Orzowei - Alberto Manzi - Sito Istituto Comprensivo Albano

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Orzowei - Alberto Manzi - Sito Istituto Comprensivo Albano
ALBERTO MANZI
ORZOWEI
A CURA DI ROMANO MASTROMATTEI
BOMPIANI EDITORE
Copyright © 1961 by Casa editrice Valentino Bompiani & C. S.p.A.
Via Mecenate 87/6 - Milano
I edizione « I Delfini d'acciaio » dicembre 1961
VII edizione « I Delfini d'acciaio » settembre 1968
Una edizione « Fuori collana »
I edizione « Narratori moderni per la scuola » gennaio 1968 XV edizione
« Narratori moderni per la scuola » maggio 1977
INTRODUZIONE
LA VITA
Alberto Manzi è nato a Roma il 3 novembre 1924 e fin da ragazzo dovette
guadagnarsi la vita. Dal 1942 al 1946 presta servizio militare, dapprima sui
sommergibili e poi, dopo il 1943, nel reggimento da sbarco " San Marco "
aggregato all'VIII armata. Smobilitato, si dedica all'insegnamento.
Nel 1954 va in Sud America per ricerche scientifiche e anche per fondare
un giornale per ragazzi. Manzi vive le sue avventure mentre le scrive: questo
libro — Orzowei — è nato mentre il suo autore si trovava, nel 1954-55, tra gli
Indios Kiwari dell'Amazzonia, per studiare una certa specie di formiche; Manzi
però non ha mancato di studiare anche gli uomini, che, ancora più degli insetti,
rappresentano il suo interesse dominante.
Questo scrittore è noto non solo per i suoi libri, ma anche per la sua
attività di insegnante: la sua fisionomia è familiare a milioni di persone che
hanno seguito le sue lezioni alla televisione dal 1959, combattendo con lui
contro l'analfabetismo. Diciamo " con lui " e non " sotto la sua guida ", perché
Manzi è un uomo di straordinaria modestia. La sua trasmissione " Non è mai
troppo tardi " ricupera, in pochi anni, milioni di analfabeti e merita nel 1965 il
Premio Internazionale Tokio. Manzi non sale mai in cattedra: questo è un modo
di dire, perché la sua carriera di insegnante iniziò nel carcere minorile di Porta
Portese, dove cattedre non ce n'erano e Manzi in un primo tempo dovette
difendersi a suon di pugni dai suoi alunni. Ben presto però riuscí a vincerne la
diffidenza e a conquistarsene l'affetto: un'eco nitida di queste sue esperienze di
maestro si ritrova in Orzowei, che è tutto attraversato dal motivo
dell'insegnamento immediato e diretto, per cui maestro ed alunno si sentono e
sono in realtà impegnati in una stessa situazione, e — chissà — d'un tratto
potrebbero anche scambiarsi il posto.
Nel 1967 si reca in Ecuador per fondare delle cooperative agricole; questo
esperimento è ancora in corso e rappresenta per Manzi un impegno della
massima importanza.
L'opera
Nel 1950 ottiene il Premio Collodi per il libro Grogh, storia di un castoro.
Ha inizio cosí una lunga serie di fortunate pubblicazioni e collaborazioni presso
le case editrici A.V.E., Bompiani, La Scuola, La Sorgente ecc. Nel 1956
pubblica Orzowei presso Vallecchi e nel '61 esce l'edizione Bompiani. Orzowei
prende il Premio Firenze nel 1954 e due anni dopo il Premio H.C. Andersen.
Segue Testa rossa nel 1957 e nel 1968 l'Enciclopedia Monografica Vedere e
Capire nei suoi tre volumi La terra e i suoi segreti, Gli animali intorno a noi, Gli
animali e il loro ambiente.
I libri di Manzi sono tradotti in 32 lingue, compresi il giapponese, lo
sloveno, l'afrikaner, l'olandese, il russo, il polacco e il croato.
Orzowei
c1 c1 rzowei è una piccola storia ideale dell'educazione umana, della
conquista di sé e del proprio posto nella società: non è semplicemente la
versione romanzesca di certi fatti storici. L'autore, come vedremo, prende si in
prestito alcuni elementi della realtà storica e propriamente etnologica, ma se ne
serve per forgiare una concezione tutta sua, che ha un valore essenzialmente
morale. Manzi avrebbe potuto ambientare la sua storia nel bel mezzo della
foresta brasiliana, dove gli Indios vivono di caccia e di raccolta come i
Boscimani di cui egli ci parla: e invece ha voluto ricorrere alla fantasia,
all'esperienza indiretta dei libri e situare il suo racconto nel Sudafrica, un paese
dove non è mai stato. Vediamo di capire perché. Anzitutto, Manzi non voleva
evidentemente fare una cronaca, scrivere un resoconto, un "servizio
giornalistico": pericolo cui si è esposti quando si riferiscono esperienze troppo
recenti, anzi addirittura in atto, non ancora decantate. La fedeltà ai fatti avrebbe
potuto rappresentare un limite: e questo limite, Manzi l'ha valicato. Se si
volesse leggere Orzowei con pedanteria, vi si potrebbe scoprire qualche
inesattezza e qualche anacronismo: menzioniamo questo fatto, solo perché il
libro è destinato ai ragazzi, che hanno un concetto del vero diverso da quello
degli adulti, e potrebbero chiedere: "Ma nel Sudafrica, le cose sono andate
cosí?" no, in Sudafrica non sono andate esattamente cosi: ma nel Sudafrica di
Manzi — che avrebbe potuto essere l'Amazzonia, il Borneo o la Polinesia — si,
gli avvenimenti si sono svolti o si sarebbero dovuti svolgere proprio cosi.
Orzowei è la storia dell'iniziazione di un ragazzo, sullo sfondo di guerre
sanguinose, che coinvolgono vari popoli, organizzati in diversi tipi di società.
Vediamo brevemente che cosa è un'iniziazione. È impossibile generalizzare, da
un punto di vista scientifico; ma prendiamoci anche noi qualche libertà, che ci
servirà per meglio interpretare lo spirito del racconto di Manzi, che appunto non
è limitato, nei suoi valori essenziali, alle società che praticano l'iniziazione.
Questa è un rito, un complesso di atti e cerimonie religiose che promuovono e
sanciscono il passaggio di un giovanetto dall'infanzia alla maturità e quindi
all'inserimento nella vita sociale attiva della tribù.
L'iniziazione è sempre una prova, più. o meno pericolosa, che il candidato
può superare o no. Il fallimento può implicare la morte, come nel caso
dell'Orzowei: se egli fosse catturato dai suoi compagni, verrebbe ucciso; la sua
stessa permanenza nella foresta, inoltre, lo espone al rischio mortale degli
attacchi di popoli nemici, di animali pericolosi, della fame e della sete. Il colore
bianco che viene applicato al corpo abbronzato dell'Orzowei non è solo un
mezzo per facilitare la caccia agli inseguitori, ma è anche un simbolo di morte:
il candidato "muore" come bambino per "rinascere" come adulto. Superata la
prova infatti, quale che sia l'età dell'iniziato — che a volte può essere ancora
tenera — egli viene considerato adulto a tutti gli effetti. Come vedremo, al
trovatello bianco, questo diritto verrà negato: fatto assolutamente eccezionale, e
quindi tanto più doloroso per il protagonista. La tribù di Swazi, cioè di negri
Bantù — da non confondersi né con gli Ottentotti né coi Boscimani — non fa
una bella figura in questo libro. I lettori però non devono pensare che Manzi ce
l'abbia coi Bantù: si trattava per l'autore di incarnare il male in certi individui e
— come vedremo — anche i bianchi, i Boeri, non saranno molto più
caritatevoli dei Swazi verso il povero Orzowei.
c1 e società tribali dove è in uso l'iniziazione, si definiscono
comunemente "primitive", con un termine abbastanza infelice, che ha
significato solo per chi crede nella perfezione della società tecnologica, creata
essenzialmente da popoli dalla pelle bianca. Secondo un'opinione diffusa, chi
non ha raggiunto quel livello tecnologico, ha fallito il proprio scopo naturale,
umano: ed ha fallito a causa di una inferiorità innata, non perché abbia creduto
bene di battere una strada diversa, o perché sia magari stato sconfitto da altri
popoli e ridotto in una condizione che avrebbe reso impossibile in ogni caso il
raggiungimento di quel livello. Dunque, secondo una convinzione che è alla
base del razzismo moderno, se un certo popolo non ha seguito — e con lo
stesso passo — la strada di certi popoli bianchi, ebbene, quello non è un popolo
veramente " umano ": è un popolo sotto-umane che può essere sfruttato o
distrutto senza commettere peccato. Questa ideologia è peraltro incoerente,
poiché ignora di proposito qualsiasi prodotto della società distrutta che ne
affermi l'umanità e la dignità. Cosí i Boscimani, che sono forse i maggiori
protagonisti di questo romanzo, nella realtà storica non furono certo risparmiati
in virtù del talento artistico che essi rivelano, per esempio nelle loro mirabili
pitture rupestri: nel 1770 ebbe inizio il loro sterminio da parte dei coloni
olandesi cristiani stanziatisi nel Sudafrica fin dal 1652. Questa persecuzione
prosegue tuttora e ha costretto i superstiti a rifugiarsi nell'arido e inospitale
Kalahari, dove, a causa dell'estrema scarsezza delle risorse naturali, i Boscimani
sono esposti anche al pericolo di diventare sempre più... "primitivi". L'ideologia
razzista, quando non ha potuto appigliarsi a pretesti di inferiorità culturale, non
ha esitato a ridurre interi popoli in uno stato di estrema miseria e abbrutimento,
per poi intraprenderne lo sterminio sistematico: cosí come è accaduto, per
esempio, nell'Europa orientale ad opera dei Tedeschi, che, distrutte le
minoranze ebraiche, avevano già programmato ed in parte attuato
l'asservimento e il susseguente genocidio di interi popoli slavi di antica civiltà
"bianca", come i Polacchi.
Per tornare ai Boscimani — di cui Manzi ci dà una descrizione fisica
esatta — essi sembrano essere stati i più antichi abitatori dell'Africa, affini ai
Pigmei delle foreste equatoriali, ovvero derivati da questi. La loro religione e la
loro mitologia hanno attirato il vivissimo interesse degli studiosi europei. Le
credenze e il culto dei Boscimani non corrispondono però alla descrizione
datane da Manzi, che ha voluto piuttosto tratteggiare una sua personale
concezione della religione. A questo proposito, vogliamo anzi dire che la figura
di Pao, il saggio Boscimano amico del protagonista, sembra esser nata dai
lunghi colloqui che Manzi stesso ha avuto con un capo Indio a nome Napo
durante il suo soggiorno nella foresta amazzonica: e speriamo che un giorno ci
venga raccontata l'intera storia.
Gli Ottentotti, come i Boscimani, sono un'altra popolazione non negra che
abita l'Africa meridionale: sono anch'essi probabilmente affini ai Pigmei, ma
differiscono dai Boscimani in quanto sono — o piuttosto erano — pastori, e non
cacciatori e raccoglitori. Essi furono assoggettati dai bianchi all'inizio del
secolo scorso, la loro civiltà fu interamente distrutta e costituiscono ora —
mescolati coi discendenti "non puri" dei Boeri e con schiavi di varia origine —
una vera e propria classe di servi: i cosiddetti "Coloured", la gente "di colore".
In questo libro compaiono vari personaggi storici, fra cui Ciaka,
considerato il più grande genio militare africano, che diede molto filo da torcere
agli invasori bianchi, e fu assassinato dai suoi confratelli Bantù nel 1828. Il suo
successore Dingane proseguiva valorosamente la lotta contro i Boeri fino al
1839, quando Andreas Pretorius lo batté e proclamò la repubblica boera del
Natal. In seguito a questa proclamazione, si riaprirono le ostilità fra i Boeri e gli
Inglesi (un conflitto precedente risale al 1806); questi non sopportavano infatti
la creazione di stati indipendenti in un territorio che consideravano loro
possesso o almeno loro sfera d'influenza. Le guerre anglo-boere dureranno, con
alterne vicende e grande spargimento di sangue, fino al 1902, quando i Boeri
furono sconfitti definitivamente sul piano militare. Si può dire invece che, sul
piano politico, i discendenti degli Olandesi ottenessero una mezza vittoria,
perché, già nel 1907 le antiche repubbliche boere del Transwal e dell'Orange
ottennero l'autonomia dal governo liberale britannico: ai nostri giorni il
Sudafrica di fatto è una nazione sovrana.
Alberto Manzi si discosta in qualche punto, come abbiamo già detto, dalla
realtà storica, ma ciò non impedisce di scorgere il significato morale e umano
del suo scritto. Una forte corrente di simpatia verso i Boeri — che si batterono
benissimo per la propria libertà — circolò nell'Europa continentale e nella
stessa Gran Bretagna: tuttavia, non bisogna dimenticare che fra le cause
maggiori di attrito fra i Boeri ed il governo inglese vi era, sin dall'inizio
dell'800, la schiavitù che i Boeri praticavano ai danni degli indigeni e che il
governo e l'opinione pubblica degli Inglesi avversavano 8 tenacemente. D'altro
canto non bisogna dimenticare neppure l'interesse della Gran Bretagna per le
immense ricchezze naturali del Sudafrica — diamanti, oro, oltre a ogni sorta di
minerali rari ed alle risorse agricole —: questo interesse ha avuto senza dubbio
un peso determinante.
In Orzowei vediamo dunque delineati parecchi conflitti: lotta dei Bantù
pastori contro Boscimani e Ottentotti per il possesso di territori di pascolo e di
caccia; guerra di sterminio o di asservimento dei Boeri contro Boscimani,
Ottentotti e Bantù; guerra tra Boeri e Inglesi per il possesso, l'amministrazione e
lo sfruttamento dei territori strappati agli africani. L'interesse di Manzi va però
oltre l'orizzonte storico da noi descritto: e non è un caso che questo libro sia
nato in un territorio dove i bianchi continuano a commettere crimini su larga
scala contro la popolazione india, Orzowei si chiude con una visione fantastica,
in cui tutti i protagonisti si ritrovano in una casa — quasi un piccolo tempio —
dedicato alla fratellanza: ma, fantasia o no, l'attuale governo sudafricano ha
creduto bene di negare a Manzi nel 1967 il visto di entrata in quel paese. Senza
fare la storia dei rapporti fra i vari gruppi etnici9 residenti in Sudafrica a partire
dal 1907, possiamo dire brevemente che i bianchi di lingua inglese e quelli di
lingua afrikaner (derivata dall'olandese), dopo un lungo periodo di tensione, si
sono accordati per spartirsi il potere, escludendo tutti i "non bianchi" — tredici
milioni su quindici milioni di abitanti! — che comprendono i Bantù, un milione
e mezzo di "Coloured" e mezzo milione di Indiani (l'India, come è noto, faceva
parte dell'impero britannico fino al 1948, e i suoi abitanti potevano in certi casi
emigrare verso territori facenti parte dell'impero o sotto la influenza politica
diretta inglese). La Repubblica Sudafricana, creata nel maggio del 1961,
comprendente vari stati preesistenti, è basata sul principio dell'assoluta superiorità dei bianchi e sulla più rigorosa segregazione razziale. Agli Indiani
sarebbero riservate le attività commerciali di modesto livello, i "Coloured"
come s'è già detto, sono una classe di servi, e i Bantù dovrebbero essere
progressivamente confinati in campi di concentramento, chiamati "riserve" o
"Bantùstans", che coprono solo il 13 % della superficie dell'Unione, e non
potrebbero mantenere nemmeno un terzo dell'attuale popolazione africana. I
Bantù, dopo aver visto distruggere le loro strutture tribali, dovrebbero tornare a
vivere — o piuttosto a morir di fame — nelle riserve, secondo un sistema
tribale forzosamente riadottato.
Tutto ciò è naturalmente ben noto ad Alberto Manzi, che ha voluto
tracciare un quadro libero, ma efficace, di una società che si dilania fin
nell'animo dei singoli individui che la compongono.
ROMANO MASTROMATTEI
"Manca un ponte fra i cuori...
Se questo ponte ci fosse
gli uomini si scambierebbero i segreti,
i pensieri lieti,
il sorriso e il perdono...
... fanciullo,
costruisci con le tue mani,
senza travi,
questo ponte d'oro. "
EMILIA ALBORET
CAPITOLO I
"Dài, prendetelo!... prendetelo!..."
Nella foga della corsa una pentola fu rovesciata e Amebais, la vecchia
ubriacona, usci dalla capanna urlando imprecazioni contro quei demoni che
buttavano tutto all'aria.
"Non c'è più tranquillità, no! Ma se vi prendo vi farò frustare tutti! " urlò
rivolta al gruppo dei ragazzi che correvano verso la foresta.
Ma questi non le badavano.
Un po' perché Amebais era sempre stata una pazza brontolona; ma,
maggiormente, perché la loro caccia era interessante.
La selvaggina era rappresentata da Isa, il ragazzo che Amunai aveva
portato dalla foresta.
Amunai, il Ring-kop (che significa: il grande guerriero), l'aveva trovato
nove, dieci anni prima, avvolto in una fascia rossa in una cesta appesa ad un
grosso ramo. La cesta era stata legata in maniera che né serpenti, né belve
potevano raggiungerla.
L'aveva preso con sé e portato al villaggio.
La vecchia Amebais aveva dovuto fargli da madre, ma adempí al suo
compito fin quando il ragazzo non fu in grado di trovarsi qualcosa da mangiare
tra i rifiuti del villaggio. La sua avarizia non le permetteva di più.
E fino a che Amunai fu il capo, Isa — questo era il nome che gli avevano
dato — Isa, dunque, ebbe di che sfamarsi e fu trattato con rispetto.
Ma allorché il Ring-kop perse il comando, Isa dovette arrangiarsi per
vivere.
Era trattato cosí per un solo motivo: perché era un bianco; se bianca
poteva dirsi quella pelle bruciata dal sole e dal vento.
Isa era ora nel suo undicesimo anno di vita; età in cui i nostri ragazzi son
capaci soltanto di portare la cartella a scuola e d'imparare qualche lezione a
memoria.
Ma per Isa la vita era stata dura; e se non sapeva leggere, né scrivere,
sapeva però tante altre cose che gli permettevano di vivere, sia pure
stentatamente, fra il disprezzo del villaggio e la "grande padrona": la foresta.
Oltre tutto Isa era schernito e assalito dagli altri ragazzi. E doveva
difendersi dalle loro crudeltà, prendendone spesso a sangue, fino a che non
sopraggiungeva a liberarlo qualche uomo del villaggio. Solo allora la masnada
lo lasciava pesto e sanguinante sul terreno.
Oppure fuggiva, se poteva.
E mentre gli altri lo cercavano, egli se ne stava immobile, acquattato in un
cespuglio, respirando appena.
Per questo Isa era un ribelle.
olo la frusta gli incuteva timore. Ma ormai si era assuefatto anche a
quella.
"Dai, dai, prendetelo!... prendetelo!..."
I ragazzi lo stavano inseguendo.
Quale gioco più bello per dei futuri cacciatori che inseguire una preda
viva?
Isa correva velocemente su lo scosceso terreno.
Aveva un buon distacco. Le lunghe cacce lo avevano reso veloce, pronto.
Se avesse voluto, avrebbe distaccato di molto gli inseguitori per poi rifugiarsi
tranquillamente su qualche albero e lí giocare a tirar frutta e rami secchi alle
scimmie.
Ma non voleva.
Anzi, rallentò.
Avanti a tutti veniva Mései, il nipote dello stregone. Mései che da anni lo
tormentava; Mései che lo derideva sempre. Specialmente da quando non era
considerato più Um-fan, un ragazzo portatore, ma un aspirante guerriero.
Fra poco egli avrebbe fatto la sua "prova" e se fosse riuscito avrebbe
avuto la sua lancia e il suo tucul.
Isa, invece, era stato cacciato persino dagli Um-fan.
Non poteva seguire il villaggio alla guerra o alla caccia neppure come
portatore.
Egli era un "orzowei", uno sciacallo d'uomo, un niente.
Era bianco.
Rallentò. Gli altri gridarono, certi della buona riuscita della caccia. Ma lui
sorrise; voleva stancarli, farli cadere uno per volta con la lingua ciondoloni.
Mései era ormai a pochi passi.
"Sei preso!" gridò. "Sei preso! Ti metteremo al palo, oggi!"
Urlavano tutti di gioia.
Improvvisamente Isa senti il terreno cedergli sotto i piedi; barcollò,
cadde. Mései con due salti gli fu sopra e gli puntellò le spalle con le magre
ginocchia.
"Sei preso" ansimò. "Muoviti ora!"
Isa si divincolava, ma l'avversario era robusto. Mangiava tutti i giorni, lui.
Gli altri li avevano raggiunti, ma ad un cenno di Mései si fermarono in
circolo.
"Oggi è la mia preda. Mi voglio divertire io. Alzati, 'orzowei'!"
Lentamente Isa si alzò.
Con mossa fulminea Mései gli piombò addosso facendolo rotolare
nuovamente in terra.
Un coro di risate salutò il ruzzolone.
"Alzati, su!" gridò ridendo Mései.
Isa doveva aver battuto contro qualche sasso.
Sentiva un forte dolore alla schiena.
Si tirò su pian piano, ma l'avversario fu lesto a colpirlo con un pugno.
Barcollò; ma pur venendo colpito nuovamente, riuscí ad afferrarlo. Si
avvinghiarono rotolando sul terreno.
E come uno riusciva a metter l'altro con le spalle a terra, colpiva, coi
pugni stretti, sugli occhi, sul naso, ovunque.
Quando Isa riuscí a rimanere a lungo su Mései qualcuno, raccolta della
sabbia, gliela gettò negli occhi.
Abbandonò la presa e Mései ne approfittò.
on un sasso lo colpi ripetutamente, finché non lo vide esanime, mentre un
rivolo di sangue usciva dalle ferite.
Allora tutti fuggirono.
Solo a notte tarda Isa rientrò nel villaggio.
La luna era già alta nel cielo ed illuminava le capanne conferendo loro un
aspetto fiabesco.
Il ragazzo si trascinò fin verso il tucul del vecchio Amùnai.
"Sono io" mormorò.
"Entra. Cosa ti è accaduto?"
"Il pugno di Mései mi ha colpito" rispose. "Nel pugno stringeva una
pietra. Ora la testa mi fa molto male."
"Fai vedere."
Il vecchio s'alzò dal giaciglio e ravvivò il fuoco. Poi osservò la ferita.
"Un bel colpo. Potevi morire. Chi ti ha aiutato?"
"Nessuno. Non ho compreso nulla fin che il freddo non m'ha svegliato. E
son venuto da te."
"Hai perso molto sangue."
Gli fasciò la ferita dopo avergliela medicata con un decotto di erbe.
"Domani sarai a posto, se gli spiriti del male non ti verranno a trovare.
Dormi, ora."
"Ehi, cialtrone, alzati!"
Una ruvida mano scosse bruscamente Isa.
"Che c'è?" chiese balzando a sedere sul giaciglio.
"Il Consiglio è nella 'Grande Casa'. T'aspettano."
"A me?!"
"Si, te. L''orzowei', hanno detto. Sei tu, no?" L'uomo rise ed usci.
La lama della zagaglia rifletté sul ragazzo un raggio di sole.
Poco dopo Isa correva verso la "Grande Casa".
Era questa una capanna di vaste proporzioni ove potevano stare
comodamente una sessantina di persone.
sa non vi era mai stato; come tutti i ragazzi del villaggio. La Grande Casa
era "tabù" per loro e per le donne.
Solo i guerrieri potevano varcarne la soglia
Sull'uscio Isa sostò. Tremava.
Qualche grave decisione era stata presa dal Consiglio nei suoi riguardi,
per essere stato chiamato.
Ieri non aveva fatto nessun danno; ne era sicuro.
Era stato nel campo di Uf-nain, ma non aveva rubato il granturco. Ah,
ecco! la lotta. Si, aveva colpito, ricordava bene; ma chi aveva sofferto più danni
era stato lui. Aveva ancora la testa fasciata. Poi, il Consiglio non si era mai
interessato delle liti dei ragazzi.
Be', era meglio entrare.
Scostò la pelle di bufalo e rimase immobile. Nel centro dell'ampia
capanna, tutta addobbata di pelli e di trofei di caccia, vi era lo stregone del
villaggio rivestito con i sacri paludamenti.
na maschera grottesca e dall'aspetto terribile, gli ricopriva il volto.
Seduti su pelli di bufalo, in circolo, vi erano tutti i guerrieri e i vari Ringkop dalla testa ornata dal cerchio piumato.
I vecchi, audaci "lupi" (i migliori fra tutti i guerrieri) erano seduti in fondo
alla capanna e, in mezzo a loro, era il Gran Capo.
La pelle striata d'una tigre gli scendeva dalle spalle fin sui fianchi. Un
cerchio d'oro, su cui ondeggiavano molte penne di struzzo, gli ornava il capo.
La lunga lancia e lo scudo giacevano ai suoi piedi.
Lo stregone s'avvicinò al ragazzo danzando ed urlando.
Isa non si mosse. Malgrado il ghigno terribile, egli sapeva bene che. sotto
la maschera si celava Ao-sam, un vecchio tutto tremante, che un giorno aveva
avuto paura del piccolo Sci-scià, il porcospino.
Nessuno sapeva ciò, ma Isa aveva veduto e da quel giorno aveva perso
ogni stima e rispetto per lo stregone.
Questi gli danzò attorno per dieci minuti; poi, fermandoglisi di fronte, lo
toccò col bastone sacro e ritornò al suo posto.
Allora il Gran Capo si alzò.
Nella capanna si fece silenzio.
"Vieni avanti" ordinò.
Isa avanzò lentamente fin che il suo petto toccò la punta della lancia che il
Gran Capo tendeva nella sua direzione.
"Mohamed Isa, che questo è il tuo nome," disse "il Consiglio ha deciso.
Compirai la gran prova. Il vecchio Ring-kop che ti ha trovato nella foresta ha
parlato in tuo favore. Partirai questa notte. E finché la tinta bianca che coprirà il
tuo corpo non sarà scomparsa, il villaggio sarà per te 'tabù'. I cacciatori ti
inseguiranno, ti cacceranno. Non dovrai farti prendere. Se riuscirai, il tuo posto
sarà tra i guerrieri. Allora avrai la tua zagaglia e il tuo tucul."
"Io insisto nuovamente" gridò Unguasci, uno fra i più forti guerrieri, "egli
non deve fare la prova. L' 'orzowei' non è del nostro villaggio."
"Che importa?" l'interruppe sorridendo malignamente un altro. "Tanto
morirà!"
"Sarà cosi. Ma anche se dovesse riuscire" proseguí Unguasci "non deve
essere ammesso tra i guerrieri. Ricordatevi: è un 'orzowei', un trovato! "
"Io ho parlato" l'interruppe il Gran Capo "ed ho deciso. Isa farà la prova.
Se riuscirà, sarà un guerriero del nostro villaggio."
Nessuno replicò.
In silenzio si alzarono mentre lo stregone urlava qualcosa. Un canto triste,
solenne, si levò nella capanna; man mano crebbe d'intensità fino a tramutarsi in
coro possente.
Era il canto di caccia; il canto della vittoria dell'uomo sulla giungla.
Isa era sempre immobile nel centro della capanna.
Non credeva ancora a quanto gli stava accadendo.
Era questo il giorno che aveva atteso con ansia, che aveva temuto non
giungesse mai per lui.
Gli si dava l'occasione di mostrare la sua forza, la sua abilità. Gli si dava,
soprattutto, il riconoscimento d'essere uno del villaggio, non più un "trovato ".
uando il canto cessò, il Gran Capo gli consegnò lo scudo e l'assegai, un
piccolo spiedo che sarebbe stata l'unica arma per tutto il tempo della grande
prova.
"Partirai questa notte, quando la luna avrà raggiunto la cima dell'albero
sacro. Buona caccia! "
Il Capo uscí. Con lui, molti guerrieri.
Ma la cerimonia non era ancora terminata.
Lo stregone pestò le radici che gli uomini gli avevano portate; vi versò
sopra del cocco e un liquido resinoso, e mise tutto a bollire in un'ampia pentola.
Ogni tanto, pronunciando delle strane parole, versava nella caldaia
polvere d'incenso.
Più tardi Isa, denudato, fu fatto immergere nel pentolone. Ne uscí con
tutto il corpo dipinto di bianco; d'un bianco avorio.
Sapeva che la tinta non sarebbe scomparsa presto e che né l'acqua, né il
sole l'avrebbero tolta.
Era la gran prova.
Tutti dovevano superarla. Questa era la legge.
Quando un ragazzo era diventato abbastanza grande da poter essere
ammesso nei guerrieri, veniva preso, denudato, dipinto e lasciato libero nella
foresta. Chiunque lo vedeva poteva dargli la caccia ed ucciderlo.
Nessuno poteva aiutarlo, pena la morte.
Doveva vivere solo, fino a che il tempo non avesse cancellato la bianca
vernice; se riusciva a tornare era nominato guerriero.
Se non tornava, il villaggio sapeva di aver perso un ragazzo che non
sarebbe mai stato un ottimo cacciatore; e non piangeva.
Isa sorrise quando lo stregone lo fece inginocchiare dinanzi a sé per
benedirlo.
Era felice come mai lo era stato sino allora.
Fuori, tutti i ragazzi lo guardarono ammutoliti, invidiandolo.
Creperai" sibilò Mései. "La foresta ti ucciderà e gli avvoltoi si ciberanno
del tuo immondo corpo!"
Isa non lo degnò neppure di uno sguardo.
Andò a salutare tutta la gente del villaggio nelle loro capanne, come
voleva la legge.
Ma solo la vecchia Amebais gli strinse la mano.
Il padre di Mései lo fissò con una strana luce negli occhi, poi disse:
"Hai preso il posto di mio figlio. Toccava a lui la gran prova. Questo è un
affronto che ci umilia dinanzi al villaggio. Ma attento, 'orzowei'. Il bianco, nel
verde della foresta, si nota immediatamente. Ed ogni cacciatore ha diritto di
ucciderti."
Isa, per tutta risposta, sorrise.
Si recò ai piedi dell'albero sacro, che s'ergeva solitario poco distante dal
villaggio ed attese la notte.
Non riuscí a dormire.
Con gli occhi semichiusi osservò il sole fare il suo giro; il breve
crepuscolo; la notte.
Quando la luna cominciò ad argentare le nere chiome degli alberi, un
uomo gli si avvicinò.
"L'ora è prossima, figlio!"
"Lo vedo, Amunai."
Si guardarono senza parlare. Poi Isa disse:
"Ti ringrazio di essere venuto."
"So" mormorò il vecchio Ring-kop "di non averti allevato come un figlio;
né ho mai fatto qualcosa che potesse aiutarti."
"Mi salvasti la vita."
"Si, quand'eri piccolo. Ma ti ho fatto vivere poi peggio di uno dei cani del
villaggio."
"Non fa niente, Amunai."
"Son venuto a salutarti. E ricorda: il bianco risalta e la tua tinta è nuova.
C'è chi avrebbe piacere di pungerti con la sua lancia. Sii prudente! Il sole ti è
nemico, ricorda. Muoviti solo quando le ombre nascondono ogni cosa. Sii
svelto come il capriolo e audace come il leopardo. Che la tua caccia sia
fortunata, figlio!"
"Grazie, padre."
Il vecchio guerriero tossicchiò. Cercava di nascondere la sua
commozione.
"Ritorna presto al villaggio. T'aspetterò qui, quando la nuova luna sarà
nata. E... non mi fare attendere invano!"
"Non ti farò attendere a lungo, se posso."
Ristettero silenziosi uno accanto all'altro fino a che parve loro che la
punta dell'albero sacro, ondeggiante al vento, toccasse la luna.
Allora Isa si alzò. Raccolse lo scudo e l'assegai, salutò con un cenno il
Ring-kop e s'allontanò nella foresta.
In quello stesso momento il tamburo rullò.
Dapprima con un ritmo lento; poi i colpi si fecero più frequenti,
assordanti.
Era il segnale della caccia all'uomo.
L'inizio d'una lunga battuta dietro le orme di un ragazzo dipinto di bianco.
CAPITOLO II
vanzava al trotto leggero, instancabile, che aveva imparato osservando le
gazzelle durante le lunghe giornate d'estate quando, portando i bufali al pascolo,
li abbandonava per addentrarsi nella foresta.
Un trotto che non stancava e che, spesso, l'aveva salvato dagli assalti dei
compagni.
Quei giochi, quelle fughe, l'avevano addestrato; per esperienza sapeva
ch'era meglio mettere molta strada fra lui e gli inseguitori.
'eco del "tam-tam" si spandeva d'intorno.
Per molte miglia l'avrebbe ancora intesa e, con lui, l'avrebbero intesa tutti
i cacciatori che battevano la pista; e i villaggi che erano al di là del fiume.
Tutta la grande tribù dei Swazi avrebbe saputo; e gli esploratori lo
avrebbero cercato.
Si fermò nel folto d'una macchia.
Poco distante l'urlo di caccia del leone aveva risvegliato la foresta.
Doveva abbandonare il sentiero. Non era prudente seguire quella via.
a pioggia del giorno avanti aveva reso il terreno molle e su di esso si
stagliavano, nitide, le sue impronte.
Correndo tutt'intorno confuse le tracce; poi si accucciò presso un
cespuglio.
Era inutile andare cosí, a caso.
Al di là del fiume, nel cuore della foresta, in un'ampia radura, vi erano i
resti d'un grande villaggio, antico quanto il sole, dalle capanne di pietra.
Glielo aveva raccontato Amunai. E quando gli parlava della "città morta",
faceva tutti gli scongiuri possibili, perché il luogo, diceva, era abitato dagli
spiriti del male.
Se voleva sfuggire ai cacciatori, doveva raggiungere quel luogo. Li
nessuno lo avrebbe cercato. Ci volevano tre, quattro giorni, conoscendo la pista.
Con la rapidità di uno scoiattolo s'arrampicò su di un albero. Lassù, a
cavalcioni del ramo più alto, osservò il cielo.
La grande stella era alla sua destra.
Doveva tenerla sempre alla sua destra, se voleva raggiungere la città
morta.
Stava per discendere quando un leggero rumore lo fece rimanere
immobile, con il cuore in gola.
Uno scricchiolio; un ramo spezzato.
Trattenendo il respiro, aguzzò lo sguardo. Tra le fronde dell'albero poteva
scorgere il sentiero.
Scivolò un po' più in basso ed attese. Nessun rumore estraneo alla vita
della foresta.
Il leopardo stava cacciando un miglio distante. Poco prima il suo grido
disperato — d'animale affamato che non trova cibo — era echeggiato nella
giungla e aveva raggelato il sangue nelle vene del ragazzo.
Un capriolo aveva attraversato di corsa il sentiero ed una scimmia gli
urlava, dispettosamente, dietro. Lontano un gruppo di iene stava ridendo.
Un riso beffardo, crudele.
Poi Isa udí un rumore che non riuscí a definire.
Pareva come se qualcuno si schiaffeggiasse leggermente.
Attese. Ed ecco comparire Sem-husci e due giovani guerrieri del
villaggio.
"È passato di qui. Le tracce son nitidissime" diceva Sem.
"Una vacca e tre pecore per ciascuno se riusciamo a prenderlo. Sarà uno
scherzo!"
Camminavano soddisfatti, quando Sem-husci fece un cenno.
Gli altri due gli si avvicinarono e si chinarono ad osservare il terreno.
Cominciarono a discutere.
"Deve essere nei dintorni" disse poi Sem.
"Ci scommetto che sta dormendo qui vicino."
"Già, le tracce si confondono... Guardate" disse uno dei più giovani.
ra lui che faceva lo strano rumore. La piccola daga legata alla cintola gli
batteva, ad ogni passo, sulla coscia.
"Ascoltate" disse Sem-husci "io proseguirò lungo il sentiero. Tu" e si
rivolse all'uomo della daga "frughi fra queste macchie mentre Soliman batterà
la zona più avanti. Volete?"
"Bene" rispose Soliman; "andiamo!"
Avevano fatto pochi passi quando Sem-husci gridò :
"Ehi, Mur! La daga ti batte sulla coscia e fa rumore! "
Mur la sciolse e non si udí più nulla.
Presero ognuno per la loro via e scomparvero.
Isa attese ancora, poi scivolò lentamente sul tronco.
La caccia era iniziata.
Se voleva ritornare un giorno al villaggio doveva aprire bene gli occhi e le
orecchie.
Anziché proseguire ritornò sui suoi passi.
E quando vide, lontani ancora, i fuochi della tribù, s'arrampicò su d'un
albero e, a cavalcioni di una biforcazione, s'addormentò.
Le prime due settimane furono terribili per Isa. Il piccolo spiedo non era
buono per cacciare a distanza. Doveva strisciare fin presso l'animale se voleva
colpirlo; ma ogni volta questi notava a tempo la sua presenza e fuggiva
spaventato.
Cosí doveva accontentarsi di rodere qualche radice o di masticare qualche
ciuffo d'erba. Ma anche questo cibo bisognava saperlo trovare.
I primi giorni aveva mangiato una pianticella gradevole lí per lí; poi atroci
dolori l'avevano assalito ed aveva creduto che gli spiriti del male fossero venuti
a prenderlo per punirlo di tutte le volte che egli s'era infischiato di loro.
Imparò cosí a conoscere quali piante fossero commestibili e quali
velenose.
Anche per la frutta dovette esercitarsi a lungo, ed escoriarsi in tutte le
parti del corpo, prima di imparare a destreggiarsi agevolmente di ramo in ramo
fino a raggiungere quello più sottile ove, immancabilmente, erano i frutti più
saporiti.
Diversi capitomboli dall'alto, per fortuna senza gravi conseguenze, gli
insegnarono a riconoscere un ramo buono da uno tarlato, e le scimmie gli
furono ottime maestre nel mostrargli come ci si potesse lanciare da un ramo
all'altro senza spaccarsi la testa sul terreno.
Ma la cosa più difficile fu accendere il fuoco.
Non aveva pietre focaie e, ricordando ciò che aveva visto fare spesso nel
villaggio, provò ad accenderlo sfregando due pezzi di legno. In quei giorni si
penti amaramente di non aver osservato bene come procedeva la faccenda.
I due legni si riscaldavano, la fronte gli si imperlava di sudore, le braccia
gli doloravano, ma il fuoco non veniva.
Allora invocava tutti gli dei; e gli spiriti buoni e i maligni. Poi li
imprecava tutti insieme. Ma del fuoco nessuna traccia.
O dio del lampo " gridava " infuriati verso questo tuo indegno servo e
gettagli contro i tuoi dardi infuocati! "
Ma la preghiera era vana.
Forse perché il dio invocato sapeva bene che i suoi dardi sarebbero giunti
come una benedizione per quel monello ricciuto che s'affannava tanto.
Un giorno riuscí; ed allora sorse un secondo problema.
Aveva infatti appena acceso il suo primo fuoco quando risuonò poco
distante un corno.
Qualcuno, avendo notato il fumo, si dirigeva verso di lui.
a modulazione del suono aveva fatto comprendere ad Isa che un
cacciatore credeva d'aver trovato dei compagni.
Fuggi. Cosi il primo frutto di tante fatiche non potè neppure goderselo.
Da allora scelse con cura la legna da ardere, affinché il fumo non
denunciasse la sua presenza.
Osservò come il leone tendeva gli agguati alle antilopi; come strisciava al
suolo, come scattava improvviso. E provò.
Ripeteva tutte le mosse del felino; i suoi balzi, lo strisciare silenzioso, i
suoi lunghi slanci.
Furono giorni duri, di continuo esercizio.
Finalmente uccise il suo primo capriolo.
Non aveva mai creduto che scuoiare un animale fosse tanto faticoso e
difficile.
I giorni che seguirono gli insegnarono a farlo più celermente e con meno
fatica.
Nel frattempo, con un largo giro nella foresta, Isa aveva raggiunto il
fiume che l'attraversava tutta.
Al di là del fiume, distante due o tre giorni di marcia, era la città morta. Lí
avrebbe costruito la sua capanna.
Si tuffò.
A lente bracciate raggiunse il centro del fiume e lo risali di un centinaio di
passi.
Il fiume scorreva placido, solenne, nell'ampio letto.
ua e là, lungo le sponde ricoperte da una fitta vegetazione, qualche albero
s'incurvava sull'acqua lambendola con i frondosi rami.
Poi il ragazzo si lasciò andare con la corrente fino a che non vide
spiccare, nel centro del fiume, una bianca roccia. L'acqua le gorgogliava
attorno, spumeggiando.
S'inerpicò sul masso e prima di distendersi sul centro levigato, osservò il
suo corpo. La tinta biancastra non accennava ad attenuarsi.
Si stese al sole. Al grato tepore (il periodo del grande caldo non era
ancora giunto) socchiuse gli occhi e ripensò al villaggio, a Mései, al vecchio
Ring-kop, al Gran Capo.
Rivide l'albero sacro, i campi coltivati, le mandrie dei bufali al pascolo;
ed ebbe allora un leggero senso di rimpianto, di nostalgia.
Anche se era vero che quello non era il suo villaggio, come tutti dicevano;
anche se era vero che quello non era il suo popolo, cosí tutti giuravano; lí lui
aveva vissuto e sofferto; con loro aveva gioito, e pianto, ed amato. E poi, perché
quello non era il suo popolo?
Non era egli come loro? Non faceva ciò che essi facevano? Non viveva
come loro vivevano?
"È la tua pelle, il tuo viso" dicevano.
Che ne poteva lui se era un tantino più chiaro?
Quante volte si era esposto completamente nudo, per lunghissimo tempo,
al sole della grande calura per far sí che la sua pelle divenisse più scura, simile a
quella dei suoi compagni!
Eppure c'era qualche incantesimo in lui.
a sua pelle non voleva divenire lucida, di quel bel colore ebano che era
l'orgoglio della gente del villaggio.
Ma che pensieri erano mai questi?
Sbadigliò, mentre si stiracchiava tutto.
Egli era un Swazi. Faceva la gran prova. Questo era un segno di
riconoscimento della sua appartenenza alla tribù. Poteva essere felice.
Si alzò.
Rimase cosí, immobile, da parer tutt'uno con la roccia. La sua snella
figura si stagliava nettamente tra il verde cupo della foresta.
Poi, a lente bracciate, raggiunse la riva.
Si ridestò al tramonto.
Il bagno ed il riposo gli avevano aguzzato l'appetito. Si diresse verso il
fiume e, scrutandone bene la sponda, cercò il luogo dell'abbeverata dei selvatici.
Lo trovò mezzo miglio distante.
La foresta si apriva in un'ampia radura e, tra l'erba alta, notò il sentiero
della sete.
Qui, fra non molto, sarebbero giunte e le antilopi" veloci, e i bufali
selvatici, e le timide gazzelle per dissetarsi. Il terreno mostrava chiaramente i
segni dei loro precedenti passaggi.
roprio vicino alla riva s'innalzava un gigantesco baobab. Tra i suoi rami
più bassi Isa si nascose con l'assegai pronto.
La luna era già spuntata. Sembrava giocare con la punta degli alti alberi.
