Atti della presentazione del volume “La crisi mondiale e l`Italia” di

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Atti della presentazione del volume “La crisi mondiale e l`Italia” di
Atti della presentazione del volume “La crisi mondiale e l’Italia” di Marco Fortis Milano, 27 aprile 2009 Società editrice
il Mulino
Milano, lunedì 27 aprile 2009
Sala Assemblee di Edison - Foro Buonaparte, 31
Presentazione del volume
La crisi mondiale e l’Italia
di
Marco Fortis
Introduce
Umberto Quadrino
Intervengono insieme all’autore
Enrico Letta e Giulio Tremonti
Modera
Alberto Quadrio Curzio
2 Atti presentazione libro “La crisi mondiale e l’Italia” ‐ Milano, 27 aprile 2009 Umberto Quadrino
Buongiorno a tutti.
Grazie di essere intervenuti così
numerosi alla presentazione del
volume di Marco Fortis “La crisi
mondiale e l’Italia” che raccoglie
una serie di articoli di analisi della crisi economica
in atto, comparsi recentemente su “Il Messaggero” e altre testate. Come Presidente della Fondazione Edison sono onorato di avere insieme a me
il ministro Tremonti, l’onorevole Letta, il Professor
Quadrio Curzio e l’autore del libro, per discutere
di questi temi.
La Fondazione Edison ha da sempre prestato
grande attenzione ai temi del modello di sviluppo
italiano incentrato sull’economia reale, sui distretti.
Ed è stata una voce solitaria negli ultimi anni,
quando si parlava di declino del modello di sviluppo italiano basato appunto sui distretti e sulle
piccole e medie imprese. E’ stata una voce che si
è levata per sostenere ancora la vitalità e l’importanza del nostro sistema economico e contrastare
le affermazioni di coloro che consideravano ormai in declino il modello del nostro sviluppo,
comparandolo a quello di altri Paesi che invece,
basandosi sullo sviluppo dell’immobiliare e di una
certa finanza creativa, avevano tassi di sviluppo
superiori ai nostri. La storia, al contrario, ci dice
che il nostro modello non è affatto morto, ma è
ancora vivo e vitale nonostante la presente crisi
economica, e che quei paesi che avevano fatto
troppo affidamento su ricette di sviluppo
“drogato” oggi si trovano in difficoltà più grandi
della nostra. Quando è scoppiata la crisi, la Fondazione ha cercato di capirne le motivazioni, di
analizzarne le conseguenze, e di vedere quali
potevano essere le ripercussioni sul nostro sistema economico, analizzando ancora i punti di
forza e di debolezza dell’Italia. Speriamo oggi di
ottenere attraverso questo dibattito delle informazioni utili sul punto in cui siamo: c’è un generale
desiderio di interpretare i primi sintomi di ripresa
come quelli definitivi, anche se il direttore generale del Fondo Monetario Internazionale StraussKahn ci ammonisce che senza una pulizia nei
bilanci delle banche non ci sarà una ripresa duratura. La Quaresima è quindi ancora lunga, come
ha detto recentemente il professor Tremonti in
una riunione ufficiale del Fondo Monetario.
Ma veniamo agli invitati, che non hanno certo
bisogno della mia presentazione.
Giulio Tremonti è ministro dell’economia; la sua
presenza è importante non solo per il posto che
3 occupa nel governo italiano, per il ruolo che gioca in molte istituzioni internazionali, dal G8 al
Fondo Monetario, ma perché è stato forse l’unico
al mondo dei grandi protagonisti dell’economia
mondiale a prevedere quello che sarebbe accaduto. Voglio citare due passaggi di previsioni di
Giulio Tremonti in periodi non “sospetti”: 1) Corriere della Sera del 12 novembre 2006, “Oggi la
crisi immobiliare Usa è molto forte. Le ipotesi sono
due. La prima: il passaggio dal boom allo sboom
non ha causato il collasso perché il sistema finanziario è bene equilibrato, ha assorbito la crisi e
può ripartire. La seconda è quella di una crisi
strutturale tipo 1929. Io spero nella prima ipotesi,
ma temo la seconda”. L’11 agosto 2007 sempre
sul Corriere della Sera scriveva Giulio Tremonti “in
America si trovano il principio e la fine di una crisi
potenzialmente globale. La crisi dell’economia
finanziaria diventa sempre crisi dell’economia
reale. La crisi dell’America diventa sempre crisi del
mondo. La cosa positiva è che Governi e Autorità
monetarie, se lo capiscono e lo vogliono, possono ancora intervenire”. Mi sembra che o non
l’hanno capito o non hanno voluto capirlo, perché è passato un anno e poi è scoppiata la crisi.
Quindi, dopo la paura attendiamo da Giulio Tremonti, spero, qualche parola di speranza.
Enrico Letta ha sempre seguito con grande attenzione l’economia reale del nostro Paese. E’ stato
ministro dell’Industria e con Pierluigi Bersani ha
scritto nel 2004 “Viaggio nell’economia italiana”
sui distretti e le piccole e medie imprese, riprendendo temi che ci sono molto cari come Fondazione Edison, e ci ha fatto anche l’onore di una
sua prefazione pubblicata nel libro “Industria e
Distretti” a cura di Fortis e Quadrio Curzio. Nel
corso di questa crisi è più volte intervenuto, sottolineando l’importanza di mantenere intatta la
macchina produttiva del nostro Paese.
Alberto Quadrio Curzio è Presidente del Comitato
Scientifico della Fondazione Edison. Con Fortis in
questi anni ha analizzato molto approfonditamente il modello del made in Italy, e nel corso di
questa crisi ha insistito sul progetto di emissione
di titoli del debito europeo per promuovere un
importante progetto di sviluppo di opere infrastrutturali in Europa, progetto che in sede internazionale Tremonti aveva prospettato già rifacendosi a Jacques Delors.
Alberto Quadrio Curzio modererà il dibattito.
Cedo, pertanto, a lui la parola.
Atti presentazione libro “La crisi mondiale e l’Italia” ‐ Milano, 27 aprile 2009 Alberto Quadrio Curzio
Grazie.
Mi associo al Dottor Quadrino con
sentiti ringraziamenti al Professor
Tremonti e al Dottor Letta per aver
accettato l’invito della Fondazione
Edison a presentare questo volume di Marco Fortis.
Come ha rilevato il Dottor Quadrino c’è una certa
consuetudine tra la Fondazione Edison e queste
due illustri personalità, consuetudine legata non
solo al contributo che essi hanno dato talvolta
alla presentazione di volumi curati dalla Fondazione Edison, ma anche ad una consonanza specifica: la convinzione che il sistema italiano avesse
delle sue caratteristiche molto valide, molto solide
di economia reale, caratteristiche espresse dal
sistema delle piccole e medie imprese e dei distretti, che certamente dovevano, potevano e
debbono migliorare, ma che non vanno sostituite
da forme iperboliche di economia dei servizi e di
finanza creativa. Potrei pertanto anche dire che
negli anni passati quando la Fondazione Edison
sosteneva tesi considerate da molti retrograde,
essi ci hanno incoraggiato a proseguire nelle nostre convinzioni.
Oggi per molti versi sarebbe facile dire “Avevamo
ragione” e la tentazione di farlo è certamente
forte. Tuttavia io credo che più importante dell’affermazione “Avevamo ragione” sia interrogarsi su
come possiamo uscire da questa crisi assai grave,
e se dopo questa crisi l’Italia, l’Europa e il mondo
saranno come prima.
Credo che il libro di Fortis, che è stato scritto in
tempo reale mentre gli eventi della crisi finanziaria
si svolgevano, non sia assolutamente una cronaca di tutto ciò che è accaduto; per quanto il libro
non sia una elaborazione ex post vi è tuttavia una
chiara linea interpretativa degli eventi accaduti,
ed anche una linea prospettica su quanto a suo
avviso – che condivido – dovremmo fare soprattutto nel nostro Paese. E’ chiaro che la tesi fondante dell’elaborato è che l’economia reale in un
paese sviluppato come l’Italia, giustamente detto
industrializzato, rimane il fulcro del sistema economico, e che ovviamente l’economia bancaria e
finanziaria è interrelata, deve essere interrelata,
ma non è in grado di sostituire l’economia reale
in un contesto di paesi sviluppati. Quindi vi è implicitamente l’affermazione che la delega produttiva manifatturiera industriale ai paesi in via di
sviluppo non è una delega attuabile se non correndo dei rischi di dimensioni gigantesche su
4 scala mondiale, fino alla creazione di monopoli
che alla fine non avrebbero dei controlli adeguati.
Così come dal volume è chiara la tesi che la crisi
nasce dagli Stati Uniti con una straordinaria moltiplicazione del debito. Un dato che emerge da
ulteriori studi di Marco Fortis vorrei riportare alla
vostra attenzione: tra il 2001 e il 2007 il Pil americano è cresciuto di 3.500 miliardi di dollari mentre l’indebitamento dei settori non finanziari è
cresciuto di 12.500 miliardi di dollari. Quindi è
chiaro che la crescita dell’indebitamento è stata di
dimensioni tali che la stessa crescita del Pil reale
risulta largamente ridimensionata, diversamente
da quanto accaduto in Europa e in Italia dove la
crescita è stata più lenta, ma l’indebitamento è
stato molto più basso.
