Pdf Opera - Penne Matte

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Pdf Opera - Penne Matte
Il Muro
1.
José Miguel Hernandez scrutava il muro dal basso in alto, con la bocca aperta perché dimenticava
sempre di tenerla chiusa, quando era concentrato.
La sua modesta statura di un metro e sessantuno gli consentiva appena di arrivare all’altezza del
nodo della cravatta della gigantografia che campeggiava davanti a lui. La foto ritraeva un uomo dal
sorriso ampio, vincente e privo di difetti su un volto ampio, vincente e privo di difetti. José Miguel
era quasi certo che ci fosse lo zampino della computergrafica, siccome al telegiornale quell’uomo
dimostrava perlomeno vent’anni in più.
Le rughe di espressione gliele avevano lasciate, però. Davano carattere.
La posa dell’uomo nella foto era studiata: ammiccava invitante a José Miguel tenendo il busto
orientato a tre quarti rispetto al volto perfetto, che sorrideva all’osservatore. Teneva le braccia
conserte ma una delle mani era visibile e mostrava il pollice in su. Nel complesso, il presidente
americano Ronald Stump dava l’impressione di un cinquantenne rampante, sicuro di sé e – questo
almeno era certo – con più soldi di quanti ne potesse spendere.
José Miguel si grattò la testa ricciuta con una mano sporca, e si allontanò di qualche passo per
vedere meglio quanto ci fosse intorno al poster: in verticale, il muro terminava in riccioli di filo
spinato, in orizzontale correva fin dove arrivasse il suo sguardo, in ambo le direzioni. Era alto
molto più di lui, e molto più alto anche di suo padre Ramòn, che pure era un omone. Ramòn gli
raccontava che il muro era stato eretto poco prima che lui - José Miguel - nascesse, in poco più di
un anno, rapido oltre ogni previsione. Secondo suo padre, il colore originario del muro era terra di
siena e José Miguel gli credeva quando parlava, ma allo stato attuale il muro ricoperto di graffiti
mostrava praticamente qualsiasi colore tranne quello che suo padre diceva. Costeggiò il muro per
un po’ alla destra e alla sinistra della foto, leggendo tutte le scritte che catturavano il suo sguardo:
“MUERTE AL PUTO JEFE”; “Give Seoul back!” “For a good time,Conchita 337…” il resto del numero
di telefono era stato cancellato da uno spruzzo di bomboletta nera.
Si soffermò per un attimo su una scritta violacea e sbavata: “THE END IS NIGH” , e si grattò di
nuovo il capo. Anche se preferiva esprimersi in spagnolo, conosceva l’inglese grazie alla madre
Rebecca, nativa dell’Illinois, ma la scritta non aveva comunque alcun senso per lui. Anche se
l’autore avesse deciso di fermarsi o fosse stato interrotto prima di terminare la parola NIGHT, o
NIGHTMARE – José Miguel la conosceva grazie a un vecchio film horror - la frase avrebbe
significato comunque ben poco.
Scrollò le spalle sottili come faceva sempre quando rinunciava a capire qualcosa e tornò davanti
alla foto, come se questa esercitasse un fascino magnetico su di lui. Il poster affisso di fresco
copriva in parte una scritta in spagnolo spruzzata in un bel rosso vivace, che ora si interrompeva
dopo “RONALD STUMP CHUPA ENOR...”, lasciando all’immaginazione il resto. José Miguel aggrottò
la fronte per tre motivi: primo, odiava essere lasciato in sospeso; secondo, non voleva che una
stupida foto interrompesse il suo messaggio perché, terzo motivo, quella frase l’aveva spruzzata
lui.
Chiuse inconsciamente la bocca e serrò le labbra, prendendo una decisione. Si liberò dello zainetto
e lo lasciò scivolare a terra, poi estrasse la bomboletta spray rossa e tutta sbavata e la agitò con il
caratteristico TAKATAKATAKA che tanto gli piaceva sentire. Aveva appena iniziato a tracciare la M
di “ENORMES” quando il fischietto risuonò aspro, stridente e brutale a poca distanza da lui.
“YOU! MEXICAN! STOP!” Urlò il poliziotto che aveva fischiato, ed estrasse il manganello correndo a
grandi falcate verso di lui. Il suo compare lo imitò. José Miguel non ci pensò due volte, lasciò
cadere la bomboletta e afferrato in fretta lo zainetto per uno spallaccio si lanciò con tutta la forza
delle sue gambette magre nella direzione opposta ai manganelli...
2.
Ramòn Hernandez era pallido come un cencio malgrado il suo naturale colorito olivastro e vagava
per la povera stanza come un’anima in pena, completamente fuori di sé dalla preoccupazione. A
nulla servivano le rassicurazioni di Rebecca, né le sue promesse: “Arriverà, vedrai” diceva la donna,
cercando di mostrarsi calma. “Josè sa benissimo come cavarsela.”
