Il business del gas e petrolio

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Il business del gas e petrolio
Il business del gas e petrolio
Il business del gas e petrolio
Vincenzo Comito
Fattori geologici, tecnologici e geopolitici cambiano i confini del grande business in cui nuota l'Eni.
Cambia poco però il suo impatto ambientale. Le trasformazioni in atto nel settore, le nuove
strategie delle multinazionali, l'ìmpatto della crisi
Il business del petrolio e del gas ha mostrato negli ultimi anni dei mutamenti di grande rilievo,
mentre ha anche confermato alcune tendenze consolidate da tempo.
Intanto bisogna registrare il fatto che le grandi compagnie petrolifere internazionali non sono più
politicamente potenti come una volta, in particolare nei paesi che possiedono le maggiori quantità
di idrocarburi. Tra l’altro, le compagnie nazionali, originarie dei paesi emergenti, controllano
ormai all’incirca il 90% delle riserve mondiali (Bezat, 2010). Si pensi, ad esempio, alla
Petrochina, oggi la prima impresa del mondo per capitalizzazione di borsa – le prime 10 imprese
del settore petrolifero sono a capitale pubblico e fanno capo ai paesi emergenti- , o all’enormità
delle dimensioni della Aramco saudita - che da sola possiede riserve di idrocarburi pari a 15 volte
rispetto a quelle controllate dalla Exxon-, o anche alla brasiliana Petrobras e alla russa Gazprom.
Le stesse compagnie statali fanno poi sempre più concorrenza a quelle occidentali sui mercati
mondiali. Il potere residuo delle
major risiede nella loro capacità di governare le tecnologie più avanzate del settore e nella loro
rilevante forza finanziaria; ma ambedue tali
atout tendono a perdere di peso con il tempo. La caduta progressiva dell’egemonia politica dei
paesi sviluppati su quelli petroliferi permette a questi ultimi anche di rovesciare progressivamente
i rapporti di forza a livello di divisione dei profitti derivanti dallo sfruttamento dei giacimenti,
spostandoli ormai sempre di più a loro favore.
Le imprese del Nord, per far fronte a tali sviluppi, tendono, tra l’altro, a diversificare le loro
attività, concentrandosi sui settori dell’estrazione in acque profonde, in quello delle sabbie
bituminose ed anche nel nucleare, nell’etanolo e, più in generale, nei biocarburanti.
Ma, in particolare negli ultimi tempi, esse sembrano sempre più interessate al business del gas in
generale e a quello dello
shale gas in particolare. Sino a poco tempo fa queste ultime riserve, note da tempo, erano molto
difficili da sfruttare sia dal punto di vista tecnologico che del livello dei costi, ma tali problemi ora
sono stati in gran parte superati e gli Stati Uniti sono in breve diventati il primo produttore
mondiale di gas (Rachman, 2010). Ma gli ambientalisti storcono e a ragione il naso, perché le
sostanze chimiche che devono essere usate per estrarre dalle rocce il gas inquinano le falde
acquifere e comunque le tecnologie impiegate richiedono grandi quantità di risorse idriche
sempre più rare.
Più in generale, le imprese del settore si stanno rivolgendo sempre di più allo sfruttamento dei
giacimenti di gas. Questo perché il petrolio è sempre più difficile da trovare per ragioni
geologiche ed anche politiche e perché il gas sta anche diventando più facile da sviluppare di
fronte alla crescente complessità della gestione del petrolio. Ora anche il disastro del Golfo del
Messico tenderà presumibilmente ad incrementa i costi dei controlli sul settore. Per quanto
riguarda il business del gas, tra l’altro, le compagnie nazionali dei paesi emergenti hanno ancora
molto bisogno di quelle occidentali, mentre il suo mercato appare anche meno volatile di quello
del petrolio. Si afferma da parte di molti esperti del comparto che il gas è meno inquinante del
carbone e dello stesso petrolio e questo appare vero per quanto riguarda direttamente il suo
utilizzo finale. Ma va segnalato che la sua manipolazione, attraverso in particolare le fuoruscite di
prodotto durante il processo di estrazione e attraverso le strutture di trasporto e distribuzione,
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contribuisce ad aumentare il riscaldamento globale del pianeta (Shah, 2004).