Ora vi si nascondeva dietro, ora mostrava il suo faccione ridente.
Un leggero calpestio risvegliò l'attenzione del ragazzo. Sotto di lui un
grosso gnù, dal corpo tarchiato e muscoloso, alto come un asino all'incirca,
avanzava guardingo.
Sollevava lentamente, con grazia, le snelle zampe simili a quelle di un
cervo, mentre il muso carnoso da bue era tutto proteso in avanti, con le froge
umide dilatate, pronte a carpire il più tenue odore.
Ad una decina di passi, in fila indiana, calcante le sue orme, lo seguiva il
resto del branco.
Lo gnù raggiunse il fiume; si piantò con le zampe anteriori nell'acqua,
fissò attentamente ogni cespuglio vicino, poi bevve a lunghe sorsate.
I compagni attendevano silenziosi.
Isa non si mosse.
Se avesse avuto un arco e delle frecce il suo pranzo sarebbe stato
assicurato; ma con quel piccolo ferro!...
Attese. Tra la mandria, una sessantina di individui circa, aveva notato dei
cuccioli.
i vedeva scalpitare qua e là, subito richiamati al dovere, con leggeri colpi
di testa, dalle madri. Avrebbe tentato su uno di quelli. Le grosse corna degli
adulti gli incutevano un certo rispetto.
Il capo del branco drizzò la testa e si ritrasse indietro. Allora a cinque, sei
per volta, gli gnù s'avvicinarono al fiume. Gli altri pascolavano silenziosi tra
l'alta erba.
Solo il capo, ritto su d'un leggero rialzo, scrutava attentamente in ogni
dove.
Quando i piccoli si furono dissetati si misero a ruzzare avanti e indietro
cozzando fra loro, entrando nell'acqua e spruzzandola attorno.
Quando il capo si mosse, tutti s'incolonnarono dietro di lui.
er Isa era il momento di agire; scivolò lungo il tronco e con cautela
s'avvicinò al primo cucciolo che ruzzava lí presso. Quando gli fu a meno d'un
passo di distanza, gli si slanciò contro urlando. Il branco fuggí allarmato. Il
piccolo, atterrito dallo spavento, si lasciò facilmente colpire. S'accasciò a terra
emettendo un lungo, lamentoso belato.
Ma la madre, lontana, non l'intese.
Isa trascinò la giovane preda lontano dal sentiero della sete; ne tagliò un
grosso quarto e lo arrosti.
Per diversi giorni Isa sostò in quei luoghi.
Il cibo era abbondante, la caccia non pericolosa e il fiume era lí, pronto a
dargli ristoro con le sue acque fresche, mormoranti.
Aveva cura di non girare mai, durante il giorno, nei pressi del sentiero
della sete per non lasciar tracce e non intimorire, cosí, i selvatici che si recavano
al fiume.
Anche quella sera si era accoccolato su un basso ramo in attesa.
Poco prima aveva udito, non molto lontano, il rauco grido della grande
pantera e il suo raspare s'un tronco. Il leopardo si preparava alla caccia. Quello
era il suo modo d'affilare gli artigli.
sa era titubante; la vicinanza della grande lottatrice era un pericolo. Forse
conveniva lasciar la caccia, quella sera.
Ma le scimmie avevano ripreso a gridare e un'antilope si avvicinava
tranquillamente. Segno che il leopardo s'era allontanato.
Un vecchio bufalo solitario, immerso fino a metà corpo nel fiume, beveva
a lunghe sorsate, sollevando ogni tanto il capo in ascolto.
Qualcosa lo rendeva inquieto, perché per ben due volte si ritrasse
dall'acqua.
Tutto taceva, intorno. Solo qualche pappagallo gridava sugli alti rami. Ma
Isa non ci badò.
Il bufalo era molto vecchio; poteva tentare d'assalirlo. Quando l'animale
sarebbe passato sotto il suo ramo gli avrebbe lanciato contro l'acuminato spiedo.
Se il colpo gli riusciva, sarebbe balzato sulla groppa della bestia fino a
che questa, dissanguata, non fosse crollata.
Improvvisamente il bufalo drizzò la lunga coda e muggí, ritraendosi con
uno scarto dal fiume.
l ragazzo attese il momento buono, lanciò l'assegai e balzò sulla groppa
dell'animale che s'impennò; scartando violentemente, mentre muggiva per il
dolore.
L'assegai gli era penetrato vicino alla base del corno sinistro e un fiotto di
sangue usciva dalla ferita.
Isa si teneva ben saldo; a simili sgropponate ed impennate s'era abituato al
villaggio, quando conduceva i bufali al pascolo e li montava.
Quand'ecco con la forza d'un bolide, si rovesciò, su lui ed il bufalo, una
massa fulva.
Il ragazzo cadde riverso sul terreno. Non si mosse.
Chi gli aveva rubato la preda era la grande pantera, balzata, con uno
slancio formidabile, da un cespuglio distante circa dieci passi dal sentiero.
Nascosta tra l'erba alta, aveva atteso pazientemente. Il bufalo, impazzito
com'era dal dolore, non l'aveva fiutata. Ed ora lottava contro la feroce nemica
che, aggrappata a lui, cercava di raggiungere la grande vena e spezzarla.
Ad un tratto, con una impennata improvvisa, il bufalo riuscí a sbalzare il
leopardo e a colpirlo con le corna possenti.
La pantera schivò in parte il colpo e a sua volta balzò sulla testa della
vittima dilaniandola con le formidabili zanne.
Il bufalo scalpitò, muggí; tentò di schiacciare il nemico contro la terra.
Stava per abbandonarsi esausto, quando il leopardo, contorcendosi tutto,
abbandonò la presa mandando grida rauche e spaventose.
'assegai gli era penetrato nelle fauci lacerandogliele.
Il bufalo, visto il nemico a terra, caricò nuovamente. Un urlo
agghiacciante.
Il leopardo si drizzò di colpo, colpi, squarciò ed il bufalo crollò
rantolando.
Solo allora Isa si mosse.
Vide il felino abbandonare la preda ancora palpitante e avviarsi verso il
fiume.
Lo osservò attentamente. La grande pantera doveva avere le zampe
anteriori spezzate poiché si spingeva in avanti solo con le posteriori, strisciando
sul petto. Il bufalo doveva averla conciata cosí nell'ultima sua carica.
Ma pur avanzando in tal guisa, la rapidità con la quale procedeva era tale
che in breve tempo raggiunse l'acqua.
Vedere il feroce carnivoro, il più possente della foresta, ridotto in tal
modo, fece nascere un ardito pensiero nella mente di Isa.
Chi avrebbe potuto mettere in dubbio il suo valore, se fosse ritornato al
villaggio col corpo ricoperto dal fulvo mantello del macchiato?
S'avvicinò al bufalo. Una decina di iene si ritrassero latrando. L'assegai
era in terra, intriso di sangue.
Lo raccolse pulendolo sull'erba umida, e tornò verso il fiume. La pantera
aveva immerso il muso nell'acqua per spegnere il bruciore della ferita.
Mugolava.
Il lungo corpo era percorso da brividi che lo scuotevano tutto. La coda
ondeggiava qua e là irrequieta.
Isa, tremando, rimase ad osservarlo.
La paura stava combattendo la sua lotta con l'ambizione. Strinse i denti.
Doveva affrontare il rischio. Solo l'uccisione della grande pantera avrebbe fatto
dimenticare, cosí credeva, agli abitanti del villaggio che lui era un "orzowei",
un trovato, uno sciacallo d'uomo.
Ricordava ancora — egli aveva allora sei, sette anni — le magnifiche
accoglienze e le feste fatte ad Umbelai il giorno che tornò al villaggio con la
pelle d'un leopardo.
Avanti, allora.
"In fondo" disse a se stesso "ha le zampe spezzate ed è ferita e stanca."
Strisciò fino a trovarsi a pochi passi dall'animale.
Gli pareva che nella foresta risuonasse il "tamtam" con lo stesso frenetico
ritmo con cui il sangue gli batteva nelle tempie.
Strinse l'assegai con forza e balzò.
Nello stesso istante il leopardo si girò; spalancò le fauci con un ruggito
possente e, facendo leva sulle zampe posteriori, scattò.
Isa schivò il tremendo colpo, ma non tanto repentinamente da uscirne
incolume.
Gli artigli della belva gli lacerarono il petto, mentre le zanne si richiusero,
con uno scatto secco, ad un pollice dalla sua coscia.
Ristettero entrambi un attimo, che parve un secolo al ragazzo, a fissarsi
immobili.
Poi agirono contemporaneamente.
Il leopardo balzò in avanti. Isa approfittò dell'attimo in cui la belva
scopriva la parte inferiore del corpo per conficcarvi l'assegai.
Un ruggito di rabbia gli fece comprendere che il colpo era andato giusto,
mentre il leopardo gli piombava addosso rovesciandolo. I suoi artigli gli si
conficcarono ancora una volta nel corpo.
Sentí un forte dolore alla gamba e svenne.
Il grido delle iene e la pungente aria notturna lo risvegliarono.
Immediatamente si guardò d'attorno. Il leopardo giaceva irrigidito presso
di lui. L'assegai gli era penetrato nel cuore.
Tirò un ramo secco contro le iene che si avvicinavano e, con fatica,
gemendo, si sollevò a sedere.
Sentiva un dolore acuto alla gamba. Delicatamente la sollevò. Sulla
coscia s'apriva uno squarcio profondo. Gli artigli della belva avevano scoperto
l'osso.
Provò a muoverla. Stringendo i denti, sudando, riuscí a fare dei piccoli
movimenti. Bene; i nervi non erano stati lesi.
Si guardò il petto. Lunghe strisce rossastre lo rigavano tutto; proprio sotto
le mammelle cinque profonde incisioni gettavano ancora sangue.
Si trascinò verso l'acqua e si immerse.
l fresco dell'acqua mitigava il bruciore delle ferite, pur dandogli lunghi
brividi. Ma il ragazzo si ritrasse immediatamente appena vide il fiume
arrossarsi tutt'intorno. Con delle foglie di felce tamponò la ferita sulla coscia e
gli squarci sul petto.
Era spossato, ma felice. Aveva vinto la grande pantera.
Cosí, mentre scuoiava la belva, prima che la rigidità dell'eterno sonno
rendesse l'opera più faticosa, gli venne da sorridere di se stesso.
Gli sembrava d'essere un forte guerriero pronto per una grande battaglia,
dipinto com'era di bianco e striato di rosso. Ma era un rosso che parlava della
sua audacia, non un semplice tatuaggio.
Solo all'alba finí il pesante lavoro.
Prese la pelle del macchiato e la stese, su d'un cespuglio, al sole.
stenuato, vi si accucciò sotto.
Nessuno si sarebbe avvicinato.
Era, pur sempre, la pelle del più forte cacciatore della giungla.
CAPITOLO III
Erano trascorsi tre giorni dalla lotta contro il leopardo.
Isa scivolò nell'acqua e sciolse le foglie che gli ricoprivano le ferite.
Mentre cosí ristava e si divertiva a lanciare nel centro del fiume piccoli
ramoscelli che spezzava da un basso cespuglio vicino, un qualcosa
d'improvviso lo arrestò con il braccio alzato. Si guardò d'attorno.
Nulla.
ualcosa però stava accadendo. Lo sentiva. Gli uccelli avevano smesso di
colpo il loro acuto cicaleccio e persino le scimmie si dondolavano silenziose
sugli alti rami.
S'udiva solo il ronzio acuto degli insetti ed il gracidar delle rane.
Uscí dall'acqua e si diresse verso il sentiero della sete.
Osservò bene le alte erbe fin dove il sentiero si disperdeva nel groviglio
della foresta.
Nulla; assolutamente nulla.
Eppure qualcosa aveva fatto zittire il popolo alato.
Improvvisamente un rauco grido e il volo di un airone attrassero la sua
attenzione verso il margine opposto della radura. Chi aveva fatto fuggire
l'uccello dal suo nido nascosto fra le canne?
Ecco, la punta dell'alta erba ondeggiava. Non era il vento, che soffiava
leggero, a dargli quel movimento. Se cosí fosse stato, l'erba si sarebbe piegata
tutta verso il sole, che il vento andava in quella direzione.
Forse un animale in cerca di preda.
Ma un animale della giungla non intimorisce gli abitanti degli alberi.
Uomo! Soltanto gli uomini avevano quello strano potere. E se erano
uomini doveva allontanarsi in tutta fretta.
Ritornò sui suoi passi e si tuffò. Era meglio trovarsi sull'altra sponda.
Era già nel centro del fiume quando si ricordò dell'assegai e dello scudo.
Li aveva lasciati ai piedi del gigantesco baobab che in quelle notti gli aveva
offerto asilo fra i suoi rami.
Non poteva lasciarli lí. Avrebbero immediatamente indicato chi lui fosse:
un ragazzo che faceva la grande prova. E chi li trovava si sarebbe sentito in
dovere di ricercare anche il proprietario, per ucciderlo.
Dieci minuti dopo era nuovamente a terra e s'avvicinava saltellando al
vecchio rifugio. Improvvisamente si gettò fra l'erba, trattenendo il respiro.
Sem-husci e Soliman erano ai piedi del vecchio tronco.
Mur mostrava loro, compiaciuto, lo scudo.
"L'abbiamo ritrovato, finalmente!"
"Le tracce son fresche."
"Deve essere stato molti giorni qui intorno. Guardate: ci son segni vecchi
e impronte ancor fresche."
Sem-husci osservò il tronco.
"Qui dormiva" disse poi.
Quanto l'odiava ora, Isa, quel muso nero rincagnato!
"È ancora qui," disse Mur. "Le sue armi parlano per lui."
"Da' un'occhiata fra i rami" ordinò Sem-husci. "Potrebbe essere nascosto
lassù."
on l'agilità d'una scimmia, a cui aveva rubato persino i caratteri somatici,
Soliman s'afferrò al tronco e salí.
Nel frattempo Mur si era allontanato e Sem-husci attendeva ai piedi
dell'albero.
Isa meditò.
Ritornare al villaggio senza la armi sarebbe stato un segno di debolezza.
Tutti l'avrebbero notato. Non era degno d'un grande cacciatore lasciare le armi
in mano nemica.
E poi, che cosa avrebbe pensato di lui il Gran Capo? Che era fuggito
pieno di paura, tremante come il cerbiatto di fronte al pitone, dinanzi agli
esploratori che lo ricercavano.
Avrebbe dimostrato, insomma, d'essere veramente uno sciacallo di uomo.
Raccolse una pietra, la soppesò nella mano e, quando Sem-husci gli offrí
le spalle, la lanciò.
E mentre il negro, con un grido s'abbatteva al suolo, Isa con un balzo
riprese le sue armi e fuggí verso il fiume.
Soliman, ignaro di quanto era accaduto, al grido era scivolato
rapidamente lungo il tronco e sollevava ora il compagno. Mur correva verso di
loro.
Fu proprio Mur a vederlo e a dare l'allarme.
"Il ragazzo al fiume! Il ragazzo al fiume! Sem, Sem..."
Isa si tuffò.
Senti gli altri gridare, poi la voce di Sem-husci — il colpo doveva averlo
soltanto stordito — comandò:
"Tu, Mur, rimani. Ci raggiungerai quando saremo sull'altra sponda."
Isa nuotò disperatamente, stringendo fra i denti l'assegai. Lo scudo gli
dondolava sulle spalle.
Non ce la faceva più.
Il dolore alla gamba era talmente forte che non riusciva a poggiare il
piede in terra. La testa gli ronzava, mentre dinanzi agli occhi gli danzavano
infiniti punti luminosi.
Doveva trovare un luogo ove potersi sdraiare, per poco almeno; dopo aver
fatto perdere le sue tracce, però.
Gli inseguitori non erano distanti. Era riuscito a far perdere loro del tempo
balzando da un ramo all'altro per un lungo tratto di terreno; ma Sem aveva
ritrovato la traccia. Cosí essi erano nuovamente alle sue calcagna.
"Forza" diceva a se stesso. "Forza, Isa! Se ti prendono, ti uccidono...
Forza, non devi fermarti... Se ti fermi tutto è perduto! Forza!... Quanti giorni
durerà ancora la tua tinta?... Forza, forza! Su, su; non fermarti!"
Si, lui voleva fuggire; ma troppo forte era il dolore.
E, per il leopardo che aveva ucciso, non riusciva più a dominarsi.
Tuttavia si trascinò ancora.
vanti a lui s'estendeva ora una radura paludosa.
Ciuffi d'alte canne erano raggruppati su piccoli isolotti. Terreno buono per
far perdere le tracce; tanto più che un centinaio di metri più innanzi la foresta si
ripresentava più fitta, più accogliente che mai.
"Fin laggiù" mormorò "fin laggiù e poi mi riposo."
L'ultimo tratto lo percorse saltellando su di un piede. Esausto, si gettò fra
le grosse radici d'un albero.
Beh, se gli dei avevano deciso che era giunta la sua ora, era meglio morire
riposato.
Certo questo scherzetto doveva averglielo giocato quel dio che lo
stregone diceva abitante nel sacro albero e che lui aveva sempre beffeggiato.
"Comunque" mormorò "se il dio mi vuole aiutare, non riderò più in sua
presenza e gli offrirò un grosso cervo al ritorno."
Era stanco; era piacevole riposarsi; ma il pensiero che la lunga zagaglia di
Sem-husci poteva da un momento all'altro passarlo da parte a parte, lo faceva
rabbrividire.
ercava di carpire il minimo rumore. Il più lieve fruscio gli faceva balzare
il cuore in gola, mentre stringeva nervosamente l'assegai.
Fu proprio in uno di questi momenti che una voce alla sua destra, disse:
"Attento! La piccola lancia può ferirti."
Isa balzò in piedi.
"Chi è là?" tentò di gridare.
Ma solo un rauco suono gli uscí dalle labbra.
a un cespuglio uscí un uomo dalla pelle scura, tendente più al giallo che
al nero, dal viso asciutto, con gli zigomi fortemente sporgenti e gli occhi tagliati
a mandorla.
udo, non portava altro che monili di denti di fiere, intrecciati in triplice
collana, attorno al collo. Sul dorso, una faretra ricolma; le mani tendevano
l'arco ed una freccia era puntata verso il ragazzo.
"Piccolo popolo!" mormorò Isa. "Piccolo popolo!..."
E nella sua voce c'era terrore e disprezzo insieme.
"Si" disse l'uomo sorridendo. Una nera barbetta a punta gli ornava la base
del mento. "Uno del piccolo popolo."
"Non sapevo che questo fosse territorio degli uomini dei cespugli."
"Non è il 'nostro' territorio. Ma i nani della foresta" rispose sorridendo
ironicamente il Boscímano, che tale egli era, "vanno dove vogliono. Essi sono
liberi."
"I piccoli uomini" replicò Isa riprendendo coraggio, e ripetendo ciò che
aveva udito dire mille e mille volte, "devono star lontano dai Swazi. I Swazi
sono della grande razza Bantù. E i Bantù sono i padroni della foresta. Perciò i
piccoli uomini si accontentino di vivere nei cespugli e non intralcino il nostro
cammino."
La freccia si conficcò nel tronco proprio sopra la sua testa.
"Non parlare oltre, verme nero dipinto di bianco. La foresta è di tutti e noi
andiamo dove vogliamo. E se i forti Bantù vogliono vivere a lungo, non osino
disturbarci! "
Gli occhi dell'uomo, alto da giungere appena alle spalle di Isa, eran freddi,
duri.
Il ragazzo ben conosceva, attraverso i racconti dei cacciatori, la forza e
l'abilità dei Boscimani.
Piccoli, ma terribili.
Le loro frecce non perdonavano. Le punte erano bagnate nel mortale
veleno di alcune piante.
E se la razza Bantù, alla quale appartenevano i Swazi, gli Zulù, i Pondo, i
Tembù, gli Xosas, i Shangaans, i Mascona, era riuscita a scacciarli dai loro
territori, i Boscimani non si erano fatti soggiogare, erano perciò sempre un
pericolo; ed il loro odio, unito alla loro bravura, costituiva pur sempre una
minaccia.
Il ragazzo rimase immobile; ma quando vide il Boscimano avanzare verso
lui, lanciò improvvisamente l'assegai.
'uomo, inchinandosi, schivò il colpo. Prima ancora che Isa facesse in
tempo a gettarglisi addosso, una nuova freccia era incoccata nell'arco.
Isa si fermò.
"Il ragazzo dipinto ha coraggio, ma non prudenza E gli occorre questa, se
vuol tornare al villaggio quando la tinta bianca sarà scomparsa."
"Che vuoi?"
"Nulla" rispose il Boscimano. "T'ho visto lottare con la grande pantera.
T'ho visto sfuggire i cacciatori. Sei un mio nemico, un nemico della mia gente.
Quando sarai ancora più alto, la tua zagaglia colpirà forse qualcuno dei miei, se
sarai tanto svelto da evitare le nostre frecce. Ma Pao, questo è il mio nome,
ammira e rispetta il coraggio. E tu sei coraggioso. Ecco: i tuoi fratelli ti cercano
per ucciderti. Io t'aiuterò."
Isa non rispose. La paura lo aveva afferrato e non sapeva come reagire.
"I tuoi occhi" prosegui Pao "mi fanno capire che hai timore di me. Ma
Pao non ama uccidere. Se volevo, potevo farlo molti giorni fa, quando tu
colpisti il capriolo che io stavo cacciando. Potevo farlo la sera della grande
pantera. Potevo farlo ieri ed oggi, sul fiume. Ma tu sei un ragazzo e sei ferito. Ti
aiuterò."
Rimise la freccia nella faretra e si avvicinò.
"Tieni la tua piccola lancia" disse.
Isa la prese senza parlare.
L'uomo s'allontanò per raccogliere delle erbe.
l momento era propizio. Se voleva colpirlo alle spalle, ora poteva farlo. Il
Boscimano gli voltava le spalle. Isa soppesò l'assegai sulla mano, ma rimase
cosi, pensieroso.
L'uomo aveva avuto fiducia. Gli aveva ridato l'arma. Perché tradirlo,
allora?
Il Boscimano ritornò e, scoperta la ferita, vi applicò sopra le foglie
raccolte.
Una dolce sensazione di frescura pervase il ragazzo.
"Queste dovevi mettere sin dalla prima sera," disse Pao, "e non le felci
rognose. Esse non guariscono dagli artigli del leopardo."
Isa abbassò il capo mentre mormorava un grazie.
"Mi piaci," continuò Pao; "vorrei aver avuto un figlio come te. Ma la
grande pantera me lo uccise prima ancora che conoscesse la stagione delle
grandi piogge. E con lui, la madre... Come ti senti ora?"
"Sembra che la rugiada sia caduta sulla fiamma dello squarcio. Sto bene."
"Andiamo allora."
"Oh, no! Questo non lo posso fare. La gamba non mi regge più! "
"Stringi i denti e cammina. Ti devi allontanare al più presto."
"Non posso."
"Devi!"
"Ma io..."
"Devi. Basta un attimo per essere presi. Muoviti! "
Isa, con una smorfia di dolore, provò a fare qualche passo.
"Avanti, ora. Prendi il sentiero."
"Dove andiamo?"
"Verso le capanne di pietra."
"Alla 'città morta'?"
"Si. Soltanto li potrai riposare tranquillamente."
"Ero diretto a quel posto. È molto distante?"
"Quando la luna sarà alta nel cielo vedremo le prime pietre."
"Non ce la farò. È troppo lontano."
"A sera saremo al villaggio."
"Io..."
"Pao t'accompagna. Vai avanti tranquillo."
Camminarono per molto tempo.
Isa avanzava lentamente, mordendosi le labbra a sangue per non gridare
dal dolore.
Pao lo seguiva cancellando le impronte lasciate sul terreno. Ogni tanto
sostavano.
Allora il Boscimano metteva nuove, fresche foglie sulla ferita del
ragazzo.
c1 iù tardi, abbandonato il sentiero — se sentiero poteva chiamarsi quel
tappeto di muschio e foglie che si snodava in mezzo agli arbusti e fra l'intrico
delle liane — s'inoltrarono nel cuore della foresta; qui occorrevano mille giri
viziosi per procedere avanti.
Pao indicava lo stretto spiraglio, il foro attraverso i cespugli, il passaggio
tra le liane aggrovigliate.
Ogni tanto si fermava ad osservare un tronco, un cespuglio; poi
proseguiva.
Conosceva la foresta come il suo arco.
c1 notte tarda, sotto lo statico fulgore della luna che l'illuminava
facendole, con un gioco di ombre, assumere aspetti fiabeschi, giunsero alla
"città morta".
Era questa un'antichissima sede d'una civiltà sconosciuta. Chissà per quali
cause, era stata abbandonata dai suoi abitanti. E la foresta ora aveva
riconquistato ciò che gli uomini un giorno le avevano tolto.
icino ai grossi blocchi di pietra s'ergevano ora i colossi della giungla. Le
infinite varietà dei rampicanti avevano serrato, nella loro ferrea morsa, vetusti
palazzi e colonne sottili che sfrecciavano verso il cielo.
Qua e là, tra il pavimento sconnesso, grossi cespugli nascondevano larghe
lastre di pietra che avevano conosciuto il passo d'un popolo antichissimo.
el centro delle case morte, in un piazzale ove a tratti si vedeva ancora il
lastricato di marmo, s'innalzavano, dalle spalle di ciclopici elefanti, diciotto
colonne. Qualcuna di esse conservava ancora, sulla sua sommità, una grossa
testa di donna.
Al termine del colonnato un'ampia gradinata, che doveva anticamente
aver dato accesso ad un tempio, s'interrompeva ora fra i rami d'un grosso fico.
Isa, con gli occhi sbarrati, emozionato, osservava senza riuscire a parlare.
Per la prima volta vedeva una costruzione gigantesca, che appariva ancora più
grande e favolosa per i giuochi di luce e d'ombra che la luna si divertiva a
crearvi.
"Ecco le capanne di pietra" mormorò Pao.
"Più bello della foresta tutta."
"Si, ma gli spiriti del male l'abitano e i cobra ne sono i guardiani. Qui sei
in salvo, ragazzo. Nessuno ardirà penetrare fra queste pietre."
"Non andartene" supplicò Isa.
"Perché?"
"Ho... io... sento qualcosa dentro che batte, batte e mi fa tremare."
"L'uomo dipinto non deve tremare. La vernice bianca nasconde il suo
pallore. Devi essere come i tronchi, che nascondono le loro emozioni dietro la
profonda corteccia e sfidano, apparentemente immobili, ogni tempesta."
"Farò come dici, piccolo uomo."
"Non temere. Cerca un posto e riposati. Passerò domani."
"Grazie. Ti debbo la vita."
"Parole grosse per un ragazzo. Avrai tempo per rioffrirmela, se vuoi.
Addio." "Addio!"
CAPITOLO IV
"No, non cosí! Devi tenere conto anche del vento. Riprova."
Pao era un maestro severo ed Isa imparò più cose nei giorni che fu con lui
che in tanti anni di vita nel villaggio Swazi. Imparò a riconoscere
immediatamente qualsiasi impronta sul terreno; i vari tipi di erbe medicinali; a
tirar d'arco; ad imitare, meglio di quel che già facesse, i gridi dei vari animali;
tutto, insomma, quel che poteva servire ad un ragazzo che doveva diventare un
abile cacciatore, un forte guerriero, un perfetto esploratore.
E Pao era instancabile nelle sue lezioni.
Spesso aveva condotto il ragazzo nel proprio villaggio. I Boscimani
vivevano in piccole buche scavate nel terreno attorno alle quali, a guisa di tetto,
erano piantati rami di albero sormontati da una pelle di animale.
Pao abitava in una piccola grotta, e sulla roccia, nelle parti lisce e piane,
vi erano pitture ammirevoli di animali, e scene movimentate di caccia e di
guerra.
In una di queste Isa vide dipinta una grande pantera che uccideva un
neonato.
"Tuo figlio?" chiese.
Pao fece cenno di si.
"Perché tu abiti nella grotta?"
"Son vecchio, ragazzo."
Non aveva aggiunto altro, limitandosi a sorridere.
"Cosa sono queste?" chiese Isa indicando due pietre piramidali sulle quali
erano incisi degli strani geroglifici.
"Qui sacrifichiamo al nostro Dio. Non chiedere altro, ora; non potrei
risponderti."
Era stato strano il loro incontro; e più strano era, per Isa, il piacere che
provava ad essere in compagnia del Boscimano.
Pao non l'aveva mai invitato a rimanere, ma neppure l'aveva scacciato.
Erano andati a caccia insieme la mattina seguente all'arrivo nella "città
morta"; e da allora s'eran ritrovati ogni giorno, come se avessero avuto un
appuntamento, al margine delle capanne di pietra.
Altre volte Isa ritornò nel villaggio dei Boscimani ed una notte vi dormi
persino.
Nessuno gli aveva detto mai nulla, ma un giorno che volle andare a
chiamare Pao, tre frecce si conficcarono nel terreno ad un passo da lui,
facendogli chiaramente comprendere che non doveva proseguire oltre.
Da quella volta dovette imparare il grido di richiamo del popolo dei
cespugli.
Tre volte l'abbaiar dello sciacallo interrotto dalla risata sghignazzante
della iena.
Pao sorrideva mentre Isa provava e riprovava.
"Ma se ti vuoi salvare dalla puntura delle nostre frecce," diceva "devi
imparare bene."
La tinta andava scomparendo. La pelle bruna del ragazzo riaffiorava qua e
là, apparendo molto più scura nel contrasto con la bianca vernice.
"Fra poco dovrai ritornare fra la tua gente" disse un giorno Pao,
osservandolo.
Erano sdraiati ai piedi d'un grosso tronco.
"Già" rispose Isa.
E pensava a quel giorno.
"Fra i tuoi dimenticherai il vecchio, insignificante Pao. Ma io non ti
dimenticherò. Mi hai dato la felice illusione d'aver ancora mio figlio. Ti
ringrazio, Isa."
Il ragazzo non rispose subito. Voleva dire tante cose, ma non gli riusciva.
"Ecco," disse. "Tu mi hai salvato dai nemici e m'hai insegnato cose che
non dimenticherò. Hai fatto per me ciò che nessuno ha mai fatto. Io... io non
dimenticherò mai chi m'ha trattato come un figlio. Perché tu questo hai fatto. Ed
io ho imparato cosa significhi avere un padre."
Cosi dicendo prese la mano dell'uomo e la baciò.
"Le tue parole" disse Pao "sono per me come la pioggia durante la grande
calura. Danno vita. Ma dimmi: hai detto di non aver avuto padre. Come mai?"
"Il vecchio Amunai dice che è una storia lunga, ed io non la conosco.
Dimentica il fatto, Pao."
Non gli piaceva dire che tutto il villaggio gli rimproverava d'essere un
bianco. E poi, perché dirlo quando lui si sentiva Swazi, un negro della grande
tribù?
"Quando conti di ripartire?" domandò Pao.
"Al secondo spuntar del sole. Il viaggio è lungo e l'ultima vernice la
perderò lungo i sentieri. Il vecchio Amunai mi aspetta ai piedi dell'albero sacro.
Devo essere puntuale."
"T'accompagnerò sino al fiume. E nella fretta del ritorno, ricordati di aver
prudenza. Gli esploratori desiderano ucciderti."
"Lo so."
Il giorno seguente accadde però qualcosa che ritardò di molto la partenza
di Isa.
Era andato nella "città morta", per riprendere l'assegai e lo scudo. Girò
attorno ad un colonnato, penetrò fra due enormi pietre e s'abbassò per
raccogliere le armi nascoste in un angolo. Ma la sua mano strinse qualcosa di
viscido.
La ritrasse di scatto, con ribrezzo, trattenendo a stento un grido d'orrore.
ttorcigliato allo spiedo vi era un aspide dalla pelle verdiccia macchiata di
bruno. Al tocco della mano si era rizzato di colpo gonfiando il collo e, rigido
come una sbarra di ferro, fissava con occhi freddi colui che l'aveva disturbato.
Nel vedere il cappuccio, formatosi dal rigonfio del collo, Isa, gridando,
dié un balzo all'indietro.
Il comportamento dell'uomo allarmò il cobra. Guizzò in avanti. Un saettar
repentino e i denti dal possente veleno si conficcarono nel polpaccio di Isa.
Con uno strattone, il ragazzo si liberò dalla presa e preparò l'arco.
La freccia stroncò a metà il secondo slancio del rettile, inchiodandolo al
suolo.
Allora, raccolto l'assegai e stringendo i denti, Isa allargò con questo i
piccoli forellini rossi. Un fiotto di sangue usci.
S'allontanò correndo verso il villaggio dei Boscimani.
"Cosa accade al mio piccolo cacciatore? " chiese Pao sbucando da un
cespuglio. "Con la sua corsa pazza ha fatto fuggire la mia preda. Tutta la foresta
l'ha inteso!"
"Pao, un ajé... un ajé alla 'città morta'... m'ha morso! Qui! "
Pao si fece immediatamente serio.
"Appoggiati al tronco" ordinò.
Con una liana strinse fortemente il polpaccio al di sopra della ferita e con
l'assegai allargò la prima incisione fino a scarnificare l'osso.
Poi, inginocchiatosi, succhiò, dal taglio, il sangue. Smise soltanto quando
non ebbe più forza.
"Ora avanti, cammina!" ordinò "Non devi rilasciarti."
Nella grotta gli preparò un giaciglio d'erbe fresche; Isa vi si gettò sopra.
Vedeva tutte le cose offuscate, come rivestite di nebbia. Udí,
confusamente, la voce di Pao chiamare degli uomini; vide delle ombre attorno a
lui. Poi le ombre si fecero sempre più indistinte, mentre le parole di Pao si
smorzavano in quella nebbia fitta che lo circondava. Senti il suo corpo vibrare,
scuotersi tutto e non comprese più nulla.
"Tutti i capi siano avvisati. Tutti devono sapere."
Queste furono le prime parole che Isa riudí.
Sollevò la testa e si guardò d'attorno. Riconobbe la grotta di Pao.
"Cosa è accaduto?" chiese.
"Il giovane uomo rivive" rispose Pao sorridendo, mentre gli si accucciava
vicino. "È giorno di festa, questo."
"Chi parlava?"
"Hoomai. Non lo conosci."
"Cos'è accaduto?"
"L'ajé t'ha morso, ma il tuo sangue ha vinto il veleno."
"Ah, si! Mi sembrava che... quando è successo?"
"Quattro volte il sole è spuntato. Tu hai sempre dormito, mentre il tuo
corpo bruciava come il fuoco."
"Ricordo vagamente, Pao. C'erano però delle ombre. Delle ombre che mi
stavano vicino. Chi erano, Pao?"
"Uomini che ti osservavano. Tre giovani cervi hanno offerto i loro cuori a
te. E i loro cuori ancor caldi hanno succhiato il tuo sangue. Le piccole piante
t'hanno aiutato poi, con il loro succo, a liberarti dal veleno. Io non ho fatto altro
che guardarti."
Sorrise.
"Sono guarito, ora?"
"Parli; e quando la lingua si muove e gli occhi ridono, anche se il corpo è
come un cespuglio arso dal sole, si vive, Isa."
"Vorrei alzarmi."
"Prova. Ma prima bevi."
Il latte acido della capra selvatica gli parve ancor più acido del solito.
Poi si rizzò a sedere.
"La tinta sta scomparendo, Isa."
Il ragazzo si guardò. Era scomparsa. Non ce n'era la minima traccia su
tutto il corpo.
"Te n'è rimasta un'ombra leggera, leggerissima. Si direbbe che la pelle sia
coperta di polvere sottile. Rassomigli più a noi che ai Swazi."
Isa non rispose.
Quella era la sua pelle. Pelle di bianco, dicevano al villaggio. Non era
polvere, né rimasuglio di tinta. Era la sua pelle e basta.
Ma perché egli era bianco quando tutti erano neri intorno a lui, o giallastri
come Pao e la sua gente?
Per una settimana ancora fu costretto a rimanere disteso sul giaciglio. Poi
le forze gli ritornarono pian piano e finalmente riprese l'arco per cacciare.
Tornò tardi, verso sera, trascinandosi dietro un capriolo.
Aveva dovuto rincorrerlo per un paio di miglia per prenderlo, ché il
veleno delle frecce agisce lentamente. Ma era orgoglioso di sé.
Si sentiva abbastanza forte per riprendere il sentiero verso la sua tribù.
Pao l'attendeva nel centro della piccola radura che formava la piazza del
villaggio. Intorno a lui quattro uomini erano seduti vicini a delle ceste.
"Siediti" gli ordinò.
"Cosa vuoi?"
"Il serpente t'ha morso una volta e morderà ancora, se non saprai
affrontarlo. Tu hai paura di lui, vero?"
"Non lo so. Non mi era mai capitato di sobbalzare al più piccolo fruscio.
Oggi è accaduto. Credi che questa sia la paura?"
"Si. Questa è la paura. E chi ha paura, muore. Perché la paura fa fare cose
sciocche e senza senso che ti fanno perdere. Siediti. Ti farò vincere la paura. "
Una donna s'avvicinò con un vaso ricolmo d'acqua. Pao vi versò alcune
gocce d'olio. In quello stesso istante i quattro uomini, raccolti in cerchio,
intonarono una nenia lieve, sussurrata quasi; e, strisciando in terra, danzarono
attorno al vaso.
"La canzone dell'ajé, il cobra" mormorò Pao, mentre Isa fissava i
ballerini, attratto dalle loro movenze sinuose.
"Ora l'olio della benedizione penetra nell'acqua e si mescola... si
mescola... si mescola!"
Pao urlava, mentre agitava il liquido. Il suo sguardo era fisso al cielo.
"Bevi," disse poi.
Isa tracannò la pozione.
Come ebbe posato il vaso, gli uomini cessarono di danzare, raccolsero le
ceste e gli si avvicinarono.
Dai coperchi sollevati quattro serpenti rizzavano il capo guardando
fissamente il ragazzo.
"Nooo! "
Il grido di Isa era disumano.
"Stai fermo. La bevanda ti ha reso immune. I serpenti non potranno più
farti del male. Avvicinati!"
Isa s'avvicinò. Aveva fiducia in Pao che l'aveva salvato e guarito.
Il Boscimano avvicinò due rettili alle orecchie del ragazzo e questi vi si
attaccarono con i denti e vi ristettero per più di un quarto d'ora.
Poi vi furono messi gli altri due, mentre i primi gli si attorcigliavano al
collo.
Isa non tremava più. La pozione era stata efficace. La paura era
scomparsa.
Quando tutta la cerimonia ebbe termine, Pao gli disse:
"Ora tu sei salvo. I serpenti potranno avvicinarsi a te e tu li tratterai con
confidenza. Ed essi non colpiranno più, perché comprenderanno che tu non fai
loro del male."
Alcune sere dopo i Boscimani erano riuniti nel gran piazzale per la cena
d'addio. Quando la luna avrebbe illuminato la foresta Isa sarebbe partito.
Pao parlò poco, e quando tutti rientrarono nelle loro capanne fece cenno
ad Isa di seguirlo.
Nella grotta prese un arco ed una faretra artisticamente dipinta.
"Tieni" disse. "È il mio dono."
"Tu sei stato buono con me, Pao, come un padre. Terrò il tuo arco con la
stessa cura con cui bado al mio corpo. Se vuoi, verrò a trovarti spesso."
"Sarà come se venisse mio figlio. T'aspetto. Una cosa ancora. Un
amuleto. Portalo su te. Era del mio piccolo. L'avevo preparato per lui. Non l'ha
mai messo."
Isa s'inginocchiò. Il Boscimano gli legò al collo un dente di leopardo su
cui erano incisi quattro cerchi concentrici dai quali partivano otto triplici raggi.
Nel centro dell'incisione due piccole dita incrociate davano l'idea d'una spada.
"Che gli spiriti buoni t'accompagnino, Isa. Vai, che la luna è nata."
"Addio, Pao. Non dimenticherò."
E dopo avergli baciato il palmo delle mani, Isa prese il sentiero che
doveva riportarlo fra la sua gente.
Giunto al limitar del villaggio si voltò. Pao era ancor fermo sulla soglia
della grotta.
In quel momento Isa comprese com'è difficile staccarsi da chi si ama. Per
la prima volta il cuore gli balzò nel petto come a lacerarsi e le lagrime gli
bagnarono il volto. Per la prima volta piangeva senza essere stato picchiato.
Allora fuggi nella foresta buia, piena di sussurri e di vita.
CAPITOLO V
L'albero sacro del villaggio, il vecchio colossale baobab, rosseggiava tutto
sotto la carezza del sole nascente.
Isa rimirò con una certa emozione il villaggio: il gran piazzale, la capanna
del Consiglio. Il suo sguardo corse fino in fondo ove, isolata, si drizzava la
capanna di Amebais, la nutrice. S'aggiustò sulle spalle la pelle del leopardo e
s'avvicinò correndo alle siepi di recinzione.
Ecco il tucul. Entrò.
"Isa!... Lo sapevo che saresti tornato!"
L'anziano Ring-kop lo strinse fortemente a sé; poi disse:
"Fatti vedere. Ti sei fatto un bel ragazzo. E... questa pelle? Le ferite?
Racconta, su; parla... Sono stato molto in pensiero per te."
Il ragazzo narrò, colorandoli di tinte fosche, i pericoli in cui era incorso.
Era orgoglioso di sé. Si vedeva.
Ma non parlò di Pao e degli uomini dei cespugli. Sapeva che era vietato
avvicinare i Boscimani.
"Ti dovrai presentare al Gran Capo" disse Amunai. "Ma non portare la
faretra e l'arco. Sono del piccolo popolo."
"Chi te lo ha detto?"
"Chi non conosce le loro frecce?"
"Che mi dici di fare, Amunai?"
"Lascia nella capanna l'arco."
"Ma è mio!"
"Avrai la tua zagaglia, il tuo tucul; ma non potrai mai avere l'arco degli
uomini dei cespugli. È la legge."
Più tardi Isa entrò nella "grande casa". E come la prima volta lo stregone
gli venne incontro.
Nessuno dei guerrieri che gremivano la sala si alzò. Amunai soltanto; e fu
lui solo che intonò il canto della vittoria dell'uomo sulla foresta. Nessuno gli
fece coro.
Isa, immobile nel centro della capanna, fissava un punto indefinito.
Ricordava che quando gli altri ritornavano dalla grande prova, il canto dei
guerrieri si spandeva sin nel folto della foresta, mentre il vento ne portava l'eco
fino al fiammeggiante deserto.
Perché ora a lui non era dato lo stesso onore?
Perché il Gran Capo non si era alzato per abbracciarlo?
Perché, perché tutto questo?
"Grazie, Amunai," disse "ma non finire il canto. I prodi Swazi non mi
hanno veduto entrare."
vrebbe voluto piangere per la rabbia, il dolore; impellente era il desiderio
di fuggir via; d'esser solo.
Invece prosegui con voce ferma, tagliente:
"E allora lo dico forte: è ritornato Mohamed Isa, l' 'orzowei'. Egli s'è
guadagnato il suo posto. La giungla l'ha visto uscire vittorioso delle sue insidie,
e la grande pantera ha pagato il suo tributo al giovane guerriero. Che i
cacciatori, se cacciatori vi si può chiamare, si alzino."