“Non ha mai fatto così tardi! Gli è successo qualcosa, me lo sento!” ribatté Ramòn, con ampi gesti
di stizza. “Avrei dovuto insistere! Non avrei dovuto permettergli di uscire in un orario così vicino al
coprifuoco!”
Lasciò cadere i suoi centodieci chili sulla sedia più vicina, che scricchiolò come in protesta, e si
prese il volto fra le mani. Da dodici anni ormai, ammise a se stesso, la sua vita aveva preso una
direzione completamente opposta a quella che avrebbe voluto. Eppure era un brav’uomo, e con
Dio a testimone, un gran lavoratore. Quel che è peggio, aveva trascinato nel vortice della miseria
anche la sua famiglia.
Mentre Rebecca accorreva a confortarlo, Ramòn frugò nella memoria alla ricerca del momento in
cui tutto aveva iniziato ad andare a rotoli. Ricordò con amarezza quel 9 Novembre 2016 di dodici
anni prima, che sapeva che non avrebbe mai dimenticato...il giorno in cui gli Stati Uniti d’America,
il suo Paese, avevano dato lui e la sua gente in pasto al Presidente Ronald Stump. Quel giorno
aveva sentito per la prima volta il vuoto allo stomaco che ormai gli era familiare. L’aveva morso
nelle viscere, velenoso come un cobra e Ramòn l’aveva capito subito: all’orizzonte c’erano malos
tiempos. Tempi duri.
Il Presidente degli Stati Uniti Ronald Stump, “El Jefe”, era ormai alla fine del suo terzo mandato, e
se dopo dodici anni dalla sua prima elezione c’era ancora qualcosa che non fosse andato a
puttane, Ramòn Hernandez avrebbe voluto sapere cosa. Stump aveva approfittato dell’accoglienza
del Grande Paese piegando persino le leggi elettorali in modo da ottenere una terza rielezione. Per
le strade, tutti sparlavano di lui, tutti lo odiavano e lo deridevano. Non uno si esprimeva a suo
favore.
Eppure, in qualche modo, continuava a vincere.
Appena eletto aveva mantenuto la fatale promessa di costruire un muro gigantesco tra Stati Uniti
e Messico. Nelle sue intenzioni i Messicani avrebbero dovuto pagarlo, ma a pagarne il prezzo
erano stati tutti: la campagna anti-immigrazione aveva prosciugato il budget con spese superiori ai
tre miliardi di dollari. Un anno più tardi Ramòn aveva perso il lavoro. Due anni dopo era stato
costretto a trasferirsi in una bidonville a un passo dal confine col Messico, che non vedeva da
quando era nato, ed era rimasto lì. Al confine. In bilico tra due mondi che non lo volevano più.
Il mondo sembrava soffrire con lui: l’anno successivo la Corea del Sud, armata e spalleggiata da
Stump, aveva ingaggiato Pyongyang in una guerra nucleare fratricida. I profeti di sventura avevano
previsto che Seoul e la capitale del nord si sarebbero annientate a vicenda nello spazio di dieci
anni.
Ce ne avevano messi cinque.
L’anno dopo la costruzione del muro Rebecca era rimasta incinta di Josè Miguel. Quando Ramòn
l’aveva scoperto, aveva fatto quasi sparire sua moglie in un abbraccio goffo e orgoglioso e per
qualche minuto era stato l’uomo più ricco del mondo. Quando Rebecca se n’era andata felice e
intontita aveva tirato fuori dal cassetto che non apriva mai l’involto con il cipollone d’argento della
sua famiglia e con attenzione aveva rimosso da esso la foto di suo padre, dopo averla baciata.
“Sarai nonno”, aveva detto alla foto e se l’era riposta in tasca assieme all’orologio. Poi era uscito, e
al ritorno aveva in testa tante speranze, ma in tasca solo la foto e una fascetta di dollari spiegazzati
che prima non aveva. Il piccolo nacque e crebbe, e Ramòn sentì di amare quella testolina ricciuta
dal primo giorno che la vide spuntare dalla copertina di lana, come un frutto strano, con tutto
l’ardore del suo semplice cuore di operaio.
“Vado a cercarlo” disse riscuotendosi dal torpore in cui le carezze di Rebecca l’avevano precipitato.
Si alzò dalla sedia e staccò la giacca dall’appendipanni.
“Ramòn, non puoi.” disse Rebecca “c’è il coprifuoco. Ti scopriranno. Josè tornerà, è sempre
tornato.”
“Starò attento. Le strade sono poco illuminate, resterò nell’ombra. Devo sapere cosa gli è
successo.”
