A servire - Progetto integrato cultura del Medio Friuli

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A servire - Progetto integrato cultura del Medio Friuli
Tradizioni
A servire
a cura di Ivano Urli
Fig. 1 - La domenica le ragazze partite per “servire” in città si
trovano insieme a consolarsi ridendo.
Fig. 2 - L’andare a servire è quasi l’unica alternativa al lavoro
sottomesso in casa e allo sfruttamento del lavoro nei campi.
che si appressa. Intanto hanno vissuto in altre
case, ascoltato altre parole, conosciuto le città,
esteso la portata dello sguardo. Un po’ conservano, sì, la struttura dei loro avi e della tradizione,
ma un po’ sono cambiate e hanno visto il mondo, quando ancora, nel medio Friuli, basta il letto
di un torrente fra un paese e l’altro a estraniarli
(forescj). “Non occorre dire che a casa avevamo
miseria”, racconta di sé Silute Fantin. “Sei bambini, lì, i vecchi, e il papà a faticare per il mondo.
Nella scuoletta rossa, dietro la chiesa, sono stata
fino in terza e, alla fine, mio padre ha parlato con
la maestra che gli ha detto che avevo passione e
potevo andare maestra anche io. ‘Ben maestra di
gramigna’, ha risposto mio padre. A dieci anni mi
ha tenuta a servire Vigje Gardenâl. Poi a Gorizia,
e nel trentuno sono andata a Torino, di quindici
anni. Eravamo sole, sul treno, io e Angjeline di
Scheda n° 5. 1. 12
Progetto Integrato Cultura del Medio Friuli
A servire
Nel parlare friulano, l’espressione “a servî” riferita al lavoro femminile, e talvolta maschile, alle
dipendenze altrui, nelle case signorili della città o sotto le famiglie benestanti (bogns parons)
del paese, assume un’accezione un po’ a metà
strada fra lo stato di sottomissione ad altri e la
condizione di chi coopera, fornisce un servizio,
viene ripagato di una collaborazione, ospite in
casa pressochè alla pari e in condizione familiare. L’intonazione della parola è relativa ai tempi,
alle condizioni di bisogno di chi serve, al pensiero
e al senso d’ospitalità e alla dignità di chi si fa
servire. Nel tessuto socio economico medio friulano della tradizione, ancora rievocato da qualcuno che ne ha fatto esperienza, contrassegnato
dalla proprietà terriera raccolta e sfruttata nelle
mani di pochi (il siôr) e spesso di una sola famiglia per paese da cui ci si affranca lentamente
lungo il Novecento, prevale solitamente l’accezione peggiorativa della parola “servî”. A servire
nella casa del padrone è chi sta sull’ultimo gradino sociale, non dispone di nulla se non le braccia ancora buone per la fatica, bracciante per
l’appunto, che fornisce per un boccone, sempre
disponibile e acquiescente agli ordini di chi sta
sopra (sovran, paron). Vigono ancora in questa
realtà feudale, che sopravvive nel ricordo, le corvées. Sono prestazioni d’opera gratuite che chi
sta sotto, sottani o coloni che essi siano, fornisce
nella casa e sulla parte fondiaria della signorile
proprietà: il padrone si riserva, quando non si ritenga in possesso, quindi in diritto di esercitare
su qualche paesana che lo serve, ulteriori e gratuite sopraffazioni.
Presentandosi in queste tinte il quadro sociale
di riferimento, l’andare in fornace per il mondo, l’entrare in filanda o nelle case dei ricchi,
per le città, diventa quasi una via liberatoria per
la fuga, se non una vera e propria occasione di
emancipazione. Racconta Malie Buratine di Pozzuolo, del 1897: “Molte andavano in filanda. Altre restavano a casa, a faticare per i campi. Altre
ancora a servire. O dietro al marito per il mondo.
Per il borgo passavano a stormi quelli di Santa
Maria che andavano a Udine a prendere il treno.
