Percorro le ultime centinaia di chilometri di
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Percorro le ultime centinaia di chilometri di
TU TURI UR RIIS SM MO Percorro le ultime centinaia di chilometri di Panamericana, passando per Puerto Escondido, per giungere fino alla terra delle tartarughe. Dove una vecchia signora mi racconterà una delle storie più belle del viaggio Testo Claudio Giovenzana www.longwalk.it TURISMO M me luci dell’alba arrivano con camion enormi che Ho ascoltato i consigli della padrona di casa, ho ento voci e commenti circa la mia presenza, un altita che scompare dietro le mura della piccosole sale in un’ora, i raggi flebili diventano artiaterassino inizia a sudare. Inutile insistere, non darsi una mossa. Ultimamente carico i bagagli ebbe più rapido un trasloco. Il mattino porta luonda: la notte con le ombre dei lampioni mentiorno svaniscono. Il paese di cui ignoro il nome è i casette e baracche. Osservo la gomma posteler a prova di bomba, che purtroppo con il calosi è consumata al doppio della velocità di quella ha portato per 28.000 chilometri prima di svelaroprietaria, è immancabilmente al lavoro da alnno mentre mi allontano scoppiettando a bassi o nel sole del mezzogiorno e la salsedine intacca le narici, generando cristalli di sale. 142 FEBBRAIO 2K11 Pinotepan Nacional - Rio Grande: 120 km Il phon del Pacifico Il brio del motore diminuisce al crescere della temperatura. Il carapace di bagagli sulla schiena della moto inizia a dondolare: una corda elastica si è spezzata. Soffro il calore e sento quella strana forza d’inerzia che invece di farti scendere dalla moto per riposare ti ci fa rimanere sopra sino allo spasimo. Non voglio nemmeno sgranchire le gambe per non sentire l’appiccicarsi dei pantaloni al sedere. L’andatura è abbastanza svelta, 80 km/h, qualche volta 90. Il giusto compromesso perché l’aria raffreddi senza colpirti troppo forte, come un phon, facendo più male che bene. C’è una muraglia di alberi che costeggiano in lontananza un oceano che per ora posso soltanto immaginare. Se guardo la mappa dovrei essere con il mare a fianco della ruota, ma nella realtà mi accorgo che quello spazio millimetrico sulla cartina è riempito da un cordone di alberi e palme gigantesco, che impedisce la vista della spiaggia. Ma mi ricongiungerò all’acqua molto presto. Ultimamente carico i bagagli con una lentezza esasperante: sarebbe più rapido un trasloco TURISMO La Zia arrivò nel 1954 con suo marito: erano i soli abitanti, tagliati fuori dal mondo. Senza televisione, elettricità o telefono, in mezzo alla natura selvaggia 144 FEBBRAIO 2K11 Rio Grande - Puerto Escondido: 70 km Ultima forza Passo lungo la costa per Puerto Escondido: sono tentato di vedere finalmente questa città portata alla fama dal romanzo di Pino Cacucci e dall’omonimo film di Gabriele Salvatores. Sarà per un’altra volta, ci devo dedicare almeno uno o due giorni. La strada principale taglia Puerto Escondido proprio nel centro, mostrando qualche centro commerciale, un paio di incroci moderni e le varie discese asfaltate alle spiagge. Non credo ci sia nulla di Escondido in questo luogo, non più. Sembra che il turismo lo abbia già scovato e sfruttato come una miniera. I paradisi nascosti sono destinati a bruciarsi in venti, trent’anni al massimo. Anche se le municipalità cantano i loro scrupoli ambientali e le loro politiche verdi, di verde preferiscono i dollari che arrivano dopo la costruzione di nuove infrastrutture e hotel a misura di gringos. Puerto Escondido - Mazunte Verso il mare e l’amore Mancano 45 minuti e poi “sole mare amore”. L’amore ce lo mette la mia compagna, che sto aspettando di incontrare da due mesi. Che meraviglia le coste del Pacifico! Parlarne in modo esaustivo è difficile: sono meno conosciute delle coste di Cancun che gli italiani battono ogni anno facendosi spolpare il dinero dai sorrisi tropicali dei venditori di servizi. Le coste pacifiche sono più discrete nel turismo, non hanno spiagge di borotalco