La crisi sta nel frattempo contribuendo a cambiare la geopolitica del petrolio. Simbolicamente nel
2009 l’Arabia Saudita ha esportato più petrolio verso la Cina che non verso gli Stati Uniti
(Mouawad, 2010); più in generale, nel mondo la crescente importanza della Cina e dell’India
rappresentano un cambiamento molto importante anche nel settore. Sempre l’Arabia Saudita,
che sta sviluppando una rete di raffinerie in Cina, ha smesso di praticare uno sconto di un dollaro
sul prezzo del petrolio verso gli Stati Uniti rispetto a quello praticato al resto del mondo. La stessa
Cina sta sviluppando una fittissima rete di intese con quasi tutti i principali paesi produttori e tutte
le imprese del
big oil corrono a Pechino.
La prospettiva del peak-oil
Nonostante queste novità, non scompare per molti la prospettiva del cosiddetto
peak oil, la previsione cioè che, al massimo entro pochi anni, la produzione di petrolio cominci a
declinare e comunque ad essere progressivamente insufficiente rispetto ad una domanda che
cresce in media dell’1,2% all’anno (Rava, 2010). Su questo tema, che appare comunque
controverso, da una parte abbiamo una posizione come quella della BP, che, nel suo rapporto
annuale dal titolo
Annual Statistical Review of World Energy, afferma che le riserve di petrolio a livello mondiale
corrispondono oggi a circa 40 anni di consumi, mentre contemporaneamente i progressi nelle
tecnologie del settore, che permettono di estrarre il petrolio a profondità sempre più elevate e a
recuperare una percentuale crescente di idrocarburi da ogni giacimento, permetteranno di
trovarne e di produrne molto di più.
Dall’altra, invece, troviamo ad esempio le analisi dell’ ITPOES britannico (ITPOES, 2010) che
afferma che l’
oil crunch sarà peggiore del
credit crunch e che si verificherà una caduta nella produzione di petrolio al massimo per il 2015.
Anche una ricerca del settore militare statunitense (Macallister, 2010) e varie altre fonti qualificate
indicano che entro pochi anni ci potrebbe essere una rilevante carenza del prodotto.
Quale che sia la visione più corretta sul tema, appare in ogni caso indubitabile che le nuove fonti
disponibili saranno sempre più costose, sporche e insicure e che alla fine, per continuare ad
utilizzare il petrolio, bisognerà arrivare a pagarlo anche 200 dollari al barile e ad accettare un
livello di inquinamento spinto del pianeta.
Quello che non cambia
Intanto, il contributo delle fonti di energia fossile alla distruzione del pianeta, sia nelle fasi della
esplorazione ed estrazione da una parte, che in quelle della raffinazione e della combustione
dall’altra, appare da tempo molto rilevante e il caso attuale della BP potrebbe essere, da questo
punto di vista, un’opportunità per contenere, se non per fare cessare, tale scempio in un settore
da tempo fuori controllo e pieno di manager e tecnici irresponsabili. Per altro verso, la fuoriuscita
di petrolio nel Golfo del Messico non appare un disastro naturale, ma una conseguenza della
drastica riduzione nei livelli di regolamentazione e controllo nel campo dell’energia, come in
quello della finanza, avviata nell’era Reagan-Tathcher (Leader Newstatesman, 2010).
Al di là comunque del caso della BP, i danni ambientali causati da
big oil si fanno da tempo sentire dovunque, dalla Nigeria – paese nel quale le fuoruscite di
petrolio sono un fatto consolidato da decenni e dove ogni anno l’area del delta del Niger deve
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sopportare uno
spill pari a quello della Exxon Valdez -, al Kazakhstan – dove le compagnie internazionali hanno
costretto migliaia di persone a lasciare le loro case per le emissioni altamente dannose provocate
dalle loro attività (Wachman, Stibbs, 2010) -, alla Colombia, all’Ecuador, al Canada, tutti paesi
nei quali le grandi del settore, compresa in diversi casi la nostra Eni, sono accusate di disprezzo
delle comunità locali, dei diritti umani delle popolazioni locali e dell’ambiente circostante in cui
esse operano.