Solo il Gran Capo si mosse.
"La foresta t'ha restituito e hai pagato con il tuo sangue il tributo. I Swazi
tutti, ed io, ammiriamo il tuo coraggio. Ma tu hai mancato."
"Cosa ho fatto?"
"Parli Sem-husci."
"Già l'ho detto. Il ragazzo è amico del piccolo popolo. L'ho seguito. L'ho
visto mangiare con loro. L'ho visto cacciare con loro. Per questo egli è sfuggito
alla mia zagaglia. Era ben guardato."
"Nessuno mi è mai stato intorno. Sem-husci mente! Si vergogna di dire
che, incontrato il piccolo popolo sul suo cammino, ha avuto paura delle sue
frecce e s'è ritirato."
"Ma tu" chiese il Capo "hai visto gli uomini dei cespugli?"
"Li ho visti. Uno di loro mi ha curato. Ho mangiato e cacciato con questo
uno. Egli è un bravo guerriero."
"Conosci la legge?"
"Chi non conosce la legge? Anche le pietre la conoscono. Ma essi sono
stati buoni con me. Perché avrei dovuto uccidere?"
"Perché questa è la legge. Un Swazi non può vivere con i piccoli uomini.
Noi e loro siamo nemici. Ma già, tu non sei un Swazi!..."
"Uno di loro m'è stato amico; non potevo uccidere. "
"Hai agito cosi solo perché sei un 'orzowei', un trovato. Ma come nella
foresta sei stato trovato, cosi nella foresta ora dovrai ritornare."
"Perché? Che colpa ho io se la mia pelle è chiara, se mi chiamate trovato?
Io ho amato il villaggio; voi. Ho obbedito alla legge. Ho superato la grande
prova. Perché volete ora scacciarmi? Perché?"
Isa urlava, piangeva, mentre si rivolgeva a tutti i guerrieri.
Ma nessuno rispose. Era come se lui non ci fosse.
"Vattene!" ordinò il Gran Capo indicandogli l'uscita.
Fu allora che in Isa si risvegliò, per la prima volta, l'uomo bianco con
tutta la sua violenza, la sua alterigia, il suo disprezzo per gli uomini di colore.
Arretrò fin sulla soglia; piantò saldamente i piedi in terra, tese l'arco e fissò il
Gran Capo e gli altri guerrieri.
"Avete ragione" disse. "Sono un bianco. Ed un bianco non può vivere tra
gli sciacalli neri. Ma vi ricorderete di Isa. Un giorno ritornerò per farvi pagare
l'affronto... No, non vi muovete. Le frecce del mio arco hanno il veleno
dell'ajé... Ho cercato d'esser dei vostri, perché mi credevo vostro fratello. Ho
sbagliato. Io sono un bianco. E sebbene non li abbia mai visti, so che voi avete
paura di loro. Ora ritornerò tra i bianchi. Non siete voi che mi scacciate, ma io
che me ne vado. Non vi muovete, prima che io sia uscito. Tu, Amunai, che
m'hai protetto e salvato, vieni con me, se vuoi. A voi, sciacalli paurosi, iene
luride, addio! "
Sputò con disprezzo ai piedi del Capo e con un balzo fu fuori.
Fuggi verso la foresta, mentre le zagaglie gli sibilavano attorno.
Era notte fonda quando Amunai lo aveva raggiunto alla Rupe Bianca. Era
venuto per salutarlo.
"Stai attento," gli aveva detto, "tra i Swazi c'è chi ti odia, e perché sei
bianco, e perché hai superato la gran prova. Oh, non credere che t'abbiano
scacciato perché hai avvicinato il piccolo popolo. No, no! Ti avrebbero sempre
scacciato. Perché tu sei un 'orzowei'. Stai attento, figlio. Se io fossi in te,
raggiungerei gli uomini della mia razza. Addio! "
Ed Isa era rimasto solo.
Allora tutto gli parve nuovo, misterioso. Un nodo gli si formò in gola, e
pianse.
Tre volte l'abbaiar dello sciacallo interrotto dalla risata sghignazzante
della iena.
Questo era il segnale.
Un uomo sbucò, come se spuntasse dalla terra, a pochi passi da lui.
"Pao" sussurrò Isa "voglio vedere Pao."
"Ti riconosco. Tu sei il ragazzo dell'ajé. Vieni."
"Già sei tornato?" chiese Pao, appena Isa ebbe varcata la soglia della
grotta.
"Il villaggio m'ha scacciato."
Il Boscimano l'osservò in silenzio; poi disse:
"Racconta."
"Ho camminato a lungo nella foresta. Sono giunto fino al grande deserto.
Ma non posso vivere solo, Pao. Non posso; ho paura!"
"Paura di che? Sei un cacciatore, ormai!"
"No, non è questo. Ho paura del silenzio. Non parlare, non vedere altri
uomini, non..."
"Il silenzio ti fa paura; ti capisco. Questo accade perché sei un ragazzo. Io
amo vivere solo... Ma perché il villaggio t'ha scacciato? Cosa hai fatto?"
"Mi hanno lanciato dietro le loro zagaglie. Nessuno, eccetto Amunai, ha
cantato per me la vittoria dell'uomo sulla foresta. Come un cane mi hanno
trattato. Ma un giorno farò vedere loro chi è Isa."
"Se t'hanno gettato del fango addosso, non fa nulla, figlio. Asciugati e
sorridi. Il tempo parlerà in tuo favore."
"Non posso aspettare il tempo. E perché dovrei asciugarmi? Non voglio
dimenticare!"
"La luna non avrà ricominciato il suo giro, che tu avrai già dimenticato.
Ma non mi hai ancora detto perché ti hanno cacciato."
"Perché..." il ragazzo abbassò il capo vergognoso "perché... ecco: perché
sono un bianco. Ed ora mandami via anche tu. Si, lo so, anche tu mi butterai
fuori. Ma che colpa ne ho io se sono un bianco? Che colpa?"
"Non ho parlato, Isa."
"Ma so già quello che dirai; lo so. Anche tu odi i bianchi; anche tu mi
disprezzi. Dillo, su! Dillo! chiamami anche tu 'orzowei'!... Si, tutti odiate i
bianchi perché avete rabbia di non essere come i bianchi. I Swazi perché sono
neri, voi perché siete piccoli e gialli."
"Non sai niente. Credi di essere grande, di conoscere tutto e invece non
sei altro che un piccolo uomo che piange per il colore della sua pelle; un piccolo
uomo che ancora non conosce se stesso. Vergognati! Si, sei un bianco. Ed io lo
sapevo. Lo compresi quando ti curavo dal veleno dell'ajé. Ma che conta il
colore della pelle se sotto di essa batte un cuore generoso a cui il coraggio dà
vita? Ma è che tu sei più pauroso d'una timida gazzella. Non hai sangue, tu. Sei
come lo sciacallo che urla e strepita quando è solo, ma urla e strepita soltanto
per darsi coraggio. Si, uno sciacallo sei; un povero, rognoso sciacallo. T'hanno
scacciato? Prosegui per la tua via. E se credi che anch'io ti possa scacciare solo
per la tinta della tua pelle, vattene! "
Isa ascoltò senza fiatare il rimprovero.
Poi, quando l'uomo immobile, col braccio teso gli indicò l'uscita, raccolse
l'arco e rispose:
"Ecco la mia arma, Pao. Tu me l'hai donata, ma io non son degno di
portarla. Ritornerò solo quando t'avrò dimostrato che so vivere benissimo,
anche se la mia pelle non è quella di un Swazi o di un uomo dei cespugli."
"Non occorre" disse Pao. "Rimani. La mia capanna è la tua capanna. E
quando deciderai di ritornare fra la tua gente, sarai libero di farlo."
"Ma i tuoi compagni?"
"Essi non badano al colore d'un uomo, ma guardano le azioni dell'uomo."
"Non ti lascerò più, Pao."
"Un giorno dovrai farlo. Il tuo posto è fra la tua gente. Parlerò con quel
vecchio che ti ha trovato. Come si chiama?"
"Amunai."
"Si, con Amunai. M'accompagnerai tu stesso. Voglio sapere. Ed ora vieni
presso di me, figlio."
CAPITOLO VI
Per tre anni Isa visse con Pao.
Era diventato un ragazzo alto, slanciato. Non un grammo del suo corpo
vigoroso era appesantito dal grasso.
Muscoli d'acciaio si tendevano sotto la pelle bruciata dal sole.
Le lunghe cacce e la vita nella foresta gli avevano dato resistenza ed
agilità straordinarie.
Sapeva strisciare sul terreno più infido senza fare il più leggero rumore.
Sapeva correre dietro una giraffa ferita per più di quaranta miglia, senza
stancarsi.
Il suo spirito d'osservazione s'era sviluppato al massimo grado.
Pao era fiero di lui, ed i Boscimani lo vedevano crescere con orgoglio.
Aveva quindici anni quando incontrò per la prima volta un uomo bianco.
S'era recato con Pao — spesso si allontanavano dal villaggio per lunghi
periodi — molto a Sud, seguendo il gran fiume, quando vide una barca.
"Cos'è?" chiese osservandola attentamente.
"Un pesce di legno" rispose il vecchio. "Ne ho visti di molto più grandi
dove il fiume si getta nella grande acqua. E quello è fatto dalla tua gente."
"Bianchi?"
"Bianchi."
Isa la scrutò meglio. L'imbarcazione non rassomigliava affatto alle
piroghe dei Swazi.
Un uomo era seduto a poppa; un cappello dalle larghe falde nascondeva il
suo volto.
"Pao..." disse indeciso, non sapendo neppure lui cosa volesse chiedere.
"Capisco," sorrise il Boscimano. "Vai. Ci ritroveremo alla prossima luna
al villaggio."
"Ma io..."
Lo so. Non vuoi lasciarmi. Ma quella è la tua gente, non la mia. E la tua
curiosità sarà tanta che non basterà un giorno o due per appagarla. Ci rivedremo
alla prossima luna, vai."
"Grazie, Pao."
"Vai in pace, figlio. Ho fiducia in te."
"Ritornerò anche prima. Addio!"
Scivolò silenziosamente nel fiume, come Pao gli aveva insegnato, e segui
l'imbarcazione.
Solo verso sera la barca si fermò.
L'uomo ne discese. Portava sulle spalle un grosso zaino, mentre fra le
mani stringeva un fucile.
"La canna tonante!" mormorò Isa.
Pao gliela aveva ben descritta. Non un particolare gli era sfuggito. Da
quel tubo che dava la morte doveva ben guardarsi.
Dalla sponda del fiume un ampio sentiero penetrava nella foresta; poi
questa si diradava pian piano fino a lasciare il posto ad un vastissimo campo
che si perdeva all'orizzonte.
A due, tre miglia di distanza, sorgevano degli edifici dall'aspetto nuovo e
grandioso per Isa. Erano le case dei pionieri olandesi, accovacciate sotto grandi
tetti aguzzi.
Alberi a lui sconosciuti le circondavano e davano ad esse ombra. Alberi
strani: querce.
Qua e là vivevano ancora stentati gruppi di acacie. Ampi sentieri
separavano una casa dall'altra.
Strisciando fra i campi, Isa osservò meravigliato ogni cosa.
Più tardi uno strano rumore gli fece volgere il capo al lato opposto delle
case.
Tre paia di buoi trascinavano un grosso carro traballante, cigolante sui
sentieri appena abbozzati.
Un uomo, dall'alto del suo cavallo, carabina in spalla, incitava i lenti
animali.
e sue grida, ora stridule, ora gutturali, giungevano chiare sino a lui.
Vide il carro fermarsi davanti a una di quelle grandi capanne e una donna
grossa farsi incontro al nuovo arrivato. Tre ragazzi usciti dalla casa s'erano già
arrampicati sul carro gridando e ridendo. Era strano il vestire di quella gente; e
ancor più strane le parole che gli giungevano portate dal vento.
Quelli erano i bianchi, il suo popolo.
S'avvicinò al sentiero.
Proprio allora l'uomo che aveva seguito, s'accostò al gruppo e si tolse il
cappello.
I suoi capelli erano biondi. Isa non aveva mai visto capelli di quel colore.
Gli ultimi raggi del sole che correva a nascondersi nella foresta, davano
dei riflessi di rame a quella strana capigliatura.
"Come un fiore di granturco..." disse Isa, e rimase a guardarla affascinato.
urante la notte, guardingo come un leopardo, s'avvicinò alle case. Le
sfiorò con le dita, leggermente.
Poi un qualcosa lo fece fermare immobile.
Aveva già visto quel giardino.
Si, doveva averlo visto in qualche luogo. Certo non nel villaggio dei
Swazi e nemmeno da Pao. Dove l'aveva veduto?
Forse l'aveva sognato. Gli pareva una cosa lontana, svanita quasi.
Eppure...
Ecco. Dietro quegli alberi c'era un pozzo; questo lo ricordava. Un pozzo
con un piccolo parapetto di mattoni rossi.
S'avvicinò.
Il pozzo era là, con il piccolo parapetto di mattoni bruciati dal sole.
"Strano," pensò Isa, "strano tutto ciò. Questo è uno scherzo del dio del
male. Egli si burla di me! "
Girovagò per il villaggio; ma sempre ritornava in quel giardino.
E sui rami degli alberi che lo abbellivano, s'addormentò quando il sole
ritornò a dar luce alla terra.
Le grida dei ragazzi lo svegliarono. Non ebbe un attimo di esitazione.
Sapeva già dove si trovava e cosa accadeva.
Il suo istinto d'uomo abituato a vivere ogni momento tra i pericoli, lo
rendeva sempre pronto.
Non era merito suo. La foresta aveva insegnato. Scivolò lungo il tronco e
rimase ad osservare i ragazzi.
Quando questi s'allontanarono lungo l'ampio sentiero, li segui. Lo
interessavano. Sperava che essi lo guidassero dai guerrieri.
"Sono molto bravi," aveva detto Pao, "ed hanno molte cose che
luccicano."
Finora non ne aveva visti. Chissà se i ragazzi andavano verso loro?
Se essi erano come i piccoli Swazi, si sarebbero intrufolati subito tra le
capanne dei guerrieri. Loro facevano sempre cosi.
I "piccoli bianchi" si fermarono invece presso una casa senza tetto,
salirono su dei cumuli di pietre e giocarono. Alcuni si nascondevano, altri
dovevano trovarli.
Isa sorrise. Anche lui, nel villaggio, aveva fatto quel gioco. Ma i suoi
compagni sapevano nascondersi meglio dei ragazzi bianchi.
Stava per allontanarsi, quando un grido lo fece sussultare.
Una fanciulla aveva gridato. E in quel grido Isa aveva inteso vibrare la
paura.
Ora anche gli altri ragazzi urlavano; ma, come avvinti dal terrore, non si
muovevano.
La fanciulla tremava tutta. Atterrita, fissava qualcosa che era vicino ai
suoi piedi.
Con pochi salti Isa le fu a fianco.
"Non ti muovere!" comandò.
Un grosso cobra oscillava avanti e indietro la testa piatta dal collo
rigonfio.
"Non ti muovere!" ripetè.
Sarebbe bastato infatti il più piccolo movimento perché, con la fulmineità
propria della sua razza, il rettile colpisse. La fanciulla fissava sgomenta quegli
occhi freddi, immobili.
"Vai via piano, senza correre" ordinò Isa.
Solo ora la ragazza lo vide. Sgranò ancor più gli occhi di fronte
all'apparizione improvvisa.
Ma la paura del serpente fu più forte di quella che le poteva incutere un
selvaggio. Cosí, urlando, gli si strinse fortemente.
"Lasciami!" gridò il ragazzo.
Con un colpo la fece andare in terra.
Il cobra balzò, ma la freccia troncò il suo slancio a metà. Un attimo dopo
una seconda freccia lo inchiodava al suolo.
Allora tutti fuggirono.
Isa rimase solo davanti all'ajé che si dibatteva.
"È la mia vendetta", mormorò, mentre le sue dita accarezzavano i segni
che un altro ajé gli aveva incisi sulla gamba.
Udendo un vocio confuso e un rumor di passi che si avvicinavano,
s'intrufolò in un cespuglio ed attese.
Un ragazzo indicava, ad una decina di uomini, il luogo della lotta.
Fra questi Isa riconobbe l'uomo della barca, "Fior di granturco". Fu
proprio lui ad avvicinarsi al serpente e a dargli, senza esitazione, il colpo di
grazia.
"Non ha paura", mormorò Isa. E fu contento. Quell'uomo gli piaceva.
Intanto questi, raccolte le frecce, osservava i segni che i Boscimani vi
incidevano sulle estremità. Poi parlò agli altri.
Per oltre dieci minuti non fecero altro che discutere; poi uno interrogò il
ragazzo e questi indicò il punto dal quale Isa era scomparso. Un gruppo si
diresse verso quel luogo; altri s'allontanarono in varie direzioni.
"Fior di granturco" s'avvicinò al cespuglio ove era Isa; gli passò
vicinissimo e s'allontanò verso il fiume.
Isa si era divertito a toccare lo stivaletto di cuoio che rinchiudeva il piede
dell'uomo; poi lo segui.
Avrebbe giocato alla caccia con gli uomini bianchi.
"Fior di granturco" osservava attentamente il terreno. Più volte si era
fermato presso i grossi cespugli ed aveva frugato in essi con il fucile.
Mentre era curvo su d'una impronta, Isa lanciò una freccia che andò a
conficcarglisi fra le gambe.
Non voleva colpire. Voleva vedere soltanto se "Fior di granturco" aveva
paura.
Ma l'uomo reagí immediatamente. Senza neppur sollevarsi sparò alcuni
colpi nella direzione di Isa e le pallottole sibilarono sul capo del ragazzo.
Isa era rimasto sbalordito.
L'uomo non aveva sparato con la lunga canna, ma con una canna piccola,
racchiusa nella mano.
Oltre a non aver paura, "Fior di granturco" era anche un abile tiratore.
I suoi compagni, allarmati, lo raggiunsero e tutt'insieme si diedero a
battere il terreno all'intorno. Ma Isa era già salvo fra i rami d'una grossa acacia.
Cosí, balzando di ramo in ramo, li segui nella loro lunga, infruttuosa
caccia.
Li segui fino a sera, quando ritornarono alle loro case e vi si chiusero
dentro.
Quella notte non si fermarono a fumare, seduti su strani sgabelli, dinanzi
all'uscio d'uno di loro, come avevano fatto la sera precedente.
"Fior di granturco" gironzolò ancora, poi entrò nella casa dal pozzo di
mattoni rossi. Un piccolo barlume di luce indicò ad Isa quale fosse la stanza ove
era l'uomo. Arrampicarsi per le sbarre di una finestra, attaccarsi al cornicione ed
innalzarsi fin sulla finestra superiore, fu per Isa, agile come una scimmia, cosa
da nulla.
Bussò leggermente alle imposte.
Poco dopo la finestra s'apriva e Isa, bruscamente afferrato per il collo, fu
trascinato nell'interno.
Solo la luna illuminava la stanza.
L'uomo bianco aveva spento il fuoco.
Con uno strattone Isa riuscí a liberarsi, ma non toccò l'arco.
L'uomo aveva nella mano, puntato su di lui, il piccolo fucile.
"Togli la canna tonante" disse Isa.
Sorpreso, si senti rispondere nella sua lingua:
"Che vuoi? Perché sei venuto?"
L'uomo bianco sapeva parlare come lui. Isa ne fu contento.
S'accucciò in terra, depose l'arco e le frecce ai piedi dell'uomo, poi
rispose:
"Volevo conoscerti."
Se "Fior di granturco" era un vile e un pauroso, in questo momento si
sarebbe visto. Isa lo scrutò attentamente. Ma quello, richiusa la finestra, gli si
sedette di fronte.
Posò la pistola accanto all'arco e chiese:
"Sei tu che hai salvato la fanciulla?"
"Io ho ucciso l'ajé."
"Grazie. Sei un guerriero generoso. Ora dimmi: perché i Boscimani sono
sul nostro sentiero? Cosa vogliono ? "
"I piccoli uomini non sono sul vostro sentiero."
"Ma le loro frecce hanno parlato."
"Le mie frecce."
"Allora tu le hai prese ai piccoli uomini. Tu sei Swazi, vero?" "Si. Sono
Swazi."
Scoppiò a ridere.
L'uomo lo guardò meravigliato.
"Sono Swazi e nello stesso tempo 'Boscimano', come dici tu."
"Non ti capisco. Comunque, chi circonda le nostre case, e perché?"
"I Swazi sono nei loro villaggi e i piccoli uomini cacciano molto lontano
da qui. Nessuno vi circonda."
"Ma allora, tu?"
"Io t'ho seguito lungo il fiume. Volevo conoscerti."
"Perché?"
"Cosi."
Isa non disse "perché io sono del tuo stesso popolo". Non sapeva se
dovesse dirlo. "Fior di granturco" gli piaceva, sarebbe stato volentieri con lui;
ma gli altri bianchi erano come lui o no?
E poi, voleva ritornare da Pao.
"Cosi!" ripetè. "M'hanno dette molte cose sui bianchi, che ho voluto
vederli."
"Perché sei venuto da me?"
"Perché tu sei solo e non hai paura."
"Chi te lo dice?"
"Tu stesso. Non hai mai tremato. Né quando t'ho lanciata la freccia, né ora
che sono venuto."
"Be', mi fa piacere vedere che lo hai notato. Comunque ho avuto paura,
ma non l'ho dimostrato."
Bene, questo ad Isa piaceva. L'uomo non aveva doppia lingua.
"Ora" disse il bianco "fammi accendere la candela... si, il fuoco. Voglio
vederti."
"Se accendi il fuoco vado via."
"Perché?"
"Cosi. Se accendi, vado."
"La finestra è chiusa."
"Ma il mio arco è vicino."
"Va bene. Come ti chiami?"
"Mohamed Isa."
"Musulmano?"
"Cosa?!"
"Sei musulmano?"
"No. Sono Swazi io."
"Il nome dice che tu sei musulmano."
"Il mio nome dice cose che non sono vere. E tu, come ti chiami?"
"Paul von Hunks."
"Pa... Paul von... von... Il tuo nome è difficile. 'Fior di granturco' sei per
me."
L'uomo scoppiò a ridere.
"Va bene," disse poi "Fior di granturco". "Ora, Mohamed Isa, dimmi cosa
vuoi."
Il ragazzo non rispose alla domanda. Chiese lui:
"È questa la tua casa?"
"No. Era di gente che fu uccisa nella foresta."
"Qual è allora la tua casa?"
"La mia casa è lontana. Ma quando vengo in questo villaggio, abito in
questa casa."
"Vieni spesso?"
"Qualche volta si. Altre volte passano molte lune."
"Cosa fai?"
"Ehi, ma dico? Questo è un vero e proprio interrogatorio" disse ridendo.
Il colloquio lo divertiva.
Voleva proprio vedere dove il ragazzo Swazi voleva arrivare.
"Siccome un giorno dovrò vivere con te, voglio sapere chi sei."
"E chi ti dice che io ti voglia?"
"Io. Se io voglio stare con te, starò con te. Cosa fai?"
"Sei un prepotente. Io non faccio nulla. Giro qua e là; vado a caccia,
vendo oggetti, e cerco di vivere come meglio posso."
"È una vita che mi piace."
"Anche a me."
"Rimarrò in prova."
"Come!?!"
"Rimarrò."
"Senti, intendiamoci subito. Se vuoi puoi rimanere; ma solo qui, in questo
villaggio. Poi, no."
"Perché?"
"Cosi. Tu non puoi venire dove vado io."
"Perché?" chiese nuovamente Isa.
"Dove vado io non può venire un Swazi."
"Perché?"
L'uomo non rispose subito. Anzi, non voleva rispondere affatto; ma Isa
domandò nuovamente e lui disse:
"I bianchi non amano stare con la gente della tua razza."
Isa mormorò:
"Non capisco perché i bianchi non possono stare con i Swazi; comunque,
va bene. Io verrò con te. Buona notte."
"Buona notte. Rimani qui?"
"Qui."
"Vuoi dormire sul letto?"
"Letto!?! No, qui starò bene."
Si sdraiò sulla pelle del leopardo e rapidamente, come ogni essere della
giungla, s'addormentò.
CAPITOLO VII
Risvegliandosi, Isa trovò al suo fianco l'arco e le frecce.
"Fior di granturco" non aveva avuto paura.
Egli dormiva ancora ed Isa gli si avvicinò.
E mentre lo osservava, si toccava il viso; e confrontava il colore della sua
pelle con quella dell'uomo.
Non c'era nessun dubbio. Era proprio un bianco.
"Che fai?" chiese "Fior di granturco" improvvisamente, sedendosi sul
letto. "Eh,... ohi, ma vieni qui, fammi vedere! "
Balzò in piedi e, tenendolo per un braccio, si avvicinò alla finestra.
"Perbacco!"
Non seppe dir altro. Lo scrutò in ogni parte; gli tolse la pelle del leopardo;
poi, scrollando il capo, esclamò:
"Non c'è dubbio, ragazzo mio, tu sei un bianco. E, si! Mica sbaglio, io. O
un bianco o un incrocio. Chi sei tu?"
Isa sorrise.
"Un bianco. Lo hai detto."
"Lo sapevi?!"
"Si, da molte lune. Per questo i Swazi mi hanno scacciato dopo la grande
prova. "
"La grande prova?!" "Si."
Isa raccontò brevemente ciò che gli era accaduto; l'incontro con Pao; la
cacciata dal villaggio ed il ritorno dai Boscimani.
"Poi" disse "ho incontrato te. E ho detto: ora debbo conoscere gli uomini
bianchi, e sono venuto."
"Va bene. La situazione è differente ora. Io non ho nulla in contrario a
tenerti. Conosci il nome dei tuoi genitori?"
"Anche Pao me lo ha chiesto. L'ha domandato anche ad Amunai, quando
siamo andati a trovarlo. Ma nessuno conosce il loro nome. La foresta è mia
madre."
"Ascoltami, Isa. Io ti terrei volentieri, ma non posso. Debbo viaggiare e tu
invece hai bisogno di restare al villaggio per imparare ciò che un bianco deve
sapere."
"Io starò con te, se no andrò via!"
"Se vuoi stare con me devi imparare a vivere come i bianchi. Vieni, ora."
"Dove mi porti?"
"Fra gli uomini di queste case."
Malgrado l'ora mattutina la vita, nel modesto villaggio, già ferveva.
Gli uomini si affaccendavano attorno ai carri, pronti a recarsi nei campi
lontani. Un gradevole profumo di carne arrostita si spandeva nell'aria.
Tutti rimasero stupiti nel vedere Paul in compagnia del selvaggio e gli si
strinsero attorno.
"Questo" disse Paul "è il ragazzo che ieri ha salvato Irghin dal cobra. È un
bianco" soggiunse "vissuto con i Swazi ed i Boscimani... Vuol stare con me. Ma
voi sapete che io non posso tenerlo."
Gli uomini annuirono.
Anche le donne ora si erano fatte da presso, mentre i ragazzi facevan
capolino tra le loro vesti.
"Perciò" prosegui Paul "vi prego di tenerlo con voi. Quando avrà
imparato a vivere come un essere civile, lo porterò con me."
Si guardarono in faccia l'un con l'altro.
Poi uno chiese:
"Possiamo fidarci, Paul?"
Isa non comprendeva la lingua boera, ma dall'espressione del viso di colui
che aveva parlato, capí cosa era stato chiesto.
Prese una freccia e la consegnò all'uomo.
"George" disse sorridendo Paul "il ragazzo ha risposto. Potete fidarvi.
Certo, sul principio sarà un po' duro tenerlo a freno. Ma sembra un tipo in
gamba."
"Non sarà stato mandato qui con il compito di spiarci?" domandò un
anziano.
"Potrebbe anche darsi" rispose Paul. "Non lo sappiamo. Ma a gente
accorta come voi non sfuggirà se è una spia o meno. Comunque è un bianco..."
"Un selvaggio!" interruppe uno.
"Si, selvaggio. Per questo dobbiamo rimetterlo in sesto."
"Fior di granturco" si fermò due settimane.
E per due settimane Isa fu la sua ombra.
Nella foresta, nei campi, lungo il fiume, ovunque Paul andava egli lo
seguiva.
Cosí il ragazzo imparò mille piccole cose. A mangiare ad un tavolo e a
dormire in un letto; ad usare le posate e a lavarsi con il sapone. A fare,
insomma, tutto ciò che un ragazzo bianco impara, senza accorgersene, nei primi
anni della sua vita.
Ma per Isa furono giorni duri.
Solo per amore di "Fior di granturco" riuscí ad imparare. Per "Fior di
granturco" che, se pur duro di modi, era riuscito a conquistare il suo cuore. Per
lui, dimenticava persino i Boscimani e Pao.
Un giorno Paul gli disse:
"È ora di togliere la pelle di leopardo, Isa."
"Perché?"
"Perché un bianco non può girare vestito in quel modo. Devi metterti dei
panni come i miei."
"Ma il leopardo è mio. L'ho ucciso io!"
"Ti ho fatto cucire un paio di pantaloni."
"La pelle della grande pantera mi copre meglio." "Metterai i pantaloni,
ora."
"Ora?! Perché, 'Fior di granturco'? Mi hai detto di mangiare con questi
arnesi, ed io ho mangiato; mi..."
"Si!" rise Paul "con la stessa grazia di uno scimmione."
"Mi hai detto di dormire sul letto, e ci ho dormito. Ma ora tu vuoi
togliermi la 'mia' pelle! "
"Isa!"
Il ragazzo tacque. Fissò negli occhi Paul; vi vide un segno di
rincrescimento, e si alzò.
"Dove sono i pantaloni?" chiese sommessamente. "Di là."
Rientrò poco dopo a testa china.
I pantaloni gli giungevano a metà ginocchio. Ed erano un po' stretti.
Si fermò dinanzi a Paul senza dir nulla e senza guardarlo in viso.
"C'era anche una camicia vicino ai pantaloni" disse Paul. "Non l'hai
vista?"
L'assenza fu più lunga; ma Isa entrò ridendo, contento di sé.
"Ho messo la camicia," disse, e fissò negli occhi Paul.
La camicia usciva fuori dei pantaloni e la pelle di leopardo la ricopriva
tutta.
"Isa!" sospirò l'uomo.
"C'è qualcosa che non va?"
Isa era sincero. Aveva obbedito a Paul e nello stesso tempo aveva ridato
fiducia a se stesso.
"Isa, non puoi tenere la pelle sugli abiti."
"Sono vestito come vuoi tu e come voglio io. Che c'è di male?"
"No, Isa. Se vuoi rimanere con me, devi togliertela."
La pelle cadde ai suoi piedi.
na mattina, ai primi bagliori del giorno, "Fior di granturco" uscí senza
rumore dalla stanza. S'assicurò un grosso fardello sulle spalle, mise in testa un
cappellone a larghe falde e prese il fucile.
Ma mentre si avvicinava all'abitazione di George, l'anziano, un pensiero
improvviso lo fece tornare indietro.
Sul pavimento dell'ingresso, con un pezzo di carbone, fece degli strani
segni.
Un cerchio; e nel cerchio una pelle di leopardo ed un cappellone simile a
quello che portava. Poi, sorridendo, usci.
Alcuni uomini l'aspettavano. Gli consegnarono delle lettere e Paul si
allontanò di buon passo sul sentiero dei carri.
Aveva percorse sí e no cinque miglia, quando una freccia gli sibilò sul
capo. Si gettò a terra pronto a sparare.
Un sibilo, ed una seconda freccia si conficcò nel terreno a poche dita dalla
sua testa.
Allora rise e si alzò.
"Mi hai messo paura, Isa!" gridò.
Il ragazzo uscí dai cespugli che lo nascondevano.
'Fior di granturco' non è leale" disse imbronciato.
"No, Isa. Io..."
"E non è neppure scaltro abbastanza" proseguí il ragazzo. "I suoi piedi
sembrano montagne ed il suo passo è più pesante di quello di un elefante
irritato. Avresti svegliato anche quella donnaccia di Amebais dopo il ballo dei
'grandi fiori'!"
"Ma io..."
"Non mi volevi salutare. Perché?"
Isa s'accostò all'uomo e timidamente gli toccò un braccio.
"Mio piccolo selvaggio" rispose Paul mentre gli scarmigliava con un
gesto affettuoso i capelli "non volevo dirti addio, perché mi dispiace andare.
Ecco perché col mio passo da elefante irritato ho cercato di non far rumore. Ma
tu sei come gli animali della foresta. Dormi, e le tue orecchie sentono e i tuoi
occhi vedono."
"Vengo con te?" supplicò Isa.
"Ritornerò alla terza luna nuova. E ricorda: soffrirei moltissimo se non ti
ritrovassi. E voglio che tu, allora, sia come io desidero."
"Saresti felice?"
"Sarei fiero e felice."
"Cercherò di diventare come tu desideri. Ma ritorna presto."
L'uomo l'abbracciò.
"Addio!" disse.
"Torna presto."
A casa Isa rimase a guardare lungamente il disegno di Paul. Quando
George l'andò a chiamare, lo trovò accucciato in terra che fissava immobile il
pavimento.
"Ehi!" chiamò.
Isa non senti.
"Ehi, cafro!"
Segui lo sguardo del ragazzo e vide lo strano disegno.
"L'ha fatto Paul?"
Attese una risposta, poi mormorò:
"A volte è proprio pazzo quell'uomo. Andiamo, c'è da lavorare! Il mistero
di quei segnacci lo svelerai dopo, quando non avrai da fare."
Ma per Isa non c'era mistero.
Il cappello era "Fior di granturco"; la pelle di leopardo, lui, Isa. Ed il
cerchio che li racchiudeva diceva chiaramente che ognuno era vicino all'altro,
per sempre.
CAPITOLO VIII
"Noi non vogliamo giocare con te. Ritorna dai negri, tu che puzzi come
loro."
"Sei un selvaggio; un buono a nulla!"
"Guardate come mangia!"
"Spione; spione."
"Togliti, che sei sporco tu!"
"Vai via! Via!"
Con queste, ed altre espressioni peggiori, i ragazzi allontanavano Isa dai
loro giochi, dalla loro vita d'ogni giorno.
Due settimane erano trascorse dalla partenza di Paul. Nel villaggio Isa era
a malapena sopportato. Per tutti egli era un selvaggio, perciò un essere inferiore
che non era degno di star con loro.
"Bianco lui?!... Un bianco non sarebbe riuscito a vivere neppure un
giorno tra gli Zulù! "
Se non l'avevano ancora ucciso, era solo perché uccidere era peccato
mortale.
Se non l'avevano ancora scacciato, era solo perché Paul aveva chiesto che
lo tenessero.
E a Paul bisognava ubbidire.
Ma qualsiasi lavoro, il più duro, il più faticoso, il più nauseante, gli
veniva affibbiato senza rimorso.
"Ehi, cafro, c'è da pulire le stalle!"
"Ehi, cafro, c'è da spaccare la legna."
Si, cafro.
L'infedele, ossia. E la parola veniva pronunciata con tal disprezzo, da
essere più che ingiuria.
"Cafro, sai portare i buoi al pascolo?"
Quante volte lo aveva fatto nel villaggio Swazi?
"Animo, allora! E attento a non farteli scappare da sotto il naso."
Anche lo scherno!
Il sangue gli pulsava veloce nelle vene in quei momenti. Molte volte la
mano corse all'arco. Solo il pensiero di Paul lo fermava.
Doveva imparare a vivere come un bianco.
Non aveva detto questo Paul?
Allora abbassava il capo ed obbediva.
Chi si curava di Isa, era Anna, la madre di Irghin, la fanciulla che Isa
aveva salvato dal cobra.
Ma Anna non era Paul. Gli voleva bene a modo suo. Lo curava, gli
preparava da mangiare, gli faceva trovare il letto pulito, ordinato; ma mai che
avesse per lui un gesto affettuoso, mai che scambiasse con lui una parola in più
del necessario.
Stefano, il più grande dei suoi figli, quando Isa entrò per la prima volta
nella loro casa, aveva detto:
"Madre, se questo selvaggio mangia alla nostra tavola, io me ne vado."
"Questo ragazzo dormirà con noi e dormirà nella vostra stanza."
"Ma madre, è un selvaggio!"
"È un ragazzo come voi. Bianco o nero non importa. Siedi fra noi, Isa, e
sii il benvenuto."
"Se il papà fosse qui!..."
"Se vostro padre, sia benedetta la sua anima, fosse ancora tra noi, avrebbe
approvato il mio agire. Egli" indicò Isa "è sempre un ragazzo!"
Questa era la vita di Isa tra la gente della sua razza.
"Non mi vogliono, non mi vogliono. Mi trattano come un estraneo. Hanno
ribrezzo di me, schifo, odio. Cosa ho fatto loro?" gridava al vento, mentre i buoi
pascolavano tranquilli.
E sperava che il vento gli rispondesse, o, almeno, gli portasse la risposta
di Paul.
Poi accadde qualcosa che gli fece nascere la speranza di mostrarsi degno,
di fronte ai bianchi, di essere ammesso fra loro.
c1 er due notti consecutive le stalle dei buoi furono visitate da un grosso
carnivoro. La prima notte furono dilaniati i quattro buoi di Erminio. La seconda
notte toccò alle giumente di Emanuele.
"Bisogna montar di guardia" disse George, l'anziano. "Se si va avanti cosi
rimarremo senza animali."
Tutti approvarono.
I tre che erano andati ad esplorare i dintorni, ritornarono sfiduciati. Del
selvatico nessuna traccia.
"Comunque" concluse Filips, il più abile cacciatore del villaggio "lo
scoveremo. È un grosso felino: un leopardo, credo."
Isa, accucciato in un angolo, si gingillava con l'arco.
Aveva tentato di parlare, ma George gli aveva detto bruscamente:
"Sappiamo cacciare anche noi, senza dover ricorrere all'aiuto di un cafro!
"
Cosí due uomini montarono di guardia.
Isa li osservava andare avanti e indietro chiacchierando sommessamente.
Accoccolato sui rami d'una quercia il ragazzo sorrideva.
"Neppure Amebais, la pazza del villaggio, farebbe la guardia in questo
modo."
S'aggiustò su una biforcazione e si addormentò.
Il leopardo non sarebbe venuto.
Si, perché era un leopardo. Le tracce parlavano chiaramente. Ed era
grosso e cieco ad un occhio.
Lo aveva capito dal modo con cui aveva assalito le bestie. Doveva essere
anche molto cattivo, se osava avventurarsi tra gli uomini.
"Ma non verrà!" ripetè a se stesso mentre si addormentava.
Per una settimana ancora gli uomini batterono la zona e montarono di
guardia.
Ci furono dei falsi allarmi; ma il leopardo non venne più e tutto fu
dimenticato.
Una sera Isa, osservando il cielo, vide la luna piena. Grande, gettava la
sua luce argentea tra i vasti campi.
Salí nella casa di Paul, gettò via gli abiti e rimise la pelle del leopardo.
Poi, leggero come un'ombra, s'allontanò verso la foresta.
Tre volte l'abbaiar dello sciacallo interrotto dalla risata sghignazzante
della iena.
Da un cespuglio vicino fu ripetuto il segnale.
Vide un'ombra muoversi silenziosa ed avvicinarsi a lui.
"Chi sei?" gli fu chiesto.
"Isa. Mohamed Isa."
"Non ti conosco. Cosa vuoi?"
"Vedere Pao."
"Pao?! Perché?"
"Sono suo amico."
"Vai avanti."
Isa s'incamminò. Le sue orecchie percepirono il lieve rumore della freccia
incoccata nell'arco.
"Uomo dei cespugli," disse senza voltarsi "le mie frecce parlano lo stesso
linguaggio delle tue. Ed hanno gli stessi segni."
"Fermati" ordinò l'uomo "e parla senza doppia lingua. Tu sei Swazi. Cosa
vuoi dal piccolo popolo?"
"Una sola luna è trascorsa da quando ho lasciato il piccolo popolo. Pao è
mio amico e tu dovresti conoscermi."
"Io conosco Pao, ma non ti ho mai visto con lui. Vengo dalla terra
infuocata."
"Allora prendi il mio arco. Me lo donò Pao. Osservalo."
Gettò l'arco ai piedi dell'uomo e questi lo scrutò ben bene.
"Vieni" disse poi "ma se hai mentito non avrai il tempo per pentirtene."
Giunsero sul gran piazzale. Due uomini si fecero loro incontro.
"Sei ritornato, Isa?" chiese il più anziano dei due.
"Lo conosci?" domandò colui che l'accompagnava.
"Isa è del nostro popolo. Pao l'ha detto."
L'altro tese l'arco.
"Riprendilo" disse. "Io sono Cim-ao. Non sapevo che tu fossi del mio
stesso sangue. Ci rivedremo, fratello."
"Grazie a te. E Pao?" chiese agli altri.
"Lo troverai nella grotta."
Isa entrò senza far rumore.
Voleva fare una sorpresa al suo amico, ma rimase sorpreso a sua volta.
Pao, dando le spalle all'ingresso, era di fronte alle due pietre piramidali
che recavano incisi degli strani geroglifici.
na nube leggerissima d'incenso si spandeva per la grotta dando ad ogni
corpo una forma evanescente. I dipinti alle pareti parevano cose vive.
La grande pantera sembrava muoversi, come pure il bimbo che stringeva
tra le fauci.
Ad accrescere questa sensazione contribuivano le fiamme che, da un
grande braciere posto fra le due pietre, s'innalzavano guizzando, crepitando; ora
abbassandosi, ora cercando di raggiungere, il soffitto.
E la figura di Pao, immobile, ne era tutta illuminata.
Il suo piccolo corpo pareva stare in quel fuoco e dominarlo.
Isa, accucciato in un angolo, attese.
Guardava le fiamme guizzanti.
E le due pietre.
E Pao.
Il fuoco gli ricordava le danze della sua tribù: le lotte, le feste, lo stregone.
Anche Pao stava pregando; lo capiva.
Ma era una cosa silenziosa, da far venire un leggero brivido su per la
schiena. Come quello che ora l'assaliva.
Si, perché Pao sembrava staccarsi sempre più dalla terra come se fosse nel
fuoco e con il fuoco s'innalzasse verso il soffitto.
Ed era sempre immobile.
Era quell'immobilità a dare i brividi ad Isa. L'uomo dei cespugli pareva di
pietra. In certi momenti, per l'effetto dei giochi di luce pareva che la sua ombra
ondeggiasse leggermente, s'allungasse, si contorcesse. E con l'ombra anche il
corpo, delimitato dai riflessi delle fiamme.
Isa cercò di guardare altrove.
Le due pietre lo attrassero. Anzi, i segni che erano sulle pietre. Li guardò
bene.
Su ognuna v'erano incisi quattro cerchi concentrici dai quali si dipartivano
otto triplici raggi.
Dove aveva veduto quei segni?
Eppure...
Istintivamente toccò il dente di leopardo, l'amuleto di Pao che gli
penzolava sul petto.
Gli stessi segni che erano sulle pietre, erano incisi sul dente. Con una sola
differenza: che nel centro dei cerchi, sul dente, vi erano due dita incrociate.
"L'avevo preparato per mio figlio" aveva detto Pao. "Portalo su te!"
