Atti della presentazione del volume “La crisi mondiale e l`Italia” di
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Atti della presentazione del volume “La crisi mondiale e l`Italia” di
Atti della presentazione del volume “La crisi mondiale e l’Italia” di Marco Fortis Milano, 27 aprile 2009 Società editrice il Mulino Milano, lunedì 27 aprile 2009 Sala Assemblee di Edison - Foro Buonaparte, 31 Presentazione del volume La crisi mondiale e l’Italia di Marco Fortis Introduce Umberto Quadrino Intervengono insieme all’autore Enrico Letta e Giulio Tremonti Modera Alberto Quadrio Curzio 2 Atti presentazione libro “La crisi mondiale e l’Italia” ‐ Milano, 27 aprile 2009 Umberto Quadrino Buongiorno a tutti. Grazie di essere intervenuti così numerosi alla presentazione del volume di Marco Fortis “La crisi mondiale e l’Italia” che raccoglie una serie di articoli di analisi della crisi economica in atto, comparsi recentemente su “Il Messaggero” e altre testate. Come Presidente della Fondazione Edison sono onorato di avere insieme a me il ministro Tremonti, l’onorevole Letta, il Professor Quadrio Curzio e l’autore del libro, per discutere di questi temi. La Fondazione Edison ha da sempre prestato grande attenzione ai temi del modello di sviluppo italiano incentrato sull’economia reale, sui distretti. Ed è stata una voce solitaria negli ultimi anni, quando si parlava di declino del modello di sviluppo italiano basato appunto sui distretti e sulle piccole e medie imprese. E’ stata una voce che si è levata per sostenere ancora la vitalità e l’importanza del nostro sistema economico e contrastare le affermazioni di coloro che consideravano ormai in declino il modello del nostro sviluppo, comparandolo a quello di altri Paesi che invece, basandosi sullo sviluppo dell’immobiliare e di una certa finanza creativa, avevano tassi di sviluppo superiori ai nostri. La storia, al contrario, ci dice che il nostro modello non è affatto morto, ma è ancora vivo e vitale nonostante la presente crisi economica, e che quei paesi che avevano fatto troppo affidamento su ricette di sviluppo “drogato” oggi si trovano in difficoltà più grandi della nostra. Quando è scoppiata la crisi, la Fondazione ha cercato di capirne le motivazioni, di analizzarne le conseguenze, e di vedere quali potevano essere le ripercussioni sul nostro sistema economico, analizzando ancora i punti di forza e di debolezza dell’Italia. Speriamo oggi di ottenere attraverso questo dibattito delle informazioni utili sul punto in cui siamo: c’è un generale desiderio di interpretare i primi sintomi di ripresa come quelli definitivi, anche se il direttore generale del Fondo Monetario Internazionale StraussKahn ci ammonisce che senza una pulizia nei bilanci delle banche non ci sarà una ripresa duratura. La Quaresima è quindi ancora lunga, come ha detto recentemente il professor Tremonti in una riunione ufficiale del Fondo Monetario. Ma veniamo agli invitati, che non hanno certo bisogno della mia presentazione. Giulio Tremonti è ministro dell’economia; la sua presenza è importante non solo per il posto che 3 occupa nel governo italiano, per il ruolo che gioca in molte istituzioni internazionali, dal G8 al Fondo Monetario, ma perché è stato forse l’unico al mondo dei grandi protagonisti dell’economia mondiale a prevedere quello che sarebbe accaduto. Voglio citare due passaggi di previsioni di Giulio Tremonti in periodi non “sospetti”: 1) Corriere della Sera del 12 novembre 2006, “Oggi la crisi immobiliare Usa è molto forte. Le ipotesi sono due. La prima: il passaggio dal boom allo sboom non ha causato il collasso perché il sistema finanziario è bene equilibrato, ha assorbito la crisi e può ripartire. La seconda è quella di una crisi strutturale tipo 1929. Io spero nella prima ipotesi, ma temo la seconda”. L’11 agosto 2007 sempre sul Corriere della Sera scriveva Giulio Tremonti “in America si trovano il principio e la fine di una crisi potenzialmente globale. La crisi dell’economia finanziaria diventa sempre crisi dell’economia reale. La crisi dell’America diventa sempre crisi del mondo. La cosa positiva è che Governi e Autorità monetarie, se lo capiscono e lo vogliono, possono ancora intervenire”. Mi sembra che o non l’hanno capito o non hanno voluto capirlo, perché è passato un anno e poi è scoppiata la crisi. Quindi, dopo la paura attendiamo da Giulio Tremonti, spero, qualche parola di speranza. Enrico Letta ha sempre seguito con grande attenzione l’economia reale del nostro Paese. E’ stato ministro dell’Industria e con Pierluigi Bersani ha scritto nel 2004 “Viaggio nell’economia italiana” sui distretti e le piccole e medie imprese, riprendendo temi che ci sono molto cari come Fondazione Edison, e ci ha fatto anche l’onore di una sua prefazione pubblicata nel libro “Industria e Distretti” a cura di Fortis e Quadrio Curzio. Nel corso di questa crisi è più volte intervenuto, sottolineando l’importanza di mantenere intatta la macchina produttiva del nostro Paese. Alberto Quadrio Curzio è Presidente del Comitato Scientifico della Fondazione Edison. Con Fortis in questi anni ha analizzato molto approfonditamente il modello del made in Italy, e nel corso di questa crisi ha insistito sul progetto di emissione di titoli del debito europeo per promuovere un importante progetto di sviluppo di opere infrastrutturali in Europa, progetto che in sede internazionale Tremonti aveva prospettato già rifacendosi a Jacques Delors. Alberto Quadrio Curzio modererà il dibattito. Cedo, pertanto, a lui la parola. Atti presentazione libro “La crisi mondiale e l’Italia” ‐ Milano, 27 aprile 2009 Alberto Quadrio Curzio Grazie. Mi associo al Dottor Quadrino con sentiti ringraziamenti al Professor Tremonti e al Dottor Letta per aver accettato l’invito della Fondazione Edison a presentare questo volume di Marco Fortis. Come ha rilevato il Dottor Quadrino c’è una certa consuetudine tra la Fondazione Edison e queste due illustri personalità, consuetudine legata non solo al contributo che essi hanno dato talvolta alla presentazione di volumi curati dalla Fondazione Edison, ma anche ad una consonanza specifica: la convinzione che il sistema italiano avesse delle sue caratteristiche molto valide, molto solide di economia reale, caratteristiche espresse dal sistema delle piccole e medie imprese e dei distretti, che certamente dovevano, potevano e debbono migliorare, ma che non vanno sostituite da forme iperboliche di economia dei servizi e di finanza creativa. Potrei pertanto anche dire che negli anni passati quando la Fondazione Edison sosteneva tesi considerate da molti retrograde, essi ci hanno incoraggiato a proseguire nelle nostre convinzioni. Oggi per molti versi sarebbe facile dire “Avevamo ragione” e la tentazione di farlo è certamente forte. Tuttavia io credo che più importante dell’affermazione “Avevamo ragione” sia interrogarsi su come possiamo uscire da questa crisi assai grave, e se dopo questa crisi l’Italia, l’Europa e il mondo saranno come prima. Credo che il libro di Fortis, che è stato scritto in tempo reale mentre gli eventi della crisi finanziaria si svolgevano, non sia assolutamente una cronaca di tutto ciò che è accaduto; per quanto il libro non sia una elaborazione ex post vi è tuttavia una chiara linea interpretativa degli eventi accaduti, ed anche una linea prospettica su quanto a suo avviso – che condivido – dovremmo fare soprattutto nel nostro Paese. E’ chiaro che la tesi fondante dell’elaborato è che l’economia reale in un paese sviluppato come l’Italia, giustamente detto industrializzato, rimane il fulcro del sistema economico, e che ovviamente l’economia bancaria e finanziaria è interrelata, deve essere interrelata, ma non è in grado di sostituire l’economia reale in un contesto di paesi sviluppati. Quindi vi è implicitamente l’affermazione che la delega produttiva manifatturiera industriale ai paesi in via di sviluppo non è una delega attuabile se non correndo dei rischi di dimensioni gigantesche su 4 scala mondiale, fino alla creazione di monopoli che alla fine non avrebbero dei controlli adeguati. Così come dal volume è chiara la tesi che la crisi nasce dagli Stati Uniti con una straordinaria moltiplicazione del debito. Un dato che emerge da ulteriori studi di Marco Fortis vorrei riportare alla vostra attenzione: tra il 2001 e il 2007 il Pil americano è cresciuto di 3.500 miliardi di dollari mentre l’indebitamento dei settori non finanziari è cresciuto di 12.500 miliardi di dollari. Quindi è chiaro che la crescita dell’indebitamento è stata di dimensioni tali che la stessa crescita del Pil reale risulta largamente ridimensionata, diversamente da quanto accaduto in Europa e in Italia dove la crescita è stata più lenta, ma l’indebitamento è stato molto più basso. La tesi centrale del volume, pur con molte comparazioni, riguarda l’Italia e, sotto questo profilo, Fortis prosegue quell’analisi che da anni ha approfondito con contributi molto originali. E cioè che il sistema manifatturiero italiano è forte perché ha un surplus commerciale assai significativo, soprattutto nelle “4 A”, e perché il sistema bancario, alimentato dall’abbondante risparmio privato, è