D’altro canto, cresce nel mondo, come già sottolineato, l’angoscia per la possibile carenza di
risorse energetiche nel prossimo futuro. Si può uscire da questo dilemma tra problemi ambientali
e carenza di petrolio e gas solo se si investe adeguatamente nel campo dei risparmi energetici e
dell’energia verde, attività sulle quali la stessa Eni non sembra in alcun modo entusiasta di
investire, come del resto sembra aver deciso l’altra grande compagnia energetica nazionale,
l’Enel, ambedue in perfetta sintonia sul tema con il nostro irresponsabile governo.
Un elemento ulteriore del quadro, per quanto riguarda l’Italia, riguarda il fatto che il nostro
paese appare quello più dipendente energeticamente dall’estero fra quelli industrializzati; esso
deve importare l’85% del proprio fabbisogno, con conseguenze molto importanti sulla bilancia
commerciale del paese. Le previsioni per il 2010 sono, ad esempio, di un esborso in merito pari a
53 miliardi di euro. La rete distributiva dei carburanti è farraginosa, antiquata e costosa. Così da
noi ci sono 22.800 benzinai contro ad esempio i 12.700 della Francia (Occorsio, 2010).
I risultati economici del settore e il suo modello di business
Nonostante tutte queste difficoltà, il settore delle grandi imprese energetiche internazionali,
grazie anche alla sua presa oligopolistica sui mercati, ha goduto negli ultimi dieci anni di una
salute economica invidiabile, con profitti anche clamorosi. Si pensi, per quanto riguarda soltanto il
caso della ExxonMobil, che essa ha registrato nel 2008 profitti al netto delle tasse per 45,2
miliardi di dollari –la cifra più grande mai ottenuta da una qualsiasi impresa nella storia-, contro
“soltanto” 25,3 miliardi nel 2004, che essa ha inoltre generato, sempre nel 2008, dei
cash flow netti di 65,7 miliardi, che alla fine dello stesso anno possedeva liquidità per 31,4
miliardi, senza avere praticamente debiti e che registrava anche dei ritorni elevatissimi sul
capitale netto e sul capitale investito. Va anche segnalato che la società investiva una parte
preponderante dei suoi utili nel riacquisto delle azioni proprie.
Ora la crisi sembra mordere e il 2009 ha visto una rilevante contrazione degli utili della stessa
società come delle altre grandi imprese produttrici; nel 2010, in relazione alla crescita dei prezzi
del petrolio, tali profitti sembrano comunque in ripresa.
I criteri di successo di una grande impresa in un settore in cui si continua a nuotare in un oceano
di denaro, si concentrano oggi, come abbiamo già parzialmente ricordato, da una parte sulla
capacità di influenzare i governi, sia dei paesi di origine delle stesse imprese che di quelli che
possiedono i giacimenti (indebolitasi molto la leva politica, è diventata proporzionalmente più
importante nei paesi petroliferi quella della corruzione, che raggiunge punte inusitate nel settore),
dall’altra sul possesso di tecnologie di tipo avanzato per la ricerca, esplorazione e sfruttamento
dei giacimenti, nonché su di una rilevante capacità finanziaria –per sviluppare il grande
giacimento di Kashagan, in Kazahkstan, ci vorrà alla fine probabilmente un investimento di 100
miliardi di dollari-; non bisogna poi trascurare, tra gli altri criteri da considerare, la presenza di una
adeguata diversificazione delle attività, sia a livello geografico che di tipologia progettuale,
nonché una elevata padronanza delle tecniche di
project management, di quelle di tipo organizzativo come di quelle di tipo finanziario. Ricordiamo
infine che, per far fronte ad una parte almeno dei rischi presenti nel settore, le grandi imprese
tendono, in ogni nuovo progetto da intraprendere, a creare tra di loro delle
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joint-ventures anche abbastanza numerose come numero dei partecipanti e nelle quali vengono
inserite anche, di volta in volta,
bon gré,
mal gré, le imprese degli stessi paesi petroliferi.
(prima parte - continua)
Sì
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