La tesi centrale del volume, pur con molte comparazioni, riguarda l’Italia e, sotto questo profilo,
Fortis prosegue quell’analisi che da anni ha approfondito con contributi molto originali. E cioè
che il sistema manifatturiero italiano è forte perché ha un surplus commerciale assai significativo,
soprattutto nelle “4 A”, e perché il sistema bancario, alimentato dall’abbondante risparmio privato,
è solido. Il fatto che Fortis abbia portato all’evidenza del pubblico un dato che solo pochi specialisti
conoscevano, e cioè che l’indebitamento privato,
l’indebitamento delle famiglie fosse intorno al
35% del Pil, mentre in altri Paesi europei si supera
largamente il 100% del Pil, ha anche portato l’attenzione sul cosiddetto debito aggregato pubblico-privato che non posiziona poi tanto male il
nostro Paese. Certo rimane il fatto che il debito
pubblico è trattato tutti i giorni sui mercati e quindi nella determinazione dei prezzi dei titoli di stato
e dei tassi si manifesta anche un premio di rischio,
a mio avviso sopravvalutato, che spesso ha penalizzato l’Italia. Il debito privato, essendo un debito
microeconomico, non ha una corrispondente
valutazione dei mercati e come tale non può avere neppure uno specifico rating. Ma esso determina la solidità del sistema bancario.
Detto questo, ringrazio Fortis per questo elaborato e subito passo la parola ai due relatori che,
ovviamente, sono attesi dal pubblico venuto così
numeroso.
Lascerei la scelta di intervento ai due relatori.
Inizia allora Enrico Letta e a seguire Giulio Tremonti.
Grazie ancora per aver accettato l’invito della
Fondazione Edison.
Atti presentazione libro “La crisi mondiale e l’Italia” ‐ Milano, 27 aprile 2009 Enrico Letta
Grazie alla Fondazione Edison, grazie alla casa editrice “Il Mulino” che
da sempre cura i libri della Fondazione Edison, grazie a Marco Fortis
per le ricerche e i dati che ci propone. E grazie per questa occasione
di confronto in un momento come quello attuale
in cui tutti siamo desiderosi di comprendere
quanto è accaduto negli ultimi mesi e di capire
come il nostro Paese possa uscire più forte, o almeno evitare di uscire più debole, da questa crisi
di cui l’Italia non ha nessuna colpa, come giustamente diceva prima Alberto Quadrio Curzio. Si
tratta infatti, come bene argomenta anche Marco
Fortis nel suo volume “La crisi mondiale e l’Italia”,
di una crisi originata dall’economia americana
che per anni è stata “drogata” con un aumento
esponenziale dell’indebitamento privato, vale a
dire del debito di famiglie, imprese, banche.
Su come l’Italia potrà uscire più forte da questa
crisi concentrerò il mio intervento.
Quello che in queste ore sta accadendo nel mercato automobilistico da molti è portato come
esempio – e anch’io lo faccio in partenza – delle
occasioni che l’attuale situazione può offrirci le
quali, se colte con intelligenza e con tempismo,
possono non soltanto risolverci dei problemi, ma
farci fare dei passi in avanti rispetto ai nostri dati di
partenza.
Per motivi del tutto casuali mi trovo oggi a prender parte a questo dibattito subito prima dell’incontro che oggi pomeriggio avrò con il Consiglio
Direttivo del Distretto della ceramica di Sassuolo –
come periodicamente faccio da diversi anni – per
cercare di capire la vicenda di una azienda in
particolare, la Iris Ceramica di cui parla anche
Marco Fortis alle pagine 143-144 del suo libro,
che come noto ha deciso di aprire la procedura
di messa in liquidazione. Con questa sua decisione tale azienda, che rappresenta uno dei maggiori gruppi nazionali nel settore delle piastrelle, è
diventata un po’ il simbolo di un possibile rischio
di cui voglio parlare: il rischio di deindustrializzazione del nostro Paese.
La Fondazione Edison ci ricorda costantemente la
caratteristica tutta italiana data dall’elevato numero di imprenditori che costituiscono il nostro sistema produttivo, e che fanno del nostro Paese un
unicum; sono, infatti, circa 4 milioni gli imprenditori che lavorano sul territorio, molti dei quali sono ex dipendenti; quest’ultimo lo ritengo un aspetto da sottolineare perché il fatto che gran
5 parte degli imprenditori italiani abbiano vissuto
l’esperienza lavorativa da ex dipendenti rende il
tessuto imprenditoriale italiano totalmente diverso
rispetto agli altri.
Porto il paragone della Francia che, diversamente
da noi, ha alcune decine di grandi imprese globali, diciamo 50; il governo francese può intervenire,
e sicuramente interverrà se necessario, a sostegno di ciascuna di esse in questo momento di
crisi; quando la crisi terminerà i 50 “campioni”
francesi ci saranno ancora tutti, o se non saranno
tutti 50, saranno 48, ma la Francia potrà ripartire
da lì. Noi, invece, non abbiamo un elevato numero di grandi imprese. Ma abbiamo 4 milioni di
imprenditori che giorno dopo giorno affrontano
la difficile situazione di crisi in cui si sono venuti a
trovare; e che ogni giorno si pongono la domanda se sia conveniente tenere duro in questa fase
di difficoltà o se invece non sia più ragionevole
seguire l’esempio dell’azienda del distretto della
ceramica cui accennavo prima, e decidere quindi
di cessare la propria attività. Questi 4 milioni di
imprenditori sono infatti persone che hanno lavorato per anni, riuscendo a costruirsi una ricchezza, grande o piccola che sia, e che oggi vedono
la lista degli ordinativi per i successivi 6-9 mesi
sostanzialmente in bianco. Ciascuno di essi, legittimamente, può domandarsi se adesso, che è rimasto ancora del “fieno in cascina”, non sia meglio fermarsi, mettendo in sicurezza se stessi, la
propria famiglia e i propri dipendenti – facendolo
nel modo meno traumatico possibile – piuttosto
che andare avanti, correndo il rischio di buttare
via il ”fieno” che è rimasto, nel tentativo di resistere in una condizione di incertezza: questi imprenditori, che magari hanno alle spalle 20 o 30 anni
di attività lavorativa, ogni mattina alzano una saracinesca, reale o virtuale, senza sapere quale sarà
l’esito del proprio lavoro alla fine della giornata.
Pertanto, la questione principale che dobbiamo
affrontare è la seguente: dobbiamo far di tutto
perché alla fine della crisi questi 4 milioni di imprenditori ci siano ancora tutti e non diventino la
metà di quelli che sono oggi, e che rimangano
tali non trasformando la loro attività in attività di
rendita; anzi, il nostro obiettivo deve essere quello
di far sì che, dopo le intemperie della crisi, gli imprenditori italiani abbiano la scorza ancora più
dura. Perché la Francia, che qui porto come esempio, le sue 50 imprese a scala mondiale le
manterrà tali e lo farà, se necessario, attraverso
azioni anche pubbliche.
Credo, quindi, che il rischio di deindustrializzazio-
Atti presentazione libro “La crisi mondiale e l’Italia” ‐ Milano, 27 aprile 2009 Enrico Letta
ne del Paese sia il tema per eccellenza, e credo
anche che rispecchi una parte delle riflessioni del
libro di Fortis e della prefazione che Quadrio Curzio scrive al libro. Noi siamo di fronte a un dovere
collettivo del sistema Paese, un dovere delle istituzioni tutte, delle istituzioni nazionali e delle forze
politiche, perché qui si gioca il futuro del l’Italia,
un Paese che può uscire dalla crisi ancora come
grande potenza industriale, potenza manifatturiera, potenza esportatrice.
E’ inutile che io ripeta cose che nel libro sono
ampiamente argomentate sulle quali sono totalmente d'accordo, come sul fatto che la forza del
nostro Paese nasca dal saper tenere insieme tanti
modelli produttivi che alla fine sono riconducibili
a una grande, buona capacità di produrre, quindi di esportare.
Io credo che il punto chiave sia, una volta acquisita la consapevolezza di questo grande ruolo del
nostro sistema produttivo, come riuscire a debellare il rischio della stretta del credito e a risolvere
la problematica del ritardo nei pagamenti da parte della pubblica amministrazione. E’ infatti di fondamentale importanza per la sopravvivenza delle
nostre imprese scongiurare il rischio di razionamento del credito da parte del sistema bancario,
così come lo abbiamo sperimentato e vissuto
negli ultimi mesi, e in questo credo ci sia un problema di voci e di stimoli che arrivano dalle istituzioni pubbliche. Ma nello stesso tempo occorre
trovare una soluzione alla questione molto delicata, molto difficile, del ritardo nel pagamento dei
crediti vantati dalle imprese nei confronti della
pubblica amministrazione; penso in particolare al
ruolo della Cassa Depositi e Prestiti, al ruolo della
SACE e all’opportunità, per esempio, di introdurre
una distinzione tra i crediti vantati dalle imprese
nei confronti della pubblica amministrazione, avendo alcuni di essi indubbiamente minor peso
rispetto ad altri.
Ma a mio avviso, un altro grande tema è quello
relativo al nostro sistema di welfare, vale a dire al
nostro sistema di ammortizzatori sociali. Sono tra
coloro che ritengono che, in questa crisi, siano
emersi tutti i limiti del nostro Welfare, un Welfare
che è costruito attorno alla centralità della figura
del “maschio adulto” e non attorno alla centralità
della “persona”. Ci sono intere categorie del nostro Paese, intere classi generazionali, diciamo la
metà del Paese che è quella rappresentata dalle
donne, che hanno trovato nel nostro Welfare
un'assenza di risposte piuttosto che una completezza di risposte. Abbiamo un sistema di Welfare
6 che, detto in sintesi e per cifre, dedica l’87% delle
sue risorse a pensioni e sanità, e solo il 13% alle
voci attive, che invece negli altri Paesi normalmente sono destinatarie della metà delle risorse
della spesa sociale. E la spesa sociale italiana nel
suo insieme, come è a tutti noto, è in linea con
l'Unione europea.