Appena Pao avrebbe finito di pregare, gli avrebbe chiesto il significato di
quei segni.
Pao! Come desiderava che egli fosse suo padre.
Ma certamente suo padre doveva esser stato come lui. O se no, era
proprio vero che lui era un bianco, come "Fior di granturco".
Ecco: se gli avessero detto di scegliere un padre, non avrebbe saputo
scegliere.
Pao o "Fior di granturco"?
Erano ambedue forti, astuti, leali.
Ma Isa sentiva che in Pao c'era qualcosa che " Fior di granturco" non
aveva. Forse proprio questo stare immobile, come Pao era ora.
E "Fior di granturco" a sua volta aveva qualcosa che a Pao mancava.
Qualcosa che era più della lunga canna tonante; qualcosa a cui ora Isa non
sapeva dare un nome, che non riusciva neppure a decifrare.
Ed era una cosa difficile per lui. C'era da decifrare nell'uomo bianco i
segni che secoli di civiltà vi avevano impresso.
Ma che strane idee gli stavano venendo!
Qualcuno entrò nella grotta e gli si sedette accanto: Cim-ao.
Non disse una parola; né fece un gesto.
Rimase immobile vicino al ragazzo.
Poi entrò un secondo, un terzo, un quarto Boscimano; una quindicina in
tutto. E tutti immobili, silenziosi.
"Che c'è?" chiese Isa al vicino.
Cim-ao non rispose.
Isa pazientò ancora, poi rinnovò la domanda.
"Cosa state facendo?"
"Il mio amico ha dimenticato che una delle forze del piccolo popolo è la
pazienza?"
Isa scattò in piedi. Era Pao che parlava. Pao che s'era voltato verso di lui,
finalmente.
Gli si gettò fra le braccia.
"Son contento d'essere di nuovo con te!"
"Chi è più felice, mio piccolo amico, il grosso albero che ospita gli uccelli
o gli uccelli che vi sono ospitati? Il mio cuore è felice quando può sentire vicini
i battiti del tuo! Temevo per te. Temevo, soprattutto, di non vederti più."
"Io?! Ma se..."
"Aspetta. Ho da parlare con i miei uomini. Poi mi racconterai."
"Debbo andarmene?" "No" sorrise Pao. "Tra padre e figlio non ci sono
segreti. Li conosci?"
Indicò, con un largo gesto delle braccia, i presenti.
"Il primo si. Per poco non facevo conoscenza anche con le sue frecce! "
rispose sorridendo Isa.
"È Cim-ao, il capo del gruppo che vive nel deserto. L'altro è Hoomai. Il
suo gruppo vive lungo il grande fiume. E gli altri sono i capi dei gruppi che
vivono nella foresta. Questo" disse rivolgendosi agli uomini "è Mohamed Isa.
Osservatelo bene. Conosce la nostra parola. È mio figlio."
"Il figlio di Pao è nostro fratello" disse per tutti Hoomai.
"Anche se sono Swazi o bianco?" chiese Isa con una leggera punta di
apprensione nella voce.
"Non t'abbiamo chiesto chi sei e non abbiamo guardato la tua pelle. Sei
nostro amico. Ciò ci basta."
"Vedi?" soggiunse sorridendo Pao "il piccolo popolo guarda al cuore, non
al colore del cuore."
"Pao!" mormorò Isa stringendoglisi.
Non seppe dire altro. I piccoli uomini erano migliori dei Swazi e dei
bianchi. Solo "Fior di granturco" era come loro.
Pao sedette fra gli altri.
Discussero a lungo.
Isa, vicino al fuoco, attese.
Quando tutti uscirono e lui rimase solo con Pao, chiese:
"Cosa accade? I tuoi uomini parlano di carri di buoi, d'uomini bianchi, di
Swazi e di tutte le altre tribù Bantù. Perché?"
Molti uomini bianchi si avvicinano al fiume. E molti Bantù marciano sui
villaggi ottentotti uccidendo e predando. Il piccolo popolo guarda."
"Cosa accade di preciso?"
"Nulla."
"Cosa temete allora?"
"La prudenza è saggezza. Se il piccolo popolo vuol proseguire a vivere
deve essere prudente."
"Pao, non mi hai mai parlato di te e della tua gente."
"La storia del mio popolo si perde nella notte dei tempi. La mia storia non
ha significato. Perciò la prima è lunga a narrarsi; la seconda non merita parole."
"Perché allora i capi dei vari villaggi son venuti da te? Chi sei tu?"
"Io sono Pao. Un piccolo uomo, dici tu; un uomo dei cespugli. Se i capi
son venuti da me, mi hanno onorato con la loro presenza."
"Perché son venuti proprio da te e perché tu prima eri cosí immobile di
fronte al fuoco?"
Quando un giovane elefante barrisce perché ha visto un pericolo, tutta la
torma si volta verso il più anziano e da lui aspetta consiglio. Cosí è accaduto per
il piccolo popolo. Io sono soltanto un vecchio elefante."
"Tu non sei vecchio, Pao. Ma se gli altri si sono rivolti a te significa che
tu sei un saggio. Sei uno stregone, Pao?"
"Chiamami come vuoi. Io son Pao, e basta."
"Pao, sai cosa significano quei segni?" ed indicò le incisioni sulle pietre.
"Sono il simbolo del Gran Padre."
"Il Grande Padre? E chi è?"
"Chi, giovane Isa, dà vita alla grande pantera e all'elefante e al leone e a
tutto il popolo della foresta? E il veleno al cobra e la stretta mortale al pitone? E
le ali al popolo dell'aria? E al fulmine, e all'acqua, e al tuono, e al vento? Chi dà
loro vita?"
"Gli spiriti del bene e del male. Lo diceva anche Ao-sam, lo stregone."
"E agli spiriti chi dà una legge e la vita? Uno solo, Isa. Il Grande Padre."
"E dov'è?"
"Lo cercai anch'io molto tempo fa. Ma non riuscii a vederlo. Però ora so
che c'è. È nel tuono, nel vento, nel fulmine, nella pioggia, nel sole, nella luna; è
nella foresta, nel deserto. EGLI è in tutte le cose, perché tutte le cose sono Sue.
Egli è il Grande Padre. Ecco: guarda i segni. Quando tu lanci la tua zagaglia
nell'acqua, essa fa nascere tanti cerchi che s'allargano in ogni parte. Cosi è LUI.
Il Grande Padre è nel centro e muove tutto, come la tua zagaglia lanciata
nell'acqua. I quattro cerchi sono il simbolo del movimento. Gli otto raggi
raggruppati a tre a tre dicono che non solo c'è movimento, ma ordine, forza,
giustizia. Questi segni hanno ancora un altro significato. I quattro cerchi
rappresentano i quattro tempi dell'anno: la grande pioggia, il gran caldo e i due
tempi di passaggio. Ogni raggio il tempo d'un giorno. E se tu unisci i quattro
cerchi e tutti i raggi, hai il tempo che passa da una luna nuova all'altra. Anche
questo ci parla del Gran Padre. Indica il tempo che Lui fa trascorrere sempre
uguale, sempre con la medesima legge."
Isa meditò sulle parole di Pao, poi disse:
"Sei veramente sapiente, Pao. Come parli tu al Gran Padre?"
"Il Gran Padre non ha bisogno di parole. Capisce anche se non si parla."
"Non occorre allora che lo stregone parli a Lui per me? Posso anch'io
parlare con Lui?" "Si."
"E Lui ti risponde?"
"No, non apertamente. Ma ti dà forza e saggezza. Basta avere fiducia."
"Quando mi servirà parlerò anch'io con Lui."
"Perché solo quando ti servirà?"
"Perché, bisogna parlarci anche quando non serve il Suo aiuto?"
"La radice del grande albero si tien salda sul terreno solo quando il vento
soffia forte, o sempre, affinché mai venga sorpresa dal temporale? La forza e la
saggezza non si acquistano in un momento. Quando imparavi a tirar d'arco hai
impiegato molto tempo prima di poter colpire nel segno con la prima freccia.
Per conquistare la saggezza occorre molto, molto più tempo che per imparare a
maneggiare l'arco."
"Allora debbo parlare sempre con LUI?"
"Quando puoi."
"Devo cercare un posto per farlo."
"Non occorre. In qualsiasi posto puoi parlare con Lui. Nella foresta, nel
villaggio; ovunque."
Il fuoco si stava spegnendo. Pao, raccolta una bracciata di legna, lo
ravvivò.
"Ed ora" disse "parlami di te. Sei stato con l'uomo della barca?"
"Si. È 'Fior di granturco'. Io vivo in un loro villaggio di pietre."
"Dove?"
"Vicino al fiume."
"Come ti trovi?"
" 'Fior di granturco' è bravo. E forte. Son sicuro che ti piacerebbe
conoscerlo."
"Lo conoscerò."
Isa parlò a lungo di Paul. Il Boscimano l'ascoltò in silenzio.
"Vorrei" concluse Isa "che 'Fior di granturco' venisse a vivere con te.
Allora sarei felice."
"Hai parlato di 'Fior di granturco', solo di 'Fior di granturco'," disse Pao
"eppure mi hai detto di vivere nel villaggio dei bianchi. Cosa mi nascondi, Isa?
Perché non mi parli anche degli altri?"
"Ripeterei sempre la stessa cosa, le stesse parole. Gli altri sono come i
Swazi. Mi disprezzano."
"Non sei tu bianco come loro?"
"Già, ma loro mi dicono negro, cafro. Ogni loro gesto, ogni loro parola,
sono contro di me. Per loro
sono un Swazi. Per i Swazi un bianco. Ma per tutti e due non sono nulla.
Sono un 'orzowei', un trovato."
"Ciò che mi dici è grave. Nessuno ti ama al villaggio?"
" 'Fior di granturco' soltanto."
"Chi si cura di te?"
"Lui."
"Mi hai detto che lui è andato via."
"Anna."
"Parlami di lei."
"Mi dà da mangiare, mi prepara il giaciglio, letto lo chiamano loro, e
mi..."
"Vai avanti!"
Isa abbassò il capo. Si vergognava di dire che aveva dovuto togliersi la
pelle della grande pantera.
"Mi lava e riordina i vestiti. Li ho dovuti mettere, Pao. 'Fior di granturco'
l'ha voluto."
"Non c'è da vergognarsi. Quelli sono gli usi della tua gente. Dove ti fa
dormire la donna?"
"Con i suoi figli."
"E mi dici che ti disprezza?"
"Mi fa tutto, ti ho detto. Ma non mi parla come te, non mi accarezza come
fa con i suoi figli. Pao, non voglio ritornare fra i bianchi. Essi non mi vogliono.
Per loro sono un 'orzowei'. Fammi rimanere con il piccolo popolo."
"Chi ti dice che il piccolo popolo non ti tratterebbe anche lui come un
'orzowei'?"
"Tu l'hai dimostrato, e i tuoi amici."
"Tu credi in noi, ecco perché sei, o credi di essere, felice. Hai provato a
credere nei bianchi? Cosa hai fatto affinché nessuno ti dica più 'orzowei'?"
"Ho fatto tutto quello che essi mi hanno detto."
"Non basta, Isa. Devi essere tu che devi cominciare ad amare. L'amore
richiama amore."
"Cosa devo fare, dunque?"
"Ritorna fra la tua gente e amala."
"Mi scacci?"
"No. Lo sai."
"Quando potrò ritornare da te?" "Verrò io a trovarti." "Tu?!"
"Si. E voglio vederti felice."
CAPITOLO IX
"Dove sei stato?"
Isa si voltò di scatto.
Aveva atteso apposta la notte per non farsi scoprire; era entrato senza far
rumore nella casa di Anna, ed invece...
"Vieni qua" disse la donna.
Isa le si avvicinò.
"Non hai messo né i pantaloni, né la camicia. Prendi freddo cosí."
La donna si tolse lo scialle di lana, un grosso scialle marrone che portava
sempre la notte, e lo mise con cura sulle spalle del ragazzo.
"Non devi più andar via senza dirmelo. Son due giorni che t'aspetto. Va' a
dormire ora, che devi essere stanco."
Isa era stupito.
Non sapeva cosa dire. Amebais, la nutrice, l'avrebbe frustato per una
scappata simile, sempre che Amebais se ne fosse accorta e preoccupata.
Senti qualcosa vibrargli nel cuore e fu lí lí per abbracciare Anna.
Ma la donna tese il braccio:
"Vai, è tardi" disse.
Lo slancio gli si smorzò a metà. Sussurrò un " buona notte" e andò a
sdraiarsi.
Ma non dormi.
Perché Anna lo aveva atteso?
Perché gli aveva messo lo scialle sulle spalle?
Forse perché gli voleva bene?
Ma allora perché non aveva voluto abbracciarlo?
Non sapeva cosa rispondere.
Si rigirò lungamente nel letto e appena fu giorno usci fuori.
"Se vuoi," gli disse Anna ch'era già in piedi a preparare la colazione, "se
vuoi puoi aiutare gli uomini a scaricare i carri. Sono giunti ieri."
Isa li aveva già veduti; ma non disse nulla.
"Il leopardo s'è più visto?" chiese.
"No. Ma fanno sempre la guardia."
"Non lo prenderanno."
"Perché?"
"Solo 'Fior di granturco' riuscirebbe a prenderlo." "Chi?!"
" 'Fior di granturco', il mio amico."
La donna rise.
"Non sapevo che Paul avesse anche un altro nome: 'Fior di granturco'!..."
"Non devi canzonare. Egli è migliore di tutti voi. Se fosse un Swazi
sarebbe già un Ring-kop."
"Non puoi proprio dimenticarli!" sospirò Anna.
Isa non rispose. Uscí, avvicinandosi ai carri.
"È ritornato il cafro!" gridò Enrico, un giovanottone biondo.
George si sporse da un carro.
"Ehi, tu! " chiamò rivolto ad Isa. "Dove sei stato? Lo sai che non ti devi
muovere senza farmelo sapere?"
"Lo so."
"Se ci riprovi ancora sentirai la sferza!"
"Lo so."
"Anima nera! Che gli è saltato in mente a Paul, Dio solo lo sa! Metterci
fra i piedi un selvaggio..."
Borbottando George rientrò nel carro. Isa se ne andò verso l'ultimo della
colonna.
Lí incontrò Filippo.
Accovacciato in terra guardava innanzi a sé, immobile.
Isa gli si fermò di fronte.
i quel viso butterato dal vaiolo, dal naso schiacciato e i capelli rossi che
gli scendevano abboccolati fin sulle spalle, lo colpivano gli occhi.
Occhi celesti, luminosi, che parevano rispecchiare il cielo. Lo scrutò a
lungo, senza che il ragazzo si muovesse o distogliesse lo sguardo dal punto
indefinito che stava fissando.
"Sei maschio o femmina?" chiese improvvisamente Isa.
Solo allora l'altro lo guardò.
"E tu chi sei?"
"Isa."
"Maschio o femmina?"
"Sono un guerriero, io!" rispose Isa gonfiando il petto.
"Sei bianco?"
Prima di rispondere ristette un attimo incerto, poi disse:
"La mia pelle è bianca, ma io sono Swazi!"
Provava gusto a dirsi Swazi tra i bianchi. Essi temevano i Swazi, pur
disprezzandoli. E come fra la sua tribù, dopo la grande prova, aveva gridato che
lui era un bianco e gli altri degli sciacalli dipinti di nero, cosí ora era felice di
dirsi negro.
I bianchi lo chiamavano cafro?
Ebbene, sarebbe stato un cafro.
"Io sono Filippo" disse l'altro "e mi piacerebbe essere un guerriero
Swazi."
Questo sconcertò Isa. Era il primo ragazzo che udiva desiderare di essere
come lui. Il primo a cui sarebbe piaciuto essere un Swazi.
"Tu... un guerriero, tu?!"
Non seppe dir altro; e per la sua stessa confusione gli venne da ridere.
L'altro lo fissò con i suoi occhioni celesti ed Isa smise.
"Volevo dire..."
"Se sei Swazi, perché sei tra i bianchi?"
"È stato 'Fior di granturco'; e Pao."
"Chi sono?"
"Non conosci 'Fior di granturco', Paul, il cacciatore?"
"Ah, Paul! Si, è mio amico. È lui che mi ha regalato questo."
ollevò un lembo d'uno straccio che ricopriva una cesta ed il musetto
aguzzo d'un dix-dix fece capolino belando.
"È molto piccolo" disse Isa.
"Paul dice che non ha neppure otto giorni. Gli devo dare il latte con il
cucchiaino. Vedi, ha come una stellina nera sulla fronte. Ti piace?"
"Si. È bello. Quando te lo ha portato 'Fior di granturco'?"
"Sei giorni fa."
"Allora è ritornato!"
"No. Io ero alla mia fattoria. A cinque giorni di strada da qui."
"E 'Fior di granturco'?"
"È ritornato indietro. Andava al villaggio dei Monrei."
"A che fare?"
"Non lo so."
"Perché tu sei venuto qui?"
"Paul ha parlato con mio padre e con gli altri della fattoria. Il giorno dopo
siamo partiti. Prima però Paul m'ha portato il cucciolo."
"Perché t'ha portato il dix-dix?"
"Perché è mio amico. Mi vuole bene. Quando non ha da fare, viene
sempre a trovarmi. E mi porta sempre qualcosa."
Isa era desolato. Il suo unico amico bianco non voleva bene soltanto a lui.
Fremeva: era geloso.
Filippo ricoprí il cucciolo, poi disse:
"Mi piace il nome che gli hai dato."
"Cosa?" domandò Isa, distolto dalle sue riflessioni.
"Dicevo che mi piace come hai chiamato Paul. 'Fior di granturco'. Un bel
nome. Gli vuoi bene?"
"Non lo so. Mi piace stare con lui."
"Chi è Pao?"
"Un grande guerriero."
"È un Swazi?"
"No. Un uomo dei cespugli."
"Uno del piccolo popolo! Oh, come vorrei conoscerlo!"
"Cosa sai tu del piccolo popolo?"
"Me l'ha detto Paul."
"Ah!... Se non hai paura, un giorno te lo farò conoscere."
"Non ho paura."
"Sono stato ieri da lui. E mi ha detto che verrà qui. Vedi, questo è l'arco
che lui m'ha regalato."
Filippo lo prese e l'osservò con curiosità.
"Tu sai tirare?" chiese.
Isa sorrise. Prese una freccia, l'incoccò; poi disse:
"Cosa vuoi che colpisca?"
Filippo indicò un ramo sottile d'una quercia.
"Quello!"
La freccia sibilò nell'aria e si conficcò nel ramo.
"Sei bravo!"
Disse solo queste parole.
Ma i suoi occhi esprimevano un'ammirazione vivissima.
Era la prima volta che Isa si sentiva guardato cosi. E ne fu felice.
"Se vuoi" esclamò allegramente "ti posso insegnare. Alzati!"
"Un'altra volta, Isa."
"Ora. Alzati."
"Io..."
"Alzati. O griderò a tutti che sei una femmina e che hai paura di toccare
l'arco. Avanti, su."
Il ragazzo non si mosse.
"O non vuoi perché l'arco è mio; d'un trovato?"
"No, non è per questo. È che io..."
"Alzati, allora."
Isa si chinò e strinse Filippo fra le sue braccia tentando di sollevarlo.
In quel momento la frusta gli sibilò sul capo e s'abbattè sulle sue spalle
lasciandogli un lungo segno sanguinante. S'alzò di scatto. E nuovamente la
frusta lo colpi. E questa volta in pieno viso. Il ragazzo barcollò; gli occhi gli si
velarono di lacrime; ma strinse i denti e preparò l'arco.
"No, Isa! No!"
Una donna si slanciò verso lui e si,mise di fronte all'uomo che l'aveva
colpito.
"Ora, se vuoi, tira pure!" disse.
Era Anna. Isa stette immobile, fremente d'ira, con l'arco teso. Poi tolse la
freccia e si allontanò.
L'uomo che l'aveva colpito gli gridò dietro:
"Se oserai toccare ancora una volta mio figlio, sarà la tua fine, bastardo! "
Per tutto il giorno vagolò lungo il fiume rimuginando tetri pensieri di
vendetta.
Molte volte fu sul punto di ritornare al villaggio per colpire l'uomo che
l'aveva frustato.
Cosa aveva fatto per meritare ciò?
Aveva parlato con Filippo; aveva voluto insegnargli a tirar d'arco. Ecco
come era stato ricompensato.
E poi Pao diceva che doveva esser lui a voler bene!
Ma come, se era stato gentile e la frusta l'aveva colpito ?
Le sue dita passavano leggere sulla ferita che il cuoio sottile gli aveva
aperta sul viso. Raccolse delle erbe e ve le poggiò per spegnere il bruciore.
Ma non c'era nessuna erba che potesse spegnere il bruciore che gli
ribolliva nel petto.
La colpa era di Filippo. Solo sua. Perché non si era voluto alzare.
"Ha paura dell'arco e di me. Bene. Farò paura a tutti. Farò vedere a tutti se
sono un 'orzowei' o un guerriero. Si! Ritornerò al villaggio e lo vedranno.
Ritornerò anche da Amunai e lo farò vedere anche a loro."
Bastardo!
Non comprendeva il significato della parola, ma dal tono con cui gli era
stata detta, doveva significare la stessa cosa di "orzowei". Anche i Swazi la
pronunciavano con quello stesso disprezzo.
No; non sarebbe rimasto più con i bianchi. Essi erano uguali ai Swazi.
Volevano solo la gente della loro tribù, non i trovati.
"Prendo le mie cose e ritorno nella foresta."
Lo ripetè a se stesso cento e cento volte. E quando la decisione gli si fu
ben radicata nell'animo, ritornò al villaggio.
Entrò nella casa ove era stato con 'Fior di granturco', si stracciò di dosso
gli abiti e rimise la pelle di leopardo. Proprio quella mattina ve l'aveva riportata
per far contenta Anna.
Ora non avrebbe indossato più i vestiti dei bianchi.
Se ne andava. Sarebbe ritornato fra gli uomini dei cespugli. Erano piccoli,
si, ma avevano il cuore grande.
"Isa!"
Sul vano della porta era comparsa Anna.
"Isa, la cena è pronta."
"Non mangio la tua roba. E non mangerò più nulla che sia di voi tutti.
Vattene! " disse.
"Aspettiamo te, Isa. È tardi e i ragazzi hanno fame" mormorò dolcemente
la donna.
"Vai via. Non voglio più stare con te."
"Ti fa molto male la ferita?"
"Non sento nulla. Vattene e lasciami passare."
"Come vuoi, Isa."
Anna si trasse da parte lasciandogli il passaggio libero.
"Quando vorrai ritornare la mia casa sarà sempre aperta per te."
"Non ritornerò."
"Come vuoi."
La donna si avvicinò lentamente alla finestra.
"Ehi, Isa; guarda!"
Nel piazzale c'era Filippo.
Isa l'aveva udito poco prima chiamare qualcuno.
Era accucciato in terra. Il sole che stava per scomparire nella foresta, dava
dei riflessi di fuoco ai lunghi riccioli.
Stringeva fra le braccia qualcosa che zampettava. Il dix-dix. Filippo
chiamò ancora e dalla casa vicina un uomo uscí correndo. Dissero qualcosa, poi
l'uomo, chinatosi, lo sollevò. In quel momento la coperta che ricopriva le
gambe del ragazzo, cadde.
Isa rimase impietrito dallo stupore.
Filippo aveva una sola gamba.
"Per questo stamane non si è alzato" mormorò Anna come parlando a se
stessa. "E gli sarebbe piaciuto farlo. M'ha raccontato tutto, quando tu sei andato
via. Ed ha pianto tanto. Ma suo padre credeva che tu lo stessi insultando."
"Quando gli è successo?" domandò Isa.
"La gamba? Molti mesi fa. Dieci o dodici. Portava da mangiare al padre e
agli uomini dei campi, quando un serpente l'ha morso. Il dottore è riuscito a
salvarlo, ma la gamba l'hanno dovuta amputare."
"Perché non l'ha detto?"
"Non lo dice mai a nessuno. Anzi, oggi sorrideva stando con te. Da
quando gli è accaduto il terribile fatto non parla più con nessuno, eccettuato
Paul e i suoi genitori. Ha paura che i ragazzi lo canzonino e che i grandi lo
compatiscano."
"Suo padre m'ha frustato, però!"
"Ma lui non voleva. Ed ha pianto." "Lo... lo posso salutare? Gli regalerò
una freccia. Sarà contento ? "
"Credo di si. L'andremo a trovare domani mattina."
Anna gli tese la mano. Isa vi poggiò la sua, timoroso. Per la prima volta
nella sua vita uscí stretto per mano, come un bimbo accompagnato dalla
mamma.
Per la prima volta provò la più dolce sensazione che ad un fanciullo è
dato godere.
"Ehi, là! Che succede?"
Al grido Isa balzò dal letto.
Si udirono grida e passi precipitosi. Poi due colpi di fucile.
Il ragazzo s'avvicinò ad un uomo appostato dietro un muro.
"Cosa accade?" domandò.
"Il ladrone è nella stalla di Hangens, quella là in fondo."
Il leopardo era venuto nuovamente.
Isa s'avvicinò furtivamente alla stalla, come lui solo sapeva fare fra tutti
quegli uomini, ed osservò.
'unica giovenca che vi si trovava giaceva sgozzata e dilaniata fra la
paglia, ma il leopardo non c'era.
Isa annusò l'aria.
Il selvatico doveva essersi rintanato in qualche angolo. Si sentiva il suo
odore.
Bisognava attendere.
Proprio vicino alla stalla una quercia s'ergeva maestosa.
Isa si arrampicò ed attese.
Passarono delle ore. Lunghe, snervanti.
Gli uomini avevano circondato il basso edificio ed acceso dei fuochi.
No, non erano dei bravi cacciatori. Non sapevano attendere. Isa era
sempre immobile con l'arco pronto. Sarebbe stato fermo cosí, se fosse stato
necessario, anche un giorno intero.
La foresta gli aveva insegnato che la pazienza è la prima arma. Solo chi è
paziente, vince.
Gli uomini si stancarono.
Qualcuno gridò qualcosa. Il leopardo ruggí.
Gridarono ancora e i fuochi furono spenti.
Isa guardò.
Vide gli uomini nascondersi dietro i cespugli che fiancheggiavano la
strada, mentre due di essi si avvicinavano al suo albero. Con una corda legarono
al tronco, dopo averlo tolto dal sacco, un piccolo animale che piangeva
disperatamente.
"Il dix-dix di Filippo" mormorò Isa.
"Andiamo, svelto!" disse uno dei due.
"Non si scioglierà?"
"L'ho legato bene. Via ora!"
"Una trappola" pensò Isa "una trappola per la grande pantera!"
I belati del cucciolo si facevano sempre più insistenti e lamentosi.
Aveva fiutato il pericolo e cercava di strappare il laccio che lo teneva
prigioniero; e chiamava, chiamava per essere aiutato, difeso.
Per la prima volta Isa pensò ad un animale come ad un essere vivente. Il
cucciolo era lí, solo; stava per affrontare un nemico che con una sola zampata
l'avrebbe schiantato.
Se fosse stato con suo padre e sua madre, poteva sperare di salvarsi. Essi
avrebbero fatto di tutto per difenderlo. Se non altro si sarebbero fatti sbranare
loro, per dar la vita a lui. Sarebbe vissuto tranquillo, ruzzando fra l'erba alta,
cozzando per gioco con gli altri cuccioli.
Invece...
Era proprio come lui. Solo, senza nessuno che lo aiutasse.
Ma lui, Isa, aveva vinto.
Si; però lui non era mai stato legato ad un tronco di fronte ad un nemico
pronto ad ucciderlo.
Ma il cucciolo poteva star tranquillo. C'era Isa. Avrebbe evitato lui che la
grande pantera lo toccasse. Scivolò silenziosamente lungo il tronco e s'allungò
in terra.
Il dix-dix gli si avvicinò tremando.
"Stai giù!" sibilò Isa.
Come se la bestiola avesse compreso, si strinse al corpo del ragazzo e
smise di belare.
In quello stesso momento un'ombra nera balzò dalla cupa occhiaia della
finestra e si raggomitolò in terra.
Isa preparò la freccia ed attese.
Bisognava fare attenzione.
Con un solo balzo, malgrado dall'albero alla stalla ci fossero più di dodici
passi, la grande pantera poteva raggiungerli.
Bisognava colpire mortalmente al primo colpo.
Il dix-dix si mosse e belò.
Qualcosa saettò nell'aria.
Rapido come un fulmine il ragazzo si gettò di lato, mentre il leopardo
toccava leggero terra.
"Non tirate! Non tirate!" gridò qualcuno. "C'è un ragazzo!"
La belva ruggí e balzò via.
Tutto era accaduto cosi rapidamente che solo in quell'istante Isa potè
tirare. Dal ruggito di collera e di dolore del selvatico comprese d'aver colpito.
Nello stesso tempo echeggiarono alcuni colpi di fucile.
Ma la belva era ormai lontana.
"Tutta colpa tua!" gridò George accorrendo.
"Lo dicevo io" esclamò un uomo avvicinandosi.
"Ma chi era il ragazzo?" chiese un altro.
"Il cafro!"
Tutti gli furono attorno.
Isa slegava tranquillamente il cucciolo.
"Volevi farci vedere la tua bravura, eh? E hai visto con quale risultato? Il
ladrone è libero un'altra volta."
"Pensare che era proprio a tiro del mio fucile!"
"Se non c'era lui, a quest'ora..."
"Dovremo proseguire a montare la guardia per te, muso nero."
"E finitela!" disse una voce. "Non è che un ragazzo, in fondo!"
Isa alzò gli occhi.
L'uomo che aveva parlato era lo stesso che la mattina l'aveva colpito con
la frusta.
Prese fra le braccia il cucciolo e s'alzò.
"Tieni" disse "è di Filippo, ed aveva paura."
Si fece largo tra gli uomini e s'allontanò correndo nella stessa direzione
del leopardo.
"Ehi, tu! Fermati... fermati!"
Ritornò la sera seguente.
Bussò alla porta del vecchio George.
"Che vuoi?" chiese questi quando ebbe aperto.
"Tieni."
Sollevò la mano mostrando ciò che in essa stringeva.
"È la testa del ladrone. La sua. Era cieco da un occhio."
Il vecchio la prese. Il sangue era raggrumato intorno al sangue recente.
"Come hai fatto?"
"Il veleno del piccolo popolo è lento, ma uccide. Basta aspettare. La
grande pantera non verrà più. Addio! "
"Ehi, ragazzo, senti!"
Ma Isa era già sulla porta di Anna ed entrò senza voltarsi.
CAPITOLO X
"Isa, ti cercano!"
Il ragazzo saltò giù dal letto ed entrò nell'ampia cucina.
"Sono fuori," disse Anna, "ma prima ti vesti."
"Io..."
"Metti i pantaloni e la camicia. Se no, non esci."
Il ragazzo si vestí in fretta.
Seduto sul basso scalino del piccolo porticato c'era Filippo. Vicino
saltellava il dix-dix.
"Non hai portato l'arco?"
"No. Se vuoi, lo prendo."
"Mi piace vederlo. E... si può tirare stando seduti?"
"È più difficile, ma si può."
"Mi fai provare?"
Isa accennò di si. Non riusciva a parlare.
Quando Filippo ebbe l'arco tra le mani lo osservò attentamente chiedendo
un'infinità di spiegazioni. Isa rispondeva su ciò che sapeva.
Poi cominciò a spiegargli come s'usava; e come doveva essere la freccia;
e come si doveva fare per colpire un oggetto che si muove; e come si sfrutta il
vento.
Ma non trovando sempre le parole nella nuova lingua, s'alzò dicendo:
"Vieni. Ti faccio vedere."
"Isa, io... io non posso venire" mormorò Filippo.
Il ragazzo abbassò il capo.
Non aveva ricordato.
Stava per dire qualcosa, quando un'idea gli balenò nella mente.
"Ti porto io. Andremo vicino al fiume." "Oh, si!"
A Filippo ridevano gli occhi. Ma di colpo si fece serio e sussurrò:
"Io verrei volentieri, ma mio padre non mi lascia venire."
"Perché?" chiese Isa rabbuiandosi. "Forse perché sono un 'orzowei'?"
"No. Non mi lascia andare con nessuno."
"Lo puoi portare con te" disse in quel mentre una voce.
I ragazzi si voltarono.
Anna era sulla soglia.
"Lo dirò io a suo padre. Più tardi vi farò chiamare da Stefano. Ma
ricordati, Isa, ch'egli è come il tuo arco. Nessuno deve fargli del male."
Isa annui sorridendo. Si chinò e prese delicatamente il compagno fra le
braccia.
"Stai bene?" chiese.
"Benissimo."
Sorrisero ad Anna e si allontanarono verso il fiume.
"Ti peso?" domandò Filippo più tardi.
"No. Sei leggero."
"Tu sei forte. Quando sto con te non ho paura."
Isa mugugnò.
Era contento. Avrebbe cantato per la gioia.
"Sai" prosegui Filippo "papà mi ha detto del cucciolo. M'ha detto anche
che sei stato tu a non farlo uccidere."
"Era piccolo, mi faceva..."
Non trovava le parole adatte per esprimere il sentimento provato quella
notte.
"Ecco. Mi faceva male vederlo cosí."
"Quando papà t'ha frustato, io..."
"Non ricordo che m'abbiano frustato."
"Grazie, Isa. Sono contento d'essere tuo amico."
"Anch'io. Ci fermiamo qui?"
"Si."
Distante una trentina di passi dal sentiero, una breve radura interrompeva
il susseguirsi delle grandi piante e dei cespugli che costeggiavano il fiume.
I fischi, i cinguettii, i pigolii, i trilli, i gorgheggi, le strida, i canti, i suoni
acuti e profondi d'ogni sorta d'uccelli si confondevano con gli urli incomposti
delle scimmie e col gracidare delle rane, lo stridio delle cicale ed il ronzare
degli innumerevoli insetti.
a i ragazzi, seduti sul suolo felpato dai muschi, tutt'assorti a tirar d'arco,
nulla sentivano.
Vicino a loro, felice, il dix-dix ruzzava fra l'erba spensieratamente.
Per molti giorni la piccola radura fu la meta delle loro passeggiate.
Ed in quel luogo si consolidò maggiormente fra i due ragazzi
d'educazione diversa, dai diversi costumi, la loro amicizia. Ed Isa, proprio per
Filippo, cominciò a comprendere i bianchi; mentre Filippo imparò a non
disprezzare più gli uomini delle foreste.
"Vorrei poterti seguire nella foresta e percorrere con te ogni sentiero"
disse un giorno Filippo.
"Il grande albero" rispose Isa usando il figurato linguaggio dei Boscimani
"è sempre nello stesso posto. Eppure conosce ogni cosa e fa vivere molti
animali; e né il vento, né l'uragano riescono ad abbatterlo."
"Non ti capisco, Isa."
"Ecco: nel villaggio Amaora, il mio villaggio, un vecchio Ring-kop non
poteva più cacciare. Era come te. Le zagaglie dei nemici lo avevano reso cosi.
Eppure il suo arco parlava sempre e il cerbiatto cadeva. Tu puoi essere sempre
un grande guerriero."
"Lo credi?" "Si."
"Allora lo sarò."
Erano giorni felici, quelli.
Isa non era più chiamato per lavorare e nessuno più lo tormentava. Era
lasciato libero d'andare quando voleva con Filippo.
assarono cosí più di venti giorni, quando Filippo notò un cambiamento
nell'atteggiamento del compagno. Come giungevano nella radura Isa gli dava
l'arco e sedeva, assorto, al suo fianco. Non gridava più per i colpi andati male,
né gioiva per quelli centrati.
Era lí, indifferente.
Filippo lo guardava senza avere il coraggio di chiamarlo.
"Isa" gli chiese una mattina "non sei contento di venire con me?"
"Chi lo ha detto?"
"I tuoi occhi lo dicono."
"I miei occhi non dicono quello che sente il mio cuore."
"Cosa c'è allora?"
"Non lo so."
"Io si."
"Dimmelo."
"I tuoi occhi guardano sempre lontano."
"E con questo?"
"Tu vuoi ritornare nella foresta."
"Forse."
"Ed allora che aspetti?"
"Non voglio lasciarti."
"Ritornerai, no?"
"Non lo so."
"Io non vorrei mandarti via" disse Filippo abbassando lo sguardo. "Vorrei
tenerti sempre vicino a me."
"Io non vado via."
"Tu sei già via. Sei già solo."
"Non è vero questo."
"Si, Isa. Tu sei con me, ma non ridi più con me; non giochi più con me.
Non gridi più che sono una femmina quando sbaglio a tirar d'arco. Sei via,
perciò."
"Non volevo farti male."
"Cosí" proseguí Filippo senza badare all'interruzione "è meglio che tu
vada dove vuoi. Però..."
Si tese tutto verso il compagno e gli sussurrò all'orecchio:
"...però ora giureremo di essere sempre amici. Tu ritornerai da me ogni
tanto, cosí parleremo e giocheremo insieme."
"Cos'è un giuramento?" chiese Isa.
"Quando uno giura e poi non fa quello che ha detto, muore."
"Una parola, allora. Una promessa fatta agli spiriti buoni."
"Si. Dammi la mano."
Isa gliela tese. Filippo, stringendola con forza, disse:
"Isa è il mio grande amico. Lo giuro per il cielo. Io non lo abbandonerò
mai, neppure quando mi sposerò. Ecco, ora tocca a te."
"Cosa devo dire? Le tue stesse parole?"
"No. Occorrono parole tue."
"Bene." Isa strinse la mano del compagno e mormorò lentamente:
"Il fiume si seccherà e la foresta diventerà deserto, prima che Isa
dimentichi. Nel mio sangue scorre il suo sangue e Filippo è mio fratello. Il Gran
Padre lo sa."
"Ma non è un giuramento, questo!" esclamò Filippo. "Devi dire: lo giuro."
"Perché? Se il Gran Padre lo sa, basta. Isa non abbandonerà il fratello.
Pao ha detto che se si dice al Gran Padre, basta. E quando Pao dice che il fiume
si seccherà e la foresta diventerà deserto prima che lui dimentichi, stai
tranquillo che non dimenticherà."
"Se Pao l'ha detto, va bene. Ora riportami a casa, poi andrai."
"Ritornerò con Pao. E tu m'aspetterai."
"Vieni presto, però."
Per due giorni Isa vagabondò per la foresta.
Si sentiva libero, felice.
Il terzo giorno si diresse verso la "città morta" per incontrare Pao. Al
limite della radura, ove sorgeva il villaggio del piccolo popolo, gridò il
richiamo convenuto.
Ma nessuno rispose.
Provò ancora mentre avanzava lentamente.
I Boscimani non dovevano essere lontani.
Possibile che nessuno lo sentisse?
S'appoggiò ad un tronco e rimase in ascolto.
Ma, ad eccezione dei mille e mille rumori della foresta, nessun altro
segno di vita.
Proprio per questo Isa non si mosse.
Ciò non era normale. Appena trenta passi più avanti, proprio dietro i
grandi alberi che lo nascondevano, c'era il villaggio di Pao. Perché nessuno
rispondeva ai suoi richiami? Possibile che nessuno lo udisse?
Improvvisamente l'abbaiar d'uno sciacallo ed il vento che cambiò
direzione, gli fecero chiaramente comprendere ciò che era accaduto.
Balzò in avanti correndo senza rumore.
Prima d'entrare nel villaggio, si fermò.
Il suo corpo pareva quello d'una statua, tant'era immobile. Ma le narici
dilatate, frementi, e gli occhi che scrutavano in ogni dove, indicavano con
quanta attenzione osservasse ogni cosa.
Gli arbusti spezzati, le capanne scoperchiate, gli oggetti dei Boscimani
gettati cosí, alla rinfusa, mostravano chiaramente che in quel luogo si era
duramente combattuto. Qua e là delle frecce erano conficcate nel terreno.
Sorpassato l'ultimo cespuglio, vide il primo morto.
L'osservò bene.
Doveva essere stato uno dei più giovani guerrieri di Pao. Dodici colpi di
zagaglia gli avevano squarciato il petto. La mano stringeva ancora l'arco.
Ma dal corpo era stata staccata con un colpo netto, là testa.
Isa osservò il taglio.
Un bianco non ci avrebbe visto nulla.
Lui vi lesse, invece, il nome della tribù che aveva compiuto l'eccidio.
"I guerrieri del Gran Re!" esclamò.
Erano, gli Zulù, il ceppo più numeroso e più forte della grande razza
bantù alla quale appartenevano anche i Swazi, i Pondo, i Tembù, i Mascona, i
Shangaans, i Matabele, i Barotse.
I bianchi confondendo chiamavano zulù anche le altre tribù bantù.
Ma per Isa zulù erano solo quegli uomini appartenenti alla grande,
numerosa tribù cosí chiamata e che aveva un solo capo: il Gran Re. Anche
fisicamente gli Zulù differivano dai loro cugini: naso aquilino, occhi obliqui; e
molto, molto alti.
a tutti, Swazi, Pondo e cosí via, erano nemici acerrimi degli Zulù. O
meglio, lo erano stati fin quando Ciaka, il Gran Re, portando lo sterminio in
tutti i villaggi delle varie tribù bantù, non aveva ottenuto la loro sottomissione.
Questo era accaduto molti anni prima.
Isa ricordava quando i vecchi raccontavano le leggendarie imprese dei
terribili guerrieri. Ricordava che essi concludevano invariabilmente i loro
racconti dicendo:
"Se loro sono i guerrieri del Gran Re, noi siamo le 'antilopi della foresta'.
Nessuno può gareggiare con un Swazi in battaglia; nessuno riesce a fermarlo.
Egli è tanto agile e veloce che le zagaglie nemiche non riescono a colpirlo."
Cosí dicevano.
Ma ricordava pure che un giorno anche i loro villaggi furono rasi al suolo;
ricordava l'ingresso di Ciaka nel suo villaggio, di Ciaka che con la sua potenza
e con la sua crudeltà, era diventato veramente il "Grande Re".
Era storia accaduta molti anni prima, quando lui non aveva ancora nove
primavere. Ma ricordava sempre i venti guerrieri uccisi con un colpo alla nuca
ed il capo del villaggio fatto divorare dalle formiche, solo perché avevano osato
dichiarare che le "antilopi della foresta" potevano fare sempre ciò che volevano.
Anche se Ciaka non lo permetteva.
Malgrado tutto ciò, Isa ammirava i guerrieri del re. Nel suo intimo, aveva
sognato di appartenere un giorno a quelle schiere. Come ogni essere della
giungla, ammirava la forza ed il coraggio.
E quei guerrieri ne avevano in tal misura che anche i bianchi, malgrado le
loro armi possenti, erano stati spesso sconfitti. E la fama di queste imprese era
stata divulgata in tutta la giungla a tutti i villaggi, dai tamburi del Gran Re.
Isa scavalcò il morto e si guardò d'attorno.
Qua e là giacevano i piccoli uomini. Le loro membra avevano già sentito i
denti degli sciacalli.
Li osservò uno per uno.
Cercava su di essi un segno che gli facesse riconoscere il suo amico.
In un angolo erano le donne e i bambini.
Una massa informe che giaceva brutalmente accatastata.