Rebecca alzò la voce: “Violare il coprifuoco è più grave per un adulto, lo sai! Se prendono Josè lo
castigheranno, è vero, ma poi ce lo riporteranno sano e salvo! Se prendono te, potrebbero
inventare una scusa per arrestarti e toglierti tutto ciò che hai.”
Ramòn si sentì autorizzato ad urlare a sua volta: “Tutto ciò che ho siete tu e Josè Miguel! Hai
dimenticato cos’è successo al figlio dei Gutierrez? L’hanno trattenuto una notte intera e quando
l’hanno rilasciato aveva un occhio nero e bruciature di sigaretta ovunque!”
“È stato l’anno scorso, e quel ragazzo è una testa calda!” strillò Rebecca stridula “smettila di
costringermi a continuare questo discorso! Mi odio già abbastanza per quel che sto dicendo! Credi
che sia facile per me parlare così? Pensi che non ami Josè? Sto solo cercando di mantenere la testa
a posto e limitare i danni! Qualcuno di noi deve farlo!”
Silenzio. Respiri pesanti. Ramòn restò per un po’ a bocca aperta a fissare la moglie che ora era di
spalle e piangeva nascondendosi il viso, poi come un automa riappese la giacca e tornò a sedersi,
sentendosi vagamente in colpa.
“Va bene. Aspetterò ancora.”
Rebecca sembrò sollevata e si asciugò gli occhi col grembiule. “Ti preparo una camomilla, vuoi? Poi
ci metteremo al tavolo vicino alla finestra e aspetteremo insieme. Arriverà presto, lo so.”
Ramòn annuì senza pensarci e guardò la figura snella e nervosa della moglie scomparire oltre la
porta della cucina che faceva anche da ripostiglio per mancanza di spazio, poi girò la sedia e si
mise a puntare l’ingresso con i gomiti sulle ginocchia e il viso ciondoloni, come un bulldog
malinconico.
Nella cucina angusta, Rebecca trafficò per un po’ col bricco, lo mise a bollire e poi disse a voce alta
per farsi sentire dal marito: “Una cosa è certa: quando torna mi sentirà! Non lo farò più uscire per
un mese almeno!”
Non si aspettava una risposta, e non ce ne furono. Minuti più tardi, una folata di aria gelida la
investì facendola rabbrividire. “Ramòn? Puoi chiudere la finestra per favore? C’è corrente.” L’aria
si quietò. Rebecca dispose sul tavolo l’unico vassoio che avevano e vi poggiò sopra due tazze
fumanti. Poi portò il tutto nell’altra stanza e varcata la soglia rimase impietrita col vassoio in mano,
rendendosi conto di essere sola.
3.
Ramòn si aggirava come un ladro nella notte, deriso dai poster di Stump che tappezzavano la città.
La sua mole non l’aveva mai aiutato a passare inosservato, pertanto doveva stare particolarmente
attento. Si strinse nella giacca e chinò il capo, sia per nascondere il volto che per proteggersi dal
vento gelido che si era levato. Per prima cosa sarebbe andato da Jimenez, siccome era la prima
persona a cui Josè Miguel avrebbe chiesto aiuto se fosse stato in difficoltà.
La strada dove Jimenez abitava era sporca, desolata e un covo di baby-gang messicane, ma aveva il
pregio di essere un vicolo cieco che veniva spesso ignorato dalle pattuglie, e infatti Ramòn non ne
vide nei paraggi. Inoltre, pochi erano abbastanza stupidi da sfidare il coprifuoco, perché cose
terribili succedevano ai messicani che lo violavano, ma a questo Ramòn scelse di non pensare.
Nella penombra, riconobbe il vicolo più dalla puzza che da altro e vi si introdusse, senza fermarsi
finché non fu davanti alla porta mezzo scardinata di Jimenez. Bussò tre volte con decisione, e il
silenzio della strada mutò un silenzio di tipo diverso, di persone che trattengono il respiro: proprio
dietro la porta c’era qualcuno che, naturalmente, non aspettava visite.
“Jimenez! Sono io!” sussurrò alla porta guardandosi attorno. Una breve esitazione, poi sentì
armeggiare col chiavistello di quella porta che probabilmente avrebbe ceduto ad una sola spallata
data con nemmeno troppa convinzione. Comparve sulla soglia un vecchietto curvo e male in
arnese, più basso di Ramòn di una buona spanna. Aveva capelli e baffi grigio topo e un occhio
pigro che guardava un punto imprecisato dietro di lui. Era però difficile ad un primo sguardo
soffermarsi sui tratti del suo viso, perché a saltare subito all’occhio era la scritta cubitale
WWW.BIGMONEYCASINO.COM che aveva tatuata su tutta la fronte.