Ritengo, quindi, che sia giunto il momento di realizzare in quel campo alcune importanti e delicate
riforme che riallochino le risorse. Ed è questo il
momento giusto per farlo, data l’esistenza del
consenso per qualunque riforma che possa essere chiaramente spiegata; difficilmente, credo, lo
stesso consenso si potrà trovare nel momento in
cui sarà venuto meno il senso dell’urgenza che
invece avvertiamo in questa fase di crisi.
E qui il tema degli ammortizzatori sociali riguarda
anche il sistema delle imprese, perché gli imprenditori hanno meno strumenti da mettere in campo rispetto a un ventaglio di opzioni che credo
invece debbano essere a loro disposizione. Su
questo punto è in atto una polemica, io ne ho
ampiamente discusso varie volte con il ministro
Sacconi e con il ministro Brunetta. Credo che ci
sia qualcosa che non va se il nostro Paese affronta con la parola “deroga” la più grande crisi finanziaria ed economica che abbiamo mai vissuto; la
nostra struttura di ammortizzatori sociali è infatti
sostanzialmente basata sullo strumento della
“cassa in deroga”, strumento che, sia chiaro, non
intendo mettere in discussione, ma il fatto che lo
strumento principe del nostro sistema di ammortizzatori sociali si chiami “cassa in deroga” la dice
lunga, secondo me, su molti dei nostri problemi.
In questa mia considerazione non vi è, ovviamente, alcun riferimento all'ultimo anno di governo, o
agli ultimi anni, trattandosi di una situazione che
si trascina da decenni.
Ritengo, quindi, che sia necessario un intervento
che estenda il livello delle protezioni e ne modifichi le modalità di erogazione. Oggi il sistema di
ammortizzatori sociali è infatti erogato attraverso
contrattazioni, attraverso trattative, attraverso le
scelte della politica e del sindacato, e conseguentemente le imprese che sono fuori dai binari della
politica e del sindacato, di norma, non ottengono
un euro dal sistema degli ammortizzatori sociali.
Vi è, dunque, la necessità di far evolvere tale sistema verso una logica più moderna; e questo lo
dico con grande chiarezza, al di fuori da qualunque considerazione di lucro politico immediato,
perché ritengo che ciò farebbe bene a tutti, al
centrodestra come al centrosinistra, ma farebbe
Atti presentazione libro “La crisi mondiale e l’Italia” ‐ Milano, 27 aprile 2009 Enrico Letta
bene anche al sindacato e sicuramente farebbe
molto bene al sistema Paese.
Marco Fortis, in uno degli articoli finali e quindi
più recenti della sua raccolta, affronta un altro
grande tema che negli ultimi tempi è un po’
scomparso, quello del Sud del Paese. Oggi, infatti,
nel nostro Paese il Sud non viene più considerato
un problema, nel senso che viene sostanzialmente messo da parte. E questo è un problema culturale ancor prima che di scelte concrete, però io
credo che sia un tema che riguardi un po' tutte le
culture politiche del nostro Paese, che tendono a
pensare che meno se ne parla meglio è, frutto
anche di quello che è successo in questi anni. Mi
veniva da riflettere sul fatto - e lo faccio volentieri
qui a Milano, e non a Napoli o a Catania, per dire
quanto il problema io lo consideri nazionale - che
ormai, tranne forse una o due eccezioni, non c'è
uno strumento di comunicazione classico, che sia
un quotidiano, un settimanale o una televisione
che venga realizzato fisicamente nel Sud del nostro Paese, diciamo sotto Roma.
La sostanza è che la riflessione sul Mezzogiorno è
completamente scomparsa. Penso che questo sia
un grande problema perché come argomenta
perfettamente Marco Fortis a pagina 167, il divario tra il Nord-Centro e il Sud dell’Italia ha raggiunto dimensioni che potremmo definire eccezionali.
Infatti, se non consideriamo le quattro regioni
italiane più povere (Puglia, Calabria, Sicilia e Campania), il nostro Paese ha delle performance di
crescita che sono ampiamente migliori della media dell’euro area, mentre il Pil pro-capite delle
quattro regioni più povere è assai inferiore a quello del Portogallo.
Un altro messaggio che ci viene dalla crisi riguarda, pertanto, l’importanza di riuscire a intaccare
parte di quel disavanzo strutturale che le regioni
più povere del nostro Paese hanno nei confronti
dei loro competitori europei, perché è lì che c’è
uno spazio per noi di recupero; non è infatti semplice chiedere alla Lombardia o al Veneto, che
già hanno una forza economica e imprenditoriale ai massimi livelli in Europa, di correre a una
velocità maggiore rispetto alla Baviera o all’Ile de
France. Vi è quindi un tema molto profondo che
riguarda scelte concrete, che implica la necessità
di mettere in campo piani di sviluppo per quelle
regioni che siano utili a tutto il Paese, e non soltanto incentivi per andare a fare in quelle regioni
le stesse cose che si fanno nel resto d'Italia, con
costi inferiori. Probabilmente tutto ciò richiede un
cambio di filosofia, che sicuramente è molto difficile, molto complicato da mettere in pratica, ma
7 ho l’impressione che esorcizzare il problema anziché tentare, sia pure con fatica, di affrontarlo sia
la soluzione peggiore.
Voglio ora affrontare un altro tema ampiamente
trattato nel libro di Fortis, vale a dire quello dello
sviluppo delle infrastrutture a livello nazionale e a
livello europeo. La settimana scorsa Alberto Quadrio Curzio ha scritto sul Corriere della Sera un
editoriale, come sempre molto efficace, sul tema
delle infrastrutture. Lo voglio riprendere perché
ritengo che il rilancio infrastrutturale sia un punto
chiave, un punto essenziale per uscire dalla crisi,
grazie alla creazione di posti di lavoro e alla possibilità di far girare risorse che esso comporta. Credo, però, che vi sia un problema di scelta delle
infrastrutture da realizzare, scelta che andrebbe
fatta sulla base di priorità legate alla tempistica di
realizzazione. In altri termini, la precedenza andrebbe data alle opere cantierabili, i cui lavori
possono partire immediatamente, generando
subito posti di lavoro e facendo circolare denaro.
Di queste realizzazioni infrastrutturali pronte per
partire ce ne sono tante in Italia, e la Lombardia è
il cuore di queste, grazie a scelte fatte negli ultimi
anni; penso alla Pedemontana Lombarda, che tra
le opere infrastrutturali è sicuramente la più importante ma anche la più complessa, alla Tangenziale Esterna Milanese, alla BreBeMi. Ma un po'
tutto il Nord del nostro Paese ha opere cantierabili i cui lavori potrebbero cominciare da subito;
ed è soprattutto in merito a questo aspetto della
immediata realizzazione delle opere che risiedono i miei dubbi circa il Ponte sullo Stretto, ancora
oggi inserito tra le opere infrastrutturali prioritarie,
perché credo che difficilmente questo potrà generare da subito ricchezza e posti di lavoro.
Vorrei ora affrontare come ultimo argomento la
grande questione europea.
Se è vero, come Fortis argomenta, che noi abbiamo tante carte da giocarci in questa crisi, dalla
quale potremo uscirne ancora forti a patto di
scongiurare quel rischio di deindustrializzazione
di cui parlavo prima, la questione europea rimane
comunque per noi fondamentale, decisiva, così
come si evince dalla prefazione di Quadrio Curzio, nella quale vengono riportati numerosi passaggi di Carlo Azeglio Ciampi, che sottolineano
anche questo aspetto.
La questione fondamentale, a mio avviso, è che
l’Europa rappresenta la prima vittima della crisi
economico-finanziaria in corso, ma non l’Europa
tout court, bensì l’Europa comunitaria. L’Europa è
sempre cresciuta, è sempre andata avanti attra-
Atti presentazione libro “La crisi mondiale e l’Italia” ‐ Milano, 27 aprile 2009 Enrico Letta
verso una dialettica virtuosa tra il livello intergovernativo e il livello comunitario – impersonificato
e rappresentato dalla Commissione europea e dal
Parlamento europeo – che ha visto le grandi realizzazioni che oggi ci fanno forti; penso a tutto il
lavoro del decennio Delors che ha portato al
“mercato delle quattro libertà” e poi al processo di
costruzione dell’Unione Europea culminato con il
Trattato di Maastricht. E’ stato tutto un cammino
guidato dalla Commissione europea, in cui i governi nazionali seguivano e ovviamente aggiustavano il percorso, cercando di trovare le forme
migliori per portare il consenso attorno alla costruzione dell’Unione europea sancita dal Trattato.
Bene, questa dialettica virtuosa tra livello intergovernativo e livello comunitario è saltata completamente negli ultimi mesi; la Commissione europea
è tornata al ruolo che aveva negli anni ‘60 e ’70,
cioè organo esecutivo delle decisioni dei governi
nazionali. E questo, secondo me, è bene dirlo con
grande franchezza, senza coprirlo in modo ipocrita. Io lo ritengo, però, un gravissimo errore di
prospettiva, anzitutto perché i governi non sono
più 6 come erano negli anni ’60, ma sono 27, e il
tasso di egoismo nazionale dei singoli governi
rimane elevatissimo.