El soreli al vaive / e ancje jo varès vaiût, / chê
di viodi a menâ vie / la plui biele zoventût (il
sole piangeva / e avrei pianto anch’io / nel vedere
portar via / la più bella gioventù) cantavano per
la strada. E tintine tintone con la fisarmonica,
diretti in Germania o per le Americhe. In filanda
lavoravano oltre cento e ottanta di loro, maestre,
scoline o annodatrici (ingropine), dodici ore al
giorno, ottanta centesimi la paga quotidiana di
una ragazza, quando per un chilo di zucchero ne
occorrevano quindici, sotto il direttore che era
il padreterno”. Partono quasi bambine e tornano
ormai donne, pronte a mettere su famiglia e tirarsela poi avanti, nel tempo burrascoso e cupo
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rivata a centotrenta lire al mese, che era il massimo quella volta. La domenica andavo a ballare
per Torino con Pauline e Carine Muradôr. Avevo
un fidanzato in paese che mi scriveva di non andare in giro e di non uscire, neanche la domenica. Ma avevo sempre meno voglia di leggere
le sue raccomandazioni e ho preso Otone Malin,
militare a Torino, che non mi teneva a catena,
mi voleva bene e gli piaceva ballare, come a me”.
Gli anni della giovinezza, addolciti nel ricordo,
tolgono ogni intonazione negativa all’espressione
‘a servî’. “Ricordi quelle sere passate al Valentino,
/ col biondo soldatino / che ti stringeva sul cuor”,
canta ancora l’organetto nel cuore di Silute, piccola, felice e innamorata servetta di Torino.
Fig. 3 - La cura delle camere era un lavoro richiesto alle ragazze
che andavano a servire.
Bibliografia
• N. Parmeggiani, Il Friuli dall’Ottocento al secondo dopoguerra,
Enciclopedia monografica del Friuli Venezia Giulia, vol 2, parte
I, Udine, Istituto per l’Encicl. del F. V. G., 1972
• P. Gaspari, Storia popolare della società contadina in Friuli,
Monza, Piffarerio, 1976
• AA. VV., La vita politica e sociale, Enciclopedia monografica
del Friuli Venezia Giulia, vol 3, parte II, Udine, Istituto per
l’Encicl. Del F. V. G., 1979
• E. Dentesano e R. Tirelli, Economia e società nella Media e
Bassa Pianura, Tavagnacco, Arti Grafiche Friulane, 1988
• C. Rinaldi, Il Friuli nelle mani di Eva. Domestiche e filande fra
Otto e Novecento, Sedegliano, Comune di Sedegliano, 2001
• G. Marpillero, Donne friulane, Pordenone, Biblioteca
dell’immagine, 2003
A servire
Fig. 4 - L’andare a servire, per la donna, non conosce limiti di età:
la miseria obbliga persino le anziane ad andare a lavorare a giornata.
Moro, piccole, in un mucchietto, con quei quattro stracci dentro una cassettina di legno portata
vicino da un mio zio dal militare. Bambine crude,
ancora, quella volta. Avevo con me cento lire e
solo per il treno me ne sono andate nove e cinquanta. A Torino diluviava che Dio la mandava.
’Sono lì delle suore’, ci si diceva l’un l’altra in
paese, e lì siamo andate, dove venivano le signore di Torino a sceglierci e a mettersi d’accordo.
C’è voluto qualche giorno per combinare, tanto
che avevo ormai mangiato di sant’Anna tutte le
mie cento lire. Gli ultimi cinque anni a Torino
li ho passati nella casa di un generale di corpo
d’armata nativo di Belluno. Stavo bene. Passava
per il corso un organetto e io mi mettevo a ballare, spolverando. Il generale mi diceva che sua
madre, friulana di Casarsa, era come me, con la
passione di saltellare i balli del Friuli. Lì sono ar-
Per ricercare e approfondire
• Nel brano si richiamano i termini “sovran” e “sotan”, a
proposito della società contadina del passato: che cosa
significano le due parole? Quale posizione avevano costoro
sulla scala sociale di allora?
• Cogli dal brano e immagina qual era la posizione della
donna in questa società.
• Secondo te quali sono i motivi (fisiologici, storici, sociali,
politici...) che hanno determinato la sudditanza della
donna? Riscontri ancora oggi problemi riguardo alle pari
opportunità?
• Le donne nominate nelle testimonianze hanno tutte un
nome e un soprannome di famiglia in friulano. Il tuo nucleo
parentale (da parte di tuo padre, di tua madre, dei nonni)
conserva ancora il nomignolo di famiglia? Secondo te
perché un tempo erano necessari questi secondi cognomi?
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