Ramòn non poté trattenere uno sguardo di compassione per il vecchio: Jimenez era uno di quelli
che chiamavano los manchados, i macchiati. Nella terra delle opportunità del presidente Stump,
chi non avesse altro da vendere che se stesso poteva scegliere di usare il proprio corpo come
insegna pubblicitaria per qualche grande ditta. Le parti più visibili erano valutate di più. Ramòn si
era sempre domandato cosa avessero offerto al vecchio Jimenez in cambio di quell’oltraggio, ma
non si sarebbe mai sognato di chiederlo.
“Ramòn? Sei tu? Che ci fai qui a quest’ora?” disse il vegliardo con una voce in cui Ramòn lesse
sorpresa e non poca preoccupazione.
“Emergenza. Mi fai entrare?”
Il vecchio si fece da parte e fattolo accomodare chiuse la porta alle spalle del suo ospite. La casa di
Jimenez era se possibile ancor più misera di quella di Ramòn: un monolocale scarno con un divano
letto pidocchioso, un tavolo di legno scheggiato e un paio di sedie. In un angolo, un cucinino
incrostato che dava l’idea di essere usato di rado. Nessun bagno, il che poteva spiegare in parte la
puzza nel vicolo. Una delle sedie era occupata da Francisco, il nipote di Jimenez: un adolescente
scuro, segaligno e sempre mogio che ora fissava il nuovo arrivato con occhi sgranati. Ramòn gli
rivolse un breve cenno di saluto.
“Sei pazzo a presentarti qui a quest’ora” disse Jimenez. “I controlli si stanno facendo sempre più
severi.”
“Josè Miguel non è tornato, stasera.” disse Ramòn dritto al punto. Jimenez e il ragazzo si
scambiarono uno sguardo allarmato. “L’avete visto, per caso?”
“Era con me” rispose ingenuamente il giovane “siamo stati insieme fino alle cinque. Poi è andato
via.”
“Dove?” incalzò Ramòn torreggiando su di lui. Francisco esitò, a disagio. “Tu lo sai, vero? Ti ha
detto dove andava.” Non era una domanda.
“Non lo so” disse evasivamente. Gli occhi di Ramòn si assottigliarono e l’omone fece un passo in
avanti. “Mierda, non posso dirtelo! Mi ha fatto promettere!”
Ramòn era un uomo mite e gentile e non avrebbe mai fatto del male ad un ragazzo, neppure in
circostanze così disperate. Ma era consapevole della sua stazza, e pensò che una volta tanto
essere il più grosso della stanza sarebbe potuto tornargli utile. Con un’espressione feroce si lanciò
sul ragazzo seduto e lo sollevò per la collottola come aveva visto fare in un film poliziesco,
portandolo all’altezza dei suoi occhi. A dire il vero, nel film il poliziotto aveva sbattuto il sospettato
contro il muro con violenza, ma Ramòn non si sarebbe spinto a tanto. Francisco impallidì di botto e
perfino Jimenez, che pure lo conosceva bene, sembrò cascarci in pieno perché si aggrappò al
braccio di Ramòn pregandolo a gran voce, tentando invano di staccarlo dal ragazzo. Ramòn lo
ignorò.
“Dove. È. Andato. Josè. Miguel.” Sillabò a denti stretti.
“Il…il muro! Il muro!” squittì Francisco “ha detto che voleva giocare un tiro a quei maricones là alla
frontiera! Pisciargli nelle cabine, imbrattargli le auto, o qualcosa del genere. Mi aveva chiesto di
accompagnarlo ma…” sembrò in cerca delle parole giuste “…gli ho detto di no, che si sarebbe
cacciato solo nei guai!”
Ramòn imprecò mentalmente in due lingue diverse. La zona del confine era la più sorvegliata.
Mise giù il ragazzo con estrema delicatezza e bofonchiò una scusa. Sembrava assorto. Jimenez,
passato lo spavento, lo guardava corrucciato.
“Stai pensando di uscire di nuovo? Come amico non posso permetterti di…:” iniziò a dire Jimenez,
ma qualcosa nello sguardo di Ramòn lo fermò.
“Anche se potessi non andare a cercarlo, non resterei. Se una pattuglia mi trovasse qui o mi
vedesse uscire domattina presto, se la prenderebbero anche con te. E questo non posso
permetterlo.”
Jimenez tacque per un attimo cercando un’obiezione, ma non ne trovò e rispose solo: “Stai
attento, ti prego.”
Ramòn annuì, batté una pacca sulla spalla dell’amico e uscì furtivo nella notte.
4.
“HALT! Who goes there?” abbaiò la guardia e a Ramòn balzò il cuore in gola, sentendosi scoperto.
“It’s just me, you dumbass!” gli rispose un’altra guardia, poco lontano da dove lui era nascosto.