In questo ragionamento si inserisce la grave responsabilità, a parer mio, che la cancelliera tedesca si è assunta nel bloccare un piano straordinario di intervento per il sostegno delle economie
dell'Europa centro orientale, creando un danno
per tutta l’Europa, e in particolar modo per noi
italiani che siamo sempre il primo o il secondo
paese investitore in quelle economie. Quell'intervento, che è stato poi facilmente interpretato come legato alle imminenti elezioni nazionali nel
paese della Merkel, dettato quindi dall’egoismo
nazionale, ha messo in luce una questione che
ritengo cruciale, vale a dire il grave rischio di un’Europa in cui la parte comunitaria è completamente sottomessa alla parte intergovernativa. E’
quindi di fondamentale importanza ristabilire un
giusto e corretto equilibrio tra i due livelli, perché
è soltanto attraverso uno spirito unitario che l'Europa può riuscire a raggiungere i suoi grandi
obiettivi, vale a dire l'obiettivo degli euro-bonds,
l’obiettivo dei global legal standard, l’obiettivo di
un endorcement delle regole e l’obiettivo fondamentale della costruzione di una nuova architettura finanziaria.
Fortis nel suo volume cita il caso dei mutui subprime, ossia dei mutui concessi a persone che pale-
8 semente non erano poi in grado di restituirne
interessi e capitale. Oggi, col senno di poi, tutti
dicono che era ovvio che una tale pratica ci avrebbe portato, prima o poi, alla situazione in cui
oggi ci troviamo, perché veniva svolta un'attività
che non solo era fuori dalle regole del buon senso, ma anche della normale correttezza. La stessa
cosa con l'effetto di leva estremizzato.
Bene, per far fronte a tutto questo c’è bisogno
non soltanto di regole – quelle, in fondo, c’erano
anche prima della crisi – quanto piuttosto di un
enforsement delle regole stesse, c’è bisogno della
forza politica, della forza di authorithy che siano
messe in condizione di poter applicare queste
regole. E credo che anche a livello europeo ci sia
bisogno di questo ragionamento.
Un governo forte europeo esce dalla crisi come
“la grande esigenza”; ma il rischio maggiore, secondo me, è che l’Europa esca dalla crisi con
delle istituzioni più deboli rispetto a quando c’era
entrata.
Per concludere, il rischio di deindustrializzazione
dell’Italia e il rischio della perdita dell'unitarietà
istituzionale dell'Europa con la rivincita dell'Europa intergovernativa, rappresentano a mio avviso
le due questioni chiave. Intendiamoci, il ruolo
degli Stati e dei governi è e rimane fondamentale;
il problema vero è essere in grado di trovare un'istanza comune che riesca a guidare questi processi. Ma il percorso verso l’uscita dalla crisi deve
passare attraverso questi due binari, un binario
tutto italiano che assicuri il futuro imprenditoriale
del nostro Paese mediante risposte adeguate da
parte del sistema, da parte degli operatori, da
parte delle istituzioni, trovando insieme le giuste
realizzazioni; un binario europeo che punti al
ripristino di una dimensione comunitaria, forte ed
efficace, senza la quale difficilmente potremo uscire dalla crisi.
Oggi i problemi incombono in modo talmente
palese su chi li deve risolvere che chiedere alle
opinioni pubbliche di assumersi responsabilità
assieme alle classi dirigenti è oggi molto più fattibile rispetto a prima. L’importante è voler fare
tutto ciò perché, come dicevo in precedenza, se
c’è un momento in cui è possibile farlo forse è
proprio questo: nel Paese infatti esiste, da una
parte, una stabilità politica come forse mai abbiamo avuto, con la presenza di un esecutivo forte;
dall’altra, una capacità di dialogo tra le parti politiche che non si è mai vista nella storia recente del
nostro Paese. Io credo, quindi, che sarebbe un
grosso errore non cogliere le possibilità che si
Atti presentazione libro “La crisi mondiale e l’Italia” ‐ Milano, 27 aprile 2009 Enrico Letta
presentano in questo particolare momento, rinviando al futuro la realizzazione di tutte quelle
riforme, anche faticose, che potrebbero realmente consentire al nostro Paese di uscire più forte
dalla crisi.
Grazie.
9 Atti presentazione libro “La crisi mondiale e l’Italia” ‐ Milano, 27 aprile 2009 Giulio Tremonti
Nomina Sunt Consequentia
Rerum (I nomi sono corrispondenti alle cose n.d.r.): Marco Fortis.
Non è frequente che idee forti,
come quelle contenute nel libro
di Fortis, siano rappresentate in Italia; si può essere d’accordo o in disaccordo con quanto esprime
l’autore, ma oggettivamente è un libro che marca
e cifra con molta forza una linea di pensiero. Ed è
questa la ragione del particolare apprezzamento
che ho per Marco, per i suoi scritti, per la sua attività.
In questo intervento dividerò le mie considerazioni in base al titolo del suo libro “La crisi mondiale
e l’Italia”; parlerò quindi di “mondo” e di “Italia”,
sotto il comune denominatore della crisi.
In merito alla crisi mondiale, inizierò parlandovi
delle riunioni che ho avuto negli ultimi giorni a
Washington, dove ho incontrato il signor
“Capitalismo”, il signor “Mercato finanziario” e i
signori “Governi”, verificando i rispettivi stati di
salute e le rispettive visioni del mondo. Userò,
quindi, tre parole chiave: crisi, governi, regole; ne
parlerò molto brevemente perché vorrei soffermarmi soprattutto sull’Italia.
Crisi. La parola crisi deriva dal greco krisis, che a
sua volta deriva da crino, che vuol dire
“divisione” (e non per caso noi usiamo la parola
crinale); krisis, quindi, come marcatura di discontinuità, come forza nel marcare il passaggio da
una fase all’altra. E certamente noi ci troviamo in
una fase di crisi, la cui intensità, anche storica, è
forse troppo presto per definirla. Credo, infatti,
che una valutazione seria in ordine a quello che è
successo in questi anni debba e possa essere fatta
solo con un certo distacco storico.
La mia opinione, non recente, è che l’origine di
questa crisi stia non tanto in alcuni epifenomeni,
ossia in alcuni fatti che poi hanno determinato
un’accelerazione dei processi, ma sia ben più
profonda e più radicale.
Cercherò di dare una lettura “marxista” dei fondamentali di questa crisi, così come ho sempre cercato di fare: l’origine della crisi non si trova nei
subprime; i subprime sono l’epifenomeno rispetto
al fenomeno sottostante. Io credo che l’origine
della crisi stia nella globalizzazione per come è
stata fatta, per i tempi con cui è stata realizzata e
per le leve utilizzate per compierla. E’ un ordine di
pensiero che ho cercato di esporre già nel 1995
in un libro intitolato “Il fantasma della povertà”,
10 poi ancora nel 2005 con il volume “Rischi fatali”, e
infine nel 2007 con “La paura e la speranza”.
E, finalmente, nell’assemblea del Fondo monetario internazionale tanti rappresentanti e tanti Paesi
hanno cominciato a discutere della crisi come
originata dalla globalizzazione. Dico finalmente
perché non credo che il problema della crisi vada
visto in un’ottica di quantità o di tempistica, quanto piuttosto in un’ottica di cause e di origini, e
questo sta venendo fuori con grande intensità.
La mia idea è che la globalizzazione sia stata la
conseguenza naturale di un fatto politico. L’origine dei fatti risale a vent’anni fa con la caduta del
Muro di Berlino avvenuta nel 1989; oggi, a vent’anni di distanza da quell’evento storico-politico,
viviamo una fase della crisi. Ma venti anni, in senso storico, sono un tempo minimo, sono un tempo breve. La storia della lunga durata, di solito,
occupa decenni e decenni e l’avvicendarsi di una
generazione con l’altra; mai nella storia dell’umanità fatti così intensi si sono verificati in un tempo
così breve tanto da poter essere iscritti nella vita di
un uomo. Certo, la storia dell’umanità ha vissuto
fenomeni di grande e intenso cambiamento e,
quindi, denominabili come crisi in senso alto, ma
mai si sono esplicati in tempi così brevi.
La scoperta geografica dell’America, ad esempio,
ha rotto il vecchio ordine chiuso del Continente,
attivando delle meccaniche che si sono poi sviluppate in tutti i domini, da quello religioso, a
quello politico, agli assetti culturali e mentali del
vecchio Continente, aprendo poi verso la grande
rivoluzione. Ma si è trattato di un processo che ha
richiesto tempi lunghi.
La scoperta, non geografica ma economica, dell’Asia ha accelerato i tempi in un modo impressionante: nel 1989 cade il Muro di Berlino, nel 1994
con gli “Accordi di Marrakech” viene istituita la
World Trade Organization e con essa viene definita una nuova geografia politica; il mondo viene
unificato in un’unica ideologia mercantile e, positivamente, pacifica. L’11 dicembre 2001 viene
firmato l’Accordo di ingresso dell’Asia nella World
Trade Organization. Il tutto è avvenuto pertanto
in tempi rapidissimi.