"Del nemico non deve rimanere traccia," questo era il motto di Ciaka. Ed
era rigorosamente applicato.
Quando ebbe cercato per ogni dove, entrò nella grotta.
Quattro guerrieri del piccolo popolo giacevano nell'interno. I loro corpi
erano crivellati di colpi.
In quell'angusto spazio si dovevano essere battuti da leoni.
Li osservò.
No. Pao non era fra loro.
Sedette fuori.
Era sconvolto per quello che i suoi occhi vedevano. Avrebbe voluto
gridare, fuggire. Avrebbe voluto trovare i guerrieri del Gran Re e vendicare i
suoi amici.
Ma era vissuto molti anni con Pao e il suo popolo.
Era cresciuto e nato nella foresta.
Non inutilmente.
La foresta, la sua tribù e Pao gli avevano insegnato che la prudenza era la
migliore arma.
Se voleva colpire e vendicare, doveva attendere il momento giusto.
Rimase seduto.
Ma se il suo corpo poteva apparire quello d'un morto, tant'era la rigidità
delle membra, il cervello lavorava alacremente.
Aveva notato che i morti del piccolo popolo, senza tener conto delle
donne e dei bambini, non erano numerosi. Nel villaggio lui aveva visto almeno
un numero triplo di uomini validi a tirar d'arco.
Potevano essere fuggiti. Impulsivamente voltò il capo verso il luogo
dell'eccidio.
No, un Boscimano, come qualsiasi altro essere della foresta, sarebbe
morto tre volte, prima di far uccidere i suoi cari.
Pao ed i suoi uomini non dovevano essere nel villaggio quando gli Zulù
avevano attaccato. Gli uomini del Gran Re non usavano prendere prigionieri.
Doveva essere andata proprio cosí: Pao e gli altri erano andati a caccia ed il
villaggio era stato assalito durante la loro assenza.
Non pensò neppure di cercare il luogo ove i nemici avevano bruciato i
loro morti, e non si chiese neppure perché non si trovava neanche una zagaglia
degli assalitori.
Era una cosa questa che persino Amebais, la stolta, sapeva a memoria.
Lo Zulù che perdeva la zagaglia in combattimento, veniva ucciso dai
compagni.
Ciaka l'aveva insegnato.
E tutti avevano subito imparato.
Era bastato un solo esempio.
Più di mille guerrieri furono fatti uccidere da Ciaka in una sola mattinata,
perché avevano perduto le loro armi.
Ma perché i guerrieri del Gran Re si erano mossi?
A questo Isa non sapeva rispondere. Molto tempo prima c'erano state
lunghe lotte. I vecchi dicevano che Ciaka voleva la distruzione d'ogni ramo
della grande famiglia Bantù. Allora non era difficile incontrare un villaggio raso
completamente. Ma si sapeva il perché.
Poi tutti si erano sottomessi a Ciaka e i Bantù si trovarono sotto un unico
capo.
Le lotte più recenti erano state dirette contro gruppi di rivoltosi e contro i
villaggi degli Ottentotti.
Ma nei territori più a Sud; non in questi.
"La foresta parla ed il sole fa sempre luce" disse Isa. "E si saprà perché il
Gran Re ha fatto parlare le sue zagaglie."
S'alzò.
Aveva deciso.
Avrebbe cercato Pao. E sarebbe rimasto con lui.
Il piccolo popolo l'aveva aiutato e salvato. Ora egli avrebbe data la sua
zagaglia e il suo braccio per loro.
CAPITOLO XI
Errava per la foresta da più giorni, in cerca d'una traccia che lo guidasse
da Pao, ripetendo insistentemente il grido di richiamo del piccolo popolo,
quando i tam-tam parlarono.
"Ciaka è morto!... Ciaka è morto..." dicevano.
Il Gran Re era morto.
Isa urlò la sua gioia e si abbandonò ad una danza selvaggia. Ciaka era
morto. Ed Isa gridava come se fossero morti tutti i suoi guerrieri; come se lui li
avesse uccisi coi pensieri di vendetta che ruminava entro di sé.
Il sibilo di un serpente lo fermò.
Il sibilo si ripetè.
Non era un serpente, ma un uomo. L'udito sensibilissimo di Isa aveva
notato la contraffazione.
S'arrampicò su un grosso ramo e stette in ascolto.
I tamburi rullavano ancora ripetendo il loro funereo messaggio.
Poi echeggiò sinistro l'urlo di una scimmia che aveva scoperto il suo
implacabile nemico, il grosso pitone, che se ne stava immobile, tanto che era
difficile notarlo, su d'un ramo, a poche braccia da lui.
Mentre osservava il grosso rettile, udí dei passi leggeri.
Un giovane negro avanzava guardingo. Stava seguendo qualche pista,
poiché osservava attentamente il terreno e fiutava costantemente l'aria.
Era un guerriero. Il cerchio d'oro che gli cingeva il capo, dai capelli unti
ed in parte rasati, lo indicava per tale.
Dall'acconciatura Isa riconobbe in lui un Swazi.
Il guerriero aveva fatti pochi passi in avanti quando il pitone si mosse.
Trattenendosi con la coda al ramo, scivolò silenziosamente ed
improvvisamente sul negro avvolgendolo, in un attimo, tra le sue spire.
L'uomo non gridò. Cercò di prendere la clava che gli pendeva da un
fianco, ma le braccia furono immobilizzate dalla stretta possente prima ancora
che riuscisse nel suo intento.
Tentò di liberarsi rigirandosi su se stesso.
Ma il grosso pitone abbandonò soltanto il ramo al quale ancora si
tratteneva. Nel girare, l'uomo mostrò il viso ad Isa.
Era Mései, il nipote del vecchio stregone, il compagno che spesso lo
aveva colpito a sangue e che sempre lo aveva deriso.
Eppure in quel momento Isa non gioí per ciò che stava accadendo al suo
antico rivale.
Non pensò a tutto il male che Mései gli aveva fatto.
Vide in lui soltanto un uomo alle prese con un animale della foresta. E
questa volta l'animale aveva il sopravvento.
Incoccò la freccia nell'arco ed attese il momento propizio. La lotta fra la
bestia e l'uomo proseguiva silenziosa, terribile. Ma quando il pitone drizzò il
capo triangolare sopra la testa di Mései, preparandosi a dare l'ultima stretta, Isa
agí.
Bisognava colpire subito, e mortalmente.
Non poteva chiamare; distratto dalla sua voce, l'uomo in quell'attimo di
rilassatezza, avrebbe perduto la vita.
La freccia attraversò un ciuffo di capelli di Mései e penetrò nella grossa
testa del serpente che, con un sibilo, pari al fischiar d'una frusta, eresse ancor
più il capo per individuare l'assalitore.
Due frecce lo colpirono nuovamente. Con un tremito convulso il pitone
allentò la stretta e s'accasciò in terra irrigidendosi.
Mései, raccolta la zagaglia, colpí ripetutamente, selvaggiamente il rettile
in ogni parte del corpo. Poi s'addossò ad un tronco ed attese.
Le frecce avevano parlato in suo favore, ma ora potevano ucciderlo.
Esse erano del piccolo popolo; ed il piccolo popolo era suo nemico.
Non tentò di fuggire, ché la lotta l'aveva stremato. Con lo scudo sollevato
a difesa del viso, e la zagaglia pronta per essere lanciata, scrutò avanti a sé.
Vide un'ombra scivolare dal grosso albero che gli era di fronte e venirgli
incontro.
"Puoi posare la zagaglia, Mései."
"Tu, l' 'orzowei'?! "
"Ti meraviglia ch'io sia ancora vivo? Ringrazia la foresta che mi ha
risparmiato, si che ora ho potuto scioglierti dalla lieve stretta."
Mései abbassò il capo.
"Non è da guerriero" disse "farsi salvare da chi non è neppure un
portatore. Ma io ringrazio lo stesso l' 'orzowei' di avermi salvato."
"L' 'orzowei" ha un nome" rispose duro Isa.
"Il suo nome è uguale a qualsiasi altro e la gente lo chiama come vuole."
"Io ho un nome. La mia tribù me lo ha dato."
"La 'mia' tribù vorrai dire."
"Fu anche mia."
"Anche gli sciacalli hanno una casa, qualche volta!"
"Basta, Mései; o il mio arco parlerà nuovamente! "
"Vedo che l' 'orzowei' ha trovato una capanna presso il piccolo popolo.
Solo lí può star bene... Certo, egli è un eroe. Almeno per altezza, sovrasta
tutti!..."
"Isa vive fra la sua gente. Nelle grandi case di pietra. E non si insudicia a
guardare un Swazi. E se ne ha salvato uno è stato per amor degli sciacalli. La
sua carne li avrebbe avvelenati."
"Non sapevo che i bianchi andassero in giro vestiti come i Swazi e
cacciassero con l'arco dei piccoli uomini. O anche i bianchi hanno scacciato l'
'orzowei', perché egli non è del loro stesso sangue?"
"Se le tue zagaglie riuscissero a colpire come le tue parole, saresti un
grande guerriero. Ma la tua forza è tutta nella lingua, ed allora... Piano, Mései,
la mia freccia è più veloce... ed hai visto che non sbaglio il colpo. Riponi la tua
zagaglia."
Mései, che aveva fatto l'atto di scagliarla alle parole offensive di Isa,
abbassò il braccio dicendo:
"Solo perché c'è il corpo d'un pitone tra me e te, non colpisco. Ma non
tentare oltre la collera d'un grande guerriero."
"Son diventate femmine i guerrieri Swazi, che t'hanno ammesso fra
loro?... Vai, Mései, ritorna al villaggio. I sentieri della foresta stancano e
nascondono molte insidie. Potrebbe finire male..."
"Ci rincontreremo. Ed allora non ci sarà più un pitone a fermare la mia
zagaglia."
Si era allontanato di pochi passi, quando Isa lo richiamò:
"Un momento, Mései. Volevo chiederti di Amunai. Vive ancora?"
"Perché non lo vieni a trovare?"
Nel sorriso con cui Mései accompagnò queste parole, Isa vi lesse il sottile
piacere che egli avrebbe recato al villaggio ritornando, e la fine che lo
aspettava, se avesse avuto il coraggio di rimettervi i piedi.
"È ciò che stavo pensando. Da molto tempo volevo rivedere il vecchio
Ring-kop " disse ugualmente.
"T'aspettiamo."
"Verrò."
Ecco il colossale baobab, l'albero sacro del villaggio, ai piedi del quale lo
stregone pregava gli spiriti benevoli.
Isa stette lungo tempo a rimirare il villaggio addormentato. Ogni cosa
d'intorno gli ricordava qualche particolare della sua vita.
Quando la luna sembrò toccare la punta del baobab scivolò
silenziosamente attraverso il campo.
Con un balzo superò la barriera di spine e si diresse, ombra nell'ombra,
verso la capanna del vecchio Ring-kop che l'aveva allevato.
"Son io" bisbigliò entrando.
"Chi io?"
Il vecchio Amunai si sollevò dal giaciglio.
"Isa. Mohamed Isa."
"Tu?! Vieni, vieni subito."
"Sono già dentro."
"Fatti vedere, ragazzo mio. Oh, non ti avrei mai più riconosciuto se
t'avessi incontrato lungo i sentieri. Son ben saldi i tuoi muscoli... Vedo nuove
cicatrici sul tuo corpo. Sei un guerriero, ora; esse parlano per te. No... non mi
interrompere. Voglio vederti bene. Molte stagioni sono passate da che
mangiammo insieme l'ultima volta... Parla ora. Sei sempre con gli uomini del
piccolo popolo?"
"No. Da molte lune non vivo più con gli uomini dei cespugli. Sto nelle
capanne di pietra, con la mia gente."
"I bianchi ti mandano ancora vestito come un Swazi?"
"No, Amunai. Ero stanco e volevo ripercorrere i sentieri della foresta."
"Non sono questi i tempi."
"Perché?"
"I guerrieri del Gran Re si sono mossi. Ed un bianco farebbe sempre gola.
Anche se il bianco sembra un Swazi."
"Ti ringrazio, Amunai. Il tuo consiglio è saggio, ma un bianco non
trema."
"Una volta eri orgoglioso di dirti Swazi!"
"Mi sento ancora Swazi, Amunai. Amo sempre la mia tribù." "Vedo che
non hai dimenticato la gente che ti allevò."
"No; ma neppure coloro che mi hanno scacciato son riusciti a
dimenticare."
"Lo so. È per questo che il giovane Isa non può rimanere con il vecchio
Amùnai."
"Già lo sapevo. Mései me lo ha detto."
"Quando lo hai veduto?"
"Stamane. Quando i tamburi davano la lieta novella."
"Ma tu non sei ferito!"
"No."
"... Mései?"
"Credo che sia nel villaggio."
"Quando due pantere si incontrano sullo stesso sentiero, una soltanto
ritorna alla tana. Come mai?"
"Non era il momento."
Isa non disse che non riusciva mai a colpire un uomo cosí, freddamente.
Aveva ripugnanza a farlo.
Ed in questo, ben lo sapeva, non somigliava ai feroci guerrieri della tribù.
"Ciaka è morto" disse per cambiare argomento.
"Che gli spiriti del male non l'abbandonino mai" imprecò il Ring-kop.
"Perché i suoi guerrieri si sono mossi?"
"Un kraal solo si è mosso; per esercizio."
"Hanno distrutto il villaggio di Pao."
Il vecchio ristette alquanto in silenzio, poi chiese; "Quando?"
"Oggi è la decima volta che il sole si leva ad illuminare i morti. Hai detto:
per esercizio?"
"Si. Un guerriero non conosce le sue forze se non le prova. È il kraal delle
'Pantere rosse'."
"Capisco."
"Sono dirette al fiume." "Capisco."
"Cosa pensi?"
"Pao non è morto. Era fuori, a caccia. Lo sto cercando. Ma molti miei
amici del piccolo popolo sono morti. Le 'Pantere rosse' conosceranno la mia
zagaglia."
"Sono molte, Isa. Un intero kraal è troppo anche per un villaggio come il
nostro."
"Lo so."
"Hanno colpito gli uomini dei cespugli. Cosa ti importa? Essi non sono
del tuo stesso sangue. Sono inferiori a noi."
"Se avessero colpito il mio Amunai, non dovrei vendicarlo?"
"È un'altra cosa!"
"La stessa. Anche lui non è del mio stesso sangue e la sua gente è
inferiore a noi. Cosí dicono i bianchi."
"Non potrai far nulla."
"Lo so. Ma dopo non cercheranno più la gente del piccolo popolo per
esercizio! Ne avranno timore."
"Stai in guardia, ragazzo. Essi meritano il nome che si son dati. Erano
l'orgoglio di Ciaka."
"Pantere contro Pantere. La lotta sarà bella. Dimmi, Amunai,
attaccheranno anche il villaggio bianco? "
"Ciaka non voleva. Le lunghe canne parlano forte. E poi i bianchi sono
lontani dal fiume."
"Con pochi salti un leopardo dalle sponde può raggiungerli" disse Isa in
boero.
"Cosa dici?"
"Dico che uno gnù può arrivare dal fiume alle capanne di pietra in cosi
breve tempo che un abile cacciatore non riuscirebbe ad incoccare la freccia
nell'arco."
"Perché i bianchi vengono sempre avanti?"
"Non lo so. C'erano già quando andai. Le 'Pantere rosse' non li
toccheranno, vero?"
"No. Ciaka l'aveva detto."
"Come sono i loro segni?"
"Il grande scudo è dipinto come la pelle della grande pantera. Solo che le
macchie sono rosse."
"Poi?"
"Tredici strisce nere son segnate in un angolo."
"Il tredicesimo kraal, vero?"
"Si. Nel centro è dipinta la pantera che si slancia. È lo stesso simbolo che
hanno gli altri tre kraals con i quali sono uniti: 'nere', 'silenziose', 'astute'. Con le
'rosse' formano il miglior corpo dei guerrieri del Gran Re."
"Mi fermo con te, questa notte. Vuoi?"
"Hai mai visto un padre scacciare suo figlio?"
"Grazie, Amunai."
Nella piccola capanna il silenzio era sceso da poco quando il rullio dei
tam-tam si diffuse nuovamente nell'aria.
Isa balzò a sedere.
"C'era da aspettarselo" commentò Amunai dopo aver ascoltato
attentamente. "Ma non cosí presto."
"Perché?"
"Non si nomina un nuovo capo prima della 'grande danza'."
"Potrebbero averla già fatta."
"Per tre notti i guerrieri danzano per accompagnare lo spirito del re. Ma
non è trascorso neppure un giorno dacché Ciaka è morto."
I tam-tam trasmettevano ancora.
"Il grande Dingaan e suo fratello Umhlangana" diceva ora "hanno liberato
il forte popolo degli Zulù..."
"Lo dicevo io" disse Amunai. "Non era chiaro. Prima la gran voce parla
del re morto con..."
"Taci. Non hanno finito."
"...Dingaan è il nuovo re degli Zulù. Suo fratello, il suo aiutante. Che tutti
i popoli della foresta lo sappiano. Dingaan è il nuovo re... Dingaan è il nuovo
re..."
"Ora lo ripeteranno finché anche le scimmie lo avranno imparato"
mormorò Amunai.
"Già" disse Isa.
"Per noi non cambia nulla. Sarà sempre il Grande Re."
"Già" ripetè Isa "il Grande Re."
Tacquero.
E mentre i tam-tam ripetevano alla foresta tutta il nome del nuovo re, e gli
sciacalli abbaiavano fuori del villaggio, il sonno s'impadroní d'entrambi.
"È l'alba, Isa, e gli altri son fuori ad attenderti. Mései è con loro. Ho udito
la sua voce."
Isa balzò dal giaciglio.
"Quanti sono?"
"Non li ho veduti. Ho inteso i loro passi. Poi qualcuno ha spiato nella
capanna."
"Mi hanno preso in trappola." "Già."
Isa passeggiò nervosamente su e giù per la capanna.
Sapeva di non poter contare su nessun aiuto e che nessuno avrebbe
interceduto per un atto di clemenza in suo favore. Si trovava a lottare da solo
contro tutti, in una posizione sfavorevole per giunta.
Non lo spaventava il pensiero della morte. Ciò che gli dispiaceva era il
fatto di esser caduto in trappola come un cucciolo e di finire al palo, tra le burla
e gli sghignazzamenti del villaggio.
Come lo avessero scoperto era, per lui, un mistero; non tentò neppure di
spiegarselo. Era accaduto; ora bisognava affrontare la situazione.
"Cosa intendi fare?" chiese Amunai.
"Lotterò. Se mi vogliono dovranno pagare il loro prezzo."
Il ragazzo incoccò la freccia nell'arco ed uscí.
Un urlo accolse la sua comparsa.
Più di trenta guerrieri erano stretti in semicerchio a una quindicina di
passi dalla capanna.
"L' 'orzowei' vuol combattere?" gridò uno. "Sarebbe una cosa strana ! "
"Ne sei capace?"
"Chi ti ha insegnato a tirar d'arco?"
Isa ascoltò impassibile tutte le ingiurie che gli vennero lanciate. Intanto
cercava di scoprire quale era il punto debole dell'accerchiamento.
Poi venne Mései. I guerrieri tacquero.
"Non puoi fuggire, 'orzowei'," disse. "I miei amici sorvegliano ogni tua
mossa e la strada per te è sbarrata. Ti conviene gettar l'arco; sarò clemente. Ma
se provi solo a far partire una freccia, il tuo corpo servirà da sostegno a trenta
zagaglie."
"Trema forse la mia mano?" rispose Isa.
"Chi ha dato coraggio all' 'orzowei'?" gridò un guerriero. "Forse sua
madre ha amato per una notte il leone e questo gli ha infuso la forza della
disperazione ? "
"No!" rispose un altro sghignazzando "è il coraggio dello sciacallo. Sua
madre altro non poteva fare che un am..."
La freccia gli mozzò l'ingiuria in gola.
L'uomo cadde senza un grido.
Immediatamente dieci zagaglie vennero a conficcarsi nel posto ove un
attimo prima era Isa.
Questi, con un balzo, era rientrato nel tucul.
Un secondo dopo un guerriero irrompeva nell'interno. Alzò il braccio
armato di daga, ma la freccia spense ogni suo ardore.
Ma dietro il primo, altri sopraggiunsero ed Isa si trovò a lottare contro una
decina di uomini. Abbandonato l'arco, si difese coraggiosamente con il lungo
coltello da caccia.
Tre volte le daghe avversarie gli apersero profondi squarci sul petto; ma
non mollò.
Tenacemente, balzando qua e là per l'angusto spazio, cercava di aprirsi un
varco verso la porta.
Ma per ogni uomo che riusciva a far cadere, altri due gli si paravano
dinanzi.
Amunai era immobile in un angolo.
Ma quando vide Isa, stretto addosso ad una parete, reprimere con uno
sforzo il gemito che una larga ferita al torace gli aveva procurato, alzò la daga e
colpi.
Non per nulla era un Ring-kop, un grande guerriero.
E cosí, malgrado l'età, in breve tempo riuscí a fare il vuoto nel tucul.
"Fai parlare le tue frecce, presto!" ordinò.
Isa raccolse l'arco e colpí il primo uomo che tentò di entrare. E sul corpo
del primo, urlando, si rotolò un secondo, un terzo.
n nugolo di zagaglie penetrò nella capanna conficcandosi a pochi palmi
dai due uomini.
Ci fu un attimo di sosta.
Di fuori i guerrieri si erano riuniti attorno a Mései.
"Come ti senti, Isa?" domandò Amunai.
"Un leone non sarebbe più forte di me in questo momento."
"Le tue ferite?"
"Sono graffi."
"Profondi, però."
"Anche tu, Amunai, non ne sei privo."
"La mia pelle è dura."
"Grazie per il tuo intervento."
"Era mio dovere. Uno contro dieci non è leale. Nessuna belva della
giungla lo farebbe. Eccetto gli sciacalli." "Già."
"Fra poco ritorneranno. Senti come gridano?"
"Troveranno pane per i loro denti."
"Io son pronto."
"Amunai, se vuoi, puoi andare." "La mia daga ha un taglio sottile ed il
mio braccio non è stanco."
"Grazie... grazie, padre!"
In silenzio attesero il nuovo attacco.
I guerrieri al di fuori urlavano e, su tutti, sovrastava la voce di Mései.
Poi, improvvisamente, tacquero.
"Ci siamo" mormorò Amunai.
Passarono dei secondi che parvero eterni. Poi il terrificante urlo di guerra
echeggiò nell'aria. E subito alcuni uomini comparvero nel vano della porta. La
lotta si riaccese furibonda, ma i guerrieri non riuscivano ad entrare.
Improvvisamente qualcosa scricchiolò dietro le spalle di Isa e questi,
voltandosi, vide Sem-husci balzare nel varco aperto nella parete.
Gli si gettò sopra e colpí ripetutamente; ma qualcun altro aveva seguito
Sem-husci e gli piombò alle spalle.
Sentí una fitta di fuoco; inarcò il corpo e, balzando in piedi, rovesciò
l'attaccante.
Intanto Amunai, pur contrastando validamente il passo agli avversari,
perdeva terreno.
a uno squarcio sul viso gli usciva copioso il sangue.
Mései gli era ora di fronte, mentre gli altri facevano ressa d'attorno.
Isa, liquidato l'avversario, si avvicinò al Ring-kop per dargli man forte.
Ma mentre alzava il coltello per colpire, udí gridare:
"Attento alle spalle, 'orzowei'!"
Si voltò di scatto, giusto in tempo per evitare la grossa asta che un
guerriero, dal varco nella parete, gli aveva lanciata. La pesante arma gli sfiorò
un braccio graffiandolo, ma penetrò tutta nel fianco di Amunai.
"Fuggi, Isa, fuggi" gli gridò questi accasciandosi.
Vide, mentre correva verso la siepe di recinzione, un guerriero inseguirlo.
Ma qualcosa colpí l'uomo che s'abbattè pesantemente al suolo.
"Fuggi, piccolo 'orzowei'!" udí gridare nuovamente.
Solo ora riconobbe la voce.
Era Amebais, la vecchia ubriacona, la nutrice, che alle prese con il folto
gruppo dei guerrieri, gli stava proteggendo la fuga.
Superò la siepe e fuggi per la foresta.
Prima di inoltrarvisi si voltò. Vide Amebais cadere senza un grido, colpita
alle spalle dalla zagaglia di Mései.
Allora si rifugiò tra i folti alberi, mentre i guerrieri lo inseguivano
urlando.
CAPITOLO XII
"Acqua!... acqua!... ho sete!... sete!... Pao! Pao!"
Isa barcollava lungo l'ampio sentiero degli elefanti; procedeva
aggrappandosi ai cespugli, alle liane, trascinandosi in terra. E gli pareva che
tutta la foresta fischiasse, urlasse, schiamazzasse cosí forte, tanto forte da
trasformare ogni più lieve cinguettio in un colpo sordo che si ripercuoteva
centuplicato nel suo cervello.
Quanti giorni erano trascorsi dal momento in cui, grazie all'intervento
imprevisto di Amebais, era riuscito a fuggire dal villaggio, Isa non lo sapeva.
li pareva trascorsa un'eternità dacché stava vagando per la foresta alla
ricerca del fiume e del sentiero che lo riportasse dai bianchi. Spesso esausto,
s'era abbandonato in terra sfinito dalle ferite e dal sangue perduto. Ma un
ruggito, un sibilo, o l'alito caldo degli sciacalli che impavidi gli si avvicinavano,
come comprendendo la sua debolezza, gli avevano dato sempre la forza di
rialzarsi e riprendere la marcia.
Ora aveva raggiunto il fiume. Lo vedeva, laggiù, scorrere lento, placido.
Ma la febbre era aumentata.
Il delirio si era impadronito di lui.
Si trascinava avanti senza comprendere, senza vedere dove; lanciandosi
contro nemici inesistenti; urlando, gemendo.
Molte volte cadde.
Poi, spinto dalla febbre stessa e dagli incubi, si drizzava sghignazzando,
ridendo; annaspava nell'aria, barcollava, arrancava per un tratto fino a cadere
nuovamente.
Di nuovo in piedi; di nuovo steso sul suolo felpato dal muschio o fra le
spine d'un basso cespuglio.
ue iene lo seguivano pazientemente, attendendo il momento propizio, per
fare, di quel corpo stremato dalla febbre, loro facile preda.
E i loro sghignazzamenti commentavano quel procedere pazzo.
Finalmente il fiume.
Si trascinò fino a tuffare la testa nell'acqua. Questa gli ridonò lucidità di
pensiero.
Non doveva essere molto distante dal villaggio dei bianchi, se non
sbagliava; ma non era certo che doveva attraversare il fiume.
Strisciò lentamente, con fatica, nell'acqua; al contatto di essa ebbe un
lungo brivido per cui tentò di ritirarsi.
In quel momento una zagaglia gli sfiorò la spalla.
Si volse e vide Mései corrergli incontro. Tre guerrieri lo seguivano.
"È lí! È lí!" urlava Mései.
Raccogliendo, con uno sforzo disperato, tutte le energie, prese a nuotare
seguendo la corrente. Non sapeva dove andava, né gli importava.
Vedeva soltanto la faccia di Mései sghignazzante; Mései che ora lo stava
per raggiungere.
Infatti il giovane guerriero nuotava velocemente verso di lui, seguito dai
compagni.
Ma Isa non vedeva gli altri. Per lui c'era solo Mései.
Sentiva un gran freddo. Un tremore convulso l'aveva invaso.
Eppure le sue braccia fendevano con forza l'acqua, mentre i piedi
ritmicamente davano la velocità.
Ma lui non se ne accorgeva.
Poi udí Mései gridare, ma non comprese le sue parole.
Cercò di andare più in fretta.
Se si fosse voltato avrebbe veduto i suoi nemici raggiungere la riva ed
inoltrarsi nella boscaglia.
Qualcosa si mosse vicino a lui e udí lo scatto secco, caratteristico, delle
mascelle che si chiudono a vuoto.
Ma non ebbe un brivido.
"Meglio i coccodrilli" pensò "che Mései!"
Quando però per la seconda volta senti battere le possenti mascelle degli
abitanti dei fiumi cosí vicine al suo corpo da credere, per un attimo, d'esser stato
preso, allora tentò disperatamente di raggiungere la riva.
Gli alligatori gli sbarravano la strada. Ed erano ovunque. Nel centro del
fiume, dietro di lui; o sulle sponde crogiolandosi al sole, pronti però a tuffarsi
appena lo avessero scorto.
Se la febbre non lo avesse ingannato, egli non sarebbe mai venuto a
nuotare in quel sito.
Non per nulla quel tratto di fiume veniva chiamato "la fossa della morte".
Nessuno era mai riuscito ad attraversarlo in quel punto ove regnavano
incontrastati i coccodrilli.
Il pericolo gli aveva ridato nuova energia.
Ma non poteva durare a lungo.
Lo sentiva.
Ad ogni spinta in avanti le sue braccia divenivano sempre più pesanti,
tanto da obbedire con fatica al suo desiderio di fuga.
Il cerchio si restringeva sempre più.
Fra poco il suo corpo sarebbe stato disputato dall'orda famelica.
Egli non avrebbe contato più nulla.
Fu allora che udí, vicinissimo, un colpo di fucile.
Poi due, tre, quattro colpi.
Vide alcuni coccodrilli contorcersi nello spasimo della morte, vibrando
furiosi colpi di coda sull'acqua.
Ma gli altri si avvicinavano sempre. Gridò.
E gli parve che lo facesse qualcuno che non era lui.
I colpi si fecero sempre più frequenti, sempre più vicini.
Sollevò il capo e vide una barca. Su di essa, in piedi, alcuni uomini
sparavano.
ualcuno lo afferrò per le braccia. Si sentí tirare fuori dall'acqua mentre
una scarica di fucileria si abbatteva sul più audace dei rettili che aveva tentato
di trattenerlo per sé.
Quando riaprí gli occhi non riuscí, subito, a rendersi conto di dove si
trovasse, poi riconobbe il lume appeso alla parete di fronte.
Era nella casa di Anna.
Chiamò.
"Hai sete?" chiese Irghin avvicinandosi.
"No. Voglio vedere Anna."
"Ora la chiamo. Mamma! Mamma... Isa si è svegliato! Corri!"
Un attimo e la donna fu al suo fianco.
"Come ti senti, ragazzo mio?"
Isa la guardò negli occhi. Allungò una mano come per accarezzarla, ma si
fermò.
Anna gliela prese delicatamente e la strinse fra le sue.
"Riposa" disse "sei stato molto male."
"I coccodrilli non ci sono più, vero?"
"No. E neppure quel Mései che ti ha spaventato tanto."
Isa sorrise.
"Devo essere stato molto male, se riusciva a spaventarmi. Chi m'ha preso
sulla barca?"
"Gente che non conosci. Ma ora riposa. Ti preparo qualcosa di caldo e poi
mi racconterai."
"E Filippo?"
"Lo chiamerò subito. Riposa, ora."
"Non lasciare la mia mano. Mi piace addormentarmi cosí."
Si risvegliò più tardi.
Anna non era vicino a lui.
Nessun rumore si udiva per la casa.
Ai piedi del letto vi era il suo arco e la pelle di leopardo intrisa ancora del
suo sangue e di quello dei suoi nemici. Si sedette.
Le fasce che gli ricoprivano il petto e le spalle gli davano un senso di
sgomento. Gli parevano lacci messi per imprigionarlo.
Tirò via le coperte e tentò di alzarsi.
Le gambe gli tremavano, barcollando sotto il suo peso; la vista gli si
annebbiava e lo stomaco gli si rivoltava dentro.
Si trascinò pian piano alla finestra. Schiuse le imposte e guardò fuori.
Per tutto il vasto piazzale non si vedeva una persona.
Un carro era di fronte alla casa di George, ma i buoi erano stati staccati.
Solo il sole, che dardeggiava con violenza, animava la piazza. Pareva che
tutti avessero abbandonato il villaggio in fretta e in furia.
Su qualche rozza sedia, all'ombra di un portico, era abbandonato un
lavoro di cucito, un mestolo, uno scialle.
Qualcosa stava accadendo.
Ma non un rumore giungeva a lui, ad eccezione di un brusio lontano,
come d'un tuono remoto, uno strascicar di bandoni di latta.
Dovevano essere passate solo poche ore dall'alba.
Più tardi il brusio aumentò d'intensità. Pareva il lamento della foresta
sotto i colpi violenti del vento.
S'udiva ora, sempre più chiaro, lo stridio di molti carri in movimento e le
voci degli uomini che incitavano gli animali. E le grida, i richiami, le risa, i
canti di una folla che si avvicinava.
Poco dopo il terreno rimbombò sotto il calpestio di numerosi cavalli e le
voci degli uomini risuonarono nella piazza.
Al primo drappello, una cinquantina di cavalieri che erano già intenti a
toglier le selle alle bestie, s'uni poco dopo un secondo e poi un terzo.
Alcuni uomini, fra i quali Isa riconobbe gente del villaggio, guidarono i
cavalli verso un vasto campo che altri già stavano recintando.
Isa osservava attento.
Era la prima volta che vedeva un cosí fitto stuolo di cavalieri. Erano tutti
armati. Le lunghe carabine luccicavano sotto i raggi del sole.
Riuniti in gruppi, sedettero in terra, all'ombra delle querce o delle case, in
attesa del resto del convoglio.
"Son venuti per difendere il villaggio dal kraal delle 'Pantere rosse',"
pensò Isa.
Durante la sua assenza le "Pantere rosse" potevano aver fatto qualcosa
che aveva costretto i bianchi a chiedere dei rinforzi.
Lui non sapeva se ciò era avvenuto.
Ma, se non era cosí, perché tutti quegli uomini armati?
Ma allora perché non avevano chiamato i soldati?
Come arrivò il primo carro comprese di essersi sbagliato.
Gli uomini erano giunti con le loro famiglie.
La piazza in breve si popolò di donne.
Vecchie, giovani, ragazze; con i piccoli in braccio, attaccati alle sottane,
stretti a loro si da impedirle persino nei movimenti.
E parlavano tutte.
Tutte insieme.
Ridevano, sospiravano, gridavano.
c1 areva che tutti gli abitanti dell'aria si fossero dati convegno nel
piazzale. Strida acute, sottili, cupe, gorgheggianti, profonde, trillanti, dolci,
tenere, rauche, s'incrociavano con le grida dei ragazzi, col pianto dei piccoli, col
muggir dei buoi, con le urla degli uomini.
Isa vide Anna parlare agitatamente, ridendo, scherzando, con una decina
di donne forestiere, mentre Irghin gesticolava, fra un gruppo di ragazze, e
Stefano correva qua e là, all'impazzata, con i compagni.
Altri carri giunsero. Altre donne scesero.
l piazzale, benché molti degli arrivati fossero già entrati nelle case,
rigurgitava sempre di gente.
Isa non vedeva altro che teste, teste e teste.
"Saran venuti per costruire un nuovo villaggio" pensò.
E ansiosamente spiò lungo i campi vicini, ma vide solo drizzare tende:
gialle, marroni, rosse; fatte con pelli, con coperte, con frasche; ma tende, tende,
solo tende.
Per un lungo tempo la confusione regnò sovrana.
Poi gli uomini portarono via i carri; i ragazzi seguirono gli uomini e,
padrone del campo, rimasero le donne.
Isa era stato preso in tal maniera da tutto ciò che vedeva da non accorgersi
che la casa s'era venuta animando. Si riscosse solo quando udí un passo leggero
avvicinarglisi.
Si voltò e vide Anna raggiante in volto.
"Che accade?" chiese.
La donna tentò di far gli occhi cattivi e cercò di brontolare:
"Perché ti sei alzato? Non lo sai che non ti devi muovere ?"
Ma lo disse cosí affrettatamente che Isa non comprese nulla.
"A letto!" intimò quando riuscí a calmarsi.
Prese il ragazzo sotto braccio e l'accompagnò.
"Non ti devi alzare, Isa. Non sei ancora guarito."
"Cosa accade?" ripetè il ragazzo. "Chi è tutta questa gente?"
"Miei connazionali" rispose la donna.
"Cosa?!"
"Gente come me. Boeri."
Un'idea le balenò nella mente e soggiunse ridendo:
"Sono della mia stessa tribù, capisci?"
Isa accennò di si
"E dove vanno?"
"Si fermeranno qui per un po' di tempo. Poi proseguiremo."
"Anche tu?"
"Si. Tutti."
"Perché?"
"Che vuoi che ne sappia! Né perché, né dove andremo. E anche gli
uomini non lo sanno. O, almeno, non lo dicono."
"Perché?"
"Chetati ora, e riposa."
"Sto bene. Voglio alzarmi."
"Sei matto? Vuoi che prenda la frusta?"
Isa accennò di si.
"Anna, son guarito grazie a te. Ma ora posso muovermi."
"Ma se le tue ferite sono ancora aperte!"
"Quando un leopardo caccia, vien sempre ferito. Ma non aspetta che le
ferite si chiudano per cacciare nuovamente."
"Non ti comprendo. Comunque, non ti muoverai."
Per altri tre giorni Isa fu costretto a letto.
La fuga gli fu impossibile.
La stanza era sempre gremita di gente ch'egli non aveva mai veduta. Per
lo più donne.
Si mettevano a chiacchierare con Anna ed intanto sbirciavano dalla sua
parte facendo finta di niente.
Mai nessuna si avvicinò a lui.
Solo Anna.
Ogni tanto entrava qualche ragazzo e rimaneva a guardarlo con occhi cosí
stupiti che ad Isa veniva da ridere.
Ma nessuno si avvicinò a lui.
Solo Anna.
Poi venne il dottore.
Lo visitò ben bene e: "Puoi alzarti" gli disse, battendogli una mano sulla
spalla.
Irghin lo accompagnava.
In mezzo ai campi centinaia di carri formavano un triplice cerchio. Entro
il cerchio minore s'ergevano tende e capanne. Un grosso villaggio.
"Quanti sono?" chiese Isa.
"Più di mille persone. Lo diceva ieri George che ha dovuto contarle"
rispose Irghin.
"Perché non fanno le loro capanne di pietra?"
"Devono andarsene. Tutti dobbiamo andar via, al di là del fiume."
"Perché?"
"Non lo so. La signora Grimsk dice che è per colpa degli Inglesi. Ma io
non credo alla signora Grimsk. Sai chi è? Quella donna piuttosto grassa che ha
un figlio con una cicatrice sulla mano..."
Isa non l'ascoltava più.
Irghin chiacchierò un'ora ripetendo tutti i pettegolezzi del villaggio.
Poi rientrarono.
All'alba del nono giorno dall'arrivo della numerosa carovana, si videro
avanzare, lontani ancora, un folto gruppo di cavalieri seguiti da una sessantina
di carri.
Tutti erano ad attenderli.
l giorno prima una staffetta li aveva preannunciati.
Molti andavano loro incontro; altri li attendevano lungo la strada.
Isa stava crogiolandosi al sole in un luogo appartato.
Nei giorni precedenti aveva cercato Filippo, ma gli era mancato il
coraggio d'entrare nella sua casa. Fuori non l'aveva più incontrato. Era andato
due volte verso il fiume, ma aveva dovuto rinunciarci.
Uno stuolo di ragazzi lo aveva seguito osservandolo in quella stessa
maniera con cui si guarda un mostro da baraccone. Non lo deridevano solo per
le ferite ancora vive che gli segnavano il corpo.
I suoi salvatori avevano raccontato come l'avevan trovato. E la voce s'era
sparsa tra i nuovi venuti e ritornò a galla anche la faccenda del leopardo. Il
"cafro" venne dipinto come un selvaggio pericoloso, amico della foresta e dei
suoi abitanti.
Molti lo dissero persino uno stregone invasato dal demonio.
Ragioni queste più che sufficienti per allontanarlo da loro, ma ottime però
per destare la curiosità dei ragazzi.
Il "cafro" era trattato come un animale strano.
Ma Isa non vi faceva più caso. Era abituato.
I Swazi lo avevano trattato sempre così.
Ora, sdraiato sul muschio, per nulla interessato al fatto che nuova gente
stesse per arrivare, pensava a Pao. Doveva rimettersi alla ricerca del suo amico.
Ma era ancor debole per partire. Nella foresta le "Pantere rosse" stavano
esercitandosi; un nuovo re guidava la grande tribù. Ed i tamburi non avevano
più parlato. Segno di guerra o di pace?
Assorto nelle sue riflessioni, non udí le grida di gioia dei nuovi arrivati e
il trambusto che dovunque s'era acceso.
Se avesse Soltanto sollevato il capo avrebbe visto gente abbracciarsi
(quanti anni eran trascorsi dacché s'eran visti l'ultima volta?), piangere di gioia,
scambiarsi reciprocamente notizie.
Avrebbe visto un uomo scendere da cavallo e salutare, con un cenno, i
vecchi abitanti del villaggio.
Lo avrebbe visto avviarsi, con passo svelto, alla casa di Anna e uscirne
poco dopo guardando qua e là, mentre a tutti chiedeva informazioni.
L'avrebbe visto percorrere l'ampio sentiero verso il fiume; intrufolarsi fra
le piste della foresta mentre gridava forte il suo nome.
Poi l'uomo tornò al villaggio. Entrato nella casa di "Fior di granturco"
s'affacciò all'ampia finestra di centro ed emise un urlo cosí bestiale da far
rabbrividire chiunque l'udisse.
Un silenzio profondo si fece tra tutta quella moltitudine.
Chi non poteva vedere chi urlasse cosí, imbracciò il fucile, pronto a far
fuoco. Le donne, angosciate, s'erano strette i figli al grembo.
L'urlo, il ruggito d'una belva ferita che si slancia all'assalto, ruppe
nuovamente il silenzio; poi si troncò a metà, tramutandosi subito in un lamento
lungo, sommesso.
Isa era balzato in piedi con l'arco teso; ma quando udí il lamento della
gazzella morente, corse verso il luogo del richiamo rispondendo col grido acuto,
sgraziato della civetta.
Era "Fior di granturco" che chiamava.
Aveva riconosciuto il suo modo imperfetto d'imitare il lamento della
gazzella. Paul non era mai riuscito a dargli l'inflessione giusta.
Si trovarono sul piazzale.
I loro sguardi s'incontrarono; rimasero a fissarsi, cosí.
Poi Paul allungò la mano ed Isa la strinse a lungo.
Allora l'uomo l'attirò a sé, in un affettuoso abbraccio.
"Parlami, piccolo selvaggio," disse scompigliandogli i capelli. "Ti sei
fatto un uomo. Ehi, cosa sono queste cicatrici ancor fresche?... No, non
rispondere. Voglio indovinare. Sei fuggito e sei ritornato nella foresta, no?"
Isa abbassò il capo.
"È cosí, no?"
"Si, son ritornato al villaggio."
"Non dovevi farlo. Se ti fosse accaduto qualcosa avrei sentito la tua
mancanza... Non vedevo l'ora d'essere nuovamente con te."
Isa guardò l'uomo negli occhi.
Non mentiva.
Gli si strinse; felice.
"Andiamo nella nostra casa. Parleremo meglio" disse Paul.
Un cerchio di curiosi s'era formato intorno a loro; Isa, però, non vedeva
nessuno.
