Luigi XIV - Liceo Galvani

Transcript

Luigi XIV - Liceo Galvani
Documenti su Luigi XIV
1
Sarebbe stato certamente far cattivo uso di una così perfetta tranquillità [la situazione internazionale
nel 1661], che si presenterà sì e no una volta nel corso di parecchi secoli, non impiegarla all'unico
scopo che poteva farmela apprezzare [il rafforzamento del potere interno], mentre la mia età e il
piacere di essere alla testa del mio esercito mi avrebbero fatto desiderare un po' più di occasioni
all'estero. Ma poiché la principale speranza di quelle riforme stava nella mia volontà, il loro
fondamento era rendere la mia volontà assoluta, con una condotta che imponesse la sottomissione e
il rispetto: rendendo scrupolosamente giustizia a chi la dovevo; ma quanto alle grazie, concedendole
liberamente e senza impedimenti a chi mi piacesse e quando mi piacesse, purché la serie delle mie
azioni dimostrasse che, pur non rendendo conto a nessuno, mi facevo nondimento guidare dalla
ragione. [...] Due cose senza dubbio mi erano assolutamente necessarie: un gran lavoro da parte mia;
una gran scelta di persone che potessero secondarlo. [...] Non so dirvi quale frutto trassi subito da
questa risoluzione [di governare personalmente]. Mi sentii come elevare lo spirito e il coraggio, mi
trovai diverso, scoprii in me qualcosa che non mi conoscevo, e mi rimproverai con gioia di averlo
per troppo tempo ignorato. Quella primitiva timidezza che un po' di senno dà sempre, e che all'inizio
mi affliggeva, si dileguò in un baleno. Soltanto allora mi parve di essere re, e nato per esserlo.
Provai infine una dolcezza difficile a esprimere, e che conoscerete anche voi soltanto gustandola
come me. Perché non dovete immaginare, figlio mio, che gli affari di Stato siano come certe parti
oscure e spinose delle scienze, che vi avranno forse stancato, in cui la mente si sforza di elevarsi al
di sopra della propria capacità, spesso per non arrivare a nulla, e la cui inutilità, almeno apparente, ci
scoraggia quanto la loro difficoltà. La funzione dei re consiste principalmente nel far agire il buon
senso, il quale agisce sempre naturalmente e senza fatica. Ciò che ci occupa è talvolta meno difficile
di ciò che sarebbe per noi un puro svago intellettuale. L'utilità si vede sempre. Un re, per capaci e
illuminati che siano i suoi ministri, non mette personalmente mano all'opera senza distinguervisi. Il
successo, che piace in qualunque cosa si faccia, sia pur minima, riempie di gioia in questa, che è la
più grande di tutte, e nessuna soddisfazione è pari a quella di notare ogni giorno un certo progresso
in imprese nobili e gloriose, e nella felicità del popolo, di cui abbiamo noi stessi concepito il piano e
l'idea.
Luigi XIV, Memorie, trad. it. di G. Pasquinelli, Boringhieri, Torino 1961, pp. 44-47.
2.
Il re Enrico il Grande, nostro avo di gloriosa memoria, volendo impedire che la pace da lui
assicurata ai suoi sudditi [...] fosse turbata dalla sedicente Religione Riformata com'era accaduto
sotto i re suoi predecessori, nell'aprile 1598, con la promulgazione dell'editto di Nantes, stabilì la
condotta da tenere nei confronti dei seguaci della detta Religione. [...] Poiché dal 1635 sino alla
tregua conclusa nel 1684 con i principi d'Europa il regno ha goduto solo di brevi periodi di pace, non
è stato possibile avvantaggiare la Religione Cattolica se non col diminuire il numero dei luoghi nei
quali la sedicente Religione Riformata poteva essere liberamente professata, eliminando quelli che
risultavano costituiti in violazione delle disposizioni degli editti. [...] Avendo infine Dio concesso
che i nostri popoli godessero di una pace perfetta, constatiamo al presente, con la giusta
riconoscenza che dobbiamo a Dio, che le nostre cure hanno raggiunto il fine che ci siamo proposto,
poiché la migliore e la maggior parte dei nostri sudditi di detta sedicente Religione Riformata ha
abbracciato la Religione Cattolica. E dato che, grazie a questo fatto, l'osservanza dell'editto di
Nantes e di tutto ciò che è stato ordinato in favore di detta sedicente Religione Riformata risulta
inutile, noi abbiamo giudicato che, per cancellare integralmente il ricordo dei torbidi, della
confusione e dei mali che la diffusione di questa falsa Religione ha provocato nel nostro regno, nulla
potevamo fare di meglio che revocare integralmente il citato editto di Nantes e le particolari
concessioni che sono derivate e tutto ciò che in seguito è stato fatto a favore di detta Religione.
Luigi XIV, in Storia politica del mondo, diretta da P. Renouvin, Unedi, Roma 1976, vol. III, pp.
373-374.
3.
