“Complesso di mediocrità: quando solo il secondo posto è
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“Complesso di mediocrità: quando solo il secondo posto è
“Complesso di mediocrità: quando solo il secondo posto è accettabile” (Richard Garfield) Giuseppe Marzotto, di fu Marco e fu Carmelina, trentaquattro anni, di professione apparente meccanico ma in realtà spacciatore, truffatore e traffichino, è sempre stato il secondo in tutto. Secondo figlio di una tripletta d’origine siciliana, nell’ordine maschio-maschio-femmina, era a sua insaputa il prototipo vivente di quella che viene chiamata la ‘sindrome del secondogenito’: poco amato dai genitori ed in particolare dalla madre rispetto al proprio fratello maggiore ed alla sorellina, costantemente alla ricerca di attenzioni, incline a mettersi nei casini pur di farsi vedere, eppure totalmente incapace di attirare le suddette attenzioni, rispondeva a tutti i criteri della citata sindrome. Non che le sue marachelle bambinesche non venissero punto notate: Giuseppe ricordava con amara vividezza le cinghiate che il padre gentilmente elargiva ad ogni misfatto scoperto, o meglio fatalmente disvelato dal Nostro stesso, e le lacrime miste a lamentele strozzate della mamma che lo guarda e piange e chiede ad alta voce: - Ma che ho fatto di male per avere un figlio così? Gesù perché mi punisci così? Di male la brava donna non aveva fatto niente; ma di buono verso il proprio figlio nemmeno, e proprio in questo stava forse la sua colpa. Solo che a capire questo Giuseppe non ci arrivò mai. O meglio: ci arrivò per secondo, a diciassette anni, solo dopo che lo psicologo che si occupava del suo caso nel carcere minorile di Palermo si provò a spiegarglielo con esempi tratti dalla vita del Marzotto stesso e dalle indagini precedentemente compiute sull’ambiente familiare, non senza una certa mancanza di tatto e di etica. La cosa, fortunatamente o no, cadde presto nel dimenticatoio. Giocattoli di seconda scelta per lui, e vestiti. Secondo in linea generazionale, si beccava puntualmente i vestiti dismessi dal fratello, troppo piccoli per il maggiore, troppo grandi per Giuseppe, che andava in giro vestito come un sacco ambulante, gonfio in felpe e pantaloni enormi, in attesa di essere il secondo a crescerci dentro. Quando li avvicinava al naso poteva sentire l’odore acido del fratello che li aveva impregnati di sudore e sporco. Gelosia per lui, abiti nuovi e comodi per il più vecchio nella fratria, bambole e cucine di plastica per la sorellina. E secondo, in verità, lo era stato spesso anche nelle sue giovani monellerie e nelle motivazioni che ad esse, in parte inconsapevole, lo spingevano: appena nata la sorella più piccola, il Nostro, di soli quattro anni, aveva iniziato a provare una gelosia sorda, che gli batteva sulle tempie come fosse un martello al ritmo del suo cuore, e che giorno dopo giorno dal ritorno di mamma e sorellina dall’ospedale dopo il parto, lo spingeva a fantasticare brutalità e vendette contro l’infante che rubava tutti gli sguardi e le carezze e le cure di cui i genitori, non molto inclini ad una sana distribuzione dell’amore tra la propria progenie, erano capaci. Fu con suo sommo sbigottimento che, un pomeriggio in cui i martelli battevano con troppa forza, essendosi recato di nascosto nella camera semibuia in cui la culla della piccola giaceva con lo scopo di fare qualcosa per ristabilire la giustizia, trovò la bimba tranquillamente addormentata ma visibilmente scarabocchiata con peni e parole oscene il cui significato sfuggiva del tutto al povero Giuseppe, marchiate a pennarello indelebile e dall’odore estremamente forte. E fu con ancora maggior terrore che guardò prima alla cucciola e poi alla porta che, implacabilmente s’aprì quando, nell’atto di scappare via da lì e correre ad avvisare mamma e papà, Giuseppe fece cadere con notevole rumore di vetri infranti e