Era tanta la sua gioia che tutto gli pareva luminoso d'attorno; più bello.
Gli altri? ma lui era solo in quel momento. C'era Paul. Lui e Paul. Nessun
altro.
Nella stanza parlarono a lungo.
Di Pao, di Filippo, della gente bianca.
"No," l'interruppe ad un certo punto Paul, "non ti disprezzano. Essi non ti
hanno ancora compreso; questo è tutto. Per loro sei ancora un selvaggio. Vedrai
che quando ti conosceranno meglio, ti stimeranno."
Poi Isa parlò di Mései, di Amunai, del sacrificio della vecchia Amebais,
delle "Pantere rosse" e di ciò che i tam-tam avevano detto.
Paul volle conoscere molti particolari sui guerrieri del Gran Re. Le loro
abitudini, le loro cacce.
"No, non ci attaccheranno" rispose ad una domanda di Isa. "Ciaka era un
amico dei bianchi. Un patto correva tra noi e lui. Cosí sarà per il nuovo re."
"Andrai nuovamente via?"
"Verrai con me, questa volta. Ma non con quella pelle, brigante! Vestito
da bianco" e sorrise.
Il giorno seguente attraversarono il fiume insieme per cacciare.
Una ventina di uomini erano con loro.
Occorreva molta carne per nutrire quel migliaio di persone raggruppate
nel villaggio.
Isa aveva avuto il permesso di mettere, sui corti calzoni, la pelle di
leopardo, lasciando a casa la stretta camicia che gli impacciava i movimenti;
cosí affermava.
Ora guidava i cacciatori verso il gruppo degli gnu dei quali seguivano la
pista.
Paul era dietro di lui.
Gli altri li seguivano alla distanza d'un cento passi.
Mentre attraversavano una piccola radura, Isa si fermò improvvisamente.
Paul, pur non comprendendone il motivo, imitò il suo esempio. Aveva
fiducia nel ragazzo e fece cenno agli altri di fermarsi.
Passarono alcuni attimi, poi Isa, con uno scatto felino, si gettò in avanti
scomparendo fra i bassi cespugli.
Se Paul non l'avesse veduto muoversi, avrebbe giurato che il ragazzo era
ancora al suo fianco. Non il più leggero rumore si era udito.
Passò una buona mezz'ora, poi Isa ricomparve, silenziosamente, come se
ne era andato.
"Che c'è?" sussurrò Paul.
"Boscimani."
"Dove sono?"
"Qui. Ovunque." "Cosa facciamo?"
"Di' ai tuoi amici di non sparare."
"C'è pericolo, Isa?"
Il ragazzo sorrise.
"No. Il piccolo popolo è mio amico. Ma i tuoi uomini non debbono
sparare, se non vuoi che muoiano."
"Lo dirò."
"Fai presto. I piccoli uomini sono in guerra. Devono aver saputo del
villaggio di Pao. Ne ho visto uno; porta i segni della grande lotta. Sono pronti
ad uccidere. Vai; di' le cose con calma. E che gli altri non si agitino. Tengano le
armi abbassate. Una sola mossa, e le frecce parleranno."
Paul s'avvicinò agli uomini.
Parlò sottovoce.
Isa li vide stringersi in cerchio ed osservare attentamente gli alberi.
Sorrise.
I Boscimani erano vicinissimi a loro, ma nei cespugli.
" 'Fior di granturco'," disse "ora lancerò il segnale dell'amicizia.
Qualunque cosa avvenga, rimani immobile."
Poco dopo l'abbaiar dello sciacallo, ripetuto tre volte, e la risata
sghignazzante della iena, si diffusero sotto la volta cupa della foresta.
Due frecce si conficcarono nel terreno ad un palmo dal ragazzo; un
cespuglio ondeggiò lievemente e un uomo ne sbucò fuori.
Il suo piccolo corpo era rigato di nero.
S'avvicinò ad Isa.
"Chi sei?" chiese.
"Fratello del tuo popolo."
"Chi sei?" ripeté l'altro.
"Isa, figlio di Pao. Lui lo ha detto."
"E loro, chi sono?"
"Miei fratelli."
"Cosa vogliono?"
"Seguono le piste dello gnù. I loro piccoli hanno fame."
"Gli gnù saranno molto lontani fra poco. Quando udranno i lamenti delle
pantere, fuggiranno come le nubi spinte dal vento."
"Le 'Pantere rosse' son qui?"
"Che ne sai tu delle 'Pantere rosse'?"
"Ho promesso al Gran Padre che le mie frecce si dovranno lavare nel
sangue dei guerrieri del Gran Re, fino a che non saranno cancellate le macchie
di sangue lasciate dagli uomini del villaggio di Pao."
"Sai molte cose, tu. Chi sei?"
"Tuo fratello; l'ho detto."
"Io non ho mai bevuto alla tua tazza e non ho diviso con te l'antilope. Ma
se tu lo dici, lo sei."
"Ecco" disse Isa mostrando l'amuleto che Pao gli aveva dato. "Lui parla
per me."
Il Boscimano si prostrò ai suoi piedi.
"Mio fratello ha nobile sangue. Ritorni indietro con i suoi amici. Fra poco
le frecce oscureranno il sole e queste potrebbero colpirlo."
"Alzati. Perché t'inginocchi?"
"Io non posso obbligarti ad andare," rispose il Boscimano, rimanendo
genuflesso, "ma ascoltami. Pao non vorrebbe che il sangue della sua pupilla
macchiasse il muschio."
"Vorrei vedere Pao."
"Egli batte la pista da molti giorni. Il suo cuore è straziato. Quando lui
parlerà, le frecce colpiranno. Vai, ora."
"Il mio arco è tuo. Fammi rimanere."
"Io non posso comandare chi è il mio capo. Ma ti prego d'andare e di
portare con te i tuoi amici. I miei fratelli potrebbero stancarsi."
"Buona caccia, allora. Ci rivedremo."
"L'hai detto. Buona caccia anche a te."
Il Boscimano ritornò sui suoi passi e scomparve.
"Che ha detto, Isa?" domandò Paul.
"La pista non porta agli gnu. Dobbiamo ritornare."
"Ma se fino ad ora seguivamo..."
"Andremo altrove. Qui ci sarà un'altra caccia, fra poco."
"Non possiamo proseguire?"
"No. Dillo agli altri."
Ritornarono molto tardi al villaggio con soli quattro dix-dix ma con molte
storie da raccontare.
Cosí, seduti attorno ai fuochi dei rispettivi gruppi, parlarono del ragazzo
che vedeva le cose che loro non vedevano ed era amico del piccolo popolo.
E che "sentiva" gli animali quando loro non ne avevano scoperto neppure
le tracce, e che li colpiva quando loro non li avevano neppure veduti.
Cosí aumentò fra i bianchi la certezza che Isa era veramente un selvaggio
e che Paul aveva sbagliato a giudicarlo un bianco.
"A cosa pensi?"
"Niente. Aspetto."
Paul s'avvicinò alla finestra alla quale Isa era appoggiato.
"Credi che i Boscimani abbiano incontrato gli Zulù?" chiese.
"Non lo so."
"Da quando siamo tornati sei li, immobile. Siediti e mangia! "
"Non ho fame."
Paul osservò il ragazzo.
"Andiamo!" disse poi.
"Dove?"
"Verso il fiume."
"Ma... non eri stanco?"
"Ho voglia di fare due passi."
"Grazie, 'Fior di granturco'."
"Non ti faccio un favore. Ho bisogno di muovermi."
Isa sorrise. Poco prima Paul s'era gettato sul letto con un sospiro di
sollievo.
Uscirono.
Molta gente chiacchierava ancora intorno ai fuochi. Più avanti, ai limiti
del campo, alcuni uomini montavano di guardia.
Quando furono vicini al fiume, Isa si fermò.
"Paul!"
"No, non ti lascio andare. Anche se mi hai chiamato per la prima volta
con il mio nome."
Il ragazzo abbassò il capo.
"Cosa aspetti ora?" esclamò Paul.
"Ma, hai detto che..."
"...che non ti lascio andar solo. Ma non voglio star qui in eterno.
Andiamo."
Seguirono il fiume fin che non raggiunsero il guado, poi, ripercorrendo la
stessa via del mattino, si inoltrarono nella foresta. Ogni tanto il ruggito di
qualche carnivoro rompeva il silenzio; oppure erano le grida di uccelli svegliati
dai rumori improvvisi; o l'abbaiar degli sciacalli lontani.
"Siamo giunti" disse Isa fermandosi vicino ad un grosso albero.
"Non ci capisco nulla" rispose Paul "ma se lo dici tu, va bene. Non vedo
segni di lotta qua attorno, però.
"Qui non hanno combattuto."
"Allora?"
"Non so. Andiamo avanti."
"Sarà prudente?"
"La foresta è grande e molte sono le sue insidie. Ma 'Fior di granturco' è
un bravo guerriero."
"Ho capito. Se dico di ritornare non sono più un guerriero. Avanti, allora."
All'alba ritornarono al villaggio.
"Buon giorno, Paul" salutò l'uomo di guardia. "Già a passeggio?"
Paul lo guardò torvamente.
"Ritorno" brontolò.
"Nottataccia d'inferno, questa. Iene e sciacalli avevano preso di mira il
campo. Hanno abbaiato per tutto il tempo!" disse l'uomo.
"Potevi gettar loro qualche ramo infuocato."
"Macché! Neppur uno si è avvicinato. Eppure giurerei che erano vicini.
Ma non si son fatti vedere."
"Isa, hai inteso?" "Già."
"Cosa ne dici? Io credo che..."
"Lo penso anch'io" rispose Isa. Gli occhi gli brillavano. "Noi andavamo a
loro e loro venivano a noi!"
"Cosí abbiamo camminato tutta la notte inutilmente."
"Ma di che cosa parlate? Siete impazziti, forse?" chiese l'uomo di guardia
scrutandoli attentamente.
"Non abbiamo dormito" rise Paul "ed il sonno ci ha dato alla testa. Cosa
pensi di fare, Isa?"
Il ragazzo non rispose. Portò le mani alla bocca e abbaiò tre volte.
"Se non lo vedessi" disse l'uomo a Paul "crederei d'avere uno sciacallo
entro i pantaloni."
Isa aveva appena terminato, che un altro abbaiare rispose al suo richiamo.
Il segnale veniva dal fiume.
"Attendimi, 'Fior di granturco' " gridò correndo verso il bosco.
"Ed ora dove va?" chiese l'uomo.
"A trovare i suoi amici sciacalli" disse Paul. "E fai attenzione che potresti
trovarteli fra i piedi in un amen."
Isa intanto s'era inoltrato nel folto sottobosco che costeggiava il fiume.
Il richiamo era venuto da lí. Ora doveva fare attenzione. I piccoli uomini
avrebbero riso di lui se non fosse riuscito a vederli.
Avanzò incerto per un tratto, poi si mise a correre.
Vicino ad un grosso cespuglio si fermò.
"Pao!" chiamò.
Il Boscimano comparve. Il suo corpo era dipinto di nero, traversato da
strisce orizzontali rosse.
"M'han detto che mi cercavi."
"Temevo per te, Pao."
"L'albero vecchio non ha paura del fulmine."
"Ma se il fulmine lo schianta, che cosa farà l'uccello che fra le sue fronde
si ripara durante le tempeste o si riposa nelle notti stellate?"
"Sei un caro figlio, Isa!"
"Non saprei vivere senza di te."
Si sedettero uno di fronte all'altro.
Per lungo tempo rimasero entrambi assorti nei loro pensieri. Isa aveva
imparato questa immobilità, e la lentezza stessa del parlare, da Pao.
"È inutile sprecar parole quando il pensiero non è chiaro nella mente"
aveva detto una volta Pao. "Nella foresta pochi chiacchierano, molti agiscono.
Un leopardo che urlasse tutta la notte non troverebbe più un cerbiatto per miglia
e miglia d'attorno. Ma egli urla solo quando l'ha trovato e non può più scappare.
Cosí devi fare tu. Parlare solo quando il pensiero è ben chiaro in te e quando è
necessario che quel pensiero altri lo conoscano."
"Ho veduto il villaggio" disse Isa troncando il silenzio. "Ti cercai e fui
contento di vedere che tu non eri caduto."
"Io no," rispose Pao, "avrei voluto essere lí."
"M'han detto che segui la pista." "Già."
"Ma il tuo corpo è ancora dipinto. Perché le tue frecce non hanno parlato
per le donne e i bambini?"
"Le 'Pantere rosse' hanno deviato dal loro cammino ed il laccio non si è
potuto stringere."
"Dove sono dirette?"
"Si sono unite ad altre 'Pantere': 'nere', 'silenziose', 'astute'; se i segni non
mi hanno ingannato."
"No; non ti hanno ingannato. Sono il miglior reggimento del Gran Re."
"Lo sappiamo. Le 'Pantere nere' hanno portato schiave le donne del gruppo di
Hoomai. Più di trecento uomini son ritornati al Gran Padre. Le 'astute' hanno
fatto subire ugual sorte al gruppo di Muser. Le 'rosse'... sai quel che hanno
fatto!"
"Le mie frecce son tue; tuo è il mio arco; tua è la mia vita. Se mi ritieni
degno, permettimi di battermi al tuo fianco."
"Tu devi diventare un uomo fra la tua gente."
"Chi mi salvò dall'ajé? Chi mi salvò dalla foresta insegnandomi i suoi
tranelli e come vincerla? Ho un debito di sangue. E pagherò il mio debito. Ma,
soprattutto, ho un debito d'amore. Ho anch'io qualcosa da dire ai guerrieri del
Gran Re."
"Grazie, figlio. Il piccolo popolo sarà contento d'averti con sé. Ed io sono
lieto."
"Quando riprenderai la pista?"
"Le 'Pantere' sono numerose e forti. Molti del mio popolo hanno
raggiunto il Gran Padre. Dobbiamo riunirci tutti. I villaggi sono molti e lontani.
Occorreranno giorni e giorni affinché siano avvertiti. E molte altre volte il sole
dovrà sorgere prima che tutti giungano."
"Quando pensi che ci si muoverà?"
"Alla prossima luna, credo."
"Molto tempo, allora. E i tuoi, adesso, cosa fanno? Cosa ha deciso il tuo
capo?"
"Di attendere. Alcuni seguono la pista senza far rumore. Gli altri, e sono i
più, attendono alla 'città morta'."
"In quanti siete qui?"
"Quante sono le dita della tua mano."
"Cosa farai?"
"Batterò i sentieri."
"Posso venire con te?"
"Puoi."
Stettero alquanto in silenzio; poi Isa disse:
"C'è 'Fior di granturco' che mi attende. Vuoi conoscerlo ? "
"Aspettavo le tue parole. Son venuto per questo."
Isa trovò Paul che dormiva vicino all'uomo di guardia.
" 'Fior di granturco'! "
"Che c'è?" sbadigliò Paul.
"Pao t'attende."
"E non poteva venire lui?" brontolò alzandosi.
Il Boscimano era ancora immobile ove Isa lo aveva lasciato.
"Pao" disse il ragazzo "questo è 'Fior di granturco', il mio amico."
Pao osservò bene l'uomo bianco, poi disse:
"So che sei coraggioso ed abile."
"Non quanto Pao" rispose Paul guardando negli occhi l'uomo che gli
parlava. "La fama del suo coraggio ha valicato la foresta ed è giunta sino alle
capanne di pietra."
"Le prime case conobbero il mio passo quando ero ancor giovane."
"E molti bianchi conobbero le frecce del tuo popolo."
"È la storia d'ogni popolo che deve cedere le sue terre ai nuovi venuti."
Si, molti si credettero padroni dispotici e trattarono il tuo popolo come
belve. Io allora ero un ragazzo, ma ricordo bene quanti Boscimani furono
uccisi, cosí, senza motivo. Solo perché non erano bianchi."
"Sei leale ad ammetterlo."
"È la verità e non può essere nascosta."
"Cosa pensano ora i bianchi del mio popolo?"
Paul tacque pensieroso, poi rispose:
"Non dovrei dirtelo, forse; ma tu lo hai chiesto. Essi dicono che siete un
popolo capace solo di stendersi al sole dopo aver mangiato fino a farsi gonfiare
il ventre. Sempre che riusciate a trovare il cibo."
"Altro ancora?"
"Si. Che nessun pensiero può nascere nelle vostre teste, perché il vostro
cervello s'è fermato ai primordi del tempo. Ecco: siete una razza inferiore."
Isa scattò.
"Il popolo bianco non conosce il piccolo popolo, per questo parla cosí.
Essi sono migliori dei bianchi e dei Swazi e di tutti. Non ti permetto, 'Fior di
granturco', di proseguire oltre. Un'altra parola ancora e dimenticherò che sei
mio amico."
"No," disse Pao sorridendo. "Che l'uomo bianco parli."
"Io non volevo offenderti, Pao. Ti chiedo scusa se le mie parole t'hanno
dato dolore. Ma volevi conoscere la verità, no?"
"Le tue parole m'erano già note. Un solo dolore esse mi danno: il sapere
che in parte sono vere. Sapevo già, Isa, cosa dicevano i bianchi."
"Perché, allora, hai voluto mandarmi fra loro?" chiese il ragazzo.
"Perché quella è la tua gente. E son lieto che tu sia amico di questo uomo
che non mente. Fra la tua gente potrai fare una cosa in nostro favore. E sarà una
grande, nobile battaglia, Isa. Far capire al tuo popolo che siamo tutti uguali,
affinché non ci sia disprezzo, né odio. Perché, pur cambiando il colore della
pelle, ed il taglio degli occhi, e la statura, abbiamo però un cuore che è uguale
per tutti. Noi non siamo inferiori o migliori degli altri, bianchi o neri. Come gli
altri non sono inferiori o migliori di noi. C'è chi ha saputo camminare di più, chi
di meno. Chi combatte col fucile, chi ancora con l'arco; chi vive in capanne di
pietra, chi in cespugli. Ma per il Grande Padre siamo tutti uguali."
"Ora capisco" disse Paul "perché il tuo popolo t'ha eletto suo capo. Non
avrebbero potuto trovare neppure tra i bianchi un saggio come te."
"Sei cortese a dir ciò."
"Sono giusto, non cortese. Questa è la verità."
Isa, colpito dalle parole di 'Fior di granturco', fissava attonito Pao.
"Io" disse quando riuscí a parlare "io non sapevo. Perdonami, o Pao, per
tutte le volte che ho osato avvicinarmi a te senza rispetto. Ma credimi, nessuno
mi aveva mai detto che tu eri il Gran Re del piccolo popolo."
Cosí parlando si prostrò in terra. Era stato molto tempo al fianco di un
Gran Re senza saperlo. Ora tremava tutto.
"Che la tua vendetta sia mite!" supplicò.
"Alzati! L'amuleto che porti t'ha fatto figlio del re. Il piccolo popolo
conosce i segni. L'uomo che ti si inginocchiò dinanzi aveva letto giusto sul
dente del leopardo. Ma il figlio non ha timore del padre, solo rispetto. E tu sei
stato un ottimo figlio. Tu, 'Fior di granturco', abbi cura di lui quando io lo
lascerò per sempre. Perché egli è un bianco, ma soprattutto perché egli ha un
cuore nobile e generoso."
"Lo farò" rispose Paul. "Ma avrò ben poco da insegnargli. La tua scuola è
stata la migliore. Ne hai fatto un ragazzo che sarà un uomo saggio e coraggioso.
Un uomo in gamba, diciamo noi."
CAPITOLO XIII
"Filippo! Ehi, Filippo!"
Isa corse verso l'amico seduto vicino ad un carro.
Aveva lasciato 'Fior di granturco' ancora addormentato, stanco della lunga
camminata notturna nella foresta e degli avvenimenti accaduti al ritorno.
Infatti, quando aveva salutato Pao, con la promessa di ritrovarsi dopo due
giorni, Paul era andato a parlare con un uomo giunto da poco e che tutti
chiamavano rispettosamente "Andries". Era stato lungo tempo a parlare con lui;
poi, ritornato a casa, s'era gettato sul letto. Ed ancora dormiva.
Filippo sorrise.
"Sapevo che eri tornato" disse.
"Ho guardato ovunque con la speranza di vederti, ma..."
"Potevi venire a casa mia."
"A me... non è permesso."
"Mio padre non avrebbe detto niente. Lo sai che è ritornato Paul?"
"L'ho veduto. Sto con lui. E il dix-dix?"
"L'ho legato nell'orto. È diventato grosso e vuol fuggire." "Già."
"Andiamo al fiume?"
"Se vuoi."
"Mi fai riprovare l'arco?"
Isa sorrise.
"Mi vuoi sempre come tuo compagno?" chiese a sua volta.
"Sei l'unico amico mio. Paul è mio amico, ma è grande. Gli altri ragazzi
non vengono con me perché..." abbassò la testa e mormorò "perché io non
posso correre con loro."
"Ma tu sei più bravo di loro. Sai lanciare una freccia e colpire il bersaglio.
E conosci il richiamo e il linguaggio del piccolo popolo. Ora imparerai molte
altre cose. Ed io starò con te."
"Sempre?"
"Sempre. L'ha detto 'Fior di granturco'. Starò con lui, perciò con te. Prima
però ho da battere una pista. Ma non ci vorrà molto tempo."
"Andrai via nuovamente?"
"No. Non ora."
"Io non posso venire?"
"Credo di no. Non è una lotta che ti riguarda. Tu sei un bianco."
"Anche tu."
"Io non so cosa sono. Sono Swazi, sono Boscimano, sono bianco. E forse
non sono niente di tutti e tre o sono tutti e tre messi insieme. Ecco: sono come
la grande pantera. Anche lei è una, ma il suo manto è di tre colori. Ecco, mi
chiamerò, 'pantera', 'agile pantera'. Ti piace?"
"Si. 'Agile pantera'... un bel nome. Ed io?"
"Tu..."
"Lupo! 'Grande Lupo', ti piace?"
" 'Lupo' si chiamano i migliori guerrieri Swazi. Non ti starebbe bene. Ti
farò dare un nome da Pao. Lo sapevi che egli è il Gran Re del piccolo popolo?"
"No. E tu?"
"A me lo ha detto 'Fior di granturco'."
"E come lo ha saputo lui?"
"Lo sapeva."
"Allora Pao non è più tuo amico."
"Egli è sempre mio amico. Anzi, di più. Egli è mio padre."
"Ma tu sei un bianco, non un Boscimano."
"Egli m'ha eletto suo figlio. Il dente del leopardo parla. Guarda."
Filippo osservò il dente dalle strane incisioni.
"Ed è tuo padre anche se è il Gran Re?"
"Anche se è il Gran Re." "Me lo farai conoscere?"
"Lo vedrò domani e ti porterò da lui."
"Son contento, Isa."
"Ora andiamo al fiume. Attaccati al mio collo."
Isa si voltò di spalle e senti Filippo alzarsi sorreggendosi al carro.
"Pronto?"
"Avanti! Andiamo."
"Ma..."
Isa si voltò e vide il compagno dritto di fronte a lui; si sorreggeva a due
grossi bastoni fatti come delle forcelle.
"Cosa sono?" chiese meravigliato.
"Stampelle. Stampelle che fanno camminare chi ha una gamba sola come
se le avesse tutte e due."
"Stam...pelle?! " Isa guardava sbalordito. "E con quelle cammini?"
"Andiamo!" rise Filippo.
Procedeva con speditezza.
Per giorni e giorni aveva provato in casa. La prima volta gli era parso che
tutto gli girasse intorno e, se il babbo non fosse stato più che pronto a
sorreggerlo, sarebbe caduto.
Poi aveva fatto il primo giro nella stanza; aveva provato nell'orto quando
nessuno poteva vederlo.
Isa era stupefatto.
Quando si riprese, batté le mani e gridò:
"Sei bravo, bravo, bravo!"
E si mise al fianco del compagno che avanzava a lunghi passi.
"Non pare anche a te una bella invenzione?" chiese Filippo.
" Invenzione?"
"Si. Una cosa fatta bene."
"Molto bene."
"Lo sai chi me le ha regalate?" "Chi?"
"Leggi qua."
Sul lato d'una stampella erano incise delle parole.
Isa le osservò, poi disse:
"Non so leggere i segni."
"C'è scritto: 'al mio amico, affinché possa
sempre andare avanti. Paul'."
" 'Fior di granturco'?"
"Si. Proprio lui me le ha regalate."
"È un mago!"
"Le ha vedute in città e me le ha portate."
"È difficile correre con quelle?"
"No. Ti farò provare quando saremo al nostro posto."
"Oh, si!"
Isa era veramente felice.
Il suo amico poteva andare con lui, ora. E l'avrebbe guidato per la foresta
per fargli conoscere le cose che l'altro non aveva mai veduto.
Avrebbero anche cacciato.
Vagabondarono per la foresta tutta la mattina. Isa provò anche a
camminare con le stampelle, ma capitombolò diverse volte accolto dalle
spensierate risate del compagno.
Quel giorno Isa mangiò a casa di Filippo, tutto vergognoso, in principio,
di trovarsi a tavola con gente estranea. Poi la vicinanza dell'amico lo aiutò a
vincere la timidezza e, forse per la prima volta, rise e scherzò a lungo, contento
di sé e degli altri.
Paul li venne a trovare più tardi.
E mentre parlava con i genitori di Filippo, s'univa ogni tanto ai giochi dei
ragazzi, ridendo e scherzando con loro.
"Ora andiamo, ranocchio!" disse, battendo scherzosamente la mano sulle
spalle di Isa. "Filippo deve riposare e noi abbiamo da fare."
"Ci vedremo domani?" chiese Filippo.
Isa guardò Paul, e questi rispose:
"Si, verrà con te; se tuo padre è contento."
"Contento?! È la prima volta che rivedo mio figlio ridere di cuore da
quando gli è accaduto... quel che è accaduto. E il merito è tutto del..."
Stava per dire "cafro", ma la parola gli morí in gola.
"...di questo bravo figliolo. Da quando l'ha conosciuto, ha ricominciato a
mangiare con appetito e a chiedermi se non c'era nulla che lo potesse far
ricamminare. Per questo ti chiesi di prendergli le stampelle. Prima non ne
voleva neppur sentir parlare. Ricordi?"
"Si; aveva perso la fiducia in se stesso."
"Beh, questo ragazzo" e indicò Isa "gliel'ha ridata. Che sia benedetto!
Pensare che un giorno l'ho frustato!... Ogni volta che vuoi venire da Filippo"
disse rivolgendosi ad Isa "vieni pure. La nostra casa è la tua casa."
Isa abbassò il capo, confuso.
Allora la madre di Filippo gli si avvicinò.
"Vorrei dirti di venire da noi e stare con noi. Ma so che vuoi stare con
Paul. Mio marito t'ha detto che la nostra casa è la tua casa. Io aggiungo che in
questa casa tu sei come un figlio. Grazie, caro ragazzo, grazie!"
E strettolo al petto, lo baciò.
Allora Isa non resse più e s'allontanò correndo.
Paul lo trovò che piangeva.
"Vieni" disse "dobbiamo andare. No, non asciugarti le lacrime. Piangi
pure. Fa bene qualche volta. Il bacio della madre di Filippo era il bacio di tua
madre."
Pao li attendeva.
"Questo è Filippo!" disse Isa indicando il suo amico.
Il Boscimano l'osservò.
"Un piccolo fiore bianco che saltella come il topo del deserto."
"Egli è contento di stare con me!"
"Perché tu sei contento di stare con lui. Il fiore che apre la sua corolla
invita la farfalla. Tu l'hai accolto e lui è venuto." "Vuol conoscerti. Sa le nostre
parole."
"Sei stato un abile maestro. Vieni, ragazzo. Avvicinati."
Filippo avanzò timorosamente.
Benché di fronte a lui vi fosse un piccolo uomo giallognolo seminudo,
dipinto di rosso e di nero, Filippo non riusciva a dimenticare che egli era un re.
c1 d un re, per un ragazzo, anche se di differente razza, anche se non
portava ermellino, ma solo la tinta sulla pelle nuda; anche se, invece che su d'un
trono, in una sfarzosa sala, era seduto tra la fitta vegetazione e colonne di
bianco granito erano solo gli scuri tronchi che s'innalzavano al cielo; un re,
dunque, per un ragazzo, è sempre un re.
"Come ti chiami?" chiese Pao.
"Filippo."
"Egli sa tirare d'arco ed ora imparerà anche a cacciare" disse Isa. "Ha
imparato a camminare con i due legni e diventerà un bravo guerriero. Tu che ne
dici, Pao?"
"Certo" affermò l'uomo "può diventare bravo come tutti gli altri.
Sedetevi."
Filippo s'accucciò in terra vicino ad Isa.
"Ora cammini nuovamente" disse Pao dopo un lungo silenzio "desideri lo
stesso di stare con Isa? Non preferisci giocare con i tuoi compagni?"
"Isa è il più bravo di tutti."
"Ora; nella foresta. Ma quando sarete nelle nuove case di pietra?"
"Sarà sempre il più bravo."
Trascorsero altri minuti in assoluto silenzio.
Poi Pao gridò e subito sbucarono dai cespugli, urlando, una decina di
Boscimani. Ad un nuovo ordine di Pao presero di mira con i loro archi Filippo.
Questi s'era sbiancato in volto ed osservava, tremando, Isa. Ma non gridò.
Rimase seduto al suo fianco, fiducioso; pur seguendo, trepido, ogni
movimento dei piccoli uomini.
Pao alzò la mano e i guerrieri scomparvero.
"Perché non hai gridato?" domandò al ragazzo.
"Ero certo che non mi avrebbero fatto del male" rispose Filippo.
"Altrimenti Isa mi avrebbe difeso."
"Hai fiducia in lui, e questo è molto. Sai tirar d'arco, vero?"
"Si. Isa mi ha insegnato."
"Guarda quell'uccello, su quel ramo. Ecco il mio arco."
Filippo prese l'arma e, poggiandosi alle stampelle, si alzò.
"La freccia deve passare fra le zampe della bestia, non colpire."
La freccia passò fra le zampe del pappagallo che volò via gridando.
"Bene. Un leone, anche se zoppo, è sempre un leone. Son contento del tuo
amico, Isa" e rivolgendosi nuovamente a Filippo disse:
"L'arco è per te. Pao te lo dona."
Filippo arrossi di gioia e strinse l'arco al petto come se qualcuno glielo
stesse per portar via.
In quel momento giunse Paul.
"Il mio cavallo è tuo, come tua è la mia casa, o Pao!"
"Il mio cuore è tuo" rispose il Boscimano. "Parla come il cuore ti dice,
ché le tue parole mi fanno comprendere che hai molte cose da chiedere."
"È cosí. Mando via i ragazzi, però."
"Rimarranno sempre ragazzi?" chiese Pao.
Paul lo guardò, meravigliato.
Ma su quel volto, impassibile da parer intagliato nel legno, non riuscí a
legger nulla.
"Perché?" domandò a sua volta.
"Rimarranno sempre ragazzi?" ripete Pao.
"No. Fra pochi anni saranno degli uomini."
"Quando il leopardo caccia non allontana i suoi piccoli. Fa' vedere loro
come dovranno fare."
"Ma non posso far conoscere loro cose che debbono rimaner segrete."
"Che uomini saranno se non diamo loro fiducia? Ecco: saranno come i
cani dei villaggi, che fanno solo ciò che viene loro comandato. Una volta
lasciati liberi nella foresta, muoiono."
"Una sola parola ripetuta altrove, o Pao, metterebbe centinaia di persone
in allarme causando forse disordini e guai."
"Essi non parleranno."
"La responsabilità sarà tua, Pao."
"La responsabilità è loro. Se credono di saper mantenere nei loro cuori ciò
che udranno, rimangano. Altrimenti vadano via."
Paul guardò i ragazzi.
Questi non si mossero.
"Parla, allora" disse Pao.
c1 Devo narrarti prima alcuni fatti che ti faranno comprendere il perché
di tante cose. Molto tempo fa, non so dirti quando, ma credo un centinaio
d'anni, i primi bianchi sbarcarono su queste terre. Erano i nostri progenitori.
Boeri. Essi si fecero amiche le tribù ottentotte, si sparsero ovunque fino nei
lontani campi; costruirono le loro case. La vita era dura, i pericoli immensi.
Siccità, alluvioni, invasioni di animali, lotte contro i selvaggi. Eppure tutte
queste difficoltà furono vinte. Poi vennero gli Inglesi e la fecero da padroni. Ora
la loro invadenza, il loro orgoglio, il loro disprezzo ci costringe ad abbandonare
le terre dissodate dai nostri avi. Dobbiamo cercare nuovi pascoli, nuovi terreni.
La stagione delle grandi piogge verrà fra cinque mesi. Per quel tempo il gruppo
che tu vedi attendato presso questo villaggio, deve aver raggiunto le nuove
terre. Andries, il capo di questo gruppo, ha parlato con me. Io debbo cercare il
luogo."
"Cosa vuole da me il tuo capo?" chiese il Boscimano.
"Ecco, i cafri..."
"Chi sono?"
"Gli Zulù. Essi sono stati finora nostri amici. Ciaka aveva dei patti con
noi. Ma Ciaka è morto, cosi m'ha detto Isa, e Dingaan non ha ancora parlato.
Andries ha veduto delle cose che non gli piacciono. Interi villaggi indigeni sono
stati abbandonati. Perché? C'è la guerra forse? Cosa prepara Dingaan? Ecco che
vuole il mio capo da te: sapere queste cose. Io gli ho detto che il tuo popolo è
sul sentiero di guerra, che i vostri corpi sono dipinti per intimorire i nemici. Ho
parlato delle 'Pantere rosse'. Ma Andries ha detto che forse è solo una guerra tra
voi. Dingaan non attaccherà i bianchi."
"Dingaan pensa ed ordina. Ma Pao non è Dingaan e non può conoscere
ciò che il Gran Re pensa ed ordina. Di' al tuo capo che io so solo che i guerrieri
del Gran Re hanno attaccato i miei villaggi. E che debbo lottare per non far
distruggere il mio popolo. Tu devi cercare il luogo per la tua gente. Cercalo.
Pao ti augura che sia un buon luogo; altro non posso fare."
"I tuoi uomini sono nella foresta. Essi vedono e ascoltano cose che noi
non vediamo e non udiamo. Tu potresti farcele conoscere."
"Altro chiedi?"
"La foresta è il tuo regno. I sentieri che la percorrono son conosciuti da te
come il palmo della tua mano. Quale via debbono seguire i carri? Dove
possiamo andare?"
"Oltre il fiume, alle grandi colline."
"La via?"
"Il sentiero della sete, vicino al guado, è ampio. I carri vi passano."
"Ancora una cosa, Pao. Non molti giorni fa dei nostri villaggi sono stati
assaliti. È vero?"
"Il fumo degli incendi si vedeva ovunque e i lamenti dei feriti si
perdevano nell'aria. Dei tuoi fratelli sono stati uccisi."
"Da chi?"
"Gruppi isolati, credo. I miei uomini non incontrarono reggimenti."
"Queste notizie" disse Paul rivolto ai ragazzi "non devono essere
conosciute al villaggio. Grazie, Pao. Non ho da chiederti altro."
" 'Fior di granturco' " domandò Isa, " perché fuggite di fronte a quelli che
hai chiamato Inglesi? Sono di un altro colore, loro?"
"Sono bianchi" rispose Paul. "Bianchi come me e te. Ma parlano un'altra
lingua; sono d'un altro popolo."
"Se sono bianchi non sono un altro popolo."
"Ecco, i Swazi sono negri, no?" "Si."
"Gli Zulù son negri, no?" "Si."
"Ma gli Zulù non sono Swazi, vero?"
"Si, ma sono lo stesso popolo. Altre tribù, ma lo stesso popolo."
"Cosí gli Inglesi allora. Altra tribù, ma stesso popolo."
Paul cercò di spiegare, come meglio poteva, l'ardua questione. Disse
anche che gli Zulù avevano combattuto i Swazi, eppure erano dello stesso
popolo. Ma Isa non riusciva a convincersi.
Allora parlò Pao.
"Ascolta, Isa. Possono cento bufali pascolare tutti insieme nel piccolo
spazio che l'ombra d'un albero riesce a coprire? No; essi cercano perciò un
pascolo più vasto. Ma in quello vasto, che l'ombra di mille e mille alberi non
riesce a coprire, c'è un bufalo solo. Ma ha mille corna e mille zampe. Tutti i
bufali che gli si avvicinano sono vinti e scacciati. Allora il branco va e cerca un
nuovo pascolo. Cosí per 'Fior di granturco' e la sua gente. Ecco: l'uomo bianco
fa molte cose, ha saputo fare e farà ancora molte e molte cose. Ma non ha più
cuore. Non sa più amare. Guarda noi, il popolo dei cespugli. Non abbiamo fatto
molte cose. Viviamo cosí, nudi come i padri dei nostri padri. L'unica nostra
ricchezza è l'arco. In confronto con l'uomo bianco, siam privi di tutto. Spesso
anche di carne. Dovremmo imparare dall'uomo bianco. Ma non vogliamo,
perché non vogliamo perdere il cuore. Noi siamo più felici di loro. Noi
guardiamo al Gran Padre e Lui ci aiuta. E nessuno di noi lascerebbe morire il
fratello di fame, quando avesse una sola radice da poter dividere con lui.
Nessuno lo scaccerebbe. Se c'è un posto, uno solo, libero, il fratello chiama il
fratello. L'uomo bianco non fa più cosí. Egli ha perso la sua anima. Al suo posto
ha messo le pietre che luccicano ed i fucili che uccidono. E con le pietre paga i
suoi fratelli per farne degli schiavi e con i fucili uccide coloro che non vogliono
farsi pagare. L'uomo bianco dovrebbe venire da noi e noi andare da loro. Solo
cosí, forse, potremmo migliorarci entrambi."
"Fior di granturco" abbassò il capo.
"È cosí," disse "sei veramente saggio, o Pao. Il nostro popolo ha bisogno
di gente come te."
"No, il tuo popolo ha bisogno d'una sola cosa. Di ritornare ad avere
fiducia nel fratello e amarlo; ha bisogno di ritrovare la sua anima."
Un uomo apparve in quel momento sul sentiero e si fermò, ansando, di
fronte a Pao.
Isa s'alzò di scatto. Anche "Fior di granturco" s'era voltato ad osservarlo.
Il corpo del Boscimano luccicava per l'abbondante sudore che aveva
sciolto le tinte mescolandole alla polvere, dando cosí a quel volto, incavato e
dolorante, un aspetto diabolico.
Filippo aveva chiuso gli occhi, spaventato.
Il fianco destro dell'uomo era squarciato; solo un colpo di lancia poteva
averlo aperto cosí. Malgrado la primitiva fasciatura, fatta con larghe foglie, il
sangue si perdeva lungo il corpo.
Isa riconobbe a stento in quella figura Hoomai, il capo del gruppo che
viveva lungo il fiume.
I guerrieri ch'erano con Pao s'erano avvicinati anche loro ed attendevano
in silenzio.
"Riposati" disse Pao "guarderò la tua ferita."
"Molte cose sono accadute" rispose Hoomai con fatica. "Ascoltami."
"Prima guarderemo il tuo corpo, poi ascolteremo" ripetè Pao. "Sdraiati."
" Ascoltami prima ! "
"Sdraiati."
Hoomai obbedí.
Pao tolse le foglie e osservò la ferita.
Mormorò degli ordini ai suoi uomini e ben presto gli vennero consegnate
delle foglie e dell'acqua.
Con il sugo ottenuto pestando le foglie, Pao unse i bordi del lungo taglio;
poi ve ne mise sopra delle altre, le legò ben strette con la camicia che Paul
aveva offerto, fece bere al ferito un infuso di erbe che portava sempre seco e,
sedendosi, disse:
"Ora puoi parlare, Hoomai. T'ascoltiamo."
"Oggi sono sei volte che il sole nasce da quando è accaduto ciò che ti
racconto. Io, con quindici del mio gruppo, seguivo la pista, come tu hai detto.
Tutto il kraal delle 'Pantere' ha camminato a lungo finché non ha raggiunto i
piedi delle montagne dal lato della 'grande valle'. Al tramonto un nuovo kraal le
ha raggiunte."
"Che segni portava?" chiese Isa.
Un leone in campo nero e su d'un lato quattro strisce bianche."
"Il quarto reggimento!"
"A notte venne un nuovo gruppo. Il grande scudo aveva un ajé al centro e
otto strisce nere. E all'alba il gruppo degli 'Gnu', con sette strisce nere, s'uní a
loro. Lascio gli altri sulla pista e salgo sulla montagna Giù, lontano, in fondo
alla valle, vedo una nube bianca. Quando discendo, i guerrieri del Gran Re sono
scomparsi. Leincio mi indica la foresta; si sono nascosti. Mando Leincio a
vedere cos'è la gran nube. Ritorna ch'è notte. La gran nube sono bianchi.
Bianchi che vengono con i loro carri. Tutti dormono nella notte. Il giorno dopo
venti guerrieri Zulù vanno incontro alla colonna che avanza. Ma i loro corpi
non portano i segni e i loro scudi sono bianchi."
"Il segno dell'amicizia" interruppe Isa.
Si. Il drappello raggiunge i carri. Uomini bianchi parlano con loro. E
quando, a sera, giungono presso di noi, i bianchi accendono i fuochi, mangiano,
cantano. E il drappello con loro. Poi le donne e i piccoli si ritirano sui carri. Più
tardi gli uomini li seguono. Solo pochi rimangono presso i fuochi. E il drappello
con loro. Quando il sole ritorna, i carri si muovono. Il gruppo dei guerrieri del
Gran Re è in testa. Uomini bianchi li seguono a cavallo. D'un tratto un urlo
terribile. I carri si fermano; dal lato opposto ove siamo noi gli Zulù attaccano. I
bianchi sparano. Uniti in forte gruppo respingono il primo assalto. Allora mi
accorgo che ad attaccare non erano stati i kraals da noi seguiti, ma altri. La
grande valle è piena di guerrieri del Gran Re. La battaglia dura molte ore. I
bianchi hanno fatto indietreggiare i loro carri e si difendono bene. Anche loro
sono molti. Con loro ci sono i guerrieri dalle giubbe rosse. Ecco che i 'Leoni' si
lanciano; subito dopo gli 'Gnù', e quelli dell'Ajé'. Molti bianchi sono in terra,
ormai. I 'Leoni', gli 'Gnù', e gli 'Ajé' li prendono di lato e i bianchi
indietreggiano ancora. Ma i tre kraals sono terribili. Distruggono. Solo ora le
'Pantere' si muovono. Urlando si gettano contro i carri e fanno scempio delle
donne e dei bimbi. Tutti vengono uccisi. Quando vedo i piccoli passati parte a
parte dalle daghe, o gettati violentemente in terra e calpestati; quando vedo
questo, dimentico che devo solo seguire la pista. Anche gli altri. Dimentichiamo
di essere pochi, le nostre frecce parlano. Molte 'Pantere' cadono. 'Rosse'
specialmente. Poi qualcosa mi colpisce e non comprendo più nulla. Mi
svegliano più tardi gli urli degli sciacalli e le grida degli avvoltoi. La valle è
disseminata di morti. I miei compagni hanno raggiunto il Gran Padre. Ora
saranno felici."