solido. Il fatto che Fortis abbia portato all’evidenza del pubblico un dato che solo pochi specialisti conoscevano, e cioè che l’indebitamento privato, l’indebitamento delle famiglie fosse intorno al 35% del Pil, mentre in altri Paesi europei si supera largamente il 100% del Pil, ha anche portato l’attenzione sul cosiddetto debito aggregato pubblico-privato che non posiziona poi tanto male il nostro Paese. Certo rimane il fatto che il debito pubblico è trattato tutti i giorni sui mercati e quindi nella determinazione dei prezzi dei titoli di stato e dei tassi si manifesta anche un premio di rischio, a mio avviso sopravvalutato, che spesso ha penalizzato l’Italia. Il debito privato, essendo un debito microeconomico, non ha una corrispondente valutazione dei mercati e come tale non può avere neppure uno specifico rating. Ma esso determina la solidità del sistema bancario. Detto questo, ringrazio Fortis per questo elaborato e subito passo la parola ai due relatori che, ovviamente, sono attesi dal pubblico venuto così numeroso. Lascerei la scelta di intervento ai due relatori. Inizia allora Enrico Letta e a seguire Giulio Tremonti. Grazie ancora per aver accettato l’invito della Fondazione Edison. Atti presentazione libro “La crisi mondiale e l’Italia” ‐ Milano, 27 aprile 2009 Enrico Letta Grazie alla Fondazione Edison, grazie alla casa editrice “Il Mulino” che da sempre cura i libri della Fondazione Edison, grazie a Marco Fortis per le ricerche e i dati che ci propone. E grazie per questa occasione di confronto in un momento come quello attuale in cui tutti siamo desiderosi di comprendere quanto è accaduto negli ultimi mesi e di capire come il nostro Paese possa uscire più forte, o almeno evitare di uscire più debole, da questa crisi di cui l’Italia non ha nessuna colpa, come giustamente diceva prima Alberto Quadrio Curzio. Si tratta infatti, come bene argomenta anche Marco Fortis nel suo volume “La crisi mondiale e l’Italia”, di una crisi originata dall’economia americana che per anni è stata “drogata” con un aumento esponenziale dell’indebitamento privato, vale a dire del debito di famiglie, imprese, banche. Su come l’Italia potrà uscire più forte da questa crisi concentrerò il mio intervento. Quello che in queste ore sta accadendo nel mercato automobilistico da molti è portato come esempio – e anch’io lo faccio in partenza – delle occasioni che l’attuale situazione può offrirci le quali, se colte con intelligenza e con tempismo, possono non soltanto risolverci dei problemi, ma farci fare dei passi in avanti rispetto ai nostri dati di partenza. Per motivi del tutto casuali mi trovo oggi a prender parte a questo dibattito subito prima dell’incontro che oggi pomeriggio avrò con il Consiglio Direttivo del Distretto della ceramica di Sassuolo – come periodicamente faccio da diversi anni – per cercare di capire la vicenda di una azienda in particolare, la Iris Ceramica di cui parla anche Marco Fortis alle pagine 143-144 del suo libro, che come noto ha deciso di aprire la procedura di messa in liquidazione. Con questa sua decisione tale azienda, che rappresenta uno dei maggiori gruppi nazionali nel settore delle piastrelle, è diventata un po’ il simbolo di un possibile rischio di cui voglio parlare: il rischio di deindustrializzazione del nostro Paese. La Fondazione Edison ci ricorda costantemente la caratteristica tutta italiana data dall’elevato numero di imprenditori che costituiscono il nostro sistema produttivo, e che fanno del nostro Paese un unicum; sono, infatti, circa 4 milioni gli imprenditori che lavorano sul territorio, molti dei quali sono ex dipendenti; quest’ultimo lo ritengo un aspetto da sottolineare perché il fatto che gran 5 parte degli imprenditori italiani abbiano vissuto l’esperienza lavorativa da ex dipendenti rende il tessuto imprenditoriale italiano totalmente diverso rispetto agli altri. Porto il paragone della Francia che, diversamente da noi, ha alcune decine di grandi imprese globali, diciamo 50; il governo francese può intervenire, e sicuramente interverrà se necessario, a sostegno di ciascuna di esse in questo momento di crisi; quando la crisi terminerà i 50 “campioni” francesi ci saranno ancora tutti, o se non saranno tutti 50, saranno 48, ma la Francia potrà ripartire da lì. Noi, invece, non abbiamo un elevato numero di grandi imprese. Ma abbiamo 4 milioni di imprenditori che giorno dopo giorno affrontano la difficile situazione di crisi in cui si sono venuti a trovare; e che ogni giorno si pongono la domanda se sia conveniente tenere duro in questa fase di difficoltà o se invece non sia più ragionevole seguire l’esempio dell’azienda del distretto della ceramica cui accennavo prima, e decidere quindi di cessare la propria attività. Questi 4 milioni di imprenditori sono infatti persone che hanno lavorato per anni, riuscendo a costruirsi una ricchezza, grande o piccola che sia, e che oggi vedono la lista degli ordinativi per i successivi 6-9 mesi sostanzialmente in bianco. Ciascuno di essi, legittimamente, può domandarsi se adesso, che è rimasto ancora del “fieno in cascina”, non sia meglio fermarsi, mettendo in sicurezza se stessi, la propria famiglia e i propri dipendenti – facendolo nel modo meno traumatico possibile – piuttosto che andare avanti, correndo il rischio di buttare via il ”fieno” che è rimasto, nel tentativo di resistere in una condizione di incertezza: questi imprenditori, che magari hanno alle spalle 20 o 30 anni di attività lavorativa, ogni mattina alzano una saracinesca, reale o virtuale, senza sapere quale sarà l’esito del proprio lavoro alla fine della giornata. Pertanto, la questione principale che dobbiamo affrontare è la seguente: dobbiamo far di tutto perché alla fine della crisi questi 4 milioni di imprenditori ci siano ancora tutti e non diventino la metà di quelli che sono oggi, e che rimangano tali non trasformando la loro attività in attività di rendita; anzi, il nostro obiettivo deve essere quello di far sì che, dopo le intemperie della crisi, gli imprenditori italiani abbiano la scorza ancora più dura. Perché la Francia, che qui porto come esempio, le sue 50 imprese a scala mondiale le manterrà tali e lo farà, se necessario, attraverso azioni anche pubbliche. Credo, quindi, che il rischio di deindustrializzazio- Atti presentazione libro “La crisi mondiale e l’Italia” ‐ Milano, 27 aprile 2009 Enrico Letta ne del Paese sia il tema per eccellenza, e credo anche che rispecchi una parte delle riflessioni del libro di Fortis e della prefazione che Quadrio Curzio scrive al libro. Noi siamo di fronte a un dovere collettivo del sistema Paese, un dovere delle istituzioni tutte, delle istituzioni nazionali e delle forze politiche, perché qui si gioca il futuro del l’Italia, un Paese che può uscire dalla crisi ancora come grande potenza industriale, potenza manifatturiera, potenza esportatrice. E’ inutile che io ripeta cose che nel libro sono ampiamente argomentate sulle quali sono totalmente d'accordo, come sul fatto che la forza del nostro Paese nasca dal saper tenere insieme tanti modelli produttivi che alla fine sono riconducibili a una grande, buona capacità di produrre, quindi di esportare. Io credo che il punto chiave sia, una volta acquisita la consapevolezza di questo grande ruolo del nostro sistema produttivo, come riuscire a debellare il rischio della stretta del credito e a risolvere la problematica del ritardo nei pagamenti da parte della pubblica amministrazione. E’ infatti di fondamentale importanza per la sopravvivenza delle nostre imprese scongiurare il rischio di razionamento del credito da parte del sistema bancario, così come lo abbiamo sperimentato e vissuto negli ultimi mesi, e in questo credo ci sia un problema di voci e di stimoli che arrivano dalle istituzioni pubbliche. Ma nello stesso tempo occorre trovare una soluzione alla questione molto delicata, molto difficile, del ritardo nel pagamento dei crediti vantati dalle imprese nei confronti della pubblica amministrazione; penso in particolare al ruolo della Cassa Depositi e Prestiti, al ruolo della SACE e all’opportunità, per esempio, di introdurre una distinzione tra i crediti vantati dalle imprese nei confronti della pubblica amministrazione, avendo alcuni di essi indubbiamente minor peso rispetto ad altri. Ma a mio avviso, un altro grande tema è quello relativo al nostro sistema di welfare, vale a dire al nostro sistema di ammortizzatori sociali. Sono tra coloro che ritengono che, in questa crisi, siano emersi tutti i limiti del nostro Welfare, un Welfare che è costruito attorno alla centralità della figura del “maschio adulto” e non attorno alla centralità della “persona”. Ci sono intere categorie del nostro Paese, intere classi generazionali, diciamo la metà del Paese che è quella rappresentata dalle donne, che hanno trovato nel nostro Welfare un'assenza di risposte piuttosto che una completezza di risposte. Abbiamo un sistema di Welfare 6 che, detto in sintesi e per cifre, dedica l’87% delle sue risorse a pensioni e sanità, e solo il 13% alle voci attive, che invece negli altri Paesi normalmente sono destinatarie della metà delle risorse della spesa sociale. E