La conoscenza scientifica 5

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La conoscenza scientifica 5
La conoscenza scientifica 5
L’esigenza di Tolstoj è di avere l’universo come interlocutore, cioè di antropomorfizzare il
mondo, ovvero di tradurre l’ignoto in alterità, in un tu. Lo scienziato si tiene al limite di
questo passaggio. Né accede alla antropomorfizzazione del mondo, né però, allo stesso tempo,
rinuncia alla possibilità che nella ricerca, ad un certo punto un “tu” appaia davanti a lui.
Insomma tiene integro il senso della possibilità, che lo contraddistingue da un lato dal
dogmatico religioso, dall’altro dallo scientista (il quale esclude a priori “qualcosa”: che nella
ricerca infinita si possa pervenire davanti ad un “tu”.
A differenza del tecnico, il quale cerca soluzioni ai problemi (ai “rompicapo”, ai punti di
arresto) che il progresso scientifico via via incontra - come un narratore che di tanto in tanto
deve cercare di uscire dai vicoli ciechi a cui lo ha portato il suo racconto - lo scienziato non
tratta mai il mondo come una “cosa muta”, un semplice “oggetto”, una strada semplicemente
da percorrere, senza meta. Egli considera bensì la realtà come una strada su cui la scienza
muove i suoi passi, ma anche come una possibile meta. E’ questo radicale “senso del possibile”
che non chiude a nulla, ciò che lo tiene “sveglio”, libero dalla rassicurazione “positiva” della
religione e da quella “negativa” dello scientismo. Questo senso che “tutto sia possibile”, il suo
fuoco riflesso entro di lui, che lo fa vivere, lo porta a formulare continuamente ipotesi, ed egli
diventa così l’immagine speculare del bambino eracliteo, in dialogo continuo con lui. Così
però non è vero che la realtà non ci dice che cosa dobbiamo fare: ci dice che dobbiamo fare tutte le
ipotesi, osarle tutte (il “bisogna osare tutto” platonico).
D’altra parte però, egli non può rimanere sempre solo sulla soglia del “tutto è possibile”, sulla
vetta panoramica. Deve anche “gettarsi dentro”, scegliere un sentiero per scendere a valle,
prendere, tra le infinite possibili, la sua via di ricerca, che lo obbligherà – con umiltà - a
restringere via via il campo fino al momento in cui potrà forse afferrare “la cosa”, il suo
oggetto, ciò che infine conferisce senso a tutto il suo lavoro 1 . Questa “cosa” è la scoperta,
grazie alla quale egli potrà uscire dalla ripetizione del risaputo e “dire qualcosa che nessun altro
uomo ha mai detto”. Se dunque da una parte lo scienziato è animato dall’orgoglio di essere
“interlocutore di dio” (il bambino che gioca, per il quale tutte le possibilità, tutti gli infiniti
universi possibili, restano equivalenti), dall’altra è mosso dallo spirito di umiltà, che lo fa
“scendere a valle”, restringere il suo campo fino ad “una cosa sola” e fare di essa il proprio
destino. La scoperta avviene quando l’ipotesi formulata dallo scienziato “funziona”, cioè
resiste al “giudizio di dio” dell’esperimento:
“..l’esperimento razionale, frutto del Rinascimento, come mezzo per l’esperienza controllata,
senza del quale sarebbe impossibile la scienza sperimentale moderna (…) ne furono pionieri i
grandi innovatori nel campo dell’arte, come Leonardo e gli innovatori della musica nel secolo
XIII con i loro clavicembali sperimentali. Da questi l’esperimento passò nella scienza soprattutto
per opera di Galilei, e nella teoria, per opera di Bacone..” 2
Ma l’unicità della sua conquista durerà solo un attimo, perché ben presto sarà assorbita,
metabolizzata e oltrepassata nella routine della prassi scientifica, passando addirittura nel senso
comune. Così quello che lui ha detto diventa un si dice. A lui però resta la soddisfazione intima
1
Come afferma Weber: “ Nel campo scientifico ha una sua personalità solo chi serve puramente il
proprio oggetto (Sache)”. Cit. p. 16.
2
Weber, cit. p. 22-23. AlbertoMadricardo–Laconoscenzascientifica20161di3
del compositore che sente fischiettare per strada la sua melodia da qualcuno che l’ha
orecchiata e non ha idea di chi ne sia l’autore.
L’essere superato è non solo da lui accettato, ma addirittura gli è necessario, perché la sua
scoperta ha senso solo in una prospettiva di progresso infinito: se per esempio la conferma
della teoria delle “onde gravitazionali” fosse l’ultima parola umana sull’universo, non avrebbe
alcun senso. Ogni scoperta, mentre risolve un problema, ne apre altri e così all’infinito.
Il passaggio dalla luce abbagliante della scoperta alla “penombra” del senso comune è insieme
declassamento e riconoscimento supremo: le nostre idee hanno davvero successo solo quando ci
ritornano, ripetute come se fossero ovvie, avendo ricevuto non la fama, ma l’anonimato, come
“corona”. Cioè quando il senso comune le ha digerite. Bisogna approfondire allora sia che cosa
è l’esperimento, sia il “senso comune”. Cominciamo da quest’ultimo:
“il senso comune è una controparte del sapere scientifico (…) Se per un lato il senso comune è
unna forma di sapere refutata e rimossa, per l’altro esso è anche una sostanza malleabile
destinata a ricevere le configurazioni impresse dalle strategie di fondazione e di legittimazione
del sapere scientifico. I nuclei teorici veri e propri delle ipotesi scientifiche non hanno mai
viaggiato da soli, ma in compagnia della teologia della filosofia, delle formazioni discorsive
tracciate negli spazi dell’immaginazione sociale” 3 .
