione e la soppressione delle forme industriali di produzione. Lavorando nella
sua città di Braddock, Pennsylvania, LaToya Ruby Frazier rappresenta nelle sue fotografie i modi
in cui la città rende romantico e distorce il lavoro che produce merci. Houston & Lafayette NYC
(Braddock PA Levi’s Billboard) del 2010 rappresenta un cartellone pubblicitario dei jeans Levi’s
ripreso da una strada di SoHo (un ex quartiere di artisti, per così dire), in cui sotto lo slogan “Go
Forth” si vedono alcuni giovani.
La pubblicità, girata a Braddock, mostra la città deindustrializzata, conferendole un’aura di
romanticismo in quanto luogo del progresso americano. La fotografia di Frazier indica New York
come il posto in cui il lavoro diventa pura immagine.
1 Cfr. Branden W. Joseph, Normal Pictures, in John Miller: A Refusal to Accept Limits, a cura di Beatrix Ruf, JRP Ringier, Zurich 2009,
pp. 85-87.
2 Dorothy Seckler, Interview with Robert Rauschenberg, in “Smithsonian Archives of American Art”, 21 dicembre, 1965, p. 2.
3 Jonathan Crary, Techniques of the Observer: On Vision and Modernity in the 19th Century, MIT Press, Cambridge (MA) 1988, p. 37
(Le tecniche dell’osservatore. Visione e modernità nel XIX secolo, Einaudi, Torino 2013).
4 Marx e Engels, Manifesto del partito comunista, Einaudi, Torino 1974, p. 105.
5 David Joselit, Painting Beside Itself, in “October”, n. 130 (2009), pp. 131-132.
6 Mail al curatore, 31 luglio 2012.