Tentazioni imperialiste - Centro Studi Luca d`Agliano

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Tentazioni imperialiste - Centro Studi Luca d`Agliano
n. 87
Il Sole 24 Ore
DOMENICA - 29 MARZO 2015
37
Domani a Roma il carteggio Baffi-Jemolo
Domani a Roma, alle 17, alla Camera dei deputati (Palazzo San Macuto,
Sala del Refettorio, Via del Seminario, 76) ci sarà la presentazione del
volume di Paolo Baffi e Arturo Carlo Jemolo «Anni del disincanto.
Carteggio 1967-1981» (Nino Aragno) Con il curatore Beniamino Andrea
Piccone ne discuteranno Mauro Campus, Giampaolo Galli e Salvatore Rossi
diritto
Norme
silenziose
e viventi
di Sabino Cassese
C
he cosa hanno in comune la consuetudine, l’occupazione, l’accettazione di
eredità, la sanatoria del negozio invalido, il possesso, la derelizione, l’accettazione tacita della proposta contrattuale, la mediazione, il contratto di fatto, la gestione di affari
altrui? Rodolfo Sacco, decano dei comparatisti,
cultore di antropologia giuridica, una delle più
grandi menti del diritto italiano, risponde: sono
tutti esempi di diritto muto, inespresso, silenzioso. Accanto alla norma parlata e scritta – dice
Economia e società
Sacco – in ogni ordinamento giuridico vi sono,
poco visibili ma non per questo meno efficaci, reticoli di norme latenti, principi, concetti, valori,
mezzi ermeneutici, regole, che rappresentano il
diritto elaborato dalla società e non dallo Stato,
dai giuristi e non dai Parlamenti o dai giudici.
Questo è diritto vivente, inteso in un senso più
ampio di quello al quale fa riferimento la Corte
costituzionale italiana. È diritto non verbalizzato e non scritto, spontaneo, prassi sociale. A questo diritto Sacco dedica un libro che è nello stesso
tempo di analisi della fenomenologia indagata e
di riflessione sulle sue implicazioni. Sacco spiega
che i grandi imperi dell’età del bronzo (mesopotamico, egiziano, indiano, cinese, e poi quelli an-
dini) codificarono il diritto. Roma, tra il 100 avanti Cristo e il 100 dopo Cristo vide il nascere del giurista professionale e della scienza giuridica. Con
le rivoluzioni borghesi gli Stati si impadronirono
del diritto e ne divennero (o pretesero di divenirne) i produttori esclusivi. Ma – continua Sacco – il
diritto non è prodotto solo dallo Stato. Oltre il diritto autoritativo vi è un diritto non scritto e non
parlato. Il diritto non è solo imposizione esterna,
da parte di un legislatore statale.
Per analizzare un fenomeno così complesso
e sfuggente come il diritto muto, Sacco ricorre
agli insegnamenti della storia, della linguistica,
dell’antropologia, della biologia, delle neuroscienze, del behaviorismo, dell’etologia, della
matticchiate
di Franco Matticchio
di Alberto Mingardi
P
mente o meno, arreca a tutti noi.
Le cose, ovviamente, sono un po’ più complicate. Lo dimostra Antonio Calabrò con la
formidabile serie di istantanee raccolte ne La
morale del tornio, titolo suggestivo che, riprendendo una battuta di Giulio Tremonti, allude
all’ «etica del lavoro», associandola alla «macchina utensile tipica dei processi produttivi
metalmeccanici, simbolo industriale».
Calabrò racconta con pazienza come le
imprese assieme subiscono fortemente l’influsso della cultura diffusa, e contribuiscono
a formarla.
Joel Mokyr ha dimostrato come ciò che chiama l’«illuminismo industriale» sia stato una
delle ragioni fondamentali per il decollo economico dell’Inghilterra a fine Settecento. In
tempi a noi più vicini, scrive Calabrò, «la relazione con la creatività artistica è sempre stata
centrale, nelle migliori imprese italiane». In alcuni casi, le aziende sono un sottoprodotto di
quella creatività: si pensi alla moda e al design.
Ancor più importante è che la «cultura» informa e definisce la cornice sociale nella quale
le imprese possono crescere e prosperare. Calabrò esorta a riscoprire la cultura della competizione, cominciando col restituire alle parole il loro significato. Competizione viene da
«cum petere, l’andare insieme verso un obiettivo comune». La concorrenza è una scuola. Le
migliori imprese italiane, spiega Calabrò, sono
quelle che non temono di misurarsi coi mercati internazionali. È un processo assimilabile
all’allenamento costante di uno sportivo, che
osserva i concorrenti per carpirne i segreti e
correre più veloce di loro. È essenziale che vi sia
una linea d’arrivo: che qualcuno vinca, e qualcuno perda (quand’anche solo temporanea-
mente: la gara del mercato non assegna trofei
permanenti). Per questo, la competizione esige una cultura del fair play, deve compiersi in
un quadro di regole certe e semplici, l’arbitro
neppure dovrebbe pensare a scendere in campo a metà partita.