la spesa sociale italiana nel suo insieme, come è a tutti noto, è in linea con l'Unione europea. Ritengo, quindi, che sia giunto il momento di realizzare in quel campo alcune importanti e delicate riforme che riallochino le risorse. Ed è questo il momento giusto per farlo, data l’esistenza del consenso per qualunque riforma che possa essere chiaramente spiegata; difficilmente, credo, lo stesso consenso si potrà trovare nel momento in cui sarà venuto meno il senso dell’urgenza che invece avvertiamo in questa fase di crisi. E qui il tema degli ammortizzatori sociali riguarda anche il sistema delle imprese, perché gli imprenditori hanno meno strumenti da mettere in campo rispetto a un ventaglio di opzioni che credo invece debbano essere a loro disposizione. Su questo punto è in atto una polemica, io ne ho ampiamente discusso varie volte con il ministro Sacconi e con il ministro Brunetta. Credo che ci sia qualcosa che non va se il nostro Paese affronta con la parola “deroga” la più grande crisi finanziaria ed economica che abbiamo mai vissuto; la nostra struttura di ammortizzatori sociali è infatti sostanzialmente basata sullo strumento della “cassa in deroga”, strumento che, sia chiaro, non intendo mettere in discussione, ma il fatto che lo strumento principe del nostro sistema di ammortizzatori sociali si chiami “cassa in deroga” la dice lunga, secondo me, su molti dei nostri problemi. In questa mia considerazione non vi è, ovviamente, alcun riferimento all'ultimo anno di governo, o agli ultimi anni, trattandosi di una situazione che si trascina da decenni. Ritengo, quindi, che sia necessario un intervento che estenda il livello delle protezioni e ne modifichi le modalità di erogazione. Oggi il sistema di ammortizzatori sociali è infatti erogato attraverso contrattazioni, attraverso trattative, attraverso le scelte della politica e del sindacato, e conseguentemente le imprese che sono fuori dai binari della politica e del sindacato, di norma, non ottengono un euro dal sistema degli ammortizzatori sociali. Vi è, dunque, la necessità di far evolvere tale sistema verso una logica più moderna; e questo lo dico con grande chiarezza, al di fuori da qualunque considerazione di lucro politico immediato, perché ritengo che ciò farebbe bene a tutti, al centrodestra come al centrosinistra, ma farebbe Atti presentazione libro “La crisi mondiale e l’Italia” ‐ Milano, 27 aprile 2009 Enrico Letta bene anche al sindacato e sicuramente farebbe molto bene al sistema Paese. Marco Fortis, in uno degli articoli finali e quindi più recenti della sua raccolta, affronta un altro grande tema che negli ultimi tempi è un po’ scomparso, quello del Sud del Paese. Oggi, infatti, nel nostro Paese il Sud non viene più considerato un problema, nel senso che viene sostanzialmente messo da parte. E questo è un problema culturale ancor prima che di scelte concrete, però io credo che sia un tema che riguardi un po' tutte le culture politiche del nostro Paese, che tendono a pensare che meno se ne parla meglio è, frutto anche di quello che è successo in questi anni. Mi veniva da riflettere sul fatto - e lo faccio volentieri qui a Milano, e non a Napoli o a Catania, per dire quanto il problema io lo consideri nazionale - che ormai, tranne forse una o due eccezioni, non c'è uno strumento di comunicazione classico, che sia un quotidiano, un settimanale o una televisione che venga realizzato fisicamente nel Sud del nostro Paese, diciamo sotto Roma. La sostanza è che la riflessione sul Mezzogiorno è completamente scomparsa. Penso che questo sia un grande problema perché come argomenta perfettamente Marco Fortis a pagina 167, il divario tra il Nord-Centro e il Sud dell’Italia ha raggiunto dimensioni che potremmo definire eccezionali. Infatti, se non consideriamo le quattro regioni italiane più povere (Puglia, Calabria, Sicilia e Campania), il nostro Paese ha delle performance di crescita che sono ampiamente migliori della media dell’euro area, mentre il Pil pro-capite delle quattro regioni più povere è assai inferiore a quello del Portogallo. Un altro messaggio che ci viene dalla crisi riguarda, pertanto, l’importanza di riuscire a intaccare parte di quel disavanzo strutturale che le regioni più povere del nostro Paese hanno nei confronti dei loro competitori europei, perché è lì che c’è uno spazio per noi di recupero; non è infatti semplice chiedere alla Lombardia o al Veneto, che già hanno una forza economica e imprenditoriale ai massimi livelli in Europa, di correre a una velocità maggiore rispetto alla Baviera o all’Ile de France. Vi è quindi un tema molto profondo che riguarda scelte concrete, che implica la necessità di mettere in campo piani di sviluppo per quelle regioni che siano utili a tutto il Paese, e non soltanto incentivi per andare a fare in quelle regioni le stesse cose che si fanno nel resto d'Italia, con costi inferiori. Probabilmente tutto ciò richiede un cambio di filosofia, che sicuramente è molto difficile, molto complicato da mettere in pratica, ma 7 ho l’impressione che esorcizzare il problema anziché tentare, sia pure con fatica, di affrontarlo sia la soluzione peggiore. Voglio ora affrontare un altro tema ampiamente trattato nel libro di Fortis, vale a dire quello dello sviluppo delle infrastrutture a livello nazionale e a livello europeo. La settimana scorsa Alberto Quadrio Curzio ha scritto sul Corriere della Sera un editoriale, come sempre molto efficace, sul tema delle infrastrutture. Lo voglio riprendere perché ritengo che il rilancio infrastrutturale sia un punto chiave, un punto essenziale per uscire dalla crisi, grazie alla creazione di posti di lavoro e alla possibilità di far girare risorse che esso comporta. Credo, però, che vi sia un problema di scelta delle infrastrutture da realizzare, scelta che andrebbe fatta sulla base di priorità legate alla tempistica di realizzazione. In altri termini, la precedenza andrebbe data alle opere cantierabili, i cui lavori possono partire immediatamente, generando subito posti di lavoro e facendo circolare denaro. Di queste realizzazioni infrastrutturali pronte per partire ce ne sono tante in Italia, e la Lombardia è il cuore di queste, grazie a scelte fatte negli ultimi anni; penso alla Pedemontana Lombarda, che tra le opere infrastrutturali è sicuramente la più importante ma anche la più complessa, alla Tangenziale Esterna Milanese, alla BreBeMi. Ma un po' tutto il Nord del nostro Paese ha opere cantierabili i cui lavori potrebbero cominciare da subito; ed è soprattutto in merito a questo aspetto della immediata realizzazione delle opere che risiedono i miei dubbi circa il Ponte sullo Stretto, ancora oggi inserito tra le opere infrastrutturali prioritarie, perché credo che difficilmente questo potrà generare da subito ricchezza e posti di lavoro. Vorrei ora affrontare come ultimo argomento la grande questione europea. Se è vero, come Fortis argomenta, che noi abbiamo tante carte da giocarci in questa crisi, dalla quale potremo uscirne ancora forti a patto di scongiurare quel rischio di deindustrializzazione di cui parlavo prima, la questione europea rimane comunque per noi fondamentale, decisiva, così come si evince dalla prefazione di Quadrio Curzio, nella quale vengono riportati numerosi passaggi di Carlo Azeglio Ciampi, che sottolineano anche questo aspetto. La questione fondamentale, a mio avviso, è che l’Europa rappresenta la prima vittima della crisi economico-finanziaria in corso, ma non l’Europa tout court, bensì l’Europa comunitaria. L’Europa è sempre cresciuta, è sempre andata avanti attra- Atti presentazione libro “La crisi mondiale e l’Italia” ‐ Milano, 27 aprile 2009 Enrico Letta verso una dialettica virtuosa tra il livello intergovernativo e il livello comunitario – impersonificato e rappresentato dalla Commissione europea e dal Parlamento europeo – che ha visto le grandi realizzazioni che oggi ci fanno forti; penso a tutto il lavoro del decennio Delors che ha portato al “mercato delle quattro libertà” e poi al processo di costruzione dell’Unione Europea culminato con il Trattato di Maastricht. E’ stato tutto un cammino guidato dalla Commissione europea, in cui i governi nazionali seguivano e ovviamente aggiustavano il percorso, cercando di trovare le forme migliori per portare il consenso attorno alla costruzione dell’Unione europea sancita dal Trattato. Bene, questa dialettica virtuosa tra livello intergovernativo e livello comunitario è saltata completamente negli ultimi mesi; la Commissione europea è tornata al ruolo che aveva negli anni ‘60 e ’70, cioè organo esecutivo delle decisioni dei governi nazionali. E questo, secondo me, è bene dirlo con grande franchezza, senza coprirlo in modo ipocrita. Io lo ritengo, però, un gravissimo errore di prospettiva, anzitutto perché i governi non sono più 6 come erano negli anni ’60, ma sono 27, e il tasso di egoismo nazionale dei singoli governi rimane elevatissimo. In questo ragionamento si inserisce la grave responsabilità, a parer mio, che la cancelliera tedesca si è assunta nel bloccare un piano straordinario di intervento per il sostegno delle economie dell'Europa centro orientale, creando un