Pao non aveva battuto ciglio. Sembrava fissare un punto indefinito al di
sopra degli alberi.
Ma "Fior di granturco" non era riuscito a nascondere i suoi sentimenti ed
aveva imprecato continuamente contro i barbari massacratori. Filippo aveva le
lacrime agli occhi.
"Puoi riposarti, Hoomai" disse Pao. Il suo viso era sempre impassibile.
"Ma prima dimmi: chi guidava gli sciacalli?"
Tutto il suo odio fu rivelato dalla parola "sciacalli", pronunciata in tono di
cosí alto disprezzo che Isa lo fissò in volto.
Non l'aveva udito mai parlare così.
"Dingaan li guidava, il Gran Re" rispose Hoomai. "La grande valle ha
visto la sua prima vittoria."
"Non ne vedrà altre" disse Paul.
"I guerrieri del Gran Re sono dei forti combattenti. E Dingaan sa quello
che vuole. La lotta sarà dura e lunga."
Pao parlava lentamente, assorto.
"Dingaan vincerà. Egli distruggerà i bianchi e chiunque s'opporrà alla sua
volontà. Il suo piano è astuto. Attirare in tranelli organizzati i vari gruppi e
distruggerli... Ascolta 'Fior di granturco'. Fatti nuovi, sanguinosi, che hanno
turbato il tuo cuore, come hanno dilaniato il mio, sono accaduti. Credi che il tuo
capo, quando saprà, vorrà ancora mettersi in marcia?"
"Credo di si. Dobbiamo cercare nuovi pascoli."
"Il sentiero ti è stato indicato. Se udrò qualcosa di nuovo, te lo dirò."
"È un commiato?"
"Se dovete andare, questo è il momento. Più tardi Dingaan vi sbarrerà la
strada."
"Non potremo muoverci prima di dieci giorni. E già sarà un far presto.
Attendiamo un nuovo gruppo."
Pao meditò. Poi chiamò i suoi uomini.
"Con il nuovo sole sarete alla 'città morta'. Attenderete là i nostri fratelli.
Hoomai ed io rimarremo con l'uomo dai capelli dorati."
"Ma io..." mormorò Hoomai.
"So. Ma le nostre frecce non rimarranno immobili. Credo che saremo noi
a dare l'ordine di attaccare. Non troveremo più le 'Pantere rosse' isolate.
Dingaan s'è mosso e con lui i suoi guerrieri. Attaccheranno. Ma chi, se non i
bianchi? I nostri villaggi o sono distrutti o abbandonati. I Swazi, i Pondo, i
Tembù, i Mascona e tutti gli altri Bantù sono sotto il dominio del Gran Re. Egli
attaccherà i bianchi. Ed essi sono qui in gran numero e si preparano a partire.
Vedi, 'Fior di granturco', faremo più di quanto richiesto: ti seguiremo!"
Sorrise.
Poi, rivolto ai suoi uomini, prosegui:
"Amoe, Krofir, Simai, riprendete la pista. Altri vi seguiranno domani.
Tutti voi potete andare, ora."
Si allontanarono chi per seguire i guerrieri del Gran Re, chi per
raggiungere la "città morta".
Quando tutti furono scomparsi, Paul chiese:
"Vuole Pao venire nelle nostre case?"
"Le case di pietra," fu la risposta "chiudono le orecchie. Grazie, ma non
vengo. Parla al tuo capo e fammi sapere cosa decide. È importante."
"Lo farò. Addio; ci rivedremo al nuovo sole."
"Al nuovo sole."
CAPITOLO XIV
Per la prima volta in vita sua Filippo andò a caccia.
E forse per la prima volta la foresta vide un ragazzo zoppo tirar d'arco
dietro alle gazzelle.
Il ragazzo era felice; ma molto di più lo era Isa che non stava in sé dalla
gioia. Di questo si rallegravano anche " Fior di granturco " e Pao che avevano
seguito i ragazzi nella loro scorribanda.
Quattro giorni erano trascorsi da che avevano ascoltato insieme il
racconto di Hoomai. Erano in attesa dell'ultimo scaglione per andare.
Andries Pretorius, il capo della spedizione, aveva già date tutte le
disposizioni per una partenza immediata.
veva voluto incontrare Pao e s'era intrattenuto a lungo con lui. Nessuno
seppe mai cosa si dissero, ma da quel giorno Pao fu veduto entrare spesso nel
carro dell'aitante Pretorius e rimanervi a lungo.
Mentre i ragazzi cacciavano e i due uomini, seduti su d'un rialzo erboso
discorrevano, un sibilo acuto sovrastò ogni altro suono della foresta,
accompagnato subito dall'abbaiare dello sciacallo e dalla risata della iena.
Pao rimase immobile, come se nulla fosse accaduto, ma "Fior di
granturco" balzò in piedi.
"È uno del tuo popolo, no?" chiese.
"Già. Ed è inseguito. Il sibilo lo dice. Non ti muovere. Isa sta strisciando
verso il messaggero."
"Ma sta andando in direzione opposta al richiamo! "
"Non preoccuparti; incontrerà chi ha lanciato il segnale. Ora avvicinati al
ragazzo che saltella e rimani con lui. Io raggiungo Isa."
Paul obbedí.
"Cosa accade?" chiese Filippo.
"Nulla."
"Perché Isa è andato via? Chi abbaiava cosi?"
"È un segnale. Attendiamo."
Passarono molti minuti. Parvero ore.
olo lo schiamazzo infernale degli uccelli e gli urli delle scimmie, il tok-
tok continuo, assordante dei buceri dal becco smisurato e lo squillo metallico
delle gru, rendevano viva intorno ai due, immobili come statue, la foresta.
Improvvisamente, Pao e Isa furono al loro fianco. Sedettero in silenzio;
Isa fremeva. Si vedeva chiaramente, dall'espressione del viso, che voleva
parlare.
Ma attendeva che Pao glielo ordinasse. Alfine, questi chiese:
"Dunque?"
"Era Komien, del gruppo di Hoomai. Ha detto: Cim-ao del deserto non è
stato avvistato, né gli altri gruppi che fanno capo a lui. Gli uomini che avevi
mandato, hanno incontrato le 'Pantere astute'. Komien li ha veduti mentre
batteva la pista. Erano senza testa."
"Chi cacciava Komien ora?"
"Un gruppo di 'sciacalli'. Ora li sta riportando indietro. Se riesce a far
perdere le sue tracce, tornerà da te più tardi."
"Chi sono i guerrieri che l'inseguono?"
" 'Sciacalli'; l'ho detto."
"Chi sono?" ripetè Pao.
Isa abbassò il capo.
"Swazi, ha detto. Non è ben sicuro, ma dice che i suoi occhi son buoni."
"Swazi?" esclamò "Fior di granturco" che aveva seguito con attenzione il
discorso.
"Si" ripete Isa. "Komien dice che hanno lo scudo del Gran Re e su di esso
è dipinta l'antilope."
"Forse Komien sbaglia" disse Pao.
Ma non ne era convinto. Lo diceva solo perché intuiva cosa stesse
passando nell'animo del ragazzo.
"No, padre" mormorò Isa. "Solo alcune tribù, sul loro scudo di guerra,
portano dipinta l'antilope. E quelle tribù sono Swazi."
"Ciò vuol dire" commentò Paul "che i Swazi si sono uniti ai guerrieri del
Gran Re."
"Quelli sono 'sciacalli', non Swazi!" esclamò Isa con veemenza. "La mia
tribù non ama il Gran Re e i suoi guerrieri. Le 'antilopi della foresta' li hanno
sempre combattuti. Solo degli 'sciacalli' hanno potuto unirsi a loro. Gli altri no!"
"Tu sei d'un altro popolo" disse Pao "e potresti odiare chi ti scacciò dal
villaggio e ti trattò sempre da 'orzowei'. Ma il tuo cuore è generoso. Hai vissuto
molti anni con loro e non riesci a disprezzarli, perché hai imparato a conoscerli.
Tu li ami, come ami il piccolo popolo e la gente della tua razza. Ciò mi riempie
il cuore di gioia. Son fiero di te."
"Tu non credi che tutti i Swazi siano con il Gran Re, vero?"
"Anche se lo fossero, ciò non può cambiare un giudizio. Chi non sbaglia
almeno una volta? Cosí" prosegui rivolgendosi a "Fior di granturco" "i pericoli
aumentano. Dingaan ha sollevato tutta la gente nera contro di voi."
"Già, sembra che sia come tu dici" rispose Paul.
"Gli uomini dell'antilope hanno seguito Komien. Essi vogliono sapere
dove si nasconde il mio popolo. È un conto vecchio questo. Vogliono saldarlo.
Ma li vedranno anche troppo presto i piccoli uomini!"
"Cosa intendi fare?"
"Far funzionare la trappola. Ma ho bisogno degli uomini del deserto.
Siamo ancora in pochi."
"Vuoi che vada io a chiamarli?" domandò Isa.
Pao lo guardò.
"Hai inteso?" disse; "chi avevo mandato è ora pasto dei grandi uccelli.
Perché dovrei mandare te, che non sei del mio popolo ?"
"Tu stesso hai detto che io sono tuo figlio. E come un figlio mi hai sempre
trattato. Ho cacciato con te e mangiato la stessa carne. Il mio arco è tuo, ma
anche tuo è il mio cuore."
"Cosa dice 'Fior di granturco'?" chiese Pao.
"Il ragazzo lo hai mandato a me affinché io lo educhi come un bianco,
poiché egli è un bianco. Ma un uomo bianco è leale, non tradisce gli amici. Sa
mantenere la sua parola. E Isa ha promesso. Questa caccia, come lui la chiama,
la deve fare con te. Mi ha chiesto il permesso. Io gliel'ho accordato. Sarà la sua
ultima battaglia da uomo della foresta. Poi abiterà nelle case di pietra e farà
tutto ciò che fanno gli uomini bianchi. Ma per ora, egli è con te."
"Conosci il sentiero?" domandò Pao ad Isa.
"Fino alla terra infuocata. Poi no."
"Per tre giorni dovrai camminare sulla terra che brucia, verso le montagne
della sete. Su quelle montagne è Cim-ao."
"Che debbo dirgli?"
"Parlagli delle 'Pantere rosse'."
"Altro?"
"Che Pao segue la pista e l'attende. Buona caccia, figlio."
"Buona caccia anche a te."
ll'alba del sesto giorno Isa lasciò dietro di sé l'arsa savana e s'inoltrò sul
terreno pietroso del deserto.
Il sole nasceva allora all'orizzonte.
Comparve tutto ad un tratto; pareva una palla infuocata pronta a
scoppiare.
Isa l'osservò meravigliato.
Poco dopo, però, la luce abbagliante lo costrinse a camminare con gli
occhi socchiusi. Il calore era già forte.
S'inoltrò per una stretta gola dalle pareti a strapiombo e creste ad angoli
acuti.
Il terreno era disseminato di grossa ghiaia e di scaglie. Più avanti una
ghiaiolina minuta come chicchi di granturco crepitava stranamente sotto il
soffio leggero del vento.
Per più di un'ora segui il canalone; poi risalí una piccola altura e affondò i
piedi nella sabbia finissima color oro.
Un ronzio continuo lo accompagnava. Pareva che migliaia di insetti lo
seguissero.
Durante le ore più calde si fermò ai piedi d'un gruppetto di acacie che
stendevano i loro rami stecchiti a guisa di ombrello.
Tese su quei rami la pelle del leopardo e cercò ristoro in quell'ombra. Ma
la sabbia su cui si sdraiò era infuocata come l'aria che respirava.
Cercò, abbagliato dalla gran luce, di dormire; ma il caldo e la sete glielo
impedirono.
Verso il tramonto l'improvvisa lotta tra un serpentario e una vipera
cornuta lo fece restare, incuriosito.
L'uccello era piombato improvvisamente di fronte al rettile che strisciava
verso un basso cespuglio.
Il serpente si rizzò tutto di fronte al nemico, gonfiando il collo. Ma il
serpentario non ne fu punto intimorito.
Spiegando un'ala, corta e fornita di protuberanze ossee tali da formare una
terribile arma di offesa, la portò innalzi a sé, a mo' di scudo per le gambe e la
parte inferiore del corpo.
Il serpente sibilò più forte. L'uccello rimase immobile.
itto sui lunghi tarsi, pareva una statua. Solo il ciuffo sull'occipite
oscillava leggermente.
Con il becco, adunco e fortissimo, pronto a colpire, e lo sguardo fisso sul
rettile, era in quel momento l'immagine stupendamente dimostrativa della forza
del popolo alato.
Improvvisamente il rettile attaccò.
Un salto; un colpo d'ala; un guizzo.
L'uccello era nuovamente immobile al suo posto, pronto a colpire.
Il serpente fischiava rabbiosamente.
Di nuovo guizzò in avanti; con tanta rapidità che Isa non se ne accorse
quasi.
Ma con altrettanta rapidità l'uccello si gettò da un lato, dall'altro; saltò,
colpi, e di nuovo fu immobile, col ciuffo ritto, di fronte al nemico.
Se Isa non avesse seguito attentamente i loro rapidi movimenti, avrebbe
giurato che i due animali non si erano mossi dalle primitive posizioni.
Altre due volte l'attacco si ripetè. Poi il serpentario passò all'offensiva.
Saltò, indietreggiò, colpi. Si gettò da un lato; dall'altro. Balzò per ogni
dove. Pareva non toccare il suolo tant'era la rapidità dei suoi movimenti.
Intanto con un'ala colpiva fortemente, ripetutamente; mentre presentava al
dente velenoso dell'avversario l'estremità dell'altra ala difenditrice.
Cosí, mentre il rettile esauriva inutilmente il suo veleno mordendo le
penne insensibili, l'uccello continuava a colpire.
Il serpente, stordito, barcollò; cadde.
Prontamente ghermito fu gettato in aria ripetute volte. E quando non ebbe
più la forza di rialzarsi, l'uccello, con un colpo di becco, gli spaccò il cranio.
Cosí, poco dopo, preso delicatamente per la coda, scompariva nel vorace
stomaco dell'avversario.
Soltanto quando il sole scomparve improvvisamente dietro le basse
colline di sabbia, Isa trovò ristoro. L'aria e la terra si rinfrescarono rapidamente,
ed il ragazzo s'avviluppò con piacere nella pelle del leopardo.
Scavò una piccola buca e vi si distese. Ora poteva respirare a pieni
polmoni.
Nessuna voce all'intorno, nessun rumore, nessun ronzio d'insetti. In quel
momento, Isa comprese la grandezza, la maestà e la calma solenne del deserto.
Nei suoi occhi, ricolmi ancora dei barbagli del sole, passarono visioni
affascinanti, luminose, fantastiche. Man mano si annebbiarono, si confusero e
terminarono in un profondo sonno ristoratore.
Dopo tre giorni di marcia nel deserto raggiunse le "Montagne della sete".
Le aveva vedute già, lontane, azzurrine, durante la marcia di
avvicinamento.
Le aveva vedute, all'alba e al tramonto, tingersi di porpora sotto i raggi
del sole.
Ora esse gli offrivano una visione grandiosa.
Si stagliavano nitide contro il cielo terso, sfolgorante; il nero delle rocce
assumeva, secondo la profondità dei crepacci, delle tonalità differenti.
Isa cercò un sentiero e vi si inoltrò.
Per due giorni salí e discese ripidi pendii, urlando il grido di richiamo.
na notte una torma di cani selvaggi affamati, l'assalí. Cercò riparo su
d'una roccia e dette battaglia.
La torma latrava continuamente ai suoi piedi mentre tentava di
raggiungerlo. Si fermavano solo per divorare i corpi dei compagni colpiti; poi,
ululando tetramente, cercavano, balzando, di raggiungere la roccia. Isa dovette
scacciare i più audaci a colpi di coltello; e con più di uno dovette lottare corpo a
corpo. Solo all'alba la torma si allontanò. Sul terreno non rimanevano altro che
le ossa, ben scarnite, dei caduti.
Isa era esausto.
Doveva trovare Cim-ao, subito. Soprattutto per smorzare la sete che lo
tormentava.
Da due giorni non beveva.
Si diresse verso ovest. Ma se nella notte aveva dovuto lottare contro la
torma affamata, dovette ora affrontare qualcosa di più tremendo ancora d'un
branco di cani urlanti.
Una tempesta s'abbatté sul deserto.
l vento, che soffiava violento da qualche ora, dopo pochi istanti di tregua,
s'era ridestato con tanta veemenza da sollevare in aria grosse colonne di sabbia
che s'aggiravano vorticose sul piano, succhiando e spezzando tutto ciò che
incontravano.
Il sole, illuminandole, le rendeva simili a colonne di fuoco che, d'un
tratto, diventavano spaventosamente nere.
Ed il vento le sdoppiava, le riuniva in un solo vortice che sollevava sino
alle nubi. Isa, riparato dietro un masso, guardava con apprensione la furia
scatenata degli elementi.
Poi il vento diminuí, fino a morire del tutto. Ma l'aria si fece soffocante;
un vapore leggero, rossastro offuscò il cielo; la nebbia, infittendosi sempre più,
lo copri e avvolse il deserto nell'oscurità.
Isa senti il sangue pulsargli più forte nelle vene, mentre,
involontariamente, gemeva.
A mezzogiorno cominciò a spirare un vento leggero ma rovente, che gli
provocò un sordo dolor di capo, sonnolenza e affanno di respiro.
e folate di vento si fecero sempre più frequenti ed il ciclone avanzò
tuonando, fischiando, ululando.
La sabbia veniva sollevata in vortici paurosi. L'afa continuava a crescere,
sí da parer che tutto bruciasse.
Isa, con la lingua secca e pesante, osservava istupidito i vortici che gli
ballonzolavano innanzi, mentre l'ululato del vento gli era penetrato nel cervello.
Per delle ore stette immobile.
Poi gli parve che un mostro, un mostro enorme, di fuoco, dalle fauci
spalancate, gli si precipitasse contro.
S'alzò di scatto urlando.
Il mostro allungò le zampe, sottili, vaporose per lambirlo.
Con un urlo Isa balzò all'indietro. Il mostro si ritrasse, ma tornò subito
all'attacco.
E questa volta Isa fu colpito in pieno.
Si sentí trascinato in aria, vide la montagna farsi vicina, vicinissima. Ora
il mostro lo avrebbe gettato, sbattuto, fracassato sulle rocce.
Gridò. Più forte del vento; più forte del tuono.
Poi, quando ormai la montagna era a pochi passi da lui — già sentiva le
rocce sfiorargli la pelle — il mostro lo lasciò. Cosí, senza motivo.
Si dileguò nell'aria lasciandolo bocconi a terra, che faceva sangue dal
naso e dalla bocca.
Un altro mostro giunse però velocemente. Isa lo vide, ma non ebbe la
forza di gridare.
Il mostro rideva e vomitava fiamme. Rideva beffardamente, crudelmente.
Era pronto a divorarlo. Poi Isa gli vide il viso.
Era quello di Mései. Un Mései sghignazzante, trionfante. Ma, oh! il
mostro aveva un'altra testa. La testa d'un cobra; ma no... era lo stregone; o no,
un leopardo... Sem-husci. Ma quante, quante facce aveva ?
E tutte ridevano, ridevano, ridevano.
Il mostro voleva ucciderlo e loro ridevano. Ma se doveva morire era
meglio farlo combattendo. Balzò in piedi. Urlò disperatamente il richiamo del
piccolo popolo e s'avventò contro il mostro diabolico.
Ma qualcosa lo colpi.
Sentí un forte dolore alla nuca e cadde pesantemente sulla sabbia ardente.
"Sono Cim-ao... Sono Cim-ao."
La voce era dolce, suadente.
Isa non riusciva a capire come mai si trovasse fra gli uomini che aveva
tanto cercato.
Sentiva solo un forte dolore al capo e un languore per tutto il corpo.
"Come sono qui?" disse.
"T'abbiamo raccolto nel deserto. Il vento di fuoco ti aveva preso."
"La testa... chi mi ha colpito?"
"Ricorda" mormorò Cim-ao agli uomini che gli erano vicini.
"Ecco" disse. "T'abbiamo visto lottare contro le grandi colonne di sabbia.
È il primo segno della pazzia. Bastava lasciarti fare ancora un po' ed il tuo
corpo ora sarebbe sepolto sotto l'ardente manto del deserto. Allora uno di noi ti
ha colpito. Ci dispiace. Il figlio del grande Pao ci perdoni. Ma è meglio il colpo
del nostro bastone, che il rimaner preda del 'simun'."
"Simun?"
"Il grande vento. Il vento della morte. Sai chi sono io?"
"Cim-ao. Ti riconosco. Il capo dei villaggi del deserto."
"Bene. E tu chi sei?" "Perché mi fai questa domanda?"
"Rispondi: chi sei?"
"Isa. Mohamed Isa."
"Ecco. Ora son certo. Il vento di fuoco non ti ha dato la pazzia. Parla, ora.
Perché il figlio di Pao, il nostro fratello prediletto, è venuto solo nella terra
infuocata ? "
"Pao mi manda."
" Cosa vuole il saggio ? "
"Egli segue la pista e t'attende con i gruppi che dipendono da te."
"Dove aspetta?"
"Ti condurrò io sulle sue tracce."
"Bene. Domani andremo."
All'alba del giorno seguente ritornarono i messaggeri di Cim-ao e i gruppi
chiamati. Le donne e i ragazzi seguivano i guerrieri.
Nessuno chiese niente. Solo Cim-ao aveva domandato chi dovevano
incontrare.
"I guerrieri del Gran Re" era stata la risposta.
S'incamminarono in lunga fila, fermandosi solo a notte inoltrata. Cosí per
due giorni.
Cim-ao insegnò ad Isa come dissetarsi. Gli mostrò, in alcuni profondi
avvallamenti — fra estensioni vastissime di alfa — un frutto grosso come un
pallone. Ne prese alcuni e li spaccò. Nell'interno di essi vi era un liquido denso,
giallognolo.
"Bevi" disse. "È l'acqua del 'tsama'."
Era buona, dolciastra, dissetante.
"Se ritornerai nel deserto, ricordalo. Il 'tsama' è la vita."
"Riconosco i luoghi" disse Cim-ao.
"Siamo vicini alla 'città morta'. Alla sua destra era il villaggio di Pao"
rispose Isa.
"Era?!"
"Già; poi sono passate le 'Pantere rosse'."
"Son loro che incontreremo?"
"Loro, e tutti i guerrieri del Gran Re."
"Il sole del deserto ha seccato la punta delle mie frecce. Hanno sete.
Berranno sangue Zulù!"
"Taci" sussurrò Isa "non odi nulla?"
Il Boscimano si fermò in ascolto.
Poi, voltandosi verso la sua gente, emise un lungo sibilo e tutti si
nascosero fra i cespugli.
"Molti uomini" disse Cim-ao.
"Eccoli!"
Attraverso il grosso cespuglio ove si erano riparati, videro avanzare dei
guerrieri Zulù.
Isa strinse con forza il suo arco.
Sullo scudo degli uomini, troneggiava la rossa pantera.
Passarono loro vicinissimi.
Per un lungo tratto camminarono in mezzo al piccolo popolo. Ma tant'era
la immobilità dei Boscimani che gli Zulù non si accorsero di nulla.
"Cosa fanno qui?" chiese Isa. "Gli uomini di Pao dovrebbero averli
scorti."
"Guarda" sussurrò Cim-ao.
Due uomini bianchi camminavano in mezzo alla fila dei guerrieri. Le loro
giubbe rosse erano a brandelli; non avevano armi. Le braccia eran legate dietro
alla schiena.
" Prigionieri! "
"Son del tuo gruppo?" chiese Cim-ao.
"Non li conosco. Ci sono molti bianchi che non conosco. Ma è strano che
i guerrieri del Gran Re abbian preso dei prigionieri."
"Già, è strano."
"Cosa facciamo, Cim-ao?"
"Dobbiamo raggiungere Pao."
"Son passate le 'Pantere rosse'!"
"Pao ci aspetta."
"Sarebbe stato un bel colpo."
"È un bel colpo." "Cosa intendi dire?"
"Quanto c'è ancora per la 'città morta'?" domandò a sua volta Cim-ao.
"Una mezza giornata."
"Bene."
Il Boscimano lasciò passare ancora del tempo, poi abbaiò come un cane
del deserto.
Subito, dai lati del sentiero, sbucarono fuori i suoi uomini.
Ne chiamò sei, sette vicino a sé.
"Le 'Pantere rosse' non debbono perdersi nella foresta" disse loro
sorridendo.
Gli uomini annuirono, e si allontanarono.
"Ora svelti" disse agli altri. E riprese di buon passo il sentiero.
Alla "città morta" si unirono agli altri gruppi.
Pao non c'era.
L'ultimo suo messaggio — di tre giorni avanti — diceva di attendere.
Cim-ao non si concesse riposo.
Affidò il suo gruppo a Kamo, uno degli anziani e, chiamati una decina di
guerrieri, rifece la strada percorsa.
Isa correva con loro.
Quaranta miglia di corsa per un Boscimano sono una cosa normale. Il
veleno delle loro frecce agisce lentamente, sicché debbono inseguire gli animali
colpiti per lungo tempo.
E quando l'animale, come spesso capita, è un agile corridore, devono
inseguirlo mantenendo la sua stessa velocità.
Questione d'esercizio. E di forza e di resistenza.
Isa vi era abituato. Da piccolo per sfuggire i compagni; poi, negli anni in
cui era stato un Boscimano, per cacciare.
Corsero per cinque ore; poi un sibilo li fece fermare. Era Karkum.
"Le 'Pantere rosse' son vicine. Hanno ripreso la marcia ora" disse.
"E gli uomini bianchi?"
"Son sempre nel centro della fila."
"Bisogna fare in modo che essi vivano."
"Bene."
Cim-ao, dopo aver pensato ad un piano d'azione, parlò a lungo,
lentamente.
Quando il gruppo riprese la marcia, ogni uomo sapeva cosa doveva fare.
Incontrarono gli altri esploratori più tardi. Le 'Pantere rosse' erano state
raggiunte.
Le seguirono fino a notte inoltrata e quando esse si fermarono, ognuno si
dileguò per proprio conto.
Isa si avvicinò al luogo ove erano i prigionieri.
Il suo compito era di proteggerli durante l'assalto e, se fosse stato
possibile, di liberarli.
Aveva chiesto un posto nella battaglia, un posto ove le sue frecce
potessero parlare a lungo.
Ma Cim-ao glielo aveva negato.
"Quel che tu devi fare è importante come ogni altra cosa, affinché il
nostro colpo riesca. Tu sei l'unico che puoi parlare con i bianchi. Non posso
farlo io."
Quando gli Zulù si furono stretti attorno al fuoco per mangiare, l'abbaiare
dello sciacallo si levò alto nell'aria.
Un abbaiare strano; un abbaiare pieno di gioia mal repressa. I guerrieri
neri balzarono in piedi, e in quello stesso istante le frecce colpirono.
Superato il primo attimo di smarrimento, le 'Pantere rosse' si divisero in
piccoli gruppi.
Le frecce sibilarono nuovamente e questa volta le zagaglie risposero.
In breve gli urli di guerra e di dolore si ripercossero nella volta cupa della
foresta.
I prigionieri erano balzati in piedi, ma non si muovevano. Quattro uomini
li sorvegliavano da vicino.
La battaglia si andava spostando. Come già predisposto, Cim-ao attirava
lontano gli avversari affinché Isa rimanesse libero d'agire con i prigionieri.
Ma gli uomini di guardia non si mossero.
Allora il ragazzo agí. Spostandosi silenziosamente si portò di fronte ai
guerrieri e prese di mira il primo. Questi cadde senza neppure gridare; gli altri
balzarono avanti.
Isa si spostò più a destra e tirò nuovamente.
Cosí per quattro, cinque volte. I guerrieri credettero d'essere accerchiati.
Nel suo girare, Isa si portò vicinissimo ai prigionieri e sussurrò loro in
boero:
"Via! Venite via!"
I due non si mossero.
"Indietreggiate lentamente e fuggite sul sentiero. Capite?"
Fecero cenno di si.
Isa riprese il suo girotondo saettando gli avversari. Quando non vide più i
bianchi, scoccò altre due frecce e s'allontanò.
Le "Pantere rosse" erano state gabbate.
Incontrò i bianchi che fuggivano concitati.
Sbarrò loro la strada improvvisamente.
I due uomini si fermarono ansanti. Osservarono lui ed i cespugli vicini,
poi uno disse qualcosa, in una lingua sconosciuta ad Isa, e improvvisamente gli
si slanciarono contro come catapulte.
Ma strinsero a vuoto le braccia e caddero pesantemente al suolo.
Isa li aveva attesi a piè fermo fin che non erano giunti ad un palmo da lui;
poi era balzato d'un lato.
"Seguitemi" disse in boero.
"Chi sei?"
"Un amico."
"Cosa vuoi?"
" Seguitemi."
Abbandonò il sentiero e si inoltrò tra la fitta vegetazione, seguito dai due
uomini.
Cim-ao li raggiunse alla "città morta" Portava con sé le zagaglie dei vinti.
Ma la lotta era stata dura. Solo quattro uomini lo seguivano. Gli altri cacciavano
per sempre nelle foreste del Gran Padre.
CAPITOLO XV
Due giorni dopo questi avvenimenti (Isa aveva accompagnato i due
ufficiali inglesi — tali erano i prigionieri degli Zulù — da "Fior di granturco"), i
Boeri si misero in marcia.
Andries "Willem" Pretorius cavalcava alla testa della lunga colonna,
seguito da una ventina di cavalieri.
Dopo di loro veniva il primo carro tirato dai lenti, forti buoi. E dietro
questo, un altro e un altro ancora. Una fila lunghissima. Più di quattrocento
carri che traballavano, cigolavano sul sentiero appena tracciato.
Il grande esodo aveva inizio. Mille e cinquecento persone obbedienti agli
ordini dell'audace Pretorius, di colui che s'era messo alla testa di quel popolo
forte per liberarlo dal giogo inglese.
Ci volle una buona giornata, prima che tutti i carri traghettassero il fiume.
"Fior di granturco" e Pao, con una ventina di uomini, precedevano il
gruppo d'una buona giornata; avevano il compito di cercare i passaggi migliori
e di segnalare qualsiasi novità.
Isa era con Filippo. Seduto a fianco del suo amico, cantava e scherzava,
mentre echeggiavano nell'aria le grida gutturali degli uomini che incitavano i
buoi.
E cosí si andò avanti; alla ricerca di nuove terre, di nuovi pascoli.
Un po' per giorno, lentamente.
E le ruote cigolavano, stridevano, sobbalzavano, lasciando dietro di loro
una nuvola grigia che si perdeva nell'aria, come a nascondere i luoghi ove
quegli uomini avevano vissuto fino ad allora.
Avanti, sempre avanti.
I buoi cominciarono a dar segni di stanchezza e le soste si fecero sempre
più frequenti, più lunghe.
Molti mormorarono.
Solo Pretorius cavalcava imperterrito in testa, scherzando, ridendo; mai
stanco di nulla, sempre vigile, sereno.
ra l'anima del gruppo. Bastava la sua presenza per galvanizzare gli
uomini.
E si andava avanti. Lentamente, ma avanti. Per giorni, giorni e giorni.
Ora le ruote affondavano nella sabbia, ora fra l'arsa sterpaglia, ora sul
muschio molle.
Ora era l'acqua che mancava; ora la carne; ora tutto.
Ma la lunga fila dei carri marciava sempre.
Nulla di nuovo. Solo il paesaggio. Ma anche questo era sempre uguale per
i loro occhi stanchi. Avanti, avanti!
E giunse l'estate che dardeggiava tutto bruciando. Pareva che il sole
battesse con grandi mazze sulla testa di ognuno. Le donne soltanto sembravano
non accorgersene. Discorrevano di pizze, di dolci.
Natale si avvicinava. Un Natale in piena estate, con il sole che squagliava
il cervello della gente.
Ma ormai erano abituati. Natale con la neve era solo un lontano,
evanescente ricordo dei più vecchi.
"Mancano venticinque giorni..."
"Mancano ventidue giorni..."
"Mancano diciannove giorni..."
La loro ansia era trasmessa centuplicata nei ragazzi. Filippo non
discorreva d'altro. Ed Isa non capiva.
Non capiva, soprattutto, perché non riusciva a spiegarsi come mai, gente
che amava tanto quel Dio che dicevano nato per morire d'amore, per far
comprendere che siamo tutti fratelli, come mai, dunque, questa gente che
l'amava tanto non faceva quello che LUI aveva fatto: amare gli altri, E non lo
facevano; ne era ben sicuro.
Lui, per esempio, chi lo amava?
Tolto Filippo e "Fior di granturco", chi lo amava? Lo sopportavano,
perché era amico di alcuni di loro. Lo sopportavano come sopportavano Pao,
perché era utile a loro. Ma lo leggeva nei loro occhi e lo comprendeva dai loro
gesti che non erano desiderati.
"Mancano diciotto giorni..."
Per festeggiare cosa? Il non-amore?
I ragazzi sognavano ad occhi aperti. I giorni parevano loro lenti,
lentissimi; raddoppiati quasi.
Poi le zagaglie parlarono. Improvvisamente. Nessuno s'era accorto di
nulla.
I carri si stavano raccogliendo in cerchio quando un uomo gridò. Cadde
bocconi, mentre il cavallo fuggiva via impaurito.
Poi altri uomini e donne e ragazzi caddero.
Allora i fucili risposero.
Ma era un inferno; non si comprendeva nulla. Tutti gridavano, urlavano,
piangevano, correvano qua e là senza scopo, con le braccia alzate; stravolti in
viso. E nessuno sapeva chi fuggivano o verso chi sparavano.
La voce possente, metallica, di Pretorius si levò fra tutte quelle grida.
Le donne, strette ai loro piccoli, si rannicchiarono nei carri centrali; gli
uomini si disposero attorno a quelli che formavano il cerchio esterno.
n altro grido di Pretorius e vi fu silenzio. Un silenzio pregno di ansia, di
paura.
S'udí solo l'abbaiar dello sciacallo interrotto dalla risata sghignazzante
della iena. E il grido, a molti, fece accapponar la pelle.
Per tutta la notte lo sciacallo abbaiò. Solo all'alba tacque.
Ma un altro abbaiare rispose al richiamo.
"È Pao" disse Isa rivolgendosi a Pretorius.
Era stanco. Tutta la notte aveva urlato il richiamo del piccolo popolo.
"Grazie" disse Pretorius. "Sei un ragazzo in gamba."
Isa non rispose.
"Fra quanto sarà qui il capo dei Boscimani?"
"È qui."
Infatti poco dopo Pao e "Fior di granturco" s'avvicinarono a loro.
"Cos'è accaduto?" chiese Paul.
"Siamo stati assaliti ieri sera."
"Da chi?"
"Non lo sappiamo. È accaduto tutto cosi improvvisamente... Voi non
avete notato nulla?"
"Nulla."
"Se non sappiamo chi abbiamo contro e in che numero, non potremo
muoverci. E questo non è un luogo adatto alla difesa."
"Ora saprai ciò che desideri" disse Pao.
"No" protestò Paul "lascia andare me. È la mia gente che è in pericolo."
"Le frecce sono più silenziose del tuo lungo tubo e i passi del piccolo
uomo più leggeri delle tue scarpe ferrate. Vieni, Isa" disse Pao.
Ritornarono dopo un paio d'ore.
"Gli uccelli gridano e saltellano sui rami, mentre le scimmie urlano."
"Nessuno?!" esclamò Paul meravigliato.
"Nessuno. Solo le loro tracce."
"Quanti erano?" domandò Pretorius.
"Pochi. Non più di venti" rispose Isa.
"Perché hanno attaccato, allora?"
"Certamente per intimorirci" mormorò Pretorius pensosamente.
"Dobbiamo andar via, subito."
La lunga colonna riprese la marcia.
"Swazi," diceva Isa a "Fior di granturco": "Swazi erano. Le loro zagaglie
lo hanno detto."
Loro due chiudevano la marcia del gruppo.
Pao era andato via.
"Ritorneranno in molti" aveva detto "e fra loro ci saranno le 'Pantere
rosse'. Il mio popolo deve saperlo."
In testa, all'avanguardia, camminava Hoomai. Pao non l'aveva voluto con
sé.
"Dovrai tenere gli occhi ben aperti. I guerrieri del Gran Re saranno qui fra
poco. Isa è alle tue spalle. Lancia il richiamo, se è necessario."
Hoomai aveva obbedito a malincuore. Non voleva che il suo capo
percorresse i sentieri da solo.
Camminarono tutto il giorno senza concedersi sosta. Pretorius voleva
mettere molta strada fra il suo gruppo e gli avversari.
Quando il sole cominciò a nascondersi fra gli alberi si fermarono. Stavano
disponendo in cerchio i carri quando l'abbaiare dello sciacallo si ripercosse
sinistro nella stretta radura.
Tre volte il grido si ripeté, sempre preceduto dal sibilo del serpente.
Pretorius s'avvicinò al gruppetto ove era Isa ed Hoomai.
"È Simmù" disse Hoomai dopo aver ascoltato attentamente il richiamo.
"Uno degli uomini che battono la pista."
"Segue i guerrieri del Gran Re" precisò Isa a Pretorius.
Hoomai s'allontanò silenziosamente.
"Cosa accade?" gli chiese Paul quando ritornò.
"Molti sono i guerrieri del Gran Re."
"Quanti?"
"Numerosi come le cavallette su di un campo di granturco. Le loro
zagaglie, lanciate tutt'insieme, oscurerebbero il sole."
"Quanti?" ripetè Paul.
"Simmù ha visto più di venti segni differenti sui grandi scudi. E i suoi
compagni altrettanti."
"Cosa sono i segni?" domandò Pretorius.
" I distintivi dei vari battaglioni zulù " spiegò Paul. "Dalle loro notizie
credo di capire che abbiamo contro una quarantina di battaglioni, circa."
"Dove sono?"
"Ad un giorno da noi" rispose Hoomai "e vengono verso noi."
"Come fai a saperlo?"
"So" fu la risposta del Boscimano.
"Possiamo credergli?" chiese Pretorius.
"Si," rispose Paul "le loro notizie son risultate sempre esatte."
"Abbiamo un giorno di distacco" disse Pretorius pensieroso. Una
profonda ruga gli solcava la fronte.
"I guerrieri del Gran Re marciano anche di notte" disse Isa.
"Il pericolo è grave."
"Dammi un pugno di uomini, o Pretorius," esclamò Paul; "cercherò di
trattenere i diavoli neri."
"Sarebbe un sacrificio inutile. Dobbiamo rimanere tutti uniti. Avvisate il
capo che fra un'ora si parte."
Sotto l'incubo d'un attacco improvviso la marcia riprese.
Le donne, nei carri, pregavano sommessamente. Gli uomini non
gridavano.
Solo i pungoli incidevano a sangue i buoi per affrettarli. Tutti i nervi
erano tesi, pronti a carpire il minimo rumore.
Tre giorni e tre notti avanzarono senza mai sostare.
"Dobbiamo raggiungere le colline! " Pretorius le indicava, lontane ancora,
velate d'azzurro. "Solo lí potremo difenderci."
Non si ebbe più tempo per cercare l'acqua. E la sete cominciò a torturare
gli uomini e le bestie.
Molti buoi non ressero all'immane fatica e crollarono sotto il giogo.
Ma la carovana andava avanti.
Un'unica sosta fu fatta vicino ad un piccolo corso d'acqua.
Si gettarono tutti in essa bevendo a lunghe sorsate. Poi, di nuovo, avanti.
Per quattro giorni fuggirono i guerrieri del Gran Re. Al quinto il ritmo già
veloce della marcia fu ancor più accelerato. Una cinquantina fra uomini e donne
caddero esausti lungo il sentiero.
Qualcuno non si rialzò più. Ed il suo corpo, subito preso d'assalto dagli
avvoltoi, rimase ad indicare la via seguita dal gruppo.
Non potevano fermarsi per seppellirli.
Qualcuno era stato adagiato, dai parenti che non avevano neppure la forza
di piangere, su un carro.
Ma Pretorius aveva dato ordine di toglierlo.
Il pericolo di una epidemia li minacciava.
All'alba del settimo giorno di fuga le zagaglie parlarono nuovamente. Ed
erano molto più numerose della prima volta.
"Vai, Pretorius!" gridò Paul; "porta il gruppo alle colline. Vi
raggiungeremo fra poco."
Un centinaio d'uomini s'unirono a lui. Hoomai ed Isa gli erano a fianco.
Cosí, mentre il grosso della carovana s'allontanava, gli uomini si
appostarono fra le rocce, i tronchi, i cespugli dello scosceso pendio.
Gli Zulù erano vicini.
Scivolavano silenziosamente sul terreno, mentre cercavano di portarsi su
posizioni favorevoli all'attacco.
" 'Cervi bianchi' " disse Hoomai.
"E 'Pantere rosse' " soggiunse Isa indicando un guerriero che stava
correndo verso un cespuglio.
La freccia di Hoomai troncò la sua corsa.
Un urlo, e più di venti guerrieri balzarono in avanti. I fucili parlarono; non
un colpo andò a vuoto, e più nessuno si mosse.
Per oltre mezz'ora s'udirono solo, lontane, le grida degli uccelli.
D'un tratto, cosí, all'improvviso, Paul e i compagni videro gli Zulù sbucar
loro davanti.
La battaglia divampò violenta, ma non durò più di venti minuti. I negri si
ritirarono.
Molti di loro erano rimasti sul terreno. Ma anche i bianchi avevano pagato
il loro tributo.
"Avanti" ordinò Hoomai "dobbiamo respingerli indietro, molto indietro se
vogliamo dar modo ai nostri amici d'allontanarsi indisturbati."
Per tutto il giorno li inseguirono e diverse volte dovettero retrocedere
sotto i loro assalti violenti. Solo quando videro che il loro numero andava
accrescendosi sempre più tornarono indietro. Raggiunsero i carri il giorno
seguente.
Pretorius, vedendoli, capí quanto era costato trattenere i guerrieri del Gran
Re.
Aveva di fronte solo venti uomini, compresi Isa ed Hoomai. Più di ottanta
avevano pagato con la loro vita un giorno di marcia del gruppo verso le colline.
"Fra nove giorni è Natale!" mormorò Filippo. "Ma credo che non sarà un
bel Natale."
"Sarà un bel Natale, anche se c'è la grande caccia" rispose Isa. "Finché
saremo insieme, ogni giorno è bello! "
Invece, dovettero separarsi.
I carri erano fermi in una stretta gola. Pretorius aveva fatto discendere
tutti e stava parlando con i più anziani.
Poco dopo Filippo dovette seguire le donne e gli altri ragazzi. Un
centinaio di uomini li scortavano su per le colline, mentre i carri venivano
disposti in quadrato.
Un magro fiumicello canticchiava sommesso fra le rocce.
"Qui" disse Pretorius agli uomini, un cinquecento circa, quando gli si
furono raccolti attorno, "qui sosterremo l'urto degli Zulù. Se passeranno sarà la
fine delle nostre donne e dei nostri figli."
"Non passeranno!" gridarono tutti.
Isa s'avvicinò a Paul.
" 'Fior di granturco' " disse, "è giunto il momento."