Pur non essendo un fenomeno di dimensioni nazionali (le due manifestazioni interessarono
soprattutto Parigi e il Nord della Francia), la Fronda provocò disordine paralizzando il governo
centrale e scatenando conflitti locali in altre parti del paese, specialmente in città come Bordeaux e
Angers. La guerra civile devastò grandi estensioni di territorio e causò molte perdite di vite umane:
fu appunto in quegli anni che S. Vincenzo de' Paoli ebbe modo di esercitare la sua missione di carità
verso le vittime della carestia e della guerra. Come la maggior parte dei francesi, Luigi XIV ebbe
un'acuta reazione d'insofferenza verso questo periodo di caos e nel 1668 ordinò che dai documenti
pubblici fosse eliminato ogni accenno alla ribellione. La crisi frondista non sopraggiunse inattesa. Il
regime di Richelieu aveva lasciato irrisolte molte tensioni politiche: ancora pochi mesi prima della
sua morte, avvenuta nel 1642, vi erano stati dei complotti di corte contro di lui, e la sistematica
nomina di intendenti regi, insieme con le restrizioni imposte nel 1641 al parlamento di Parigi,
avevano creato motivi di protesta. Meno di un anno dopo essere salito al potere, il suo successore
Mazzarino fu minacciato da una congiura di nobili (la cabale des importants, 1643): la Francia era a
quel tempo sotto la reggenza della regina madre, Anna d'Austria, e ancora una volta si dimostrò vero
che la minore età del monarca portava con sé un periodo di agitazioni politiche. Per di più il governo,
per sopperire alle spese di guerra, era ricorso a un forte aumento della tassazione. Nel gennaio 1648
le proposte di ulteriore imposizione fiscale del ministro delle finanze d'Héméry, connesse con la
creazione e la vendita di alte cariche giudiziarie, scatenarono proteste a Parigi, e nel luglio di
quell'anno tutti i membri delle magistrature superiori, riunite nella Chambre Saint-Louis del Palazzo
di giustizia, redassero una petizione di 27 articoli in cui si chiedeva che le intendenze e le nuove
cariche fossero abolite e che la taille fosse ridotta di un quarto. Al parlamento di Parigi si
affiancarono quelli provinciali, in un tentativo dell'intera classe amministrativa francese di difendere
il monopolio della funzione pubblica e di smantellare il sistema finanziario di guerra creato da
Richelieu e da Mazzarino. Nell'agosto, l'arresto di uno dei magistrati più influenti, Pierre Broussel,
provocò a Parigi una "giornata delle barricate". Una sostenitrice della monarchia, madame de
Motteville, scrisse che «il parlamento aveva cominciato a rivendicare poteri così ampi da far temere
che quegli uomini di legge fossero stati sedotti dal cattivo esempio della Camera inglese»; e nel
1649 un libellista affermò che la Francia non era sola nella lotta per la libertà e che la strada da
seguire era già stata indicata dall'Inghilterra, dalla Catalogna e dal regno di Napoli. Nel fondo
dell'animo i frondisti borghesi rimanevano però dei monarchici, ostili alla repubblica e alla
rivoluzione: l'esecuzione di Carlo I d'Inghilterra (1649) suscitò orrore in tutta la Francia e soffocò
sul nascere ogni sentimento antirealista, sebbene nel dicembre 1651 vi fosse ancora a Parigi un
piccolo partito repubblicano. Le richieste dei ribelli erano spesso radicali e di vasta portata, e i loro
attacchi contro Mazzarino miravano ad abbattere il regime esistente, ma in sostanza la loro ideologia
si risolveva in una conferma del diritto divino della monarchia assoluta.
H. Kamen, L'Europa dal 1500 al 1700, Laterza, Bari 1996.
4.
Così, nei decenni successivi al 1660, tutte quelle istituzioni che avrebbero potuto limitare in qualche
modo il potere della corona (i parlements, i governatori delle province, gli stati provinciali e le
municipalità) furono gradualmente svuotate di ogni potere effettivo. Il governo dominava
incontrastato al centro come alla periferia e non c'era né una classe singola né un'alleanza di classi
che potesse porre un freno al suo potere. Il popolo minuto, cioè i contadini, gli artigiani e tutti coloro
che avevano un livello di vita inferiore a quello della borghesia agiata, era come se non esistesse agli
occhi del governo e delle classi superiori. In pratica, se non in teoria, il terzo stato era limitato agli
strati più ricchi del ceto medio: i rentiers, gli officiers (cioè i titolari di cariche pubbliche riguardanti
l'amministrazione statale o locale, l'esazione delle imposte dirette e l'amministrazione della giustizia),
i banchieri, gli appaltatori delle tasse e i mercanti. È vero che i giudici deiparlements, che erano tra i
più importanti officíers, non avevano alcun debito di gratitudine verso Luigi, che li aveva privati di
ogni possibilità di ingerenza negli affari di stato; ma sotto un sovrano così autoritario non restava
che curvare il capo e obbedire. Anzi, il re spinse la propria avversione contro questi funzionari al
punto che volle ridurre il valore delle loro cariche e tentò di impedirne la trasmissione ereditaria
decretando che chiunque avesse un padre, un fratello o un cognato in un parlement non poteva
esservi ammesso; questi editti rimasero lettera morta, ma i parlements furono ugualmente obbligati a
registrarli. È vero ancora che gliofficiers di rango inferiore, quelli che si occupavano della
riscossione delle imposte e che sedevano nei tribunali inferiori, furono privati di molti dei loro poteri
dalla crescente importanza degli intendenti; ma il loro malcontento era troppo insignificante per
contare qualcosa. Nel complesso i ceti medi furono in questo periodo i più saldi sostenitori del
regime assoluto. Non si era perduto in essi il ricordo della secolare alleanza della borghesia con la
corona che aveva stroncato definitivamente il potere della nobiltà feudale, e la tragica esperienza
dell'inutilità della Fronda aveva rafforzato la loro fedeltà a una monarchia forte che sola poteva
garantire sicurezza e stabilità. Lungi dal nutrire le opinioni sovversive dei loro discendenti che, un
secolo dopo, avrebbero reclamato un potere politico proporzionato all'importanza economica, i
borghesi del tempo di Luigi XIV consideravano l'assolutismo un giusto prezzo da pagare alla
stabilità politica e accettavano la gerarchia sociale esistente come un'istituzione divina; l'unico
desiderio del borghese ambizioso era quello di fare abbastanza denaro per elevare se stesso e i propri
figli al rango nobiliare.