Nel 1995, ne “Il fantasma della povertà” ho tentato di identificare quelli che potevano essere anche i lati oscuri del processo di globalizzazione
che stava per essere forzato con una deterministica a mio parere, non troppo illuminata, frutto di
scelte politiche che hanno compresso ed esploso
un processo che invece richiedeva tempi molto
Atti presentazione libro “La crisi mondiale e l’Italia” ‐ Milano, 27 aprile 2009 Giulio Tremonti
più lunghi. Ed ora paghiamo i conti di quelle scelte. Con ciò non voglio dire che la globalizzazione
doveva essere fermata, dico solo che è stata spinta in modo troppo frenetico e che il miracolo istantaneo della globalizzazione è stato finanziato
con un eccesso di ricorso alla finanza. E adesso,
anche nelle sedi internazionali più accreditate si
comincia ad attribuire agli squilibri globali la cascata dei fenomeni ora in atto, che è un modo
un po’ culto per dire quello che io ho cercato di
dire in modo più semplice nel mio libro, parlando
degli squilibri causati dalla globalizzazione. Che, in
sé, è un processo totalmente positivo, mentre
non completamente positiva è la scelta di tempistica e di tecnica con cui è stato portato avanti.
Per essere chiari, fino a qualche anno fa nel nostro vecchio ordine continentale erano in vigore
meccanismi di quote e di dazi imposti dall’Europa
verso l’Asia, che gradualmente e con intelligenza
sono stati eliminati; non sono stati cancellati di
colpo, in base a una logica illuminata secondo la
quale la nuova religione terrestre del mercatismo
avrebbe dovuto portare l’umanità, per vie economiche e non per vie politiche nazionali classiche,
alla felicità. Voglio usare un’immagine: con la
globalizzazione si è aperto un oceano e 6 miliardi
di persone avrebbero dovuto attraversarlo a nuoto senza la “nave” degli Stati, cioè senza la politica.
E’ questa l’ideologia che ha dominato gli ultimi
anni, e certamente l’ultimo decennio; una ideologia che negava la Politica, negava gli Stati e affidava tutto al Mercato, dischiudendo questo oceano di felicità progressiva e di benessere all’esercizio di nuoto individuale per 6 miliardi e oltre di
persone.
Governi. Oggi stiamo assistendo al ritorno dei
Governi, al ritorno della mano pubblica. E’ da
molto tempo che io sostengo che è impossibile
pensare o ragionare solo in termini di mercato. E
adesso, finalmente, i Governi tornano ad assumere il ruolo che a loro compete. Riprendendo l’immagine dell’oceano, i Governi sono come navi
che aiutano le persone ad attraversare una distesa d’acqua che altrimenti da sole non riuscirebbero a percorrere.
Per tanti anni sono stato accusato di essere antimercatista – l’insulto più grave per chi oggi si
occupa di economia – o di essere colbertista,
aggettivo che fino a qualche tempo fa era considerato almeno in Italia con un’accezione negativa. A me risulta, tuttavia, che la politica che sta
portando avanti la Francia, e di cui parlava mi
pare con apprezzamento anche Enrico Letta a
11 proposito dei 50 campioni, sia quantomeno lievemente colbertista. Noi, invece, abbiamo distrutto
parte del nostro sistema produttivo affidandolo al
mercato. Pertanto un’altra questione che dovrà
essere posta è la seguente: siamo sicuri che le
privatizzazioni che sono state compiute in Italia
siano state fatte tutte bene ed abbiano avuto solo
risvolti positivi, e non abbiano invece marcato
alcuni elementi di riduzione dell’efficienza industriale del nostro Paese? Io non sono contro le
privatizzazioni, ma ritengo necessario un atteggiamento critico nel valutare i processi di privatizzazione che sono stati portati avanti nel nostro Paese, in termini di quantità, di tempi e di modi. E la
mia sommessa valutazione è che non tutte le
privatizzazioni siano state realizzate nel modo
giusto, andando a indebolire piuttosto che a rafforzare il sistema produttivo industriale italiano,
per lo meno in alcuni settori
Ma ritorniamo ai Governi.
Nel suo intervento, Enrico Letta ha fatto riferimento al fatto che in questa crisi “ha perso l’Europa
comunitaria e quindi, forse, perderà l’Europa”. Io
correggo in parte questo tipo di valutazioni, perché non credo sia colpa dei governi se si è registrato un relativo declino della capacità di valutazione della realtà e di intervento della Commissione. Nel giugno del 2008, in occasione di un incontro dell’Eurogruppo in cui era stata posta la
questione relativa alla Northern Rock, la Commissione europea aveva ribadito la regola del divieto
degli Aiuti di Stato dimostrando, a mio avviso, di
essere fuori dal senso del tempo di una crisi che
già aveva iniziato a manifestarsi; vietare l’intervento del governo su Northern Rock era quantomeno un pochino fuori dalla logica comune. Per
fortuna l’intervento su Northern Rock in seguito ci
è stato, e vi sono stati poi tutti i successivi, e questo grazie all’intervento dei governi che sono scesi in campo con il Vertice di Parigi che, abrogando la regola del divieto degli Aiuti di Stato nel
settore bancario, ha consentito di ridurre una crisi
che diversamente sarebbe stata drammatica. Le
banche, infatti, dato il loro ruolo sistemico non
devono e non si possono lasciar fallire. E se non ci
fosse stato il Vertice di Parigi, organizzato su iniziativa di alcuni Paesi europei, questo probabilmente
sarebbe successo, con tutte le conseguenze nefaste che ne sarebbero derivate.
Il Governo italiano aveva anche proposto di costituire un Fondo europeo di salvataggio, ma purtroppo tale proposta non è stata accettata da
molti Stati che hanno preferito “fare per conto
Atti presentazione libro “La crisi mondiale e l’Italia” ‐ Milano, 27 aprile 2009 Giulio Tremonti
proprio”. Probabilmente oggi i governi di questi
Paesi si sono pentiti di non aver accettato l’ipotesi
più europea del Fondo comune di salvataggio
avanzata dal Governo italiano: il valore di quel
messaggio sarebbe stato molto più forte dei capitali messi in campo, e i governi nazionali avrebbero potuto, forse, mettere a disposizione una
quantità minore di capitali a sostegno delle proprie economie in difficoltà. In altre parole, con
“meno” si sarebbe ottenuto di “più”, e in quel
“meno” vi era naturalmente lo sforzo comune di
tutti i Governi. Sono prevalse invece le scelte nazionali, ma nell’insieme il Vertice di Parigi, con le
decisioni che in esso sono state prese, è stato
fortemente positivo.
Al Vertice di Parigi è poi seguito il G20 di Washington, con il quale è apparsa una formula politica
di gestione della crisi mondiale assolutamente
straordinaria: i governi conservano la loro sovranità ma concordano tutti insieme una politica di
sostegno alle economie; quindi ciascuno per conto proprio, ma tutti insieme in base a un indirizzo
politico comune. Nel recepire tale formula politica
è stata esemplare l’Europa che di ritorno dal G20
ha elaborato il “Recovery Plan Europeo”, il quale
dopo poche ore è stato declinato da tutti i governi europei, ciascuno secondo il proprio contesto.
Il G20 marca quindi una novità straordinaria in
termini di struttura e di azione politica, introducendo un principio di governance mondiale, in
base al quale ciascun Governo agisce autonomamente, ma in sintonia con gli altri Paesi del mondo.
Infine l’ultimo G20 di Londra ha segnato un ulteriore sviluppo dell’azione politica, segnatamente
non azioni coordinate dei singoli Governi, ma
una azione collettiva dei Governi tutti insieme. E
la sostanziale trasformazione del Fondo monetario internazionale in una Banca centrale globale
sta proprio in questa logica. I finanziamenti concessi dal Fondo monetario sono stati decisivi, poiché hanno evitato che le criticità dei singoli Paesi
lungo la fascia di crisi che va dal Baltico al Mediterraneo avessero pericolosi effetti a cascata. La
trasformazione del Fondo monetario internazionale in una Banca centrale globale renderà tuttavia necessarie alcune considerazioni in termini
politici: anzitutto, cosa comporta in termini di “No
taxation without representation” questo trasferimento delle scelte ai livelli superiori e non parlamentari; ma anche che cosa vuol dire democrazia in un contesto con queste caratteristiche.
Tornando all’Europa, ha ragione Enrico Letta
12 quando dice che nell’attuale fase storica stiamo
assistendo ad un declino relativo della Commissione e a un rafforzamento del ruolo dei governi,
che quindi il pendolo della storia è di nuovo passato dal livello comunitario al livello governativo.
Io penso però che la questione principale sia la
presenza dell’Europa nel mondo: il mondo si sta
organizzando in strutture, come il G20, che hanno molti elementi positivi – più positivi che negativi – ma quale posizione ricopre l’Europa in organismi di quel tipo? Non credo che sia interesse
dell’Europa entrare in strutture che hanno l’architettura del Commonwealth, magari più Common
che Wealth. Strutture di quel tipo, generalizzate e
estese in quei termini, ridurrebbero drammaticamente il ruolo dell’Europa se l’Europa continuasse a presentarsi in quelle sedi separata e isolata,
con ciascuno Stato portatore dei suoi particolari
interessi e non portatore di una visione comune
dell’Europa, come invece dovrebbe essere coerente col fatto che potenzialmente siamo l’area
culturalmente, economicamente e politicamente
più forte del mondo.
Infine le Regole. Non si può immaginare che le
regole siano un optional. Le regole, trasmettendo
fiducia, sono essenziali per uscire dalla crisi e per
evitare che la fine di questa crisi sia solo la preparazione di una crisi futura. E quando parlo di regole non mi riferisco solo alle regole del mercato
finanziario introdotte dagli operatori per organizzarsi secondo criteri comuni, ma mi riferisco alle
regole politiche, alle regole giuridiche, nel senso
alto e nobile del termine.