comodini tirati via una lampada antica, regalo della nonna, e la neonata ebbe a questa sollecitazione il cattivo gusto di svegliarsi ed urlare a pieni polmoni, attirando immediatamente l’attenzione del padre a sua volta dormiente il riposino pomeridiano del giusto, assiso sulla poltrona nel salottino di casa, giornale sul volto e russatina leggera, e della mamma intenta a rigovernare i piatti dopo un pranzo modesto ma non miserevole, nutriente ma non particolarmente gustoso. Inutile dire quale fu la reazione dei due genitori apprensivi, ognuna assolutamente in linea con i loro precedenti standard comportamentali: cinghiate paterne silenziose e implacabili, lacrime amare materne con condimento di invocazioni a Dio, Gesù e i santi tutti, entrambe in doppia razione: la prima per l’atto ignobile per quanto artistico, la seconda per la menzogna perpetrata allo scopo di incolpare il fratello maggiore, ovviamente innocente, santo e benedetto, non come questa carognetta infida e cattiva, senza amore o rispetto o timore di Dio e dello ius patri, per quanto largamente elargito. Nemmeno nei suoi sentimenti e nelle azioni che essi dettavano il nostro eroe pareva dunque essere il primo. Fedele abbonato al secondo banco, osservato, disprezzato e frustrato da professori e maestri che lì lo ponevano per tenerlo sempre sott’occhio, in classe Giuseppe riusciva dove altrove matematicamente falliva, o viceversa, a seconda dei punti di vista: infatti, invece che secondo era sempre l’ultimo, tanto per voti quanto per disciplina, un successo decisamente insperato che si protrasse a lungo, per tutta la sua non molto estesa carriera scolastica, ovvero fino ai quindici anni, età di scadenza dell’obbligo scolastico, compiuti i quali, il secondo di Febbraio del 19**, il babbo gli comunicò che così terminava la suddetta ingloriosa carriera, ed iniziava quella adulta e responsabile del buscarsi il pane col sudore della fronte ogni santo giorno che il Signoruzzo manda in terra. Prima tappa lavorativa, grazie ai potenti mezzi del padre, la pizzeria Portobello, locata in via del Pigneto, in Roma, vicino casa, con mansione pizzaiolo in seconda, addestramento non retribuito e sfruttamento assicurato. Durata totale dell’impego: dodici giorni, tre ore e due minuti, a causa della pessima e rancorosa abitudine di Giuseppe di sputare nell’impasto e sulla pizza pre-infornata, precisamente sempre sulla seconda di ogni comanda giunta alla sua attenzione, vuoi per motivi inconsci, vuoi perché la pizza, a casa Marzotto era molto più che una rarità e scatenava invidia rabbiosa. Risultato: calcio in culo padronale, cinghiate paterne, e via con la seconda tappa, tanto importante quanto dannosa ai fini della formazione del Nostro. A braccia non proprio aperte lo accolse l’officina del meccanico Gigino Recanati, detto ‘er Botticella’, di anni 54, intimo amico del padre di Giuseppe, lavoratore indefesso e consumatore di provata esperienza di alcool sotto varie e disparate forme, dal grappino alla birretta , dal rosso forte al bianco congelato, senza disprezzare lo sporadico sorso di vodka calda e liscia da una fiaschetta accuratamente depositata nella tasca destra sul culo della sua tuta blu scuro. Sempre presenti nell’officina di Gigino erano: un frigo bar pieno del carburante etilico a cui andava la macchina-Gigino, accostato nell’angolo in fondo a destra del piccolo soppalco che fungeva da inutilizzato officio, meglio ribattezzato come ‘lo scoreggiatoio’ - vista l’abitudine del principale di sedere lì sovente e dare liberatorio sfogo al proprio annoso problema di flatulenza - dall’ingegno poetico del secondo elemento sempre presente nel luogo di lavoro posto in via Val d’Ossola, ovvero l’apprendista-meccanico Mario Campano, detto ‘er Rotella’ a causa della tendenza apparentemente innata a compiere azioni di incredibile violenza e/o stupidità, cosa che portava i suoi cari