danno per tutta l’Europa, e in particolar modo per noi italiani che siamo sempre il primo o il secondo paese investitore in quelle economie. Quell'intervento, che è stato poi facilmente interpretato come legato alle imminenti elezioni nazionali nel paese della Merkel, dettato quindi dall’egoismo nazionale, ha messo in luce una questione che ritengo cruciale, vale a dire il grave rischio di un’Europa in cui la parte comunitaria è completamente sottomessa alla parte intergovernativa. E’ quindi di fondamentale importanza ristabilire un giusto e corretto equilibrio tra i due livelli, perché è soltanto attraverso uno spirito unitario che l'Europa può riuscire a raggiungere i suoi grandi obiettivi, vale a dire l'obiettivo degli euro-bonds, l’obiettivo dei global legal standard, l’obiettivo di un endorcement delle regole e l’obiettivo fondamentale della costruzione di una nuova architettura finanziaria. Fortis nel suo volume cita il caso dei mutui subprime, ossia dei mutui concessi a persone che pale- 8 semente non erano poi in grado di restituirne interessi e capitale. Oggi, col senno di poi, tutti dicono che era ovvio che una tale pratica ci avrebbe portato, prima o poi, alla situazione in cui oggi ci troviamo, perché veniva svolta un'attività che non solo era fuori dalle regole del buon senso, ma anche della normale correttezza. La stessa cosa con l'effetto di leva estremizzato. Bene, per far fronte a tutto questo c’è bisogno non soltanto di regole – quelle, in fondo, c’erano anche prima della crisi – quanto piuttosto di un enforsement delle regole stesse, c’è bisogno della forza politica, della forza di authorithy che siano messe in condizione di poter applicare queste regole. E credo che anche a livello europeo ci sia bisogno di questo ragionamento. Un governo forte europeo esce dalla crisi come “la grande esigenza”; ma il rischio maggiore, secondo me, è che l’Europa esca dalla crisi con delle istituzioni più deboli rispetto a quando c’era entrata. Per concludere, il rischio di deindustrializzazione dell’Italia e il rischio della perdita dell'unitarietà istituzionale dell'Europa con la rivincita dell'Europa intergovernativa, rappresentano a mio avviso le due questioni chiave. Intendiamoci, il ruolo degli Stati e dei governi è e rimane fondamentale; il problema vero è essere in grado di trovare un'istanza comune che riesca a guidare questi processi. Ma il percorso verso l’uscita dalla crisi deve passare attraverso questi due binari, un binario tutto italiano che assicuri il futuro imprenditoriale del nostro Paese mediante risposte adeguate da parte del sistema, da parte degli operatori, da parte delle istituzioni, trovando insieme le giuste realizzazioni; un binario europeo che punti al ripristino di una dimensione comunitaria, forte ed efficace, senza la quale difficilmente potremo uscire dalla crisi. Oggi i problemi incombono in modo talmente palese su chi li deve risolvere che chiedere alle opinioni pubbliche di assumersi responsabilità assieme alle classi dirigenti è oggi molto più fattibile rispetto a prima. L’importante è voler fare tutto ciò perché, come dicevo in precedenza, se c’è un momento in cui è possibile farlo forse è proprio questo: nel Paese infatti esiste, da una parte, una stabilità politica come forse mai abbiamo avuto, con la presenza di un esecutivo forte; dall’altra, una capacità di dialogo tra le parti politiche che non si è mai vista nella storia recente del nostro Paese. Io credo, quindi, che sarebbe un grosso errore non cogliere le possibilità che si Atti presentazione libro “La crisi mondiale e l’Italia” ‐ Milano, 27 aprile 2009 Enrico Letta presentano in questo particolare momento, rinviando al futuro la realizzazione di tutte quelle riforme, anche faticose, che potrebbero realmente consentire al nostro Paese di uscire più forte dalla crisi. Grazie. 9 Atti presentazione libro “La crisi mondiale e l’Italia” ‐ Milano, 27 aprile 2009 Giulio Tremonti Nomina Sunt Consequentia Rerum (I nomi sono corrispondenti alle cose n.d.r.): Marco Fortis. Non è frequente che idee forti, come quelle contenute nel libro di Fortis, siano rappresentate in Italia; si può essere d’accordo o in disaccordo con quanto esprime l’autore, ma oggettivamente è un libro che marca e cifra con molta forza una linea di pensiero. Ed è questa la ragione del particolare apprezzamento che ho per Marco, per i suoi scritti, per la sua attività. In questo intervento dividerò le mie considerazioni in base al titolo del suo libro “La crisi mondiale e l’Italia”; parlerò quindi di “mondo” e di “Italia”, sotto il comune denominatore della crisi. In merito alla crisi mondiale, inizierò parlandovi delle riunioni che ho avuto negli ultimi giorni a Washington, dove ho incontrato il signor “Capitalismo”, il signor “Mercato finanziario” e i signori “Governi”, verificando i rispettivi stati di salute e le rispettive visioni del mondo. Userò, quindi, tre parole chiave: crisi, governi, regole; ne parlerò molto brevemente perché vorrei soffermarmi soprattutto sull’Italia. Crisi. La parola crisi deriva dal greco krisis, che a sua volta deriva da crino, che vuol dire “divisione” (e non per caso noi usiamo la parola crinale); krisis, quindi, come marcatura di discontinuità, come forza nel marcare il passaggio da una fase all’altra. E certamente noi ci troviamo in una fase di crisi, la cui intensità, anche storica, è forse troppo presto per definirla. Credo, infatti, che una valutazione seria in ordine a quello che è successo in questi anni debba e possa essere fatta solo con un certo distacco storico. La mia opinione, non recente, è che l’origine di questa crisi stia non tanto in alcuni epifenomeni, ossia in alcuni fatti che poi hanno determinato un’accelerazione dei processi, ma sia ben più profonda e più radicale. Cercherò di dare una lettura “marxista” dei fondamentali di questa crisi, così come ho sempre cercato di fare: l’origine della crisi non si trova nei subprime; i subprime sono l’epifenomeno rispetto al fenomeno sottostante. Io credo che l’origine della crisi stia nella globalizzazione per come è stata fatta, per i tempi con cui è stata realizzata e per le leve utilizzate per compierla. E’ un ordine di pensiero che ho cercato di esporre già nel 1995 in un libro intitolato “Il fantasma della povertà”, 10 poi ancora nel 2005 con il volume “Rischi fatali”, e infine nel 2007 con “La paura e la speranza”. E, finalmente, nell’assemblea del Fondo monetario internazionale tanti rappresentanti e tanti Paesi hanno cominciato a discutere della crisi come originata dalla globalizzazione. Dico finalmente perché non credo che il problema della crisi vada visto in un’ottica di quantità o di tempistica, quanto piuttosto in un’ottica di cause e di origini, e questo sta venendo fuori con grande intensità. La mia idea è che la globalizzazione sia stata la conseguenza naturale di un fatto politico. L’origine dei fatti risale a vent’anni fa con la caduta del Muro di Berlino avvenuta nel 1989; oggi, a vent’anni di distanza da quell’evento storico-politico, viviamo una fase della crisi. Ma venti anni, in senso storico, sono un tempo minimo, sono un tempo breve. La storia della lunga durata, di solito, occupa decenni e decenni e l’avvicendarsi di una generazione con l’altra; mai nella storia dell’umanità fatti così intensi si sono verificati in un tempo così breve tanto da poter essere iscritti nella vita di un uomo. Certo, la storia dell’umanità ha vissuto fenomeni di grande e intenso cambiamento e, quindi, denominabili come crisi in senso alto, ma mai si sono esplicati in tempi così brevi. La scoperta geografica dell’America, ad esempio, ha rotto il vecchio ordine chiuso del Continente, attivando delle meccaniche che si sono poi sviluppate in tutti i domini, da quello religioso, a quello politico, agli assetti culturali e mentali del vecchio Continente, aprendo poi verso la grande rivoluzione. Ma si è trattato di un processo che ha richiesto tempi lunghi. La scoperta, non geografica ma economica, dell’Asia ha accelerato i tempi in un modo impressionante: nel 1989 cade il Muro di Berlino, nel 1994 con gli “Accordi di Marrakech” viene istituita la World Trade Organization e con essa viene definita una nuova geografia politica; il mondo viene unificato in un’unica ideologia mercantile e, positivamente, pacifica. L’11 dicembre 2001 viene firmato l’Accordo di ingresso dell’Asia nella World Trade Organization. Il tutto è avvenuto pertanto in tempi rapidissimi. Nel 1995, ne “Il fantasma della povertà” ho tentato di identificare quelli che potevano essere anche i lati oscuri del processo di globalizzazione che stava per essere forzato con una deterministica a mio parere, non troppo illuminata, frutto di scelte politiche che hanno compresso ed esploso un processo che invece richiedeva tempi molto Atti presentazione libro “La crisi mondiale e l’Italia” ‐ Milano, 27 aprile 2009 Giulio Tremonti più lunghi. Ed ora paghiamo i conti di quelle scelte. Con ciò non voglio dire che la globalizzazione doveva essere fermata, dico solo che è stata spinta in modo troppo frenetico e che il miracolo istantaneo della globalizzazione è stato finanziato con