né di farina, come nelle cartoline, ma sabbia scura e tanta natura che sembra voler riempire tutti gli spazi in prossimità dell’oceano. Arrivo a Mazunte come una pallottola incandescente che perde inerzia e si sfracella al suolo. I vestiti sono come decalcomanie attaccate con il sudore e nel casco sento i batteri far festa nel brodo primordiale. Me lo levo e mi concedo gli ultimi chilometri di guida in souplesse. Arrivato a un benzinaio lascio la strada maestra, il residuo di Panamericana che stavo seguendo da ore, e inizio il cammino trasversale per raggiungere l’oceano. Mazunte - Oceano: 8 km Mare, mare. E la storia della Zia L’oceano i latini lo chiamano “mare”, come se non vi fosse differenza tra le acque mansuete del Mediterraneo e le colonne d’acqua che rovinano sulla sabbia a queste latitudini. La natura intorno è causa di continua distrazione. Ci sono alberi enormi intorno a me, forse sono Ceibas che grattano la pancia delle nubi con mille mani di legno. Molte cose sono extra-large: alberi con metri di circonferenza, manghi che non stanno in due mani, onde alte come schiene d’elefante e piogge forti come castighi di Dio. Si sente nell’aria il dominio del clima, la forza dei venti e delle onde, la libertà dei frutti di cadere e far crescere altri alberi. Arrivo finalmente nel promontorio di Mazunte, il luogo più a sud di tutto il Messico, nonostante da qui al Guatemala manchino ancora 700 chilometri. Il Messico geograficamente è come una banana che si curva a est: il punto più a sud, quindi, non è il confine meridionale. Archivio i dilemmi geografici e riabbraccio la mia ragazza, che sta controllando il biglietto ai turisti che vogliono vedere le tartarughe. Il viaggio è una spola tra addii, saluti, e arrivederci a un quando tutto da inventare. Quando certe relazioni rimangono vive nonostante la lontananza ti danno un senso di “casa”, di ritorno, di appartenenza a una terra che senti solo negli abbracci e nei baci di benvenuto, non in quelli d’addio. Ricovero la moto nel Centro Messicano della tartaruga: sarò un volontario e darò alcune delle mie fotografie in cambio dell’ospitalità. In pochi giorni conosco Porfiria, detta “la Zia”, la prima abitante di questi luoghi un tempo incontaminati. Questa è la sua storia. Arrivò nel 54 con suo marito: erano i soli abitanti, tagliati fuori dal mondo. Senza televisione, elettricità o telefono, nelle braccia della più rigogliosa natura che si possa immaginare. I pesci, le aragoste e i gamberi venivano dati dal mare; i manghi, gli avocados e le banane dagli alberi, l’acqua dolce dalle falde sotterranee e la compagnia dalle migliaia di tartarughe che venivano a deporre le uova sulle spiagge. Poi arrivarono i narcos, che vollero espropriare la terra. Prima con “proposte che non potevano rifiutare”, poi con minacce. Dopo pochi anni, una notte, tornando a casa, un proiettile colpì a morte il marito della Zia. La corsa attraverso la foresta e le mulattiere non fu abbastanza rapida e il marito morì. La Zia giurò che sarebbe morta anche lei nella stessa terra dove era caduto il suo amore. Le dissero: “O te ne vai, o ti ammazziamo”. Lei rimase. Per non ucciderla la costrinsero a sposarsi con uno dei signorotti locali. Dopo pochi anni e grazie all’intercessione del fratello che venne per proteggerla, divorziò. Oggi la Zia mi racconta che aspetta di morire e ricongiungersi al suo amore: ha un sorriso scavato dalla vita e ricorda con malinconia i tempi in cui il luogo dove abitava era un Eden nascosto agli occhi della civiltà. Io questo Eden corrotto non me lo perdo stando sull’amaca: dopo pochi giorni sono in sella per esplorare gli ultimi baluardi di natura quasi incontaminata, che spero un giorno possiate vedere anche voi. Parto con il “mare” alla destra, il muso a sud-est e inizio a tuffarmi in litorali dove nonne caricano caschi di banane su asinelli, dove il cocco cade ancora sulle teste dei distratti e il tramonto è una palla di rosso lavico che si spegne come fuoco nel mare.