J. Lough, La Francia di Luigi XIV, in Storia del mondo moderno,
vol. V: La supremazia della Francia, 1648-1688, Garzanti, Milano 1982, pp. 303-304.
5.
Con una scelta politica deliberata Luigi fece della corte, in un grado mai raggiunto né prima né dopo
nella storia francese, il centro della vita sociale dell'aristocrazia, dapprima al Louvre e negli altri
palazzi reali intorno a Parigi e poi, dal 1682, a Versailles, che egli trasformò da modesta tenuta di
caccia quale era al tempo di suo padre in un immenso palazzo, la residenza appropriata di un
sovrano che esercitava in patria un potere assoluto e che con le recenti vittorie aveva conquistato la
supremazia in Europa. Versailles era la sfarzosa dimora del re sole, dove il superbo motto «Nec
pluribus impar», emblema della sua grandezza, era inciso in oro su ogni porta. Il palazzo era fatto
per apparire ai sudditi come un tempio dedicato all'adorazione di un semidio. La vita quotidiana di
Luigi, e perciò della famiglia reale e della corte, era regolata dalla più rigida etichetta, in contrasto
con l'atmosfera libera e spensierata delle corti di suo padre e di suo nonno. I minimi dettagli del
cerimoniale erano deliberatamente studiati con la più grande attenzione; nulla era trascurabile agli
occhi di Luigi, se poteva contribuire a un unico grande scopo, l'esaltazione del re sopra il resto
dell'umanità. Per impedire ai nobili di rendersi pericolosi egli li volle a corte. E i nobili venivano,
non solo perché la vita di corte soddisfaceva la loro sete di lusso e di divertimenti, ma perché era
l'unico modo di procurarsi i favori che solo il re poteva elargire. Se non si mostravano a Versailles,
non avevano alcuna possibilità di ottenere qualcosa. «Non lo conosco», rispondeva il re quando gli
si faceva il nome di qualche assente che aveva chiesto un favore qualsiasi. Oberati di debiti, ridotti
spesso ad arrotondare le entrate col gioco e con ogni sorta di mezzi equivoci, i nobili passavano i
loro giorni a corte, sempre in attesa di cariche o di pensioni che raddrizzassero la situazione
finanziaria. E per dar prova di solerzia, cercavano di non mancare mai quando il sovrano compariva
in pubblico o quando andava o tornava dai consigli o dalla cappella reale.
J.
Lough, La
Francia
di
Luigi
XIV,
in Storia
vol. V: La supremazia della Francia, 1648-1088, cit., p. 305
del
mondo
moderno,
6.
Colbert considerava il commercio internazionale, non come scambio di beni e servizi di cui
potessero giovarsi ambo le parti, ma come una guerra di denaro, in cui il vantaggio di un paese
portasse con sé inevitabilmente la rovina dell'altro. Calcolando che al commercio dei trasporti
dell'Europa occidentale fossero sufficienti ventimila navi, fornite in misura diversa dalla Francia,
dall'Inghilterra e dall'Olanda, giunse alla conclusione che il commercio francese poteva estendersi
soltanto quando si riducesse la flotta delle sue due rivali commerciali. È straordinario che un uomo
così abile ed intelligente fosse vittima di un errore tanto puerile, nel supporre che la ricchezza
dell'Europa fosse limitata o consistente unicamente nell'oro: falsa teoria commerciale, da cui fu
spinto ad appoggiare la guerra olandese che, provocando altre contese, mandò in rovina l'edificio di
prosperità commerciale, scopo supremo della sua vita.
H. A. L. Fisher, Storia d'Europa, Laterza, Bari 1938, vol. II, p. 255.