un eccesso di ricorso alla finanza. E adesso, anche nelle sedi internazionali più accreditate si comincia ad attribuire agli squilibri globali la cascata dei fenomeni ora in atto, che è un modo un po’ culto per dire quello che io ho cercato di dire in modo più semplice nel mio libro, parlando degli squilibri causati dalla globalizzazione. Che, in sé, è un processo totalmente positivo, mentre non completamente positiva è la scelta di tempistica e di tecnica con cui è stato portato avanti. Per essere chiari, fino a qualche anno fa nel nostro vecchio ordine continentale erano in vigore meccanismi di quote e di dazi imposti dall’Europa verso l’Asia, che gradualmente e con intelligenza sono stati eliminati; non sono stati cancellati di colpo, in base a una logica illuminata secondo la quale la nuova religione terrestre del mercatismo avrebbe dovuto portare l’umanità, per vie economiche e non per vie politiche nazionali classiche, alla felicità. Voglio usare un’immagine: con la globalizzazione si è aperto un oceano e 6 miliardi di persone avrebbero dovuto attraversarlo a nuoto senza la “nave” degli Stati, cioè senza la politica. E’ questa l’ideologia che ha dominato gli ultimi anni, e certamente l’ultimo decennio; una ideologia che negava la Politica, negava gli Stati e affidava tutto al Mercato, dischiudendo questo oceano di felicità progressiva e di benessere all’esercizio di nuoto individuale per 6 miliardi e oltre di persone. Governi. Oggi stiamo assistendo al ritorno dei Governi, al ritorno della mano pubblica. E’ da molto tempo che io sostengo che è impossibile pensare o ragionare solo in termini di mercato. E adesso, finalmente, i Governi tornano ad assumere il ruolo che a loro compete. Riprendendo l’immagine dell’oceano, i Governi sono come navi che aiutano le persone ad attraversare una distesa d’acqua che altrimenti da sole non riuscirebbero a percorrere. Per tanti anni sono stato accusato di essere antimercatista – l’insulto più grave per chi oggi si occupa di economia – o di essere colbertista, aggettivo che fino a qualche tempo fa era considerato almeno in Italia con un’accezione negativa. A me risulta, tuttavia, che la politica che sta portando avanti la Francia, e di cui parlava mi pare con apprezzamento anche Enrico Letta a 11 proposito dei 50 campioni, sia quantomeno lievemente colbertista. Noi, invece, abbiamo distrutto parte del nostro sistema produttivo affidandolo al mercato. Pertanto un’altra questione che dovrà essere posta è la seguente: siamo sicuri che le privatizzazioni che sono state compiute in Italia siano state fatte tutte bene ed abbiano avuto solo risvolti positivi, e non abbiano invece marcato alcuni elementi di riduzione dell’efficienza industriale del nostro Paese? Io non sono contro le privatizzazioni, ma ritengo necessario un atteggiamento critico nel valutare i processi di privatizzazione che sono stati portati avanti nel nostro Paese, in termini di quantità, di tempi e di modi. E la mia sommessa valutazione è che non tutte le privatizzazioni siano state realizzate nel modo giusto, andando a indebolire piuttosto che a rafforzare il sistema produttivo industriale italiano, per lo meno in alcuni settori Ma ritorniamo ai Governi. Nel suo intervento, Enrico Letta ha fatto riferimento al fatto che in questa crisi “ha perso l’Europa comunitaria e quindi, forse, perderà l’Europa”. Io correggo in parte questo tipo di valutazioni, perché non credo sia colpa dei governi se si è registrato un relativo declino della capacità di valutazione della realtà e di intervento della Commissione. Nel giugno del 2008, in occasione di un incontro dell’Eurogruppo in cui era stata posta la questione relativa alla Northern Rock, la Commissione europea aveva ribadito la regola del divieto degli Aiuti di Stato dimostrando, a mio avviso, di essere fuori dal senso del tempo di una crisi che già aveva iniziato a manifestarsi; vietare l’intervento del governo su Northern Rock era quantomeno un pochino fuori dalla logica comune. Per fortuna l’intervento su Northern Rock in seguito ci è stato, e vi sono stati poi tutti i successivi, e questo grazie all’intervento dei governi che sono scesi in campo con il Vertice di Parigi che, abrogando la regola del divieto degli Aiuti di Stato nel settore bancario, ha consentito di ridurre una crisi che diversamente sarebbe stata drammatica. Le banche, infatti, dato il loro ruolo sistemico non devono e non si possono lasciar fallire. E se non ci fosse stato il Vertice di Parigi, organizzato su iniziativa di alcuni Paesi europei, questo probabilmente sarebbe successo, con tutte le conseguenze nefaste che ne sarebbero derivate. Il Governo italiano aveva anche proposto di costituire un Fondo europeo di salvataggio, ma purtroppo tale proposta non è stata accettata da molti Stati che hanno preferito “fare per conto Atti presentazione libro “La crisi mondiale e l’Italia” ‐ Milano, 27 aprile 2009 Giulio Tremonti proprio”. Probabilmente oggi i governi di questi Paesi si sono pentiti di non aver accettato l’ipotesi più europea del Fondo comune di salvataggio avanzata dal Governo italiano: il valore di quel messaggio sarebbe stato molto più forte dei capitali messi in campo, e i governi nazionali avrebbero potuto, forse, mettere a disposizione una quantità minore di capitali a sostegno delle proprie economie in difficoltà. In altre parole, con “meno” si sarebbe ottenuto di “più”, e in quel “meno” vi era naturalmente lo sforzo comune di tutti i Governi. Sono prevalse invece le scelte nazionali, ma nell’insieme il Vertice di Parigi, con le decisioni che in esso sono state prese, è stato fortemente positivo. Al Vertice di Parigi è poi seguito il G20 di Washington, con il quale è apparsa una formula politica di gestione della crisi mondiale assolutamente straordinaria: i governi conservano la loro sovranità ma concordano tutti insieme una politica di sostegno alle economie; quindi ciascuno per conto proprio, ma tutti insieme in base a un indirizzo politico comune. Nel recepire tale formula politica è stata esemplare l’Europa che di ritorno dal G20 ha elaborato il “Recovery Plan Europeo”, il quale dopo poche ore è stato declinato da tutti i governi europei, ciascuno secondo il proprio contesto. Il G20 marca quindi una novità straordinaria in termini di struttura e di azione politica, introducendo un principio di governance mondiale, in base al quale ciascun Governo agisce autonomamente, ma in sintonia con gli altri Paesi del mondo. Infine l’ultimo G20 di Londra ha segnato un ulteriore sviluppo dell’azione politica, segnatamente non azioni coordinate dei singoli Governi, ma una azione collettiva dei Governi tutti insieme. E la sostanziale trasformazione del Fondo monetario internazionale in una Banca centrale globale sta proprio in questa logica. I finanziamenti concessi dal Fondo monetario sono stati decisivi, poiché hanno evitato che le criticità dei singoli Paesi lungo la fascia di crisi che va dal Baltico al Mediterraneo avessero pericolosi effetti a cascata. La trasformazione del Fondo monetario internazionale in una Banca centrale globale renderà tuttavia necessarie alcune considerazioni in termini politici: anzitutto, cosa comporta in termini di “No taxation without representation” questo trasferimento delle scelte ai livelli superiori e non parlamentari; ma anche che cosa vuol dire democrazia in un contesto con queste caratteristiche. Tornando all’Europa, ha ragione Enrico Letta 12 quando dice che nell’attuale fase storica stiamo assistendo ad un declino relativo della Commissione e a un rafforzamento del ruolo dei governi, che quindi il pendolo della storia è di nuovo passato dal livello comunitario al livello governativo. Io penso però che la questione principale sia la presenza dell’Europa nel mondo: il mondo si sta organizzando in strutture, come il G20, che hanno molti elementi positivi – più positivi che negativi – ma quale posizione ricopre l’Europa in organismi di quel tipo? Non credo che sia interesse dell’Europa entrare in strutture che hanno l’architettura del Commonwealth, magari più Common che Wealth. Strutture di quel tipo, generalizzate e estese in quei termini, ridurrebbero drammaticamente il ruolo dell’Europa se l’Europa continuasse a presentarsi in quelle sedi separata e isolata, con ciascuno Stato portatore dei suoi particolari interessi e non portatore di una visione comune dell’Europa, come invece dovrebbe essere coerente col fatto che potenzialmente siamo l’area culturalmente, economicamente e politicamente più forte del mondo. Infine le Regole. Non si può immaginare che le regole siano un optional. Le regole, trasmettendo fiducia, sono essenziali per uscire dalla crisi e per evitare che la fine di questa crisi sia solo la preparazione di una crisi futura. E quando parlo di regole non mi riferisco solo alle regole del mercato finanziario introdotte dagli operatori per organizzarsi secondo criteri comuni, ma mi riferisco alle regole politiche, alle regole giuridiche, nel senso alto e nobile del termine. L’11 maggio, come Enrico Letta ben sa facendo anche lui parte della Commissione che prepara la Conferenza, si incontreranno a Roma i