Nella gara concorrenziale, la «cultura» può
giocare un ruolo chiave: e non solo per suggerire qual è la mostra più bella da finanziare.
Per fare profitti, le imprese devono prendere
le misure ai consumatori. La cultura, il gusto,
il senso del bello possono rivelarsi essenziali
per anticiparne le preferenze. E anche per
rendere sempre più efficiente l’allocazione
dei fattori produttivi.
Calabrò riprende una provocazione di Alain
De Botton, sui filosofi nei board che servirebbero a «pensare in grande», a «maneggiare gli
strumenti analitici e interpretativi dell’economia e della scienza (le intersezioni tra le due dimensioni sono sempre più frequenti, come
tutto l’universo del bio-tech testimonia)». È
una buona cosa, suggerisce, studiare filosofia
nei politecnici. Ed è un’ottima cosa che ci siano,
e «piacciano», luoghi come il Muse a Trento
l’HangarBicocca, spazi per definizione ibridati, dove cultura e impresa s’intrecciano con la
massima naturalezza. Il filosofo nel Cda è a suo
modo un simbolo di un bisogno profondo di
questa cosa che chiamiamo «capitalismo»: la
diversità di opinioni e di idee, necessaria perché il «motivo del profitto» è un processo d’apprendimento, si va avanti per tentativi, i più
bravi imparano dagli errori.
La cultura è ben altro che un modo per lavarsi la coscienza. È una dimensione dell’attività
imprenditoriale, a essa consustanziale, nel
momento in cui i profitti si fanno venendo incontro ai bisogni delle persone. Le idee sono
una materia prima necessaria, se si fa impresa
guardando ai consumatori. Ch’è un altro modo
per dire: cercando di capire che cosa desiderano gli esseri umani.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Antonio Calabrò, La morale del tornio.
Cultura d’impresa per lo sviluppo, Egea,
Milano, pagg. 240, € 16,50
botta e risposta sugli «economisti primi della classe»
Tentazioni imperialiste?
H
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Rodolfo Sacco, Il diritto muto.
Neuroscienze, conoscenza tacita,
valori condivisi, il Mulino, Bologna,
pagg. 176, € 17,00
L’urgenza di agire
per la crescita
Metti la cultura nel Cda
er alcuni, giustapporre «impresa» e «cultura» può voler dire una
cosa soltanto. La «cultura» (per
meglio dire, un selezionato gruppo di uomini colti) indica all’impresa capitalistica una via di redenzione: un congruo sacrificio sull’altare di
iniziative meritevoli può attutire la percezione
di un fatto increscioso. Le imprese hanno per
obiettivo fare profitti.
Il motivo del profitto è imperdonabile. In
parte, perché è la ragion d’essere dei gretti e
dei meschini: il grande imprenditore sui giornali è sempre «Paperone», e non vuol essere
un complimento, un omaggio alla straordinaria determinazione di quel self made man piumato. Si dice «Paperone» per dire l’istinto dell’accumulazione per l’accumulazione, che inghiotte fini socialmente tanto più desiderabili: la solidarietà, il rispetto per l’ambiente,
l’amore per il bello. Proprio qui sta il problema: il profitto scardinerebbe ogni gerarchia di
valori. «Paperone» è convinto che, se con la filosofia non si mangia, l’università non dovrebbe produrre filosofi. La «cultura», ovvero
il finanziamento di iniziative culturali immaginate da altri, è il modo col quale chi costruisce ricchezza a spese dei «valori», può fare
qualcosa a vantaggio di questi ultimi. Una sorta di risarcimento per il male che, consapevol-
Perché fa capire che il diritto non può essere
considerato come un’isoletta chiusa, senza rapporti con il mondo circostante e che i giuristi che
si muovono solo su quell’isoletta sono anime
morte o esseri perduti in ragnatele di concetti
senza vita. E perché è un manifesto del diritto
non statale e insegna che bisogna liberarsi del
pregiudizio positivistico e statalistico secondo il
quale la norma discende solo dallo Stato.
tommaso padoa-schioppa (1940 - 2010)
valori d’impresa
Antonio Calabrò spiega
come la creatività
sia stata centrale
nelle migliori industrie.