ed i suoi pochi amici a dubitare fortemente della sua sanità mentale. Ai tempi dell’arrivo di Giuseppe nel mondo dei motori era altresì presente come apprendista un altro ragazzo, il cui nome non è però pervenuto, presenza che poneva il Marzotto sul terzo gradino nella gerarchia sul posto di lavoro. Tale evento nefasto ai fine del carattere del Nostro venne prontamente evitato grazie all’intervento del fato, che pose presto fine alla fine vita del giovane innominato sotto forma di incidente sulla motocicletta da lui personalmente elaborata nel tempo libero grazie al suo notevole talento per i motori, la sua vera passione. La scalata di Giuseppe in graduatoria fu dunque rapida, per quanto non del tutto indolore o priva di riscontri macabri. Nell’officina da meccanico Giuseppe apprese fondamentalmente due cose, sotto la guida separata eppure sinergica dei due diversi maestri, Gigino e Mario: il gusto per gli alcolici dal primo, il vizio del rubare dal secondo. Dell’arte meccanica non imparò mai granché se non i rudimenti, e mai raggiunse i livelli di genio ed inventiva del suo deceduto e compianto predecessore. I due insegnamenti si incontravano nei furti dalla dispensa etilica del padrone compiuti dai due apprendisti dopo che il Botticella, intorno alle sette del pomeriggio, ubriaco e barcollante, lasciava lo scorreggiatoio e l’officina per dirigersi al baretto lì vicino, luogo di ritrovo di amici e fannulloni vari. Traviato dal Rotella i due ‘carusi’, come li avrebbe chiamati usando il proprio dialetto il padre di Giuseppe, saccheggiavano la scorta di birra e vino bianco del frigorifero, prima di tirar giù la saracinesca e recarsi a far balordi ante e post cena. Il metodo inventato da Mario, che diventava stranamente intelligente quando si trattava di non farsi beccare nei misfatti, consisteva nel non mescere per intero alcune bottiglie di bianco - che il proprietario comprava sfuso e poneva poi in contenitori di vetro col tappo svitabile ed avvitabile, non col classico turacciolo in sughero ma solo per metà, per quindi riempirle d’acqua a ristabilire così la loro apparente pienezza; il vero genio stava però nel porre le suddette bottiglie solo nel fondo della pila che s’ammucchiava nel frigo, in modo che venissero aperte solo quando, stonato e rincoglionito dalle precedenti, Gigino era già totalmente ubriaco e dunque incapace di sentire la differenza tra il vino buono e quello annacquato. Questa furberia valse loro numerose sbornie, fino al giorno in cui, per la prima volta, fu Giuseppe ad occuparsi delle operazioni di travaso e ri-riempimento; il minchione, nel ricreare la piramide di vetro, si dimenticò di mettere il maltolto alla base-di-sbronza-sicura-senza-sgamo, e lo pose invece sulla sommità. Fu al primo sorso che er Botticella avvertì la differenza e subodorò l’imbroglio. L’ira fu breve, potente e funesta, il cazziatone chilometrico ma in fondo solo bonario, in quanto il datore di lavoro si limitò ad esso, e non passò mai alla minacciata azione di informare il Marzotto Senior ed anzi si contraddisse apertamente riguardo i rischi del bere in giovane età e invitò i due a bersi con lui il bicchierino post-lavoro nel baretto succitato. Bicchierino che si trasformò presto in una virile gara di bevute il cui destino, sia detto, era certo: Gigino, forte d’esperienza vinse e se ne andò a casa intorno alle 9.30, caracollando ma non troppo; Giuseppe arrivò secondo ed ebbe poi tempo di pentirsene amaramente, quando alle 10.30 stava ancora vomitando il vomitabile in un angolo di via val d’Ossola; Mario giunse a malapena al terzo posto per abbandono prematuro. I due si ressero dunque vicendevolmente, anche se solo metaforicamente, la testa nel corso dell’espulsione forzata ed esplosiva del liquore. La qual cosa, mista al tempo passato insieme ed alle condivise passioni per sballi e furtarelli facili, provvide velocemente a