maggiori giuristi del mondo per una discussione in merito alla definizione del Global legal standard. Si tratta di un tentativo molto utopistico, se volete; ma meglio pensare in termini di utopia che non illudersi che la prassi sia sufficiente, preparando così la prossima crisi. Mettere intorno a un tavolo culture politiche e giuridiche diverse di certo non è semplice: vi saranno evoluzioni, sviluppi, freni, accelerazioni. E’ il primo tentativo dopo tanti anni, ma la nostra speranza è di riuscire a definire, almeno in termini generali, una tavola comune. Dopo aver parlato di Mondo, ora mi soffermerò sull’Italia. Attribuendo grande importanza ai numeri, mi permetto di sottolineare come, nel presente, i numeri dell’Italia non siano così negativi come, invece, sono stati presentati in tutti questi anni da Atti presentazione libro “La crisi mondiale e l’Italia” ‐ Milano, 27 aprile 2009 Giulio Tremonti una certa affittiva rappresentazione del nostro Paese. Il nostro Paese ha 60 milioni di abitanti e un Pil di tutto rispetto, che è pari alla somma di due grandi player di cui si dice essere il futuro del mondo. E’ un Pil fatto di produzioni più tradizionali – di abbigliamento, di calzature, di mobilio, di piastrelle ceramiche e via dicendo – ma è ben lontano dall‘essere il Pil più piccolo del mondo, nonostante non possa fare affidamento, ad esempio, sul petrolio. E’ poi naturale perdere delle quote sulle percentuali del commercio mondiale dato l’ingresso di nuovi competitor sul mercato mondiale: volendo fare un esempio figurato, se la torta si allarga per l’entrata di nuovi competitor, o meglio, se la distanza da percorrere si allunga passando da 100 a 400 metri di percorso è irragionevole pensare di poter percorrere tutti i 400 metri alla stessa velocità con la quale prima si percorrevano i 100 metri. Questo per dire che non credo sia intelligente individuare nella contrazione delle quote di commercio mondiale dell’Italia il declino del nostro Paese: la distanza aumenta, la torta diventa più grande e c’è quindi più spazio per tutti. E’ quindi naturale che le nostre quote di commercio mondiale si riducano. Sul piano della crescita, negli ultimi anni alcuni Paesi ci avevano superato, ma ora è evidente che ci avevano superato in retromarcia, come bene ha messo in evidenza il libro di Marco Fortis. Il libro di Fortis, partendo dall’estate del 2008 e arrivando grosso modo fino ad oggi, prende l’arco di vita del Governo, che è inferiore all’anno. Io, oggettivamente, non credo che le cose fatte dal Governo in questo arco temporale siano tutte negative; e il dialogo con l’opposizione è sicuramente auspicabile se la discussione è paritetica – come lo è con Enrico Letta – ma è difficile ragionare con chi, ancor prima di iniziare la discussione, chiede di firmare un capitolato di resa politica e ideologica incondizionata. Se ci fosse un atteggiamento meno negativo, se la discussione fosse meno drammatica, più laica, più pacata, sarebbe di gran lunga positivo per tutti. Faccio alcuni esempi. L’opposizione non può chiedere la restituzione del fiscal drag quando, per la prima volta nella storia recente di questo Paese, il saggio di inflazione programmata è superiore al saggio di inflazione reale. E ancora non può chiedere di cancellare la Robin Hood Tax con la motivazione che i prezzi dei pro- 13 dotti petroliferi sono scesi. Quando la tassa era stata introdotta si negava l’esistenza della speculazione nell’andamento dei prezzi, sostenendo che il rialzo era dovuto a un problema di fondamentali. Ma ora, dopo che le quotazioni del petrolio sono passate da 80 a 140 dollari al barile, con future a 200 dollari, e sono poi ridiscese a circa 50 dollari al barile, si può ancora sostenere che all’origine del rialzo dei prezzi vi fosse un problema di fondamentali, e non vi fosse invece dell’altro? C’era chi sosteneva che a causare l’aumento dei prezzi fosse stata la tassa sui petrolieri; ma adesso che i prezzi sono scesi, che ruolo si ritiene abbia giocato la Robin Hood Tax? Ha contribuito al rialzo dei prezzi? Ha contribuito alla loro riduzione? O è indipendente da tutto ciò? Nel nostro programma elettorale si parlava inoltre chiaramente di “una crisi che arriva e che si aggrava”, e anche nel DPEF vi era la previsione di una crisi imminente. Ma l’opposizione sostiene che se davvero avessimo previsto l’arrivo della crisi non avremmo ridotto l’Ici. A parte il fatto che la riduzione dell’Ici era un impegno elettorale – e quindi in quanto tale andava mantenuto, anche perché nella stabilità politica vi è un fattore economico, e la stabilità politica implica realizzare ciò che è stato promesso – io l’Ici l’avrei ridotta in ogni caso. Dovendo infatti abbassare l’imposizione fiscale, credo sia giusto partire da una tassa come questa, anche se l’opposizione la ritiene una tassa sulle case dei ricchi. Ma se così fosse, non capisco perché i nostri predecessori nel disegnare la curva delle imposte avevano previsto la detrazione per l’Ici su tutte le prime case. Ma questi sono tutti dettagli. In vista della crisi, noi abbiamo cercato di fare le cose che ci sembravano giuste, mettendo in sicurezza i conti pubblici con una Legge Finanziaria triennale. Se non ci fosse stato questo meccanismo, l’esplosione della crisi ci avrebbe messo in grosse difficoltà. E anche grazie a questo intervento ora dall’estero valutano i conti pubblici italiani in maniera sicuramente più positiva rispetto a qualche tempo fa. Indubbiamente c’è un deterioramento dei rapporti (debito/Pil, deficit/Pil), ma ciò in dipendenza della mancata crescita, e quindi dei mancati gettiti, e non in conseguenza di politiche sbagliate. Da più parti ci chiedono di fare più deficit, ma io non credo che ciò sia consentito al nostro Paese, e non credo neppure che la cura di una malattia causata da un eccesso di debito consista nel fare ancora più debito. Ci chiedevano inoltre di detassare le tredicesime, ma a me non sembrava la Atti presentazione libro “La crisi mondiale e l’Italia” ‐ Milano, 27 aprile 2009 Giulio Tremonti scelta giusta perché il problema non era sostenere i consumi, ma in generale aiutare chi ne aveva bisogno. E adesso mi sembra che ci sia un certo consenso in merito al fatto che quella di detassare le tredicesime era una scelta sbagliata. Io sono stato demonizzato per l’introduzione della Carta Acquisti, perché si diceva essere uno strumento per marcare la povertà (ma allora non capisco perché la Family Card introdotta dal Comune di Bologna, che è sostanzialmente la stessa cosa, sia stata accolta favorevolmente dalle stesse persone che invece criticano la Carta Acquisti introdotta dal Governo). In realtà noi abbiamo semplicemente riprodotto un modello straniero di Carte di credito per il cibo, meccanismo che adesso è purtroppo diffusissimo in America. Sempre relativamente alla Carta Acquisti, ci hanno accusato di aver sbagliato perché l’abbiamo prevista per 1.300.000 soggetti, quando invece l’hanno richiesta solo poco più di mezzo milione di persone. Ma il problema è che in Italia non esiste una “banca dati della povertà” e i meccanismi intelligenti costruiti negli anni ’90 per identificare la povertà – noti come ISEE – sono di una enorme complicazione. Bisognerà, quindi, procedere anzitutto con la creazione di una “banca dati della povertà”, partendo da un collegamento tra le banche dati fiscali e le banche dati dell’Inps, che ad oggi non esiste. Basti pensare a come spesso i decessi non vengano comunicati con tempestività all’Inps, al contrario di quanto avviene con il fisco, con la conseguenza che non c’è mai una corrispondenza tra i numeri di decessi che risultano all’Inps e il numero di decessi che risultano al fisco. In ogni caso, le risorse stanziate per la Carta Acquisti sulla base della stima di 1.300.000 soggetti in stato di necessità sono ancora disponibili e saranno utilizzate in tale comparto, consapevoli che l’impatto della crisi è stato molto forte, soprattutto verso il basso. Tale strumento potrà essere migliorato con la discussione di tutti, con i Comuni, con il mondo del non-profit e del volontariato, tenendo sempre presente l’importanza di sostenere i consumi, ma non come valore assoluto. A mio avviso, infatti, uno degli aspetti positivi di questa crisi è proprio la scomparsa della figura politica del Consumatore, quale portatore di valori superiori e sintesi globale del nuovo e moderno pensiero positivo e, conseguentemente, il riemergere della figura del Cittadino. Io conosco l’uomo e i valori spirituali; non riconosco invece il Consumatore come entità superiore a cui prestare osse- 14 quio politico e democratico. Per concludere, noi abbiamo cercato di mettere in campo politiche adeguate a superare la crisi che fossero compatibili con la nostra struttura di conti pubblici, e credo che i risultati raggiunti siano positivi. In caso contrario avremmo avuto tutti i giornali tapezzati di giudizi negativi sulla nostra politica, e le misure da noi adottate non sarebbero state relegate alle brevi di cronaca. Detto questo, il nostro è un Paese con importanti elementi di forza che stanno venendo fuori proprio con la crisi, non in assoluto, ma in