Il senso comune è allora allo stesso tempo, la base da cui la scienza si distacca e ciò da cui si
alimenta. Se si può identificare il motore del senso comune nell’uso della conoscenza al
servizio del bisogno di rassicurazione e di “assestamento più comodo possibile nel mondo”, è
però questo stesso “bisogno di comodità” ad autotrascendersi nella scomodità del “conoscere come
stanno le cose costi quel che costi”:
“Proprio perché non è scienza, il senso comune viene ad acquisire una delle più rilevanti
proprietà. Quella di offrire titoli di concretezza , di aderenza (sebbene non in termini cognitivi)
al reale, all’esperienza, vissuta, al quotidiano” 4 .
Il senso comune, insomma, è l’espressione delle strategie elementari di rassicurazione che
stanno alla base dell’esistenza umana (il bisogno di sopravvivere) ed è depositario di tutto il
“peso dell’esistere”, a differenza dello spirito scientifico, che l’ha messo volontariamente tra
parentesi. Lo scienziato non fa entrare nella sua ricerca la sua vita personale, i suoi problemi
privati: li lascia fuori. Per quanto questi possano pesare indirettamente, per esempio
rendendogliela difficile o impossibile per ragioni economiche, di salute, ecc.
Il senso comune sopporta una quantità molto limitata di dubbio e non usa fare ipotesi:
trasforma quella che per lo scienziato è un ‘ipotesi in certezza. Il suo mondo – si può dire – è
un mondo di risposte molto più che di domande: non tollera spazi vuoti sul mappamondo del
sapere umano e li “copre” comunque con credenze. Il senso comune va dunque contradetto e
vinto (come per alzarsi in piedi occorre fare uno sforzo per vincere la forza di gravità) affinché
la volontà di sapere “incondizionata” della scienza possa esprimersi. Ma questa elevazione e
distacco non avviene “nel vuoto”:
3
Aldo Gargani “Scienza, filosofia, senso comune”, introduzione a L. Wittgenstein, “Della certezza,
l’analisi filosofica del senso comune”, Einaudi, Torino, 1999 p. XV. 4
Gargani, cit. p. XVIII. AlbertoMadricardo–Laconoscenzascientifica20162di3
La scienza trova il “perché” della propria indagine nel soma del senso comune. Quest’ultimo
offre alla scienza la sua genesi, una motivazione, un fascio di attitudini percettive e
comportamentali da adattare all’ambiente. Cos’ la scienza risulta il linguaggio sublimato del
senso comune” 5 .
Questo è senz’altro vero, lo scienziato, quando è più veramente tale, alimenta la sua sofisticata
ricerca ai suoi desideri più innocenti e infantili (per esempio quello di fare un viaggio al
centro della terra o di “esplorare Marte”). Desideri che nascono dal senso comune, ma che il
senso comune stesso, d’altra parte, soffoca come miraggi vani. Perché? Perché il senso
comune non passa il punto critico “della metà”, quel punto sul quale come un’equilibrista sta
sia lo scienziato, sia l’uomo di fede (e capire dove stai la differenza tra loro diventa davvero
difficile).
Da una parte c’è l’abisso della rassicurazione positiva (c’è un’alterità, c’è tu con cui possiamo
dialogare nell’universo), dall’altra quello della rassicurazione negativa (non c’è alcun tu da
scoprire nell’universo, la nostra ricerca procede solo come mezzo per espandere la
soddisfazione dei nostri bisogni. Nel primo caso non c’è bisogno di cercare, perché si è già
trovato (il tu è Dio in cui si crede). Nel secondo viene meno lo stimolo. Il nostro bisogno
principale è la rassicurazione. Ma senza la ricerca infinita di un tu, che soltanto riesce a
“vincere” la forza di gravità del bisogno di rassicurazione, spinta solo dall’esigenza di
soddisfare bisogni la ricerca non abbassa ed avvicina sempre più le sue mete, fino soffocarsi da
sé? Il senso comune infine in tale modo non sopprime la scienza, con motivazioni inverse a
quelle con cui ha tentato di impedirle di nascere all’inizio della sua storia (rovesciando il
discorso dello scolaro di Galileo, nella pièce omonima di Brecht)?
Ma con il suo instancabile, disinteressato “formulare ipotesi” come un acrobata che con la sua
attività tiene unito il mondo ed impedisce che si spezzi nell’alterità tra parte nota e quella
ignota, lo scienziato non mantiene libero l’uomo dalla cieca tirannia dei suoi bisogni? Proprio
con il suo prendere sul serio le possibilità più remote e lontane dal senso comune e, a
differenza di quanto fa questo, portandole fino in fondo, al vaglio della realtà, non fa qualcosa
che, imitando il “bambino cosmico” eracliteo, trova il modo autentico di dialogare con lui?
5
Gargani, cit. p. XXI. Citando Mach, Gargani precisa che la scienza “promana dalle viscere del senso
comune, figlia del bisogno e del desiderio di sopravvivenza. AlbertoMadricardo–Laconoscenzascientifica20163di3