cementificare un’amicizia che durò per molto tempo, precisamente fino alla fine dei loro giorni. E cementificò altresì anche il vizietto della bottiglia e la frequentazione del baretto, dei suoi avventori e del suo proprietario, e dei veloci e retribuitivi affari che si potevano lì svolgere sotto ordinazione: un motorino espropriato e rivenduto per i suoi pezzi al vecchio Botticella, un appartamentino in viale Libia da svuotare mentre i proprietari si godono la vita in qualche località di mare, un trasporto veloce di roba e soldi da un punto all’altro della mastodontica città, un pestaggio senza rimorsi ai danni di qualche cinese sfrontato vicino alla stazione Termini. Per ogni gusto, per ogni tasca, di ogni genere. I due, col tempo, impararono a non disprezzare un trasferimento sicuro di soldi dalle mani dei loro datori di lavoro alle loro, affamate, bucate, sporadicamente sporche di sangue. Diciassette anni. Diciassette anni dura il connubio e l’alleanza tra i due. Diciassette anni in cui, nel mentre, Botticella crepa, epatite fulminante grazie alla bottiglia, e lascia l’officina a morire assieme a lui, senza eredi diretti pronti a rilevare l’attività da meccanico: un cugino dell’alcolizzato si becca tutto, svende per rifarsi delle spese di successione e sbatte fuori senza troppi complimenti i Giuseppe e Mario che, da un giorno all’altro si ritrovano ufficialmente disoccupati, ma in realtà solo con molto più tempo libero a disposizione per quelli che, intanto, erano diventati i loro principali introiti: droga, furti e piccoli imbrogli. E di tanto in tanto qualcosa di più grosso, sottovoce commissionato da uno specifico Avventore abituale del baretto in cui, tanto per non cambiare abitudini e farsi un nome ed un luogo in cui esser reperibili, i due continuavano ad andare con cronometrica attenzione. Diciassette anni che, inoltre, si portarono via i genitori di Giuseppe. Contemporaneamente, per la cronaca: terribile incidente d’auto sulla via del ritorno verso il paesino di origine del padre, lungo l’Autostrada del Sole, luogo in cui, finalmente, andavano a coronare il loro piccolo, proletario, sogno di tornare, tirare su un orto e vivere e morire la loro vecchiaia in santa pace, il Signoruzzo concedendo. Il Signoruzzo, apparentemente, aveva altri progetti. Unici morti, sempre ringraziando la Madonna, come avrebbe fatto la mamma di Giuseppe. Un colpo di sonno leggero e via, verso più alti, celesti, lidi. Ma cosa fare della casa a Roma, comprata dopo quarant’anni di sofferenze e risparmi dai due assidui lavoratori col dolore della schiena ed il sudore non solo della fronte? E cosa fare della cascina del nonno già sepolto in Sicilia, quella verso cui si dirigevano i due vecchi? Per diritto legale la roba era di tutti e tre i figli, in uguali proporzioni, ma sul come dividerla effettivamente era tutt’altra questione. Risolse tutto con rapido colpo di mano il maggiore tra i fratelli: la casa in Sicilia ad Annina, la minore, la casa a Roma a Giuseppe, il nullatenente, per grazia del saggio e buono fratellone, divenuto intanto, splendido esempio di scalata sociale generazionale, dottore in medicina e rinomato cardiologo, e trasferitosi dunque in Germania, luogo dal quale, manco se lo avessero pagato aveva intenzione di fare ritorno, ed ottimo motivo per sradicare in un colpo solo tutti i motivi possibili ed immaginabili per dover tornare in Italia: la roba fatiscente ed un fratello nullatenente, a cui dare un tetto vita natural durante e dire poi ‘Arrivederci’ senza intenderlo però davvero. E generoso pure, il fratello: offrì prima la casa romana alla sorella e poi, dopo il di lei rifiuto di muoversi dalla Parma in cui aveva trovato rifugio e famiglia e la di lei richiesta della cascina sicula come casa in campagna per le vacanze, come secondo la offrì a Giuseppe. Il quale, sentitamente, ringraziò, non sembrandogli vero di potersi