L’11 maggio, come Enrico Letta ben sa facendo
anche lui parte della Commissione che prepara la
Conferenza, si incontreranno a Roma i maggiori
giuristi del mondo per una discussione in merito
alla definizione del Global legal standard. Si tratta
di un tentativo molto utopistico, se volete; ma
meglio pensare in termini di utopia che non illudersi che la prassi sia sufficiente, preparando così
la prossima crisi. Mettere intorno a un tavolo culture politiche e giuridiche diverse di certo non è
semplice: vi saranno evoluzioni, sviluppi, freni,
accelerazioni. E’ il primo tentativo dopo tanti anni,
ma la nostra speranza è di riuscire a definire, almeno in termini generali, una tavola comune.
Dopo aver parlato di Mondo, ora mi soffermerò
sull’Italia.
Attribuendo grande importanza ai numeri, mi
permetto di sottolineare come, nel presente, i
numeri dell’Italia non siano così negativi come,
invece, sono stati presentati in tutti questi anni da
Atti presentazione libro “La crisi mondiale e l’Italia” ‐ Milano, 27 aprile 2009 Giulio Tremonti
una certa affittiva rappresentazione del nostro
Paese. Il nostro Paese ha 60 milioni di abitanti e
un Pil di tutto rispetto, che è pari alla somma di
due grandi player di cui si dice essere il futuro del
mondo. E’ un Pil fatto di produzioni più tradizionali – di abbigliamento, di calzature, di mobilio,
di piastrelle ceramiche e via dicendo – ma è ben
lontano dall‘essere il Pil più piccolo del mondo,
nonostante non possa fare affidamento, ad esempio, sul petrolio.
E’ poi naturale perdere delle quote sulle percentuali del commercio mondiale dato l’ingresso di
nuovi competitor sul mercato mondiale: volendo
fare un esempio figurato, se la torta si allarga per
l’entrata di nuovi competitor, o meglio, se la distanza da percorrere si allunga passando da 100
a 400 metri di percorso è irragionevole pensare
di poter percorrere tutti i 400 metri alla stessa velocità con la quale prima si percorrevano i 100
metri. Questo per dire che non credo sia intelligente individuare nella contrazione delle quote di
commercio mondiale dell’Italia il declino del nostro Paese: la distanza aumenta, la torta diventa
più grande e c’è quindi più spazio per tutti. E’
quindi naturale che le nostre quote di commercio
mondiale si riducano.
Sul piano della crescita, negli ultimi anni alcuni
Paesi ci avevano superato, ma ora è evidente che
ci avevano superato in retromarcia, come bene
ha messo in evidenza il libro di Marco Fortis.
Il libro di Fortis, partendo dall’estate del 2008 e
arrivando grosso modo fino ad oggi, prende l’arco di vita del Governo, che è inferiore all’anno. Io,
oggettivamente, non credo che le cose fatte dal
Governo in questo arco temporale siano tutte
negative; e il dialogo con l’opposizione è sicuramente auspicabile se la discussione è paritetica –
come lo è con Enrico Letta – ma è difficile ragionare con chi, ancor prima di iniziare la discussione, chiede di firmare un capitolato di resa politica
e ideologica incondizionata. Se ci fosse un atteggiamento meno negativo, se la discussione fosse
meno drammatica, più laica, più pacata, sarebbe
di gran lunga positivo per tutti.
Faccio alcuni esempi.
L’opposizione non può chiedere la restituzione
del fiscal drag quando, per la prima volta nella
storia recente di questo Paese, il saggio di inflazione programmata è superiore al saggio di inflazione reale.
E ancora non può chiedere di cancellare la Robin
Hood Tax con la motivazione che i prezzi dei pro-
13 dotti petroliferi sono scesi. Quando la tassa era
stata introdotta si negava l’esistenza della speculazione nell’andamento dei prezzi, sostenendo che
il rialzo era dovuto a un problema di fondamentali. Ma ora, dopo che le quotazioni del petrolio
sono passate da 80 a 140 dollari al barile, con
future a 200 dollari, e sono poi ridiscese a circa 50
dollari al barile, si può ancora sostenere che all’origine del rialzo dei prezzi vi fosse un problema di
fondamentali, e non vi fosse invece dell’altro?
C’era chi sosteneva che a causare l’aumento dei
prezzi fosse stata la tassa sui petrolieri; ma adesso
che i prezzi sono scesi, che ruolo si ritiene abbia
giocato la Robin Hood Tax? Ha contribuito al
rialzo dei prezzi? Ha contribuito alla loro riduzione? O è indipendente da tutto ciò?
Nel nostro programma elettorale si parlava inoltre
chiaramente di “una crisi che arriva e che si aggrava”, e anche nel DPEF vi era la previsione di
una crisi imminente. Ma l’opposizione sostiene
che se davvero avessimo previsto l’arrivo della
crisi non avremmo ridotto l’Ici. A parte il fatto che
la riduzione dell’Ici era un impegno elettorale – e
quindi in quanto tale andava mantenuto, anche
perché nella stabilità politica vi è un fattore economico, e la stabilità politica implica realizzare ciò
che è stato promesso – io l’Ici l’avrei ridotta in
ogni caso. Dovendo infatti abbassare l’imposizione fiscale, credo sia giusto partire da una tassa
come questa, anche se l’opposizione la ritiene
una tassa sulle case dei ricchi. Ma se così fosse,
non capisco perché i nostri predecessori nel disegnare la curva delle imposte avevano previsto la
detrazione per l’Ici su tutte le prime case.
Ma questi sono tutti dettagli. In vista della crisi, noi
abbiamo cercato di fare le cose che ci sembravano giuste, mettendo in sicurezza i conti pubblici
con una Legge Finanziaria triennale. Se non ci
fosse stato questo meccanismo, l’esplosione della
crisi ci avrebbe messo in grosse difficoltà.
E anche grazie a questo intervento ora dall’estero
valutano i conti pubblici italiani in maniera sicuramente più positiva rispetto a qualche tempo fa.
Indubbiamente c’è un deterioramento dei rapporti (debito/Pil, deficit/Pil), ma ciò in dipendenza
della mancata crescita, e quindi dei mancati gettiti, e non in conseguenza di politiche sbagliate.
Da più parti ci chiedono di fare più deficit, ma io
non credo che ciò sia consentito al nostro Paese,
e non credo neppure che la cura di una malattia
causata da un eccesso di debito consista nel fare
ancora più debito. Ci chiedevano inoltre di detassare le tredicesime, ma a me non sembrava la
Atti presentazione libro “La crisi mondiale e l’Italia” ‐ Milano, 27 aprile 2009 Giulio Tremonti
scelta giusta perché il problema non era sostenere i consumi, ma in generale aiutare chi ne aveva
bisogno. E adesso mi sembra che ci sia un certo
consenso in merito al fatto che quella di detassare le tredicesime era una scelta sbagliata.
Io sono stato demonizzato per l’introduzione della Carta Acquisti, perché si diceva essere uno strumento per marcare la povertà (ma allora non
capisco perché la Family Card introdotta dal Comune di Bologna, che è sostanzialmente la stessa
cosa, sia stata accolta favorevolmente dalle stesse
persone che invece criticano la Carta Acquisti
introdotta dal Governo). In realtà noi abbiamo
semplicemente riprodotto un modello straniero di
Carte di credito per il cibo, meccanismo che adesso è purtroppo diffusissimo in America.
Sempre relativamente alla Carta Acquisti, ci hanno accusato di aver sbagliato perché l’abbiamo
prevista per 1.300.000 soggetti, quando invece
l’hanno richiesta solo poco più di mezzo milione
di persone. Ma il problema è che in Italia non
esiste una “banca dati della povertà” e i meccanismi intelligenti costruiti negli anni ’90 per identificare la povertà – noti come ISEE – sono di una
enorme complicazione. Bisognerà, quindi, procedere anzitutto con la creazione di una “banca
dati della povertà”, partendo da un collegamento
tra le banche dati fiscali e le banche dati dell’Inps,
che ad oggi non esiste. Basti pensare a come
spesso i decessi non vengano comunicati con
tempestività all’Inps, al contrario di quanto avviene con il fisco, con la conseguenza che non c’è
mai una corrispondenza tra i numeri di decessi
che risultano all’Inps e il numero di decessi che
risultano al fisco.
In ogni caso, le risorse stanziate per la Carta Acquisti sulla base della stima di 1.300.000 soggetti
in stato di necessità sono ancora disponibili e saranno utilizzate in tale comparto, consapevoli che
l’impatto della crisi è stato molto forte, soprattutto
verso il basso. Tale strumento potrà essere migliorato con la discussione di tutti, con i Comuni, con
il mondo del non-profit e del volontariato, tenendo sempre presente l’importanza di sostenere i
consumi, ma non come valore assoluto.
A mio avviso, infatti, uno degli aspetti positivi di
questa crisi è proprio la scomparsa della figura
politica del Consumatore, quale portatore di valori superiori e sintesi globale del nuovo e moderno
pensiero positivo e, conseguentemente, il riemergere della figura del Cittadino. Io conosco l’uomo
e i valori spirituali; non riconosco invece il Consumatore come entità superiore a cui prestare osse-
14 quio politico e democratico.
Per concludere, noi abbiamo cercato di mettere
in campo politiche adeguate a superare la crisi
che fossero compatibili con la nostra struttura di
conti pubblici, e credo che i risultati raggiunti siano positivi. In caso contrario avremmo avuto tutti
i giornali tapezzati di giudizi negativi sulla nostra
politica, e le misure da noi adottate non sarebbero state relegate alle brevi di cronaca.