Ramòn cercò di controllare i suoi battiti mentre si appiattiva il più possibile dietro il rottame di
macchina dove si era nascosto, in una zona poco illuminata. La seconda guardia lo superò senza
vederlo e si avvicinò alla prima per darle il cambio. Sbirciando tra i finestrini per quanto poté,
Ramòn vide balenare la fiammella di un accendino mentre la prima guardia passava alla seconda
una sigaretta.
Il muro era ormai quasi del tutto immerso nell’oscurità, ad eccezione delle guardiole. Ramòn era in
qualche modo riuscito a superarne due, ma solo perché i sorveglianti erano troppo annoiati per
prendere sul serio il loro lavoro, e a malapena si allontanavano dalle loro postazioni. Le guardie
ora sembravano stare chiacchierando; Ramòn avrebbe dato qualsiasi cosa per potersi avvicinare di
più, captare almeno un brandello di discussione utile a ritrovare suo figlio, ma rimase dov’era.
Quando fu certo che entrambe le guardie gli dessero le spalle, abbandonò la sua copertura e
sgattaiolò dietro un palazzo vicino. Da lì passò ad un cassonetto traboccante, e da questo al
palazzo successivo. Da lì poté camminare rasente il muro per un buon tratto, siccome molti
lampioni erano saltati e l’unica fonte di luce era la torcia del poliziotto di pattuglia, che Ramòn
evitò facilmente.
Si stava chiedendo per quanto ancora avrebbe dovuto procedere alla cieca quando avvistò un
furgone della TV parcheggiato poco lontano. Un crocchio di curiosi in tuta da lavoro che erano
probabilmente operai del turno di notte vi era radunato intorno, tenuto a distanza da un gruppo di
poliziotti. Ramòn si avvicinò costeggiando con cautela il muro illuminato a intermittenza dalle
stroboscopiche rosse e blu delle volanti fino a raggiungere una cabina elettrica che gli fornì la
copertura di cui aveva bisogno. Rannicchiato lì dietro, poteva ascoltare senza essere visto. Sentì la
voce del reporter televisivo fare le prove generali prima della diretta e udì un paio di battute
nervose tra lui e il cameraman. Finché le acque non si fossero calmate, Ramòn non avrebbe avuto
modo di proseguire inosservato, quindi decise di fare buon viso a cattivo gioco e aspettare che la
folla si disperdesse.
Poco dopo, sentì il reporter schiarirsi la voce e iniziare la diretta. Tradusse mentalmente
dall’inglese quanto diceva:
“Grazie, studio. Mi trovo a El Paso, presso il Muro Stump, dove un crimine decisamente
antiamericano si è consumato appena qualche ora fa. Un messicano dissidente di cui si sospettano
legami con associazioni di stampo rivoltoso è stato colto in flagrante a commettere atti vandalici
nei confronti dell’immagine del Presidente e compromissori per l’integrità del Muro, con le
aggravanti di violazione del coprifuoco e resistenza all’arresto…”
Ramòn sentì uno strano sapore in bocca. I figli maschi, messicani specialmente, sono spesso molto
legati alle madri. A loro confidano i segreti, le colpe, le prime cotte. Accade però talvolta, non
spesso, che tra un padre e un figlio si crei un rapporto speciale. Per Josè Miguel, Ramòn aveva un
sesto senso. Riconosceva il suo passo quando entrava in una stanza anche se in quel momento era
di spalle; da come si tormentava i riccioli capiva quando mentiva, e quando invece era solo molto
imbarazzato; quando Josè Miguel era piccolo era accaduto decine di volte che Ramòn si fosse
lanciato ad afferrarlo un attimo prima che rotolasse giù dal divano, o che perdesse il controllo
della bicicletta. Per questo sesto senso, questa sottospecie di facoltà medianica che non si sarebbe
mai spiegato, Ramòn Hernandez seppe immediatamente e troppo tardi che il “messicano
dissidente” era suo figlio undicenne, José Miguel. Il mondo iniziò a ballargli intorno e dovette
appoggiarsi al muro per non cadere. Il reporter continuava imperterrito il suo servizio:
“Il criminale, di cui non sono state rilasciate le generalità, è stato prontamente neutralizzato. Ho
qui il sergente O’Malley, direttamente coinvolto nell’azione di stasera, che ha accettato di
rilasciare una dichiarazione: presume che il trasgressore agisse a scopo di rivolta, sergente?”
La voce da manuale di O’Malley risuonò roboante nel microfono: “ne siamo quasi certi, ma stiamo
comunque indagando. Non è la prima volta che si verificano disordini da questo lato del muro, ed
esiste sempre la possibilità che si tratti di episodi collegati.”
“Crede che il muro si possa definire al sicuro da brecce o altri attentati?”