La presenza dei filosofi
fa «pensare in grande»
genetica e della psicologia. Ricorda che altro è
saper fare e altro sapere ciò che si fa; altro sapere
che, altro sapere come, perché vi sono regole che
l’uomo sa praticare senza saperle formulare. E
conclude che «l’uomo parlante ha conosciuto
concettualmente il diritto parlato; [...] non ha
sentito il bisogno di guardare indietro al diritto
muto, troppo ovvio per meritare una spiegazione; [...] più tardi, quando si è rassegnato a farlo,
ha adattato a esso figure proprie del diritto parlato, per quanto disadatte esse siano a questo
compito». (pagina 161). Questo libro di un autore che non stanca di stupirci per la sua ingegnosità, per il suo impegno scientifico, per la vastità
della sua cultura, è importante per due motivi.
o letto con piacere la recensione di Giorgio
Barba Navaretti al «WP The Superiority of
Economists» sulla «Domenica» del 22 marzo (intitolata «Economisti primi della classe») e ho
molto apprezzato il suo sforzo di offrire al lettore un
giudizio “ben temperato”.
Oso aggiungere a quanto il recensore scrive due
osservazioni.
Si usa in primo luogo spiegare l’enorme successo
della disciplina come il frutto della condivisione di
uno stesso linguaggio. In realtà si tratta di un linguaggio che è ritagliato su misura per fare da veicolo
a contenuti orientati a evidenziare la logica di ottimizzazione, implicita nel ragionamento economico,
dettata dal perseguimento dell’interesse personale
o di gruppo. Non è tanto il linguaggio alla base del
fenomeno attuale del trionfo della economia, ma è
la reazione alla fase precedente, caratterizzata da
grande molteplicità di scuole, che ha determinato la
convergenza a un nucleo teorico a difesa di una
concezione del capitalismo. Si è trattato di una
difesa anche giustificata, così che la convergenza ha
avuto enorme successo. Oggi comincia a mostrare
crepe ed emergono non piccoli drawbacks: per
questa via si è emarginata, per fare un esempio oggi
“popolare”, la teoria della distribuzione.
In secondo luogo, il linguaggio analitico-quantitativo ha condotto l’economia a essere una disciplina quasi esclusivamente empirica. La materia più
importante negli studi economici è diventata l’econometria. Il che è paradossale e poco fondato dal
punto di vista epistemico, almeno da Popper in poi.
È il trionfo della evidence-based science, favorito
dalla enorme disponibilità di dati e dai costi trascurabili del calcolo. Anche questo è un percorso giustificabile; ma non si può ignorare che, per questa via il
lavoro dell’economista si riduce spesso a trovare
conforto empirico a pregiudizi correnti, mettendo
poi in circolo il risultato nella veste di evidenza
empirica neutrale.
Va da sé che simili fenomeni sono sempre stati
presenti, in diversa forma e in diversa misura, nello
sviluppo storico dell’economia e un’analisi anche
sommaria dei maggiori economisti, fino all’oggi,
sarebbe istruttiva (purtroppo non trova spazio nei
curricula). Quel che forse oggi vi è di nuovo è la forte
tendenza dell’economista – sospeso o piuttosto
annullato il dialogo interdisciplinare – a esportare il
proprio metodo: questa è la odierna “political economics”. Essa si costruisce sull’assunto che il principio
di ottimizzazione economica sia in realtà l’unica
guida sicura e “oggettiva” per l’analisi di qualunque
azione umana. La sua applicazione viene dunque
estesa anche alle altre discipline sociali. Di fatto la
politologia, la storia economica sono oggi profondamente influenzate da questa tendenza. È quello
che un personaggio al di sopra di ogni sospetto
come George Stigler chiamava imperialismo.
– Pier Luigi Porta
– Professore di Economia Politica, Università di Milano Bicocca
H
ai ragione, l’uniformità del linguaggio riflette
l’uniformità nel metodo, l’“ottimizzazione”
(che brutto termine!) di un determinato obiettivo (utilità, benessere, profitto...) in un contesto di scelte
razionali e misurabili. Non è un pensiero unico, vedi lo
sviluppo dell’economia sperimentale, ma certamente
dominante. Forse il successo della disciplina è stato
proprio la capacità di proporre un metodo astratto per
misurare e identificare i “trade-off” delle complicate
scelte economiche. Il che, se ha il vantaggio di semplificare il quadro di riferimento, dall’altra rischia di generare una parrocchialità da accademia (unica, e diversa
da quella che si genera in una disciplina con tanti
approcci, nessuno dominante): chi voglia fare carriera
in economia deve adottare quel linguaggio e quel metodo. Così i ricercatori universitari passano molto tempo
a ragionare sulle minime variazioni ai paper già pubblicati, e poco a interrogarsi sulla rilevanza economica
di quello che fanno. L’economia ha fatto passi immensi
negli ultimi anni, ma ha anche dedicato infinite risorse
a problemi marginali se non irrilevanti. Ecco perché ci
dimentichiamo di temi fondamentali come la disuguaglianza, finché non arriva un uragano à la Piketty.