Detto questo, il nostro è un Paese con importanti
elementi di forza che stanno venendo fuori proprio con la crisi, non in assoluto, ma in rapporto
agli altri Paesi:
1) l’Italia è un Paese che non ha grandi metropoli
circondate da enormi e destabilizzanti anelli di
periferia, ma ha oltre 8.000 Comuni e numerose
piccole e medie città, ossia strutture sociali molto
più forti e più capaci di assorbire l’impatto della
crisi che non le banlieu o gli anelli di devastanti
periferie;
2) l’Italia è un Paese che ha ancora la famiglia
come struttura sociale portante, diversamente da
altri Paesi in cui il ruolo sociale della famiglia è
molto minore essendo più forte il ruolo sociale
dello Stato.
Per molto tempo i Paesi nordici, con le loro strutture sociali fortemente incentrate sul ruolo dello
Stato, sono stati portati ad esempio di modelli
sociali evoluti; ad oggi, però, sono quasi tutti mezzi falliti. Io tra il ruolo sociale dello Stato e il ruolo
sociale della famiglia preferisco quest’ultimo, anche se questo non significa che debba fare tutto
la famiglia. E, infatti, a supporto della famiglia noi
abbiamo l’Inps, con il sistema dei prepensionamenti che funzionano da ammortizzatori sociali, e le pensioni di invalidità che purtroppo
negli ultimi anni sono cresciute anche in dipendenza di una applicazione asimmetrica del federalismo fiscale. Io non credo, quindi, che il modello sociale italiano sia così negativo come ce lo
rappresentano. E credo che la riforma delle pensioni cui si è giunti attraverso le ultime legislature
sia una buona riforma, che ha funzionato e sta
funzionando. Riguardo agli armonizzatori sociali
si possono introdurre delle varianti. Nell’emergenza abbiamo aggiunto al meccanismo esistente
quante più risorse potevamo, e credo che l’aggiunta di 9 miliardi in 6 mesi non sia esattamente
un intervento marginale.
C’è chi sostiene che la crisi sia il momento migliore per fare le riforme. A costoro io rispondo riprendendo le parole del Fondo Monetario Inter-
Atti presentazione libro “La crisi mondiale e l’Italia” ‐ Milano, 27 aprile 2009 Giulio Tremonti
nazionale: “le crisi non sono il momento per fare
le riforme perché causano incertezza e paura in
un momento in cui invece è fondamentale il fattore della certezza, il fattore della fiducia”. A meno
che non siano assolutamente rinviabili per la
drammaticità della situazione, come nel caso del
sistema bancario in cui si è dovuto intervenire
con radicalità.
3) L’altro punto di forza del nostro Paese è la sua
struttura produttiva. Da noi la grande industria ha
una dimensione particolare, che è quella dei distretti; i distretti, in altre parole, sono una forma di
espressione della grande industria italiana. Complessivamente sono un centinaio, ed io, onestamente, non so se farei cambio con i 50 campioni
nazionali francesi. L’ideale sarebbe forse avere un
po’ degli uni e un po’ degli altri. Detto ciò, sui
distretti occorre però lavorare molto, per rafforzarne la specificità, ferme le individualità che li animano.
Nel nostro Paese vi è una quantità enorme di
soggetti che lavorano nell’economia privata. In
Italia le Partite Iva attive nel settore dell’industria
sono 8.800.000, che è un numero straordinario.
Naturalmente, in questo numero sono comprese
anche Partite Iva “fittizie” aperte per poter trovare
lavoro, e che quindi in quanto tali non sottintendono una autonomia nell’impresa. Ma in ogni
caso esse sono un dato indicativo della forza e
della vitalità del nostro Paese, senza con ciò negare i molti problemi che lo affliggono. In particolare, da gennaio a fine aprile il saldo tra aperture e
chiusure delle Partite Iva è stato pari a +177.000.
E’ un dato positivo o negativo? Sicuramente è un
dato di vitalità. E nella vitalità ci sono fattori di crisi,
fattori di espansione, fattori di riduzione.
Per concludere, io credo che sia stata sbagliata la
scelta politica dell’opposizione di puntare sulla
crisi di sistema; non mi riferisco a Enrico Letta, ma
a una grande parte dell’area politica avversa alla
nostra che per molto tempo ha puntato alla rot-
15 tura di sistema, alla drammatizzazione; che ha
guardato alla crisi come fattore catartico, ipotizzando che la crisi potesse prendere una intensità
così forte da far cadere il Governo; commettendo,
a mio avviso, un errore tecnico di valutazione e di
analisi, trascurando i punti di forza del nostro Paese sopra menzionati.
L’Italia è dunque un Paese che ha delle chances
per uscire dalla crisi. La retorica recita che se non
si fanno le riforme si esce dalla crisi peggio degli
altri; sempre in modo retorico, fino a poco tempo
fa si è sostenuto che i Paesi che crescevano di più
nel panorama internazionale erano quelli che
avevano introdotto importanti riforme. Oggi invece si è visto che i Paesi che crescevano maggiormente in termini di Pil erano quelli che facevano
più debito, debito privato e non pubblico. Anche
l’Italia è cresciuta molto negli anni di esplosione
del suo debito pubblico, ma quando nel 1992-93
ha iniziato la sua politica di contenimento del
debito hanno iniziato a crescere gli altri Paesi,
grazie all’incremento del debito privato.
L’Italia, a differenza degli Stati Uniti e degli altri
principali Paesi europei, negli ultimi anni non ha
basato la sua felicità sulle carte di credito, bensì
sul risparmio e su tante altre cose, gestendo l’onere enorme di un debito pubblico pregresso di cui
tutti abbiamo la responsabilità collettiva.
Anche per questo io non credo che, una volta
superata la crisi, l’Italia si troverà così spiazzata
come ci hanno raccontato in tutti questi anni.
Mettiamola così: essendosi dimostrate sbagliate
tutte le previsioni passate, probabilmente sono
sbagliate anche le analisi e le previsioni future.
Quindi io proporrei all’opposizione di chiudere
questa partita abbandonando la visione catastrofica che contraddistingue parte di essa, accogliendo la disponibilità a una discussione pacata come
è venuta da Enrico Letta.
Grazie.
Atti presentazione libro “La crisi mondiale e l’Italia” ‐ Milano, 27 aprile 2009 Alberto Quadrio Curzio
Ringrazio molto Enrico Letta per le sue lucide
valutazioni sulla situazione italiana passata e prospettica e il ministro Tremonti per questa sua riflessione così completa e articolata.
Gli interessanti contenuti degli interventi mi inducono, prima di passare la parola all’autore del
volume, a una ipotesi, a una proposta che faccio
al Dottor Quadrino: sarebbe molto interessante
riportare in un saggio le relazioni, le riflessioni
odierne che credo sarebbero molto utilmente
veicolate alla pubblica opinione più ampia del
nostro Paese. Vedremo se i due relatori consentiranno ad accettare tali ipotesi.
La parola spetta ora a Marco Fortis, autore del
volume.
Marco Fortis
Grazie Alberto.
Io sono veramente grato ai due
ospiti, Enrico Letta e Giulio Tremonti, per aver onorato la presentazione di questo mio volume con la loro presenza e con le loro analisi. Il mio intervento sarà
breve. Perché il libro nel quale ho approfondito il
tema della crisi economica e in cui troverete analisi e statistiche più dettagliate vi è stato distribuito
all’ingresso, ma soprattutto perché questa giornata è stata organizzata principalmente per ascoltare il punto di vista dei due autorevoli ospiti. Mi
limiterò, dato che sono già stati ampiamente toccati da entrambi molti dei temi affrontati nel volume, ad evidenziare in estrema sintesi quelle che
sono le mie convinzioni circa le capacità di resistenza del sistema socio-economico italiano in
questa crisi, che già cominciano a manifestarsi da
alcuni indicatori che, sia pure in forma embrionale, stanno mostrando qualche segnale di ripresa.
A febbraio, per esempio, gli indici degli ordinativi
dell’industria manifatturiera dell’Eurostat mostrano rispetto a gennaio un rimbalzo significativo in
due soli Paesi europei, l’Italia e la Francia. Gli indicatori anticipatori dell’OCSE a gennaio e febbraio
segnalano un inizio di ripresa per l’Italia. Questa
mattina anche gli indicatori dell’ISAE sulla fiducia
dei consumatori in aprile mostrano un rimbalzo.
Questo non significa che l’Italia sia già avviata ad
uscire dalla crisi, così come del resto gli altri Paesi
europei, Francia e Germania in testa, che meglio
di noi stanno mostrando i primi segnali di ripresa
di fiducia degli operatori, perché la crisi sarà sicuramente molto lunga da superare. Probabilmente
abbiamo toccato il fondo della riduzione delle
scorte dei magazzini che ha così pesantemente
16 influito sul ciclo della produzione industriale e del
commercio mondiale; però la convalescenza dopo questa crisi così grave sarà certamente lunga.
L’Italia però affronta questa sfida con una serie di
elementi di forza, che in parte sono già stati ricordati: tra questi, soprattutto, una grande capacità
di risparmio ma anche un basso indebitamento
delle famiglie, e una scarsa esposizione del nostro
sistema bancario ai punti di maggiore tensione
della crisi finanziaria internazionale; abbiamo visto
per esempio che, secondo i dati della Banca dei
Regolamenti Internazionali, i crediti complessivi
vantati dal sistema bancario italiano sugli Stati
Uniti e sull’Inghilterra rappresentano a stento il 34% del nostro Prodotto interno lordo, mentre in
altri Paesi si arriva a cifre introno al 40, 50 e addirittura 60%. E poi le nostre banche, lo ricordo,
hanno certamente una vocazione retail, una vocazione alle attività tradizionali a supporto di famiglie e imprese molto maggiore rispetto alle banche degli altri Paesi avanzati. E questo ha contribuito a tenerle in qualche modo lontane dalle
nuove frontiere dell’innovazione finanziaria che
sono state, in gran parte, strumentali alla proliferazione dei cosiddetti “collaterali” legati ai mutui per
l’acquisto della casa in America e in altri Paesi, e
che poi sono stati un elemento scatenante della
crisi.