“Posso dire che abbiamo la situazione sotto controllo, e qualsiasi minaccia riceverà una risposta
rapida e definitiva.”
“Grazie, Sergente. Come vedete, la situazione sembra essersi stabilizzata senza danni ma la polizia
rimane vigile. Resta da vedere se le frange democratiche continueranno ad attaccare in Congresso
la linea dura e senza compromessi del Presidente Ronald Stump anche ora che continua a
dimostrarsi efficace. Da El Paso è tutto, a voi, studio.” Il reporter chiuse il collegamento TV appena
in tempo perché l’urlo che lacerò la notte non fosse trasmesso in diretta.
Prontamente neutralizzato.
Rapida e definitiva.
Aveva undici anni.
Ramòn piangeva e rideva allo stesso tempo. In ginocchio e scosso dai singhiozzi, poggiò la testa
contro il muro e strinse a pugno le grandi mani. Col volto rigato da lacrime di rabbia colpì il Muro
Stump cento, mille volte perché dopo una vita di silenzio voleva far sentire che c’era, che aveva
pagato per quel muro di merda, l’aveva pagato in sangue e sudore, e per Dio perché doveva
pagare ancora? Colpì il muro fino a diventare insensibile, finché non lo portarono via scalciando. I
mattoni rimasero sordi al suo dolore e le sue urla fecero poco per destare il Messico che, dall’altro
lato, continuò a dormire.
5.
Gli avevano annunciato che aveva il diritto di restare in silenzio, e Ramòn ne aveva usufruito. Per
tutto il tragitto fino alla centrale si era chiuso in ostinato mutismo, dando mostra di non capire
nemmeno quanto gli veniva detto. Alla fine lo avevano spinto a forza in una sala spoglia che aveva
solo un orologio a muro, qualche sedia ed una scrivania con dei fogli che Ramòn non poteva
leggere perché lo avevano legato mani e piedi alla sedia. Era rimasto lì da solo per esattamente
due ore e dodici minuti mentre i poliziotti confabulavano nell’altra stanza, poi la porta si era
aperta ed era entrato il sottufficiale.
Il sottufficiale si chiamava Victor Di Maggio, era grosso quasi quanto Ramòn ma più muscoloso.
Aveva la mascella squadrata, la testa brizzolata e la faccia perfettamente rasata. La prima cosa che
disse dopo aver richiuso la porta ed essersi presentato fu che il poliziotto buono era in vacanza.
Poi
colpì
Ramòn
con
un
gancio
sinistro
secco
nello
stomaco.
Il nostro, che pure se l’aspettava – quando sei legato ad una sedia e sai che stai per essere
interrogato dalla security del Muro sai che non c’è niente di buono in arrivo – fu destabilizzato
dalla potenza e rapidità con cui fu inflitto il colpo. L’aria lasciò i polmoni di Ramòn in
un’espirazione forzata e dolorosa.
“Sono un po’ incazzato, se vuoi proprio saperlo.” sermoneggiò Di Maggio, camminando in giro per
la stanza mentre Ramòn boccheggiava. I piedi lo condussero alle spalle della sedia dove
l’interrogato non poteva vederlo ma poteva ancora sentire bene il suo inglese smozzicato e
pesante sulle finali. “Vedi, è da qualche settimana che sono stato assegnato a fare la guardia a
questo muro puzzolente, e lo sai quante volte ci sono stati disordini da quando sono qui?”
Ramòn non lo sapeva.
“Quattro!” gli urlò praticamente nelle orecchie “Quattro!” sottolineando ogni parola con un pugno
nelle terga. Ramòn gemette, e Di Maggio lo prese come un invito a continuare: “e ogni volta una
lavata di capo di O’ Malley, quell’irlandese del cazzo, come se su questo dannato muro fossi io a
pisciarci sopra, o a nascondere bombe carta nei sacchetti dell’immondizia! E vuoi sapere una cosa,
fottuto no hablo? MI SONO ROTTO LE PALLE!” E con una pedata possente rovesciò la sedia,
seguita da Ramòn che vi era legato per i polsi e crollò a terra con un rovinoso frastuono.
Di Maggio respirò profondamente tre o quattro volte, come per calmarsi. Poi con rudezza – e
dimostrando una certa forza fisica - rimise in piedi la sedia di Ramòn, che riuscì a non gemere di
nuovo, e gliene piazzò un’altra di fronte su cui si sedette per guardarlo negli occhi.