Concordo, bisogna insegnare l’evoluzione del pensiero
economico. Ma soprattutto bisogna ricordarsi che fare
l’economista significa capire come va il mondo, oltre
che, naturalmente, come si pubblica un saggio.
– Giorgio Barba Navaretti
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di Ignazio Visco
R
ingrazio di cuore tutti i partecipanti
a questa conferenza in memoria di
Tommaso Padoa-Schioppa. Sono
felice che si sia riusciti a mettere insieme un così gran numero di colleghi e amici
che nel corso degli anni hanno avuto la fortuna di apprezzare le sue qualità intellettuali e
umane. E sono particolarmente contento del
fatto che questo incontro avvenga alla Banca
d’Italia, l’istituzione in cui Padoa-Schioppa
ha trascorso buona parte della sua vita professionale, l’ambiente in cui ha costruito per
la prima volta la sua reputazione internazionale. Un’istituzione, come le altre in cui ha lavorato, che ha contribuito a forgiare e a cui è
sempre rimasto profondamente legato.
Per molti di noi Tommaso è stato più di un
collega: è stato anche un amico e un mentore.
Potevamo sempre fare affidamento sul suo
consiglio, sulla sua capacità di prevedere i problemi e trovare soluzioni concrete. Conversare con lui era sempre illuminante: mettevi in
discussione le tue idee, affinavi il tuo ragionamento, imparavi con il suo esempio come produrre risultati. In quest’anno che è trascorso
dalla sua morte prematura ho sentito spesso la
mancanza della sua saggezza e del suo acume,
della sua visione lucida della strada che abbiamo di fronte, e mi sono spesso trovato a cercare di immaginare quali consigli avrebbe dato
in un momento in cui l’Italia, il suo Paese natale, e l’Europa, l’ideale a cui ha consacrato gran
parte della sua esistenza, si trovano ad affrontare sfide così numerose e complesse.
Tommaso era devoto al suo Paese ed è
sempre stato consapevole delle sue enormi
potenzialità. Ma il suo ottimismo innato non
gli impediva di vedere le gravi debolezze o i
problemi che doveva affrontare l’Italia. Vedeva l’Italia come una nazione affetta da una
grave malattia: a venticinque anni di crescita
solida, dopo la Seconda guerra mondiale, avevano fatto seguito vent’anni di crescita ottenuta mediante «stimoli tossici»: «Combinazione di inflazione e svalutazione, spesa pubblica in disavanzo, accumulazione di debito,
depauperamento del capitale». Il risultato è
stato un Paese al tempo stesso pesantemente
indebitato e sottocapitalizzato, che cresce
troppo poco, dove le disuguaglianze sociali
sono destinate ad aumentare. Con i suoi scritti, i suoi discorsi e le sue azioni, quando fu ministro dell’Economia Tommaso cercò di instillare un sentimento di urgenza in un contesto politico spesso ostile: era fondamentale
agire immediatamente e in modo coordinato
per garantire stabilità, crescita ed equità sociale. Un sentimento di urgenza, devo dire, a
cui i recenti eventi hanno reso giustizia.
Il problema di fondo, secondo lui, era che
l’Italia aveva perso l’ambizione di eccellere.
Come scrisse con grande efficacia, «l’Italia è
come un ciclista capace di straordinarie rincorse per raggiungere il gruppo, ma incapace
di una gara di testa o di andare in fuga. Sembra
che solo l’angoscia del ritardo e l’incubo della
squalifica riescano a infonderci l’energia e la
volontà necessarie per dare il massimo» .
Ebbene, ci troviamo di nuovo in una fase
in cui siamo obbligati a dimostrare la nostra
determinazione a reagire a un’emergenza;
ma è anche il momento di adottare, come diceva Tommaso, una visione più a lungo termine dei problemi dell’economia italiana e
affrontare gli impedimenti strutturali a una
crescita sostenuta.