Ma tra i punti di forza dell’Italia vorrei ricordare il
sistema degli ammortizzatori sociali; le imprese,
infatti, che in questo momento stanno soffrendo
per cali negli ordini del 30-40% rispetto all’anno
precedente (ma questo sta accadendo un po’
ovunque; si pensi, ad esempio, che in Germania i
dati sugli ordinativi esteri dell’industria manifatturiera di febbraio indicano addirittura un calo del
-42%) trovano negli ammortizzatori sociali una
Atti presentazione libro “La crisi mondiale e l’Italia” ‐ Milano, 27 aprile 2009 Marco Fortis
importante forma di supporto. A differenza di altri
Paesi che stanno eliminando forze di lavoro con
una velocità straordinaria – alcuni grandi gruppi
mondiali del sistema sia industriale che finanziario,
come noto, hanno operato tagli occupazionali di
10, 20, e anche 30mila posti di lavoro – nel nostro Paese questo non si è verificato: secondo
l’Istat nel periodo marzo-dicembre 2008 il numero dei disoccupati in Italia è aumentato come in
Irlanda, Paese con solo 4 milioni di abitanti, cioè
sono stati persi poco più di 75.000 posti di lavoro.
Certo, il rischio è che adesso l’onda lunga della
crisi possa premere sull’occupazione italiana, però
gli ammortizzatori sociali stanno dando un grosso
contributo in tal senso. E bisogna anche sottolineare come fino ad ora non ne sia stato fatto un
uso smodato. In particolare, le ultime statistiche
dell’Inps relative al periodo gennaio-marzo di
quest’anno dimostrano che a fare uso della cassa
integrazione ordinaria sono soprattutto le province di grande impresa, ossia quelle più sottoposte
allo stress della crisi, come le imprese metallurgiche e le imprese dell’auto. La provincia di Torino,
per esempio, ha avuto un numero di ore di cassa
integrazione autorizzate pari a quelle dell’intero
Nord-Est, pari quindi a quattro regioni. Ciò significa che nelle regioni di piccola e media impresa, e
dove ci sono i distretti industriali, le imprese stanno sforzandosi al massimo per continuare a lavorare e per non ricorrere a questi strumenti, almeno finché ciò sarà loro possibile.
Credo, inoltre, che il sistema manifatturiero italiano sia entrato in questa crisi in un momento di
forza straordinaria. Prima che iniziasse la crisi, infatti, il nostro Paese era arrivato a toccare il suo
record storico quanto a surplus manifatturiero
con l’estero, a dimostrazione quindi che non siamo entrati deboli nella crisi; al contrario, vi siamo
entrati forse con la maggior forza che abbiamo
mai avuto nel secondo dopoguerra, pur scontando il declino o per lo meno le difficoltà che hanno incontrato alcuni settori tradizionali come il
tessile-abbigliamento e le calzature in seguito
17 all’avvento della concorrenza asiatica.
E’ quindi molto importante, come sottolineato
anche dai nostri ospiti, che il nostro sistema produttivo possa rimanere intatto, utilizzando tutti gli
strumenti possibili che anche il sistema di ammortizzatori mette a disposizione, e ciò anche in considerazione del fatto che, pur essendo in regresso
gli ordinativi e le produzioni industriali, le nostre
quote di mercato in alcuni casi stanno paradossalmente aumentando, perché molti dei nostri
competitor stanno sperimentando crisi molto più
forti delle nostre.
Dobbiamo quindi avere fiducia che, una volta
superata, questa crisi potrà riproporre il modello
di sviluppo italiano come un modello vincente,
dove siamo forti, lo ricordo, non solo nell’industria
ma anche nel turismo, che pure necessita di essere ristrutturato per esprimere tutte le sue potenzialità.
Il turismo è per noi una risorsa fondamentale. Io
ricordo sempre che la provincia di Venezia da
sola ha più pernottamenti di turisti stranieri dell’intera Irlanda, e che la provincia di Roma ne ha più
di tutto il Belgio: abbiamo cioè delle grandi realtà
del turismo mondiale, così come le abbiamo nell’agricoltura e nei prodotti tipici.
Credo quindi che non sia soltanto un ottimismo
generico quello che ho cercato di descrivere ed
illustrare in questo mio volume, quanto piuttosto
una fiducia nel nostro modello di sviluppo industriale che io ho conosciuto non soltanto attraverso le analisi e le statistiche, ma anche, in questi
anni, con il contatto diretto con molti di voi. Oggi
sono qui in sala i Presidenti e i Direttori di molte
Associazioni con cui abbiamo tanto lavorato in
questi anni con la Fondazione Edison. Vorrei ringraziare anche loro per il contributo di notizie,
informazioni ed esperienze che mi hanno dato e
che hanno consentito la pubblicazione di questo
lavoro.
Vi ringrazio.
Atti presentazione libro “La crisi mondiale e l’Italia” ‐ Milano, 27 aprile 2009 Alberto Quadrio Curzio
Chiudendo questa nostra mattinata così intensa
ed estremamente interessante non voglio certo
fare una sintesi. Vorrei usare il metodo tremontiano con la chiosa su alcuni termini e concetti.
Innanzitutto credo che stamane sia di nuovo stato ricordato soprattutto agli economisti, categoria
alla quale io appartengo, come nei grandi cambiamenti non conta tanto l’aritmetica o la matematica, ma conta la storia, e bisogna tenere presenti quelli che taluno denomina “megatrend”. La
matematica e l’aritmetica contano nella microeconomia, ma nella macroeconomia conta molto di
più la storia. Sotto questo profilo trovo molto interessante quanto ci ha detto stamane il ministro,
tra cui anche la convocazione a Roma di una
riunione dei grandi giuristi mondiali per dare corso a una ipotesi sul global legal standard; che ha
avuto una Commissione Istruttoria Italiana della
quale fa parte, e mi fa molto piacere avere sentito adesso dal ministro, anche Enrico Letta. Le
persone intelligenti e competenti, quali sono i
nostri due relatori di stamane, non sono arroccate nella loro appartenenza partitica.
Una seconda breve osservazione riguarda l’Europa: non trovo grandi differenze tra quello che ha
detto Enrico Letta e quello che ha detto Giulio
Tremonti. Credo che tutto sommato il ritorno al
metodo intergovernativo sia dovuto a tante contingenze, ma non credo che la colpa sia imputabile all’Italia che ha fatto ben due proposte per
rafforzare il contesto comunitario. A mio avviso è
molto importante, tuttavia, riflettere a fondo sulle
cooperazioni rafforzate senza le quali ho l’impressione che anche il metodo comunitario non po-
trà funzionare; così come ho l’impressione che
vada ripresa la tematica del patto di stabilità, fortunatamente flessibilizzato dopo un contenzioso nel
2003, e che tuttavia io credo vada rivisto per scorporare dal lato spese del deficit quelle per investimenti infrastrutturali. In ogni caso l’Europa rimane
per tutti noi una grande realtà e l’Italia è stato un
Paese federatore che certamente continuerà a
svolgere un ruolo importante, ammesso che l’Europa stessa lo voglia.
Sull’Italia credo che tutti quanti abbiamo apprezzato molto quanto è stato detto. E noi, per riassumere un po’ quello che mi pare sia anche il sentimento della Fondazione Edison crediamo molto
a quella formula ideale, che io ho spesso indicato,
del liberalismo sociale o liberalismo comunitario,
in cui solidarietà, sussidiarietà e sviluppo si coniugano in modo tale da valorizzare le peculiarità del
nostro Paese tra cui una straordinaria capacità di
innovazione informale che le statistiche non rilevano. Ma per questa capacità innovativa, che
nasce dal tessuto storico-comunitario dell’Italia,
necessita per andare oltre di istituzioni migliori e
di una formazione del capitale umano meno accidentale.
Grazie ancora ai due relatori. Spero la mia ipotesi,
che è proposta per il dottor Quadrino e ipotesi
per i due relatori, di predisporre un saggio che
dia conto della giornata odierna possa avere seguito.
Grazie davvero.
Umberto Quadrino a te la parola.
Umberto Quadrino
Grazie Alberto.
Nel salutare e ringraziare i relatori mi domando se
nella sala ci sia un po’ più di ottimismo rispetto a
quando siete entrati. L’ottimismo forse non nasce
da nessun fatto nuovo che è stato detto oggi,
però ha una ragion d’essere perché la straordinaria analisi, questo grande affresco che ha fatto
Giulio Tremonti rileva uno sforzo per cercare di
capire qual è la realtà, cercare di interpretarla,
18 non solo nel contingente, ma in una prospettiva
storica. Insomma, avere una persona che ci governa che ha questa passione e questa capacità
di analisi mi rassicura e mi da un po’ di ottimismo.
Così come ho colto come una nota di grande
ottimismo la disponibilità di Enrico Letta a collaborare con il Governo in un momento così difficile.
Con questo ringrazio tutti e due i relatori e vi saluto, anche a nome della Fondazione Edison.
Atti presentazione libro “La crisi mondiale e l’Italia” ‐ Milano, 27 aprile 2009