“A questo punto inizio a pensare, bello mio, che lo facciate apposta per farmi cacciare. Forse non
vi piace la mia faccia. Eh? Non ti piace la mia faccia, spic di merda?” Ramòn cercò di distogliere lo
sguardo, ma Di Maggio gli serrò la mandibola costringendolo a guardarlo. Il suo viso era una
smorfia di rabbia primordiale: Ramòn pensò suo malgrado che il primo uomo della storia che ne
avesse colpito un altro con una clava dovesse avere avuto un’espressione molto simile. Di Maggio
iniziò a scrollarlo violentemente:
“Mendicanti e piantagrane, ecco ciò che siete!” ora era vicinissimo a Ramòn, che poteva sentirne
l’alito che sapeva di dolciastro “Vorrei che i vostri amici liberali fossero qui a guardarvi mentre
piantate casini perché non sapete neanche voi cosa volete! Vi cacciano fuori, e volete tornare. Vi
fanno entrare, e cercate di scappare di nuovo!” spinse via la faccia di Ramòn come se ne fosse
disgustato, e si allontanò di poco. Altro che Stump! Ci vorrebbe una purga per farvi smettere di
rubarci la tranquillità! Anche i vostri stronzetti di bambini imparano subito i vostri metodi da
animali! Lo sai che ero lì quando hanno preso quel delinquentello di graffitaro?”
Ramòn non riuscì a controllarsi e alzò gli occhi cercando lo sguardo di Di Maggio, ma seppe di aver
sbagliato quando lo trovò. Il poliziotto aveva condotto decine di interrogatori ed era una vecchia
volpe: dal suo ghigno beffardo si capiva che aveva ottenuto la reazione che desiderava.
“Allora capisci quello che dico!” disse trionfante. Ramòn tentò di dissimulare volgendo gli occhi al
cielo in cerca di telecamere che non c’erano, ma fu colpito da un manrovescio a metà della sua
recita.
“Parla con me, lurido spazzacessi!” sbraitò Di Maggio cingendogli le spalle. “Chi era quel negretto
che abbiamo beccato? Tuo figlio? Tuo nipote?”
Ramòn si limitò a lasciare andare la testa ciondoloni, che poco dopo fu scossa da singhiozzi
rabbiosi. Una lacrima cadde sul pavimento. Di Maggio si allontanò per godersi lo spettacolo a
braccia conserte.
“Una cosa però ve la riconosco, a voi mezzi-cani.” disse in tono conciliante, e voltò le spalle con
fare altero, compiacendosi della sua battuta “siete parecchio tosti da spezzare. Quando volete
siete in grado perfino di coprirvi a vicenda escogitando lo stesso alibi spontaneamente, senza
nemmeno confrontarvi. Come se aveste un cervello solo in centomila e ve lo passaste a turno.”
Rise per l’immagine buffa che doveva essergli venuta in mente. Sua mamma – buonanima - gli
aveva sempre detto che aveva un gran talento per le battute di spirito e Di Maggio si trovava
piuttosto d’accordo, sebbene non andasse a dirlo in giro perché ci teneva ad essere preso sul
serio. “Era tuo figlio, allora. Ho ragione?”
Per qualche attimo ci fu silenzio. Poi Di Maggio sentì sussurrare qualcosa da qualche parte nei
pressi della sedia, che suonava molto come “sporchi assassini”. Si voltò di nuovo verso Ramòn e
battè gli occhi: “Come hai detto, scusa?”
“Aveva undici anni.” spiccicò Ramòn in un inglese non perfetto “non aveva fatto male a nessuno e
voi l’avete ucciso. Non siete altro che sporchi vigliacchi ass-“ venne interrotto da un altro ceffone
che gli fece scricchiolare l’osso del collo, dalla violenza.
“Shàtte yòur màut, assòl!” latrò Di Maggio col suo accento spesso da italoamericano. “Sei
fortunato che ho ordini precisi di non lasciarti segni, o ti avrei già spaccato quella faccia di merda!”
Ramòn tacque e strinse gli occhi aspettandosi un’altro colpo che non arrivò. “Vanno stroncati sul
nascere, questi piccoli criminali. Oggi ti sfondano un vetro, domani ti avvelenano il cane e tra una
settimana ti entrano in casa e tutto quel che i democratici hanno da dire è il presidente sbaglia a
fare di tutta l’erba un fascio! E comunque... chi ti ha detto che l’abbiamo ammazzato?”
Ramòn smise immediatamente di respirare e alzò di nuovo gli occhi arrossati a incontrare la
mascella squadrata di Di Maggio, e più su due occhi sottili e divertiti. “Hai capito bene, spic. Il tuo
prezioso figlioletto è ancora vivo. Non so per quanto, però.” aggiunse con falso dispiacere.
Ramòn ora pendeva dalle sue labbra e sembrava trangugiare ogni sua parola. Di Maggio centellinò
il suo nuovo potere come un whisky invecchiato. “Magari adesso entra il vecchio O’ Malley o uno
dei suoi tirapiedi e ci porta il lieto evento che il negretto ha tirato le cuoia. Dopotutto l’abbiamo
ridotto piuttosto male...”