rapporto agli altri Paesi: 1) l’Italia è un Paese che non ha grandi metropoli circondate da enormi e destabilizzanti anelli di periferia, ma ha oltre 8.000 Comuni e numerose piccole e medie città, ossia strutture sociali molto più forti e più capaci di assorbire l’impatto della crisi che non le banlieu o gli anelli di devastanti periferie; 2) l’Italia è un Paese che ha ancora la famiglia come struttura sociale portante, diversamente da altri Paesi in cui il ruolo sociale della famiglia è molto minore essendo più forte il ruolo sociale dello Stato. Per molto tempo i Paesi nordici, con le loro strutture sociali fortemente incentrate sul ruolo dello Stato, sono stati portati ad esempio di modelli sociali evoluti; ad oggi, però, sono quasi tutti mezzi falliti. Io tra il ruolo sociale dello Stato e il ruolo sociale della famiglia preferisco quest’ultimo, anche se questo non significa che debba fare tutto la famiglia. E, infatti, a supporto della famiglia noi abbiamo l’Inps, con il sistema dei prepensionamenti che funzionano da ammortizzatori sociali, e le pensioni di invalidità che purtroppo negli ultimi anni sono cresciute anche in dipendenza di una applicazione asimmetrica del federalismo fiscale. Io non credo, quindi, che il modello sociale italiano sia così negativo come ce lo rappresentano. E credo che la riforma delle pensioni cui si è giunti attraverso le ultime legislature sia una buona riforma, che ha funzionato e sta funzionando. Riguardo agli armonizzatori sociali si possono introdurre delle varianti. Nell’emergenza abbiamo aggiunto al meccanismo esistente quante più risorse potevamo, e credo che l’aggiunta di 9 miliardi in 6 mesi non sia esattamente un intervento marginale. C’è chi sostiene che la crisi sia il momento migliore per fare le riforme. A costoro io rispondo riprendendo le parole del Fondo Monetario Inter- Atti presentazione libro “La crisi mondiale e l’Italia” ‐ Milano, 27 aprile 2009 Giulio Tremonti nazionale: “le crisi non sono il momento per fare le riforme perché causano incertezza e paura in un momento in cui invece è fondamentale il fattore della certezza, il fattore della fiducia”. A meno che non siano assolutamente rinviabili per la drammaticità della situazione, come nel caso del sistema bancario in cui si è dovuto intervenire con radicalità. 3) L’altro punto di forza del nostro Paese è la sua struttura produttiva. Da noi la grande industria ha una dimensione particolare, che è quella dei distretti; i distretti, in altre parole, sono una forma di espressione della grande industria italiana. Complessivamente sono un centinaio, ed io, onestamente, non so se farei cambio con i 50 campioni nazionali francesi. L’ideale sarebbe forse avere un po’ degli uni e un po’ degli altri. Detto ciò, sui distretti occorre però lavorare molto, per rafforzarne la specificità, ferme le individualità che li animano. Nel nostro Paese vi è una quantità enorme di soggetti che lavorano nell’economia privata. In Italia le Partite Iva attive nel settore dell’industria sono 8.800.000, che è un numero straordinario. Naturalmente, in questo numero sono comprese anche Partite Iva “fittizie” aperte per poter trovare lavoro, e che quindi in quanto tali non sottintendono una autonomia nell’impresa. Ma in ogni caso esse sono un dato indicativo della forza e della vitalità del nostro Paese, senza con ciò negare i molti problemi che lo affliggono. In particolare, da gennaio a fine aprile il saldo tra aperture e chiusure delle Partite Iva è stato pari a +177.000. E’ un dato positivo o negativo? Sicuramente è un dato di vitalità. E nella vitalità ci sono fattori di crisi, fattori di espansione, fattori di riduzione. Per concludere, io credo che sia stata sbagliata la scelta politica dell’opposizione di puntare sulla crisi di sistema; non mi riferisco a Enrico Letta, ma a una grande parte dell’area politica avversa alla nostra che per molto tempo ha puntato alla rot- 15 tura di sistema, alla drammatizzazione; che ha guardato alla crisi come fattore catartico, ipotizzando che la crisi potesse prendere una intensità così forte da far cadere il Governo; commettendo, a mio avviso, un errore tecnico di valutazione e di analisi, trascurando i punti di forza del nostro Paese sopra menzionati. L’Italia è dunque un Paese che ha delle chances per uscire dalla crisi. La retorica recita che se non si fanno le riforme si esce dalla crisi peggio degli altri; sempre in modo retorico, fino a poco tempo fa si è sostenuto che i Paesi che crescevano di più nel panorama internazionale erano quelli che avevano introdotto importanti riforme. Oggi invece si è visto che i Paesi che crescevano maggiormente in termini di Pil erano quelli che facevano più debito, debito privato e non pubblico. Anche l’Italia è cresciuta molto negli anni di esplosione del suo debito pubblico, ma quando nel 1992-93 ha iniziato la sua politica di contenimento del debito hanno iniziato a crescere gli altri Paesi, grazie all’incremento del debito privato. L’Italia, a differenza degli Stati Uniti e degli altri principali Paesi europei, negli ultimi anni non ha basato la sua felicità sulle carte di credito, bensì sul risparmio e su tante altre cose, gestendo l’onere enorme di un debito pubblico pregresso di cui tutti abbiamo la responsabilità collettiva. Anche per questo io non credo che, una volta superata la crisi, l’Italia si troverà così spiazzata come ci hanno raccontato in tutti questi anni. Mettiamola così: essendosi dimostrate sbagliate tutte le previsioni passate, probabilmente sono sbagliate anche le analisi e le previsioni future. Quindi io proporrei all’opposizione di chiudere questa partita abbandonando la visione catastrofica che contraddistingue parte di essa, accogliendo la disponibilità a una discussione pacata come è venuta da Enrico Letta. Grazie. Atti presentazione libro “La crisi mondiale e l’Italia” ‐ Milano, 27 aprile 2009 Alberto Quadrio Curzio Ringrazio molto Enrico Letta per le sue lucide valutazioni sulla situazione italiana passata e prospettica e il ministro Tremonti per questa sua riflessione così completa e articolata. Gli interessanti contenuti degli interventi mi inducono, prima di passare la parola all’autore del volume, a una ipotesi, a una proposta che faccio al Dottor Quadrino: sarebbe molto interessante riportare in un saggio le relazioni, le riflessioni odierne che credo sarebbero molto utilmente veicolate alla pubblica opinione più ampia del nostro Paese. Vedremo se i due relatori consentiranno ad accettare tali ipotesi. La parola spetta ora a Marco Fortis, autore del volume. Marco Fortis Grazie Alberto. Io sono veramente grato ai due ospiti, Enrico Letta e Giulio Tremonti, per aver onorato la presentazione di questo mio volume con la loro presenza e con le loro analisi. Il mio intervento sarà breve. Perché il libro nel quale ho approfondito il tema della crisi economica e in cui troverete analisi e statistiche più dettagliate vi è stato distribuito all’ingresso, ma soprattutto perché questa giornata è stata organizzata principalmente per ascoltare il punto di vista dei due autorevoli ospiti. Mi limiterò, dato che sono già stati ampiamente toccati da entrambi molti dei temi affrontati nel volume, ad evidenziare in estrema sintesi quelle che sono le mie convinzioni circa le capacità di resistenza del sistema socio-economico italiano in questa crisi, che già cominciano a manifestarsi da alcuni indicatori che, sia pure in forma embrionale, stanno mostrando qualche segnale di ripresa. A febbraio, per esempio, gli indici degli ordinativi dell’industria manifatturiera dell’Eurostat mostrano rispetto a gennaio un rimbalzo significativo in due soli Paesi europei, l’Italia e la Francia. Gli indicatori anticipatori dell’OCSE a gennaio e febbraio segnalano un inizio di ripresa per l’Italia. Questa mattina anche gli indicatori dell’ISAE sulla fiducia dei consumatori in aprile mostrano un rimbalzo. Questo non significa che l’Italia sia già avviata ad uscire dalla crisi, così come del resto gli altri Paesi europei, Francia e Germania in testa, che meglio di noi stanno mostrando i primi segnali di ripresa di fiducia degli operatori, perché la crisi sarà sicuramente molto lunga da superare. Probabilmente abbiamo toccato il fondo della riduzione delle scorte dei magazzini che ha così pesantemente 16 influito sul ciclo della produzione industriale e del commercio mondiale; però la convalescenza dopo questa crisi così grave sarà certamente lunga. L’Italia però affronta questa sfida con una serie di elementi di forza, che in parte sono già stati ricordati: tra questi, soprattutto, una grande capacità di risparmio ma anche un basso indebitamento delle famiglie, e una scarsa esposizione del nostro sistema bancario ai punti di maggiore tensione della crisi finanziaria internazionale; abbiamo visto per esempio che, secondo i dati della Banca dei Regolamenti Internazionali, i crediti complessivi vantati dal sistema bancario italiano sugli Stati Uniti e sull’Inghilterra rappresentano a stento il 34% del nostro Prodotto interno lordo, mentre in altri Paesi si arriva a cifre introno al 40, 50 e addirittura 60%. E poi le nostre banche, lo