"Già!" sorrise l'uomo.
Hoomai guardava, immobile, avanti a sé. Sdraiato vicino ad un carro,
attendeva.
"Più tardi forse conosceremo il Gran Padre" disse Isa.
"Forse" ripetè Paul.
"Se ci andremo, cacceremo sempre insieme nelle sue foreste. Mi vuoi con
te?"
"Se andremo, staremo sempre insieme."
"Son felice; anche se debbo morire."
"Il figlio del cuore di Pao" l'interruppe Hoomai non ode nulla?"
Isa ascoltò.
"Si" disse poi "molte grida."
"Il mio popolo ha incontrato le 'Pantere rosse'. Odi?" "Si."
Chiaro, distinto s'udiva il grido di battaglia dei Boscimani.
Poi un urlo terribile, selvaggio, lo sovrastò.
Le orde Zulù attaccavano il quadrato dei bianchi.
Pretorius aveva fatto appena in tempo. Sarebbe bastata una mezz'ora di
ritardo ed anche le donne si sarebbero trovate in mezzo alla battaglia.
Schiere di Zulù avanzavano da tutti i lati, seguendo una tattica precisa.
Non c'era bisogno di mirare, per colpire.
Bastava tirare; tirare su i guerrieri del Gran Re che avanzavano urlando.
"Non ci sono 'Pantere rosse' " disse Hoomai.
"Già" confermò Isa dopo aver scrutato ben bene i guerrieri avanzanti.
"Non ne vedo."
"Il piccolo popolo sta dissetando le sue frecce" e Hoomai sorrise.
Le zagaglie sibilavano nell'aria; le schiere nemiche si facevano sempre
più numerose. Dingaan lanciava un battaglione dopo l'altro, riservandosi un
attacco con tutte le forze riunite per quando i bianchi avessero cominciato ad
esaurire le munizioni.
"Il kraal degli 'Gnù' " contava Isa.
"E quello dei 'Bufali' " soggiungeva Hoomai.
Sorrideva soddisfatto, mentre prendeva di mira i più vicini.
"Ora sono i 'Leoni'... e i 'Cobra'... e le 'Gazzelle'..."
"Ecco i 'Pitoni'..."
I guerrieri del Gran Re avanzavano sempre più.
Il terreno era ricoperto dai corpi dei loro compagni caduti. Ma a loro non
importava. Dovevano raggiungere i carri.
"Non possiamo durarla a lungo" disse il vecchio George strisciando
presso Paul. "Fra poco ci salteranno addosso tutti insieme e non avremo
neppure il tempo per ricaricare le armi."
"Già," mugugnò Paul "ma abbiamo coltelli e spade."
"Si! Cinquecento contro diecimila! Puà... mi viene la pelle d'oca a
pensarci."
Improvvisamente i negri si fermarono.
"Ci siamo" disse George. "Si preparano per saltarci addosso tutti
insieme."
Infatti un urlo echeggiò improvviso e i battaglioni balzarono in avanti
all'attacco.
Allora Pretorius diede un ordine che fece rimaner tutti stupiti.
"A cavallo," gridò "a cavallo! I più vecchi rimangano presso i carri e
proseguano il fuoco; gli altri con me, via! "
Circa 400 cavalieri lo seguirono.
Un varco fu aperto fra i carri e gli audaci si slanciarono fra le orde Zulù.
Queste sotto l'improvvisa carica, sbandarono.
I cavalieri parevano centauri invulnerabili.
Gli uomini fra i carri intanto sparavano all'impazzata.
Le canne dei fucili erano roventi. Bruciavano le mani. Gli Zulù cadevano
a decine.
Poi un grido possente s'elevò alle spalle degli uomini di Dingaan e le
frecce dei Boscimani parlarono. Quanto durò l'immane macello nessuno seppe
poi dirlo.
Il magro corso di acqua si era trasformato in un fiume di sangue.
Poi le orde Zulù, sgomente e decimate, si ritrassero nella foresta e
scomparvero.
Dingaan, il Gran Re, era stato sconfitto da un pugno di uomini audaci e
dalle frecce del piccolo popolo.
CAPITOLO XVI
Isa si strinse a Pao, lieto di rivederlo incolume.
"Le 'Pantere rosse' non sono più, o figlio!" disse il Boscimano. "Ma tu
non vedrai più neppure Cim-ao e molti altri. Essi ora cacciano nelle foreste
eterne, ove la preda è facile ed abbondante."
"Che la loro caccia sia serena. Erano dei bravi guerrieri" mormorò Isa.
Avevano preso il sentiero delle colline.
Molti erano già corsi avanti per portare la buona novella agli amici e alle
donne che si vedevano, massa indistinta e multicolore, sull'altipiano ove si
erano accampate in ansiosa, trepidante attesa. Giungevano, a tratti, portate dal
vento, le loro grida di esultanza.
E a gruppi venivano verso loro, ansiose di riabbracciare il padre, lo sposo,
il figlio.
Pao e la sua gente marciavano dietro i carri.
"Ci accamperemo con voi" aveva detto Pao a Pretorius "fino a che i feriti
non saranno in grado di riprendere il sentiero."
"Perché non rimanete con noi?" aveva proposto Andries. "Potrete
costruire il vostro villaggio vicino al nostro."
"La foresta per noi è la vita."
"Non so come ringraziarti, Pao, né come sdebitarmi verso i tuoi uomini. Il
vostro aiuto ci ha salvati. Lo ricorderemo sempre."
"Non ci dovete nessuna riconoscenza. Abbiamo fatto ciò che tutti
avrebbero fatto."
"Ma noi siamo un altro popolo!"
"Un altro popolo, è vero; ma un giorno cacceremo tutti insieme nelle terre
del Gran Padre; perciò siete nostri fratelli."
"Comunque, non avevate il dovere di proteggerci."
"Quando il Gran Padre ci chiederà: Perché non hai aiutato tuo fratello?
non potremmo risponderGli: perché era bianco, o nero, o giallo. Perché il Gran
Padre non guarda alla pelle, ma al cuore; e tutti i cuori sono uguali."
"Grazie, Pao."
Ora camminavano in silenzio.
Eran felici, ma stanchi. Isa era vicino a "Fior di granturco".
"Ora" disse Paul "la grande caccia è finita. Da oggi ritorni fra la tua gente.
Starai con me, sempre."
Isa stava per rispondere, quando un grido disumano, selvaggio si
ripercosse giù per la collina.
"Paul!... Paul!... Paul!..."
"Fior di granturco" si precipitò in avanti, seguito dai suoi amici. Una
donna correva, urlava il suo nome.
Scarmigliata, lacera, sembrava non toccare terra, tant'era la sua foga
disperata.
I conducenti avevano fermato i carri; tutti erano fissi a guardarla, incapaci
di fermarla, di aiutarla. Il suo viso era l'incarnazione del terrore.
"È la madre di Filippo" disse Isa mentre le correva incontro.
La donna, come vide Paul, gli si gettò addosso stringendolo
convulsamente; poi s'accasciò in terra, affranta.
"Paul!:.. Paul..." ansimò. Non riusciva a dir altro.
"Calmati. Prendi fiato. Siedi, siedi qua."
"No, no!... svelto, svelto... Si, si, anche tu; tu il cafro..."
"Cos'è accaduto?"
"Filippo... l'hanno preso... I demoni, si, proprio loro."
"Calmati" disse Paul "spiegami cosa è accaduto."
Ma la donna non riusciva a riprendersi.
Ad un cenno di Pao, Hoomai ed Isa la immobilizzarono e il Boscimano le
fece bere un lungo sorso d'infuso.
"Donna," disse poi, "ascolta: noi andremo a cercare il ragazzo che saltella.
Egli è l'amico di mio figlio. Lo ritroveremo, dovessimo frugare ogni angolo
della foresta. Ma tu devi aiutarci. I sentieri sono molti e molti sono i guerrieri
che li percorrono. Dimmi: come era colui che ha rapito tuo figlio?"
"Io... io..."
La donna fissava attonita ora Pao, ora "Fior di granturco", ora Pretorius,
ora gli altri che le si eran fatti d'attorno. Ma non riusciva a parlare.
"Fatti animo" disse Pretorius "siamo pronti ad aiutarti. Ma devi dirci cosa
è accaduto."
"Lo avranno ucciso a quest'ora! Lo avranno ucciso."
"Se volevano ucciderlo lo avrebbero fatto subito" l'interruppe Paul.
"Senti, Tina, portaci sul luogo ove lo hanno rapito. Forse capiremo qualcosa."
"Si, si; hai ragione. È là, sulla collina... Eravamo là con suo padre quando
ci son saltati addosso."
"In quanti?"
"Non lo so. M'hanno colpito con qualcosa. Cosi mio marito. Gridavano da
parer demoni. Quando ho ripreso conoscenza essi non c'erano più. Neppure
Filippo. Solo mio marito era ancora accanto a me. Morto... Tu lo ritroverai
Filippo, no? Tu gli volevi bene, vero ?"
"Lo ritroverò."
Il padre di Filippo giaceva sul terreno trafitto da dodici colpi di zagaglia.
"Swazi" mormorò Isa dopo aver osservato le ferite, "Swazi."
"Cani d'infedeli!" ruggí Paul.
"È la tua gente, cafro!" sibilò George.
Isa abbassò il capo. Tutt'intorno la gente mormorava. E additavano lui,
come se lui fosse il colpevole.
"Molti uomini" disse Pao ad Isa.
"Si, in molti hanno assalito il mio amico."
C'era, nella sua voce, una nota profonda di dolore.
"In ogni popolo, presso ogni villaggio" disse Pao comprendendo il suo
tormento "c'è l'uomo buono e l'uomo cattivo. Cosí fra i Swazi. Troveremo i
cattivi. Vieni."
Rivolgendosi ad Hoomai, ordinò:
"Chiama gli uomini validi del tuo gruppo. Batteremo i sentieri. Hanno
offeso mio figlio!"
"Grazie, Pao" disse "Fior di granturco" "contavo sul tuo valido aiuto. Chi
viene?" gridò rivolgendosi ai suoi compagni.
Un centinaio di cavalieri si fecero avanti.
"George!" chiamò Pretorius, "accampati in una di queste vallate. Se fra
sei giorni non ci vedrai tornare, spingiti ancora avanti fino a trovare un luogo
adatto per costruire il nuovo villaggio.
"Tra voi" disse poi rivolgendosi ai cavalieri "chiunque ha famiglia ritorni
indietro. Gli altri, avanti!"
"Le tracce son chiare" disse Pao a Pretorius. "Ecco i segni di Isa. È
passato di qui all'alba."
Pretorius era pieno di ammirazione verso quei piccoli uomini che
leggevano sui tronchi, nei cespugli, sul muschio, come su d'un libro. Da due
giorni inseguivano i rapitori di Filippo; e mai erano dovuti ritornare sui loro
passi. I Boscimani non sbagliavano pista.
Isa e Paul erano avanti. Volevano avvicinarsi da soli al gruppo dei rapitori
per liberare il loro amico, se fosse stato loro possibile, prima che i Swazi si
accorgessero della presenza dei loro compagni.
"Eccoli" sussurrò Isa.
"Dove?" domandò Paul.
"Là, nella radura."
"Vedi Filippo?"
"No."
S'avvicinarono cautamente.
Una quarantina di guerrieri sedevano, silenziosi, in cerchio.
"Siamo vicini al villaggio," mormorò Isa; "perché si sono fermati?"
"Li riconosci?"
"Si. Son quasi tutti miei compagni di giochi. Ma non capisco perché si
son fermati."
"C'è anche Mései?"
"Non lo vedo."
"Avrei giurato che il colpo era suo."
"È suo. Nessun altro aveva interesse di prendere Filippo."
"Sapeva che era tuo amico?"
Isa non potè rispondere.
Una zagaglia si piantò, vibrando, nel tronco ad un palmo dalla sua testa.
Si voltò di scatto.
Un guerriero era ad una decina di passi da lui.
Fulmineamente incoccò una freccia e tirò. L'uomo cadde con un grido.
"Fuggi, 'Fior di granturco'."
"Sei matto? Non ti lascio."
"Fuggi ti dico. È una trappola. Avvisa gli altri. Il villaggio è laggiù. Pao lo
sa. Svelto!"
I guerrieri si avvicinavano urlando.
Paul fece appena in tempo a scomparire fra i cespugli vicini, che uno
gridò:
"L' 'orzowei'!"
La freccia gli mozzò il grido a metà.
Gli altri si sparpagliarono; cinque volte Isa tirò e per cinque volte un
uomo cadde.
Il cerchio però si andava restringendo.
Isa tirò ancora; con un urlo gli altri gli balzarono addosso.
Si difese con i denti, i pugni, i calci; ma alla fine si trovò legato, pesto e
sanguinante.
"L"orzowei' è tornato" esclamò uno.
"E la scorta d'onore lo accompagna" beffeggiò un secondo.
Fu spinto avanti.
Cosí, in mezzo ai guerrieri urlanti di gioia e fra le grida di scherno e gli
insulti, rientrò al villaggio.
Fu trascinato fin presso l'albero sacro.
Vicino al colossale baobab era stato eretto un palo. La testa di un enorme
pitone vi era stata rozzamente scolpita sull'estremità. Al palo vi era Filippo. Isa
fu legato spalla a spalla con il suo amico.
"Ciao," disse.
"Oh, Isa! Cosa ci faranno?"
"Niente. Non ti preoccupare. Come ti senti?"
"Con te vicino non ho più paura."
"Bene. Ricordati che sei un guerriero. Ed un guerriero non si lamenta."
"Mia madre?"
"T'aspetta. 'Fior di granturco' e Pao sono qui."
Filippo si sentí sollevato.
Le donne e i ragazzi s'erano avvicinati a loro e li beffeggiavano. I
guerrieri s'erano seduti in cerchio.
"Cosa fanno?"
"Attendono."
Ad un tratto tutti tacquero e la folla si mosse aprendo un ampio varco.
Mései avanzava.
Sul suo capo ondeggiavano le penne di struzzo trattenute da un largo
cerchio d'oro. Il segno del comando. Egli era il capo.
Si fermò davanti ad Isa.
"Ora non c'è più il corpo di un pitone tra noi" sibilò "e l' 'orzowei' è
ritornato al villaggio. Mi sbaglio o gli era stato detto che se lo avesse fatto
sarebbe morto?"
Isa non rispose. Non lo guardò neppure.
"I miei uomini t'hanno preso mentre percorrevi il nostro sentiero. Perché
venivi?... È forse diventato muto l' 'orzowei' che non risponde? O è tanta la sua
paura che non riesce a parlare?... Hai combattuto con i guerrieri bianchi contro
Dingaan, è vero?... Lo sai che ciò è tradimento?... Ma già, dimenticavo che sei
un povero 'orzowei', e perciò non hai né tribù, né onore. Chi può accusarti di
tradimento? Bisognerebbe prima sapere da chi sei nato. Chi sei tu, in fondo?..."
Isa guardava innanzi a sé, al di sopra delle piume di Mései.
"Rispondi: perché sei venuto?"
Un guerriero si alzò e puntò la zagaglia contro il suo petto.
"Rispondi al grande capo" ordinò.
Per tutta risposta Isa sputò ai piedi di Mései.
La punta della zagaglia gli penetrò in un fianco.
Non emise un gemito. Sorrise soltanto, con disprezzo.
Un mormorio di approvazione serpeggiò tra i guerrieri. Mései comprese
che non era il caso di continuare. Avrebbe ottenuto l'effetto contrario.
"Fermati" ordinò "non dobbiamo ucciderlo ora. Piuttosto, dobbiamo
parlare con il ragazzo bianco. Stuzzicalo con la tua zagaglia e chiedigli perché
la sua gente vuole le terre Bantù."
L'uomo sogghignò e si volse verso Filippo.
Isa senti il suo amico reprimere con uno sforzo l'urlo di dolore che gli era
venuto spontaneo alle labbra.
"Basta, Mései!" gridò. "Lascia libero il ragazzo bianco ed io parlerò."
"Cosa vuoi dire?"
"Lascia libero il ragazzo."
"Egli è mio prigioniero, come te. Troppo tempo ho dovuto reprimere il
desiderio di vendetta. Troppo tempo per accontentarmi ora di poca cosa.
Ucciderti sarebbe niente. Ti devo vedere prima spasimare. E ho un solo mezzo:
il tuo amico. Mi guardi, eh? Capisci dove voglio arrivare, vero? Si, è cosí. Mi
servirò di lui per spezzarti il cuore, prima che la zagaglia te lo fermi per sempre.
Mio padre fu ucciso per colpa tua dal gran capo. Per colpa tua io ritardai la mia
prova. Lo spirito di mio padre chiede vendetta. Se tu avessi avuto una famiglia
l'avrei distrutta. Ma tu sei un 'orzowei'! Come farti soffrire? Hai trovato un
amico. Uno zoppo... Non sai con quanta gioia t'ho visto insegnargli a tirar
d'arco. Ebbene: prima lui, poi te. Dopo che il tuo cuore sanguinerà per il
dolore."
"Una volta salvai la tua vita. Libera il ragazzo in ricordo di quel giorno."
"No. La vendetta non sarebbe completa e lo spirito di mio padre
vagherebbe inconsolato per sempre."
"Dov'è il tuo onore, Mései? Dov'è la legge?"
"La legge sono io, ed il nome di Mései è puro! Siete miei prigionieri, e tu
sai che i prigionieri mi appartengono."
"È il Consiglio che decide."
"Il Consiglio ha già deciso!"
Isa osservò gli uomini che gli erano attorno. Li guardò negli occhi uno ad
uno. Non voleva parlare. Sapeva che sarebbe stato considerato un vigliacco se
avesse implorato misericordia. Ma doveva salvare il suo amico.
"Ho vissuto con voi; vi conosco tutti" disse lentamente. "E voi tutti
conoscete me, l' 'orzowei'. Sapete che la mia mano non trema ed il mio cuore
non conosce paura. Sapete anche che ero fiero di dirmi Swazi. E lo sarei tuttora,
se tra le 'Antilopi della foresta' non vi fossero degli sciacalli venduti al Gran Re.
Ma a voi, guerrieri, io chiedo: È giusto uccidere un ragazzo? È giusto uccidere
chi non ci ha fatto nulla? E, soprattutto, è giusto uccidere? Un ragazzo zoppo è
come una donna. Sareste voi capaci di uccidere una donna? Io sono qui; so che
molti di voi son felici di vedermi legato al palo. Ebbene, io son pronto. Ma
liberate lo zoppo."
Attese. Ma nessuno rispose al suo appello.
"E se io dessi per la sua vita la certezza di salvare la vostra, accettereste il
patto?"
"Perché?" chiese un anziano alzandosi. "Chi ci minaccia?"
"Liberate il ragazzo ed io parlerò."
"La tua lingua dice cose che non sono. È un inganno."
"Lo vedrete fra poco, se lo è!"
"Sappiamo che ci sono i tuoi amici qui intorno," disse Mései, "ma
facciamo buona guardia. Essi non ci spaventano."
Isa non parlò più.
Aveva fatto quanto gli era stato possibile per salvare il suo amico; ora
toccava a "Fior di granturco".
Il guaio era che Mései sapeva; e se conosceva esattamente le forze dei
suoi compagni, non c'era nulla da sperare.
Le donne si alzarono. Vennero attorno al palo ed iniziarono la danza del
fiore stroncato.
Quando esse si sarebbero stancate, avrebbero preso il loro posto i
guerrieri, ed allora sarebbe stata la fine.
"Filippo" mormorò Isa "credi che nelle foreste del Gran Padre si possano
usare le stampelle?"
"Perché me lo chiedi?"
"Cosí."
"Non occorreranno le stampelle, credo."
"Perché?"
"Perché in Paradiso va l'anima, e quella non è zoppa."
"Ne sei certo?"
"Padre Agostino diceva cosi."
"Padre Agostino?!"
"Si, il sacerdote."
"Son contento, allora. Cacceremo insieme."
Le donne si allontanarono.
c1 ruppi di armati con lance, scudi e zagaglie, seguivano un capo che,
camminando a ritroso, fischiettava un'aria bellicosa su di uno zufolo e
percuoteva due piccoli tamburi appesi alla sua cintura. Girarono intorno al palo
lentamente. Man mano il canto si trasformò in grida, le armi vennero agitate e i
guerrieri spiccarono salti prodigiosi mentre simulavano l'agguato, l'assalto
all'odiato nemico, il corpo a corpo furioso.
La danza della morte stava raggiungendo il parossismo. Fra poco sarebbe
finita per i due ragazzi. Ma un urlo l'interruppe.
Il ruggito della belva ferita che si lancia all'assalto soverchiò ogni altro
rumore. Si voltarono tutti verso Mései.
L'urlo si ripetè nuovamente e un uomo correndo s'avvicinò al capo.
"I bianchi avanzano verso il villaggio!" ansimò.
"Dove sono?"
"Al 'roccione'."
"Presto" ordinò Mései. "Mungoi guida il tuo gruppo. Devi fermarli. E tu,
Carantum, aggira i bianchi dalla parte del grande ceppo."
Rifletté un poco, poi disse:
"Il gruppo di Hangunei si porti alle spalle del villaggio; voi, con me."
"I prigionieri?"
"Penseremo a loro, dopo. Voi," disse rivolgendosi ad una decina di
guerrieri, "li guarderete da vicino."
S'allontanò seguito dalla sua schiera. Gli altri gruppi eran già scomparsi,
silenziosamente, nella foresta.
"Cosa accade, Isa?" chiese Filippo.
'Fior di granturco' è arrivato. Ora sentirai il suo fucile."
" Riusciranno ? "
"Non so. Mései è un bravo guerriero. E conosce molto bene questi
luoghi." "C'è anche Pao, no?"
"Si, c'è anche Pao."
" Allora riusciranno. "
"Forse."
Passò lungo tempo senza che si udisse il minimo rumore. Pareva che la
foresta fosse disabitata.
"Cosa aspettano? Perché Paul non attacca?" chiese Filippo.
" 'Fior di granturco' non ha ancora visto i suoi nemici. Ecco perché. E
quando li vedrà, sarà troppo tardi."
Si levò un urlo possente, terribile dalla parte del "roccione". I Swazi
attaccavano.
All'urlo rispose una scarica di fucileria e un'altra, un'altra ancora.
Ma il grido di guerra delle "Antilopi della foresta" risuonava sempre più
forte.
Ci furono delle pause, poi il fuoco riprese più fitto, ma lontano.
"Indietreggiano" mormorò Isa.
Le grida si fecero sempre più confuse, lontane.
Un nuovo urlo di battaglia, e un secondo gruppo di Swazi attaccò i
bianchi. Nello stesso istante s'udí il grido degli uomini di Pretorius che si
lanciavano contro l'orda al galoppo.
I bianchi riguadagnavano terreno. La battaglia si avvicinava al villaggio.
Poi qualcosa dovette accadere, perché Isa udí un nuovo urlo dei Swazi e
gli spari si spostarono oltre il "roccione". Mései doveva averli circondati. Il
fuoco era violento, continuo. Per oltre un'ora la battaglia infuriò con sorti
alterne; ora spostandosi verso il villaggio, ora verso il "roccione" indicando con
ciò il momentaneo sopravvalere dei bianchi o dei neri.
I guerrieri di guardia ai ragazzi, che avevano dapprima seguito con ansia
le grida di battaglia, ora si erano sdraiati tranquillamente in terra e
chiacchieravano di granturco e di mais, di giovenche e di bufali.
La risata sghignazzante della iena interruppe i loro placidi discorsi.
Isa si tese tutto nello sforzo di spezzare le liane che lo tenevano avvinto.
Pao attaccava il lato sinistro del villaggio sguarnito di forze.
Isa rispose al richiamo e subito gli fece eco il grido particolare di Pao.
Egli aveva udito.
Un guerriero, avvicinatosi a Isa, lo colpi con un pugno.
"Impara a tenere la bocca chiusa, 'orzowei'!"
Poi, con gli altri, si slanciò verso il luogo ove i Boscimani avanzavano.
Anche il gruppo di Hangunei corse verso loro per fermarli. Ma i
Boscimani sorgevano come per incanto da ogni avvallamento del terreno e si
spingevano innanzi.
Un Swazi s'allontanò di corsa nella direzione opposta. Le frecce dei
piccoli uomini cercarono di fermarlo, ma egli ben meritava il titolo di "agile
gazzella". In breve scomparve in direzione dei compagni che combattevano
contro i bianchi.
Poco dopo Mései, con la maggior parte dei suoi uomini, si scagliò urlando
contro i Boscimani.
Ma "Fior di granturco" non avanzava; anzi, il fuoco si era intensificato
come se si stesse svolgendo una grande battaglia.
Mései aveva lasciato una ventina di guerrieri col compito di trattenere i
bianchi, ingannandoli sul numero degli avversari che erano loro di fronte.
L'inganno stava riuscendo. I bianchi non si muovevano e Pao era
costretto, di fronte al numero soverchiarne, a retrocedere.
Ma fu "Fior di granturco" a salvare la situazione.
Quando vide che i Swazi, pur numerosi — cosí lui credeva — non
contrattaccavano, saltò a cavallo e, seguito dai compagni, caricò.
L'urlo giunse inatteso a Mései e gli fece comprendere che la situazione
andava capovolgendosi. Fra poco sarebbe stato lui il circondato e non avrebbe
potuto tener testa ai bianchi e ai Boscimani contemporaneamente. Cosí diede
l'ordine di ritirarsi. Lasciò un grosso gruppo a tener a bada Pao e ne inviò un
altro a fronteggiare i bianchi.
Egli si sarebbe riparato nella foresta e lí avrebbe dato battaglia. Avrebbe
portato con sé i prigionieri e al momento opportuno li avrebbe sacrificati allo
spirito di suo padre. Mentre passava dinanzi a loro li fece slegare e trascinar
dietro di sé.
tava per inoltrarsi fra le basse, scure macchie, con il nerbo più numeroso
dei suoi guerrieri, quando una scarica di fucileria li fermò.
I bianchi avevano sbarrato il passaggio.
"Tenete loro testa!" gridò. "Non debbono passare."
retorius aveva avuto l'idea di bloccare con pochi uomini i punti strategici
dominanti il villaggio.
"Bisogna aprirsi un varco ad ogni costo!" comandò Mései.
"Abbiamo i prigionieri" disse un vecchio Ring-kop.
"Hai ragione." Mései sorrise sarcasticamente. "Chiama allora anche gli
altri. Tutti all'albero sacro!"
Isa e Filippo furono trascinati fino ai piedi del colossale baobab. Tutto il
villaggio vi si raccolse.
La battaglia cessò.
"Chi comanda i bianchi?" gridò allora un Swazi staccandosi dal gruppo.
Paul si fece avanti. Apparve al limite della radura. Dietro di lui una
cinquantina di cavalieri eran pronti a caricare.
Dal lato opposto, sbucò Pretorius con il suo gruppo. Pao era già vicino
alle capanne del villaggio.
"Ebbene" disse il guerriero "il mio capo ha deciso: salverà il ragazzo che
saltella, purché voi ve ne andiate."
"Deve liberare anche Isa" rispose "Fior di granturco ".
Il guerriero si voltò verso Mései. Questi si fece avanti.
"I guerrieri bianchi son venuti a far guerra al nostro villaggio per liberare
il ragazzo senza una gamba. Se loro promettono di andar via senza dar battaglia,
noi libereremo il ragazzo."
"Vogliamo anche Isa" ripetè "Fior di granturco".
"Egli" sorrise Mései "è del nostro villaggio. Perché volete condurlo via?"
"Non scherzare, Mései. Libera i ragazzi e noi ce ne andremo."
"Libererò solo il ragazzo zoppo. L' 'orzowei', no."
"Accetta il patto, 'Fior di granturco' " gridò Isa. "Accetta, libera Filippo."
"Ti ripeto, Mései. Rilascia entrambi i ragazzi, o caricheremo."
"Un solo movimento, uomo bianco, e le zagaglie trafiggeranno i tuoi
amici."
"Mései" disse un Ring-kop avvicinandoglisi "liberiamo i prigionieri. Non
possiamo resistere ad un nuovo attacco. Hai visto tu stesso che stavamo per
essere sopraffatti! "
"Nessuno ha chiesto il tuo parere, vecchio."
"Possiamo salvare il villaggio."
"Io non voglio perdere la mia preda."
"Ma noi non vogliamo che i nostri tucul siano distrutti" esclamò un altro
guerriero. "Che importa a noi se l' 'orzowei' vive o muore?"
"Vi ribellate al vostro capo?" disse Mései minacciosamente.
"Non è ribellione la nostra. Vogliamo soltanto essere ascoltati. È nostro
diritto!"
La pesante lancia di Mései penetrò tutta nel petto dell'uomo che aveva
parlato per ultimo.
"Questa sarà la fine di tutti coloro che non rispetteranno i miei ordini"
gridò rivolto agli altri.
I guerrieri annuirono.
"Allora, cosa hai deciso Mései?" chiese Paul.
"Hai tu cambiato opinione?"
"No."
"Le nostre zagaglie faranno uno scempio dei tuoi amici."
"Guardati intorno, gran capo" disse Pao indicando gli alberi vicini. "Su
ogni ramo v'è un guerriero pronto a colpire. Altri guerrieri son pronti ad
incendiare le tue capanne. E gli uomini bianchi vi pesteranno sotto gli zoccoli
dei loro cavalli. Non un uomo uscirà salvo da questa battaglia. Pensaci."
I Swazi mormorarono.
Conoscevano bene il piccolo popolo. Ed avevano imparato a conoscere
anche il piombo dei fucili.
Mései comprese che i suoi uomini non lo avrebbero seguito in una azione
disperata.
Allora giocò d'astuzia.
"Bene" disse rivolto a Paul "lascerò i prigionieri a due condizioni: che voi
vi allontaniate di mille passi e che l' 'orzowei' si incontri a duello con me."
"Chi ci darà l'assicurazione che i patti verranno mantenuti?" chiese
Pretorius.
"Puoi rimanere tu stesso" rispose Mései "tu e alcuni dei tuoi uomini."
"Perché Isa dovrebbe misurarsi in combattimento con te?" domandò Paul.
"Tra me e l' 'orzowei' c'è un vecchio fatto di sangue. Se tu stimi il tuo
amico tanto da rischiare la vita per liberarlo, perché dubiti che lui non sia
capace di battersi?"
"Accetta il patto, 'Fior di granturco' " gridò Isa.
"Ma tu sei ferito!"
"Non importa. Accetta, o i Swazi ci crederanno dei vigliacchi."
"Allora, d'accordo?" chiese Mései.
"D'accordo."
"Ritornate indietro, oltre i grandi alberi."
"Ma son più di mille passi!"
"Oltre i grandi alberi, ho detto."
I cavalieri si allontanarono. Rimasero Pretorius e Paul e dieci uomini; Pao
ed Hoomai.
"Sciogliete i prigionieri" ordinò Mései.
Sorrideva soddisfatto. Egli avrebbe avuto la sua vendetta.
Aveva architettato un piano perfetto. I bianchi erano caduti nel tranello. E
con loro, anche i suoi guerrieri.
I Swazi fecero un gran cerchio. Filippo rimase, in mezzo a due uomini,
vicino al baobab.
Pretorius e i compagni erano sul margine della radura.
Quando i guerrieri, mandati a vedere se le condizioni imposte erano state
rispettate, ritornarono, Mései diede una zagaglia ad Isa e gli restituí il coltello.
"Avanti, 'orzowei' " mormorò "è la nostra ora."
"Già" ripetè Isa "è la nostra ora."
Si allontanarono quanto bastava per lanciare la zagaglia, e attaccarono. Le
due lance sibilarono vicinissime ai loro corpi; ma non avevano ancora toccato
terra che già i due uomini si erano gettati uno contro l'altro.
Lo scontro fu violento. Erano entrambi abili guerrieri.
Saltavano da un lato all'altro rapidamente, schivando i colpi e cercando di
inferirne.
Ogni tanto un corpo si rigava di rosso, ma non per questo la lotta perdeva
in vivacità e violenza. Anzi!...
Mései si avvicinava sempre più all'albero sacro, mentre Isa lo incalzava
con vigore.
Quando fu a pochi passi dall'albero, con una stoccata improvvisa colpí Isa
sul volto. Il colpo forte fece barcollare il ragazzo.
Ma il negro non gli si gettò addosso. Indietreggiando senza voltare le
spalle all'avversario s'avvicinò a Filippo. Isa capí.
Immediatamente chiaro gli apparve il progetto di Mései. Colpire Filippo,
poi lui. I bianchi avrebbero sparato e tutta la tribù si sarebbe lanciata contro di
essi. E gli altri erano troppo lontani per giungere in tempo e quando sarebbero
giunti avrebbero trovato i negri, rianimati dalla vittoria, pronti a massacrarli.
Il piano era astuto. Mései non si era potuto imporre alla tribù; ma aveva
fatto in modo che la tribù stessa agisse, per necessità di cose, come lui voleva.
Isa scattò in avanti. Con un balzo, si avvinghiò a Mései e lo trascinò nella
caduta.
La lama avversaria gli penetrò in un fianco. Con un gemito s'abbattè al
suolo. Mései fece per colpirlo nuovamente, quando una freccia lo fermò.
Barcollò, annaspò nell'aria, cadde, mentre ancora sghignazzava
soddisfatto.
I Swazi balzarono in piedi urlando.
La scarica di fucileria s'incrociò con le loro zagaglie. La battaglia si
riaccese subito violenta, e già i neri stavano per avere il sopravvento quando il
grido dei cavalieri lanciati ventre a terra li fece sbandare. Cercarono allora
rifugio nelle capanne, ma i bianchi li assalirono ovunque.
Lotta dura, selvaggia, disperata.
Pao, raggiunto Isa, si curvò su di lui. La ferita non era molto grave. Il
ragazzo ne aveva avute di peggiori.
"Svelto, Hoomai. Le erbe."
Filippo gli era vicino. Guardava Isa e piangeva.
Intanto la battaglia infuriava terribile. "Fior di granturco" guidava gli
uomini all'assalto. Credeva Isa morto e la sete di vendetta spegneva in lui ogni
pietà.
Isa riapri gli occhi, mentre Pao lo stava ancora medicando.
"Filippo?" chiese.
"Son qui." Il ragazzo non riusciva a parlare, tanta era la sua commozione.
"Dammi la mano."
Se la strinsero.
"Grazie, Pao" mormorò Isa rivolgendosi al Boscimano "per la seconda
volta ti debbo la vita."
"Me la rioffrirai, se vuoi" sorrise Pao "ma ora stai tranquillo."
"E 'Fior di granturco'?"
"È là che combatte."
"Ancora?! Ma Mései non è morto?"
"Mései è morto, ma la battaglia continua lo stesso."
"Perché?" chiese Isa alzandosi. "Perché? Hanno liberato Filippo; chi li
guidava è morto; perché combattere ancora?"
"Gli uomini bianchi sono assetati di vendetta. Combattono per te; per
vendicarti."
"Per me?!"
"Si, per te. Sei della loro gente, Isa. E non tollerano che uno di loro venga
ucciso. Essi ti credono morto."
Isa osservò i combattenti.
I Swazi si difendevano disperatamente dal furore bestiale dei bianchi.
Nessuno veniva risparmiato. Le donne, stretti i loro piccoli fra le braccia,
urlavano disperate nelle capanne.
Poi un bianco accese una torcia e il primo tucul prese fuoco.
Ne uscirono delle donne come pazze, ma i cavalieri che
sopraggiungevano allora, le travolsero. E con esse, i piccoli.
"Fermali, Pao. Fermali!" urlò Isa.
"Chi può arrestare degli uomini spinti dall'odio? Nessuna forza lo può,
Isa."
Ma Isa non l'ascoltava più. Correndo, si portò nel centro della mischia. Fu
colpito; cadde; si rialzò. E gridò.
Quando i combattenti lo videro cosí, sanguinante, dritto verso il cielo, con
le braccia alzate, si fermarono.
"Basta!" esclamò l' "orzowei" "basta! Perché continuare ancora?"
Il pianto gli mozzò le parole.
Voleva gridare; dire a tutti ciò che sentiva entro di sé. Ma non riusciva.
"Capitevi!" gridò con un singulto. "Capitevi!"
E cadde bocconi in terra. Nessuno si mosse.
Solo Paul si chinò su di lui.
"Abbassate le armi" ordinò Pretorius rivolto ai suoi uomini; "il ragazzo ha
ragione. Chi guidava l'orda per soddisfare la sua vendetta, è morto.
Risparmiamo gli altri. Essi non hanno colpa."
"È cosí" disse Pao.
Era apparso improvvisamente. Nessuno lo aveva veduto.
Ora dritto, stagliato nitidamente dal fuoco che bruciava le capanne dietro
le sue spalle, pareva staccarsi da terra.
Dava a tutti la stessa impressione che Isa aveva provato quando, per la
prima volta, l'aveva veduto pregare. Anche allora le fiamme ed il fumo davano
la sensazione che egli fosse sospeso nell'aria, alto, altissimo; dominatore.
"Egli ha ragione" disse lentamente. "È stato chiamato 'orzowei': un
trovato. Forse è un Swazi, o un bianco, o uno del piccolo popolo. È tutti e tre, o
forse nessuno dei tre. Eppure io ho visto: Boscimani, negri, bianchi sono stati
capaci di amarlo e di sacrificarsi per lui quando lo hanno conosciuto. Ed egli ha
amato tutti. Ecco: quando ci conosciamo, anche se la nostra pelle è di un altro
colore, ci amiamo.
Capitevi; ha detto. Già, comprendiamoci. Il Gran Padre ha parlato
attraverso lui. Il ragazzo non ha saputo dir altro. Ma ha detto tutto. Solo se ci
comprenderemo a vicenda, solo se guarderemo al cuore, e non al colore della
pelle che quel cuore ricopre, solo allora potremo vivere insieme, felici. Se no...
se no sarà la fine di tutti."
CAPITOLO XVII
Ai piedi delle verdi colline un nuovo villaggio era sorto. Un villaggio di
pietra: l'embrione di una nuova città.
Una mattina, all'alba, tre uomini lo raggiunsero. D'un tratto un giovanetto
sbarrò loro il cammino. Dava ad essi le spalle; ma il più giovane dei tre gridò
un nome.
"Filippo!"
"Isa!"
Si strinsero tutti in un affettuoso abbraccio.
"È questa!" disse poi indicando una piccola casa tutta bianca.
"La nostra casa" mormorò Isa stringendosi ai due uomini che gli erano al
fianco.
"Già, la nostra casa!" ripetè "Fior di granturco".
"Non vedi nulla?" chiese il terzo uomo ad Isa.
"Nulla, Pao."
"Osserva: due ombre son sulla soglia."
"Si, è vero."
"Li riconosci?"
"Si. Sono Amebais ed il vecchio Ring-kop."
"E sai perché sono venuti?"
"Si. Lo so. Perché anche loro vivranno con noi, per sempre."
"Allora entriamo. La nostra è una piccola casa, ma... "
"... i suoi abitanti sono uomini in gamba! " soggiunse sorridendo Paul.
Entrarono tutti e quattro, stretti per mano, nella grande capanna di pietra,
tempio del loro amore.
SCHEDA DI LETTURA RAGIONATA
Autore: Alberto Manzi
Titolo: Orzowei
Luogo di edizione: Milano
Casa editrice: Valentino Bompiani
Data di edizione: I edizione 1961, I edizione scolastica 1969
Collana: Narratori moderni per la Scuola
Luogo dell'azione: Sud Africa, La tribù Swazi, cioè di negri Bantù, Il
territorio dei Boscimani, Una città boera
Epoca: intorno al 1830
Personaggi principali:
Isa, chiamato Orzowei, il ragazzo "trovato" perché è un bianco cresciuto
tra i Bantù.
Pao, l'anziano boscimane che lo adotta come un figlio.
Paul von Hunsk, l'uomo bianco che Isa chiama "Fiore di granturco" per i
suoi capelli biondi, che lo accoglie con affetto paterno.
Anna, la madre di Irghin una fanciulla che Isa aveva salvato dal cobra.
Filippo, il ragazzo bianco, privo di una gamba, amputata in seguito al
morso di un serpente. Fra lui e Isa si stringe un'amicizia, protettiva da parte di
Isa, piena di ammirazione da parte di Filippo.
ARGOMENTO
È la storia di un ragazzo bianco, Isa-Orzowei, cresciuto in una tribù
sudafricana, dove però tutti lo odiano, come un intruso.
La storia comincia con la sua iniziazione, un rito complesso che sancisce
il passaggio di un giovanetto dall'infanzia alla maturità. Se la prova fallisce, è la
morte; se viene superata, il ragazzo viene considerato adulto a tutti gli effetti.
Ma questo diritto verrà negato al trovatello bianco, facendolo sentire ancora più
isolato, in un mondo ostile.
Dopo un duro periodo passato da solo nelle insidie della foresta, braccato
dagli uomini della tribù nella quale è cresciuto, Isa trova rifugio, affetto e cure
fra i Boscimani. L'anziano Pao lo adotta come un figlio, ma dopo tre anni lo
spinge a tornare tra la sua gente, fra i bianchi. Fra questi, Isa "sceglie" Paulus
von Hunsk, un uomo biondo, coraggioso che lo accoglie con schiettezza e
affetto. Ma Isa è un intruso fra la gente della sua razza, tanto quanto lo è stato
fra i Bantù. Come i neri lo odiavano perché bianco, i bianchi lo disprezzano
perché selvaggio.
La storia personale di Isa si intreccia alle guerre fra Boeri e Boscimani e
fra Zulù e Bantù. Attratto e respinto da tre razze, Isa sente di appartenere a tutte
e tre e si prodiga per arginare la lotta.
Linee tematiche
— Il passaggio dall'infanzia all'età adulta.
— Per un ragazzo inserito nella nostra civiltà si può porre un problema di
sopravvivenza, anche se non deve difendersi da serpenti, leopardi o lotte fra
tribù rivali?
— Il razzismo.
— Il colonialismo e i rapporti fra i colonizzatori e la società indigena.
Che cosa significa essere civili e che cosa significa essere primitivi o
selvaggi.
Spunti per ricerche e argomenti per discussioni
— La situazione politica oggi in Sudafrica, e negli altri stati africani.
— La guerra fra inglesi e boeri.
Le miniere di diamanti in Africa.
ATTIVITÀ
— Ricerca di fotografie di Bantù, Zulù, Boscimani, individuazione delle
zone in cui abitano, ricerca sugli usi e costumi che regolano la loro vita.
L'arte africana.
Bibliografia dell'autore
Grogh, storia di un castoro (1950)
Orzowei (1956)
Testa rossa (1957)
Enciclopedia monografica Vedere e Capire (La natura e la vita)
Opere che si richiamano ai temi di questo libro
Per la fauna africana
Il leone di Kessel, Milano, Bompiani 1971
Nata libera di Adamson, Milano, Bompiani 1967
Popoli primitivi oggi di Weyer, Milano, Bompiani 1966
Congo Kitabu di Hallet, Milano, Bompiani 1967
Per certi aspetti umani di convivenza tra razze diverse
I quattro piccoli amici andini (Premio Sanguinetto) di Garavini, Milano,
Bompiani 1968.