A tali parole Ramòn fu pervaso da un’energia incontrollata e prese a lottare senza successo con i
nodi che lo immobilizzavano. La tortura fisica poteva sopportarla, ma le parole di Di Maggio gli
laceravano l’anima come nessun’arma poteva. Cercò di alzarsi in piedi portandosi dietro la sedia
ma lo sbirro gli piazzò un piede in mezzo alle gambe con mossa esperta e vi si appoggiò,
appesantendolo quanto bastava da far fallire i suoi sforzi.
“Stai comodo, stronzo, o ti lascio qui e il tuo mocciosetto vado a farlo fuori di persona.” disse Di
Maggio, freddo. Ramòn si calmò immediatamente.
Di Maggio annuì compiaciuto e si girò a raccogliere distrattamente degli scartafacci che giacevano
abbandonati sulla sua scrivania. Li sventolò davanti a Ramòn: “qui leggo che hai una moglie. Una
moglie americana... – pronunciò la parola come se ne fosse sorpreso – e magari solo perché respiri
sul suolo americano e hai messo incinta qualche baldracca dell’Illinois pensi di essere uno di noi. Di
avere i nostri stessi diritti. Giusto?”
Ramòn sapeva bene di non dover rispondere.
“Già” disse Di Maggio poco dopo, sul filo di chissà quali pensieri. “Fosse per me, ti sbatterei nel
dimenticatoio e butterei via la chiave. O ti rimanderei nel felice Paese da dove provieni con un
calcio in culo così ben piazzato che per un mese per cacare dovresti soffiarti il naso. Ma si dà il
caso che tu abbia sollevato un bel po’ di polvere, con quella tua scena madre davanti alla TV,
davanti a tutti quegli astanti. Un bel po’ di domande.“
Ramòn taceva. Sentiva che una proposta era in arrivo.
“Il punto è che vogliamo offrirti la possibilità di spiegare il tuo gesto. Rimediare al tuo errore. La
gente potrebbe farsi delle idee sbagliate. Con la campagna elettorale alle porte? Non mi sembra il
caso.” continuò Di Maggio, con tono paterno.
“Farò quel che chiedete, ma lasciate in pace la mia famiglia.”
“Che frase da vero eroe” ghignò Di Maggio “e da eroe ti faremo passare. Rilascerai un’intervista e
dirai la verità, ossia che ti sei convinto a rinnegare il tuo passato da rivoltoso, e che sei deciso a
redimere anche la tua famiglia. Una cosa patetica, insomma, ma con la tua faccia non dovrebbe
riuscirti difficile.” Mosse lentamente la mano aperta davanti a Ramòn come in un saluto lento,
come a dipingere un’immagine nell’aria. “Pensa: la famiglia di reazionari redenti dalla stessa
istituzione che prima volevano rovesciare. Poesia pura! Che te ne pare?”
“E che ne sarà di me dopo? Che ne sarà di mia moglie, di mio figlio? Mi deporterete? O mi farete
sparire?”
“Niente di tutto ciò” disse Di Maggio, adesso dolce e nauseante come un barile intero di miele. “Ti
salveremo!” dischiuse le labbra in un sorriso innaturale, gigantesco.
Ramòn Hernandez aprì gli occhi al nuovo giorno.
Era la prima giornata di lavoro socialmente utile, la prima dopo la lunga rieducazione. Il governo gli
aveva assegnato un appartamento piuttosto grande che condivideva con altre sei famiglie di exreazionari. Ramòn attese il suo turno di usare il bagno, scambiò uno sguardo con il piantone di
guardia, si lavò e si vestì, poi aprì la porta lasciando entrare il sole di settembre e attese che
Rebecca e Josè Miguel fossero pronti. Il piccolo uscì per primo: aveva ripreso a camminare,
sebbene con l’ausilio delle stampelle. Da bambino responsabile che era, cercava di non rallentare
la sua famiglia. Rebecca lo affiancò protettiva, rivolgendo un sorriso dolce al marito. Ramòn prese
Rebecca per mano e Josè Miguel sotto il braccio, e tutto sommato i tre formavano un quadretto
familiare come tanti altri. Nessuno o quasi avrebbe potuto capire dal volto onesto di Ramòn
Hernandez che sorrideva cercando di non pensare, guardava cercando di non vedere. Carezzava la
piccola testa un tempo ricciuta di Josè Miguel e adesso rasata a zero, senza soffermarvisi per
evitare che, come uno specchio in quella giornata di sole, gli rimandasse indietro il marchio
dell’infamia che tutti potevano leggere anche sulla sua testa pelata e su quella di Rebecca. Solo tre
parole vergate in inchiostro indelebile e nero come il buio, nero come l’odio:
“VOTE RONALD STUMP”.