ricordo, hanno certamente una vocazione retail, una vocazione alle attività tradizionali a supporto di famiglie e imprese molto maggiore rispetto alle banche degli altri Paesi avanzati. E questo ha contribuito a tenerle in qualche modo lontane dalle nuove frontiere dell’innovazione finanziaria che sono state, in gran parte, strumentali alla proliferazione dei cosiddetti “collaterali” legati ai mutui per l’acquisto della casa in America e in altri Paesi, e che poi sono stati un elemento scatenante della crisi. Ma tra i punti di forza dell’Italia vorrei ricordare il sistema degli ammortizzatori sociali; le imprese, infatti, che in questo momento stanno soffrendo per cali negli ordini del 30-40% rispetto all’anno precedente (ma questo sta accadendo un po’ ovunque; si pensi, ad esempio, che in Germania i dati sugli ordinativi esteri dell’industria manifatturiera di febbraio indicano addirittura un calo del -42%) trovano negli ammortizzatori sociali una Atti presentazione libro “La crisi mondiale e l’Italia” ‐ Milano, 27 aprile 2009 Marco Fortis importante forma di supporto. A differenza di altri Paesi che stanno eliminando forze di lavoro con una velocità straordinaria – alcuni grandi gruppi mondiali del sistema sia industriale che finanziario, come noto, hanno operato tagli occupazionali di 10, 20, e anche 30mila posti di lavoro – nel nostro Paese questo non si è verificato: secondo l’Istat nel periodo marzo-dicembre 2008 il numero dei disoccupati in Italia è aumentato come in Irlanda, Paese con solo 4 milioni di abitanti, cioè sono stati persi poco più di 75.000 posti di lavoro. Certo, il rischio è che adesso l’onda lunga della crisi possa premere sull’occupazione italiana, però gli ammortizzatori sociali stanno dando un grosso contributo in tal senso. E bisogna anche sottolineare come fino ad ora non ne sia stato fatto un uso smodato. In particolare, le ultime statistiche dell’Inps relative al periodo gennaio-marzo di quest’anno dimostrano che a fare uso della cassa integrazione ordinaria sono soprattutto le province di grande impresa, ossia quelle più sottoposte allo stress della crisi, come le imprese metallurgiche e le imprese dell’auto. La provincia di Torino, per esempio, ha avuto un numero di ore di cassa integrazione autorizzate pari a quelle dell’intero Nord-Est, pari quindi a quattro regioni. Ciò significa che nelle regioni di piccola e media impresa, e dove ci sono i distretti industriali, le imprese stanno sforzandosi al massimo per continuare a lavorare e per non ricorrere a questi strumenti, almeno finché ciò sarà loro possibile. Credo, inoltre, che il sistema manifatturiero italiano sia entrato in questa crisi in un momento di forza straordinaria. Prima che iniziasse la crisi, infatti, il nostro Paese era arrivato a toccare il suo record storico quanto a surplus manifatturiero con l’estero, a dimostrazione quindi che non siamo entrati deboli nella crisi; al contrario, vi siamo entrati forse con la maggior forza che abbiamo mai avuto nel secondo dopoguerra, pur scontando il declino o per lo meno le difficoltà che hanno incontrato alcuni settori tradizionali come il tessile-abbigliamento e le calzature in seguito 17 all’avvento della concorrenza asiatica. E’ quindi molto importante, come sottolineato anche dai nostri ospiti, che il nostro sistema produttivo possa rimanere intatto, utilizzando tutti gli strumenti possibili che anche il sistema di ammortizzatori mette a disposizione, e ciò anche in considerazione del fatto che, pur essendo in regresso gli ordinativi e le produzioni industriali, le nostre quote di mercato in alcuni casi stanno paradossalmente aumentando, perché molti dei nostri competitor stanno sperimentando crisi molto più forti delle nostre. Dobbiamo quindi avere fiducia che, una volta superata, questa crisi potrà riproporre il modello di sviluppo italiano come un modello vincente, dove siamo forti, lo ricordo, non solo nell’industria ma anche nel turismo, che pure necessita di essere ristrutturato per esprimere tutte le sue potenzialità. Il turismo è per noi una risorsa fondamentale. Io ricordo sempre che la provincia di Venezia da sola ha più pernottamenti di turisti stranieri dell’intera Irlanda, e che la provincia di Roma ne ha più di tutto il Belgio: abbiamo cioè delle grandi realtà del turismo mondiale, così come le abbiamo nell’agricoltura e nei prodotti tipici. Credo quindi che non sia soltanto un ottimismo generico quello che ho cercato di descrivere ed illustrare in questo mio volume, quanto piuttosto una fiducia nel nostro modello di sviluppo industriale che io ho conosciuto non soltanto attraverso le analisi e le statistiche, ma anche, in questi anni, con il contatto diretto con molti di voi. Oggi sono qui in sala i Presidenti e i Direttori di molte Associazioni con cui abbiamo tanto lavorato in questi anni con la Fondazione Edison. Vorrei ringraziare anche loro per il contributo di notizie, informazioni ed esperienze che mi hanno dato e che hanno consentito la pubblicazione di questo lavoro. Vi ringrazio. Atti presentazione libro “La crisi mondiale e l’Italia” ‐ Milano, 27 aprile 2009 Alberto Quadrio Curzio Chiudendo questa nostra mattinata così intensa ed estremamente interessante non voglio certo fare una sintesi. Vorrei usare il metodo tremontiano con la chiosa su alcuni termini e concetti. Innanzitutto credo che stamane sia di nuovo stato ricordato soprattutto agli economisti, categoria alla quale io appartengo, come nei grandi cambiamenti non conta tanto l’aritmetica o la matematica, ma conta la storia, e bisogna tenere presenti quelli che taluno denomina “megatrend”. La matematica e l’aritmetica contano nella microeconomia, ma nella macroeconomia conta molto di più la storia. Sotto questo profilo trovo molto interessante quanto ci ha detto stamane il ministro, tra cui anche la convocazione a Roma di una riunione dei grandi giuristi mondiali per dare corso a una ipotesi sul global legal standard; che ha avuto una Commissione Istruttoria Italiana della quale fa parte, e mi fa molto piacere avere sentito adesso dal ministro, anche Enrico Letta. Le persone intelligenti e competenti, quali sono i nostri due relatori di stamane, non sono arroccate nella loro appartenenza partitica. Una seconda breve osservazione riguarda l’Europa: non trovo grandi differenze tra quello che ha detto Enrico Letta e quello che ha detto Giulio Tremonti. Credo che tutto sommato il ritorno al metodo intergovernativo sia dovuto a tante contingenze, ma non credo che la colpa sia imputabile all’Italia che ha fatto ben due proposte per rafforzare il contesto comunitario. A mio avviso è molto importante, tuttavia, riflettere a fondo sulle cooperazioni rafforzate senza le quali ho l’impressione che anche il metodo comunitario non po- trà funzionare; così come ho l’impressione che vada ripresa la tematica del patto di stabilità, fortunatamente flessibilizzato dopo un contenzioso nel 2003, e che tuttavia io credo vada rivisto per scorporare dal lato spese del deficit quelle per investimenti infrastrutturali. In ogni caso l’Europa rimane per tutti noi una grande realtà e l’Italia è stato un Paese federatore che certamente continuerà a svolgere un ruolo importante, ammesso che l’Europa stessa lo voglia. Sull’Italia credo che tutti quanti abbiamo apprezzato molto quanto è stato detto. E noi, per riassumere un po’ quello che mi pare sia anche il sentimento della Fondazione Edison crediamo molto a quella formula ideale, che io ho spesso indicato, del liberalismo sociale o liberalismo comunitario, in cui solidarietà, sussidiarietà e sviluppo si coniugano in modo tale da valorizzare le peculiarità del nostro Paese tra cui una straordinaria capacità di innovazione informale che le statistiche non rilevano. Ma per questa capacità innovativa, che nasce dal tessuto storico-comunitario dell’Italia, necessita per andare oltre di istituzioni migliori e di una formazione del capitale umano meno accidentale. Grazie ancora ai due relatori. Spero la mia ipotesi, che è proposta per il dottor Quadrino e ipotesi per i due relatori, di predisporre un saggio che dia conto della giornata odierna possa avere seguito. Grazie davvero. Umberto Quadrino a te la parola. Umberto Quadrino Grazie Alberto. Nel salutare e ringraziare i relatori mi domando se nella sala ci sia un po’ più di ottimismo rispetto a quando siete entrati. L’ottimismo forse non nasce da nessun fatto nuovo che è stato detto oggi, però ha una ragion d’essere perché la straordinaria analisi, questo grande affresco che ha fatto Giulio Tremonti rileva uno sforzo per cercare di capire qual è la realtà, cercare di interpretarla, 18 non solo nel contingente, ma in una prospettiva storica. Insomma, avere una persona che ci governa che ha questa passione e questa capacità di analisi mi rassicura e mi da un po’ di ottimismo. Così come ho colto come una nota di grande ottimismo la disponibilità di Enrico Letta a collaborare con il Governo in un momento così difficile. Con questo ringrazio tutti e due i relatori e vi saluto, anche a nome della Fondazione Edison. Atti presentazione libro “La crisi mondiale e l’Italia” ‐ Milano, 27 aprile 2009