Anche per quanto concerne l’Europa negli ultimi anni Tommaso vedeva materializzarsi le sue paure, con allarme e con una certa amarezza. Pur essendo considerato, a ragione, uno degli architetti dell’euro, aveva
avuto fin da subito la percezione che la moneta unica era un progetto incompleto. Fu
tra i primi a mettere in guardia dai rischi di
una «moneta senza uno Stato». Era profondamente insoddisfatto dell’inerzia politica
che aveva fatto seguito all’introduzione dell’euro. Avvertiva chiaramente i rischi rappresentati da una gestione inadeguata delle
problematiche macroeconomiche, da
un’insufficiente regolamentazione e vigilanza del settore finanziario e da un’unione
che «neppure per le funzioni affidatele soddisfa i principi cardine del costituzionalismo occidentale (equilibrio tra i poteri; fondamento del potere nel voto popolare; principio maggioritario)». Si batteva instanca-
bilmente per un’unione politica più stretta.
Tommaso non era un economista accademico. Aveva la capacità unica di usare le intuizioni dei teorici della scienza economica
per mettere in discussione luoghi comuni e
pratiche consolidate. Contemporaneamente, esortava gli economisti accademici ad andare al di là delle loro semplicistiche teorie
comportamentali e a tenere nel debito conto
il ruolo delle istituzioni.
Le istituzioni e la loro progettazione rappresentavano un motivo ricorrente nel suo
pensiero, in relazione alle Banche centrali, alle infrastrutture di mercato, all’integrazione
europea o al sistema monetario mondiale.
Metteva sempre l’accento sulla necessità di
individuare con chiarezza la natura e i confini
del bene pubblico da fornire per delineare, caso per caso, l’insieme di norme e strutture istituzionali più adatto. Al tempo stesso aveva
una visione dinamica dei problemi e delle istituzioni: solo guardando alle tendenze economiche di fondo si poteva prevedere quali nuove esigenze avrebbero determinato l’evoluzione futura delle istituzioni.
Per esempio, una sua fondamentale intuizione in questo senso, che risale ai primi anni
della sua carriera di economista e, lasciatemelo dire, di esperto di scienza della politica,
fu che l’incremento dell’integrazione e interdipendenza economica e finanziaria in Europa e a livello globale avrebbe comportato
inevitabilmente un ripensamento profondo
Da ministro instillò
quel sentimento di necessità
di reazione cui gli eventi hanno
reso giustizia. Un sapere non
accademico e forte dell’intuito
non solo della distribuzione delle responsabilità politiche, ma del concetto stesso di sovranità nazionale. Non sottovalutava certamente la complessità di questo processo o le
resistenze che avrebbe incontrato.
Come Jean Monnet, Tommaso amava citare le parole del filosofo svizzero HenriFrédéric Amiel: «L’esperienza ricomincia da
zero in ogni individuo. Solo le istituzioni diventano più sagge, perché accumulano
l’esperienza collettiva». Possiamo soltanto
aggiungere che istituzioni abbastanza fortunate da avere a propria disposizione servitori
dello Stato lucidi e lungimiranti come Tommaso Padoa-Schioppa hanno veramente la
possibilità di diventare più sagge.
Per concludere, l’esempio di Tommaso è
fonte costante di ispirazione, un modello
come quello descritto in una delle sue citazioni preferite di Machiavelli: «Debba uno
uomo prudente intrare sempre per vie battute da uomini grandi, e quelli che sono stati
eccellentissimi imitare, acciò che, se la sua
virtù non vi arriva, almeno ne renda qualche
odore: e fare come li arcieri prudenti, a’ quali
parendo el loco dove disegnono ferire troppo lontano, e conoscendo fino a quanto va la
virtù del loro arco, pongono la mira assai più
alta che il loco destinato, non per aggiugnere con la loro freccia a tanta altezza, ma per
potere, con lo aiuto di sì alta mira, pervenire
al disegno loro» [Niccolò Machiavelli, Il
principe, cap. VI].
Abbiamo deciso di commemorare Tommaso prendendo le sue idee come punto di
partenza per discutere alcuni dei problemi
economici di più scottante attualità nel mondo reale, un approccio che credo avrebbe apprezzato. Abbiamo preparato quattro note
esplicative, una per ogni sessione della conferenza, per riassumere i suoi pensieri e il suo
contributo su ognuno dei quattro temi che
erano al centro del suo lavoro: la politica monetaria e il sistema dei pagamenti, la regolamentazione e la vigilanza del sistema finanziario, il processo di integrazione europea e la
riforma del sistema monetario internazionale. Penso che queste note diano efficace testimonianza dell’importanza e della vitalità del
suo contributo.
(Traduzione di Fabio Galimberti)
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Testo estratto dal volume in inglese a
cura di Pietro Catte, Carlo Maria Fenu,
Sergio Nicoletti Altimari, Conference in
memory of Tommaso Padoa-Schioppa,
Banca, d’Italia - Eurosistema, pagg. 292