liberare dell’affitto a cui, con suo sommo dispiacere, dedicava buona parte dei suoi disonesti introiti mensili. Ed erano già quattro anni che ci viveva, in quella casa in zona largo Preneste, quando all’improvviso, una sera passata col culo poggiato sul divano della mamma, i piedi sporchi a poggiare sul bianco del cuscino destro alla faccia delle regole di quando era un ragazzino, una birra in mano a scongelare, una canna nell’altra ed un fetore sottile nell’aria attorno, a Mario er Rotella, ospite fisso di quel cesso che era divenuta la casa, lo folgorò l’idea che avrebbe cambiato la loro vita: minchia che colpaccio! Minchia che genialata! Facile facile, come bere un bicchier d’acqua! Passarono la nottata ad immaginare un piano. O meglio, fu Mario a mettere su la maggior parte del pensiero, per quanto notevole sforzo ciò gli richiedesse data l’inclinazione non troppo intellettuale del suo cervello e la naturale propensione per Giuseppe ad essere sempre solo un secondo nel prendere le decisioni dei due, più un registratore vocale a cui parlare e di cui attendere l’ovvia conferma che un interlocutore, un gregario naturale sottomesso ad un boss-capobranco, com’era sempre stato nella loro ed in altre amicizie: l’uno proponeva, pianificava, pontificava, l’altro, pur d’essere parte in qualcosa, si emozionava, calava la testa, asseriva un totale accordo, s’asserviva alle idee idiote e spesso inconcludenti del lupo più grosso. Tranne quando i piani erano esposti ad un gruppo più grande del loro duo dalle semplici dinamiche, situazione nella quale il nostro calava la testa solo per secondo, dandosi così per poco, ma inutilmente, la possibilità di sfuggire dal pericolo dell’immediata concordanza, o del futuro arresto. E sia detto e poi messo per iscritto, davanti a testimoni giuranti vari: fu solo un caso che l’arresto, in quei diciassette anni, arrivò solo una volta e per giunta ai tempi della minore età, causando quindi solo un metaforico buffetto punitivo sulle mani, un paio di mesi di “riformatorio” (leggasi carcere minorile) ed un arrivederci da parte dei secondini che sapeva di profezia. E fu solo fortuna che gli sbirri siano stati dei così pessimi indovini. Bisogna però aggiungere in questa sede che, il buon Giuseppe non lo sapeva, ma un occhio, ogni tanto, la buona Madama su di lui ce lo buttava, e giudicato poi il pesce troppo piccolo, di second’ordine, lo lasciava nel laghetto tranquillo a nuotare, ritenuto inoffensivo e usabile meglio al momento giusto, per l’arresto giusto di qualche pesce più grosso e cattivo. Unico problema riguardo al colpaccio immaginato dal Rotella sarebbe stato solo quello di convincere l’Avventore del bar, quel dannato trafficone, a cogliere al volo e senza troppi rimorsi un colpo che, tanto sembrava facile, poteva sicuramente profumargli di truffa ed insicuro risultato. E non avrebbe avuto tutti i torti a non avere una piena fiducia nei due, viste tutte le volte in cui lo avevano deluso, e viste tutte le volte in cui aveva dovuto mandare qualcuno di più grosso di loro a insegnargli la prima volta, ed a ricordagli le successive, chi era lui, chi erano loro, perché lui era quel che era, e perché loro erano invece delle merde, solo delle merde, e che non se lo dimenticassero la prossima volta. E ciononostante i due tornavano costantemente al baretto, col capo basso ed i lividi sulla faccia, a richiedere un lavoretto, a leccare il culo. L’avventore, generoso, ma ancor di più contento di avere la possibilità di far fare a quei due lavori dei rischiosi per praticamente una miseria, dei lavori che altri avrebbero gradito ben pagati, sull’unghia e senza discutere. Due bravi pezzi di cretini da tenere sempre sottomano, dunque, non si sa mai a cosa possano servire. Fu dunque con un certo stupore che l’Avventore, la sera dopo la grande pensata di Mario, si ritrovò ad ascoltare attento la proposta per il colpaccio, e che colpaccio, proveniente da quei minchioni, ed a ritenerla non solo valida, accettabile, ma addirittura profumatamente retribuibile; ovviamente, previo successo, cosa di cui, ancora più ovviamente, non era assolutamente certo visti i soggetti. Ma comunque diede il suo assenso, la sua benedizione, ed i due, sorridenti, convinti d’aver appena dato una svolta definitiva e geniale alla propria vita, partirono all’assalto del loro futuro, con le peggiori intenzioni in mente ed azioni pronte nelle mani. Ed effettivamente una svolta la diedero. E delle peggiori, come ebbe loro modo di far notare un certo Michele Sabatini, meglio noto nel giro come il Buon Samaritano, dall’alto del suo metro e novanta e passa d’altezza, barba rasata e sguardo grigio come il volto, occhi d’un azzurro glaciale, freddo come il bisturi che teneva in mano facendolo ondeggiare tra l’indice ed il medio, con noncuranza, equilibrandolo in modo che la lama stesse orizzontale, perpendicolare alle le sue falangi, a risplendere così d’un raggio di luce preserale ch’entrava dalla finestra del salotto sporco dell’appartamento di Giuseppe Marzotto; il quale, inquieto, terrorizzato, sedeva a terra poggiando la schiena contro la schiena del suo degno compare, Mario Campano, anch’esso in preda a tremendi terrori, visibilmente disperato e sanguinante e probabilmente pisciato sotto, liquido che sgorga da una ferita sul lato destro della testa, la tempia sforacchiata da un cazzotto ben assestato, un lavoro da tirapugni in ferro dovuto alla sua pessima idea di fare un immediata resistenza al fermo impostogli, nonostante la minaccia d’una beretta parabellum a breve distanza dal suo petto. Non è mai stato un genio, quel Rotella, nonostante quel che ne pensi il diretto interessato, ed ora ne paga le conseguenze. Il Samaritano tiene gli occhi terribili sui due e sul sangue che scorre sul volto di Mario, e non dice una parola. Sembra pensare, sembra concentrato come un calciatore che si appresta a scegliere come tirare il rigore definitivo della finale dei mondiali, ma senza angoscia, senza mostrare ansia da prestazione, solo pensando, ponderando, calcolando. Una voce interrompe le sue elucubrazioni: - ‘A Samarita’, che famo? Li stiamo a guarda’ manco fossero un quadro? – chiede Antonio, compagno di tanti lavori ben fatti, provetto guidatore di macchine rubate con una predilezione per le Alfa Bravo GT, rubate in gran quantità e poi bruciate in luoghi sicuri; gli piaceva ad Antonio quel profumo di lamiera ed interni e metallo che brucia e fonde, nella notte, e l’attendere l’esplosione che informa dell’arrivo delle fiamme al serbatoio, da distanza di sicurezza. Un professionista anche lui, a modo suo, ma con più concessioni al proprio personale piacere, al contrario del Samaritano, freddo e calcolatore, senza un oncia di gusto ad intromettersi nel proprio lavoro da spazzino, da elimina merde. Merde come questi due. Merde preganti e supplicanti come si riducono tutti quelli che hanno la sventura di incontrare Michele nello svolgimento delle sue pregiate funzioni professionali. Il Samaritano non risponde subito, ma continua ad osservare, a ponderare, facendo roteare ora il bisturi tra le sue nocche, spedendo così un caleidoscopio di luce riflessa sul volto del povero Giuseppe, e respirando piano dal naso, la bocca chiusa e stretta, il resto del corpo immobile. -Mbè? Quale ce famo prima? Questo sembra bello pronto - continua Antonio, indicando il Nostro con un gesto molle del mento e del volto tutto, un gesto che non lascia dubbi. Il Nostro non resiste e lascia andare un fiotto caldo d’urina sul pavimento in moquette della mamma, incrostato di qualche chiazza di vomito ed ingombro di cicche e spazzatura. Un guizzo sotto il sopracciglio, una leggera contrazione del muscolo sullo zigomo -No. – risponde lo spilungone di ghiaccio – No, questo ce lo facciamo per secondo.