il massaro

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Il massaro, affascinante figura della civiltà contadina
La civiltà contadina, madre generosa della nostra opulenta età contemporanea, ha senz’altro il merito
di aver generato una serie di innumerevoli personaggi che nel bene e nel male hanno fatto la storia
dell’uomo. Uno di questi personaggi sicuramente è il massaro, una figura complessa e affascinante
insieme, che ha signoreggiato nel mondo rurale dai tempi del feudalesimo fino ai nostri giorni e che oggi è
stato superato, diremmo sorpassato, dalla modernità.
Ma chi è il “massaro”? Etimologicamente deriva dal latino “massarius”, termine che, chiaramente, si
riferisce a “mansus”, manso, unità agricola dell’ “economia curtense”, il sistema produttivo agrario
imperante nell’Alto Medioevo, indicante un piccolo possedimento feudale, normalmente di 12 iugeri,
sufficientemente grande da nutrire e soddisfare i bisogni di una famiglia. Perciò, originariamente
“massaro” era un contadino responsabile di un “manso”.
Il massaro, però, ha avuto una storia tutta sua, caratterizzata da una variabilità di funzioni e di ruoli
caratteristici dei tempi che man mano mutavano, tanto è vero che al tempo dei Comuni, “massaro” era il
titolo che assumeva colui che era preposto alla riscossione delle imposte, un economo dei nostri tempi. Il
suo maggiore peso il massaro lo ha avuto con la nascita e lo sviluppo della “masseria”, un prodotto
tipicamente meridionale (al nord ebbe vita la cosiddetta “cascina”), che ha rappresentato per il Sud per
parecchi secoli un fenomeno di capitale importanza sia dal punto di vista economico che da quello
culturale e sociale.
La masseria è il frutto e, nello stesso tempo, l’esempio della “colonizzazione” baronale di vaste aree
interne del Sud, abbandonate ed incolte, negli anni tra il Cinquecento e il Settecento, quando il bisogno di
cereali e simili spinse il governo del Regno delle Due Sicilie, dominio spagnolo, a concedere con facilità ai
nobili e ai notabili del posto la licenza di ripopolamento del territorio. Di questa fondamentale struttura
del mondo rurale il massaro rappresenta l’elemento essenziale, la figura attorno alla quale si polarizza
tutta la vita organizzativa e produttiva dell’azienda agricola. Poteva, egli, essere un semplice affittuario
e, in questo caso, pagava un canone d’affitto al proprietario, oppure, più ragionevolmente, essere il
responsabile unico della conduzione della masseria per conto del signore, fosse egli il barone, il nobile o
l’ecclesiastico di turno.
Grazie al censimento dei catasti onciari del XVIII secolo si è constatato che questo mestiere era molto
redditizio e procurava una sicurezza economica non indifferente, tanto che accadeva spesso che, dopo
diversi anni di lavoro, anche duro, il massaro era in grado di comprare la stessa masseria, divenendone
egli stesso proprietario.
In Calabria il massaro ha occupato per secoli una posizione privilegiata rispetto agli altri contadini,
ma verso la fine del Settecento inizia un periodo di declino, che si materializza, soprattutto, in seguito
all’abolizione della feudalità nel 1806, continuando, però, a rappresentare sempre la classe intermedia
tra la grande massa contadina e il gruppo sociale dei galantuomini borghesi o piccoli borghesi.
Nell’ultimo secolo abbiamo avuto due tipi di “massaro”: i “massari di campo” e i “massari di
pecore”. I primi svolgevano un ruolo di cerniera tra i grossi proprietari terrieri, che li investivano di
importanti responsabilità nella conduzione delle proprie aziende agrarie, e i contadini; i secondi si
dedicavano, invece, all’allevamento e alle attività connesse, quali la produzione di lana, di cuoio, di
formaggi.
Vincenzo Padula definisce “massaro” “l’agricoltore possidente”, chi possiede, cioè, una masseria, un
campo seminato: suo è il campo, sue le pecore, sue le capre, suoi i bovi che lo arano, suo l’asino che ne
trasporta i prodotti. Saverio Strati ci racconta, invece, di un massaro particolare, il “mastro massaro”,
una figura tipica delle nostre parti. E’ un artigiano, sia egli un muratore, un calzolaio, un fabbro, un
barbiere o, anche, un sarto, che, pur non adatto a lavorare la terra, prende in affitto un podere dal ricco
latifondista per avere un qualche reddito in più.
Vincenzo Stranieri in una sua pregevole opera dal titolo “La Koinè agro-pastorale nella Locride”, ci dà
una mirabile descrizione del “massaro aspromontano”, parlandoci del “massaro di lattare”, possidente o
gestore di un gregge, generalmente costituito da 400-600 capi (ovini-caprini), in un sistema in cui vigeva
la cosiddetta “gabella”.
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Nei nostri paesi, caratterizzati dalla mancanza di variegate classi sociali, il massaro ha sempre
occupato una posizione solida, centrale, sicuramente non marginale, anche perché in epoche in cui scarsa
era la moneta circolante, egli era uno dei pochi a maneggiare denaro, tanto che il massaro scapolo era
ambito dalle donne del paese, come rivela una canzone: “Si vo’ mangiari pani di majìsi, pìgghjati ’nu
massaru, donna bèddha; non ti prejàri du càvusu tisu, che ti porta ’u pani ‘nta ‘na tovaglièddha”. Il
massaro, d’altronde, godeva di stima e di grande considerazione da parte della gente del paese, ciò
dimostrato anche da un vecchio proverbio tendente ad esaltare la sua saggezza e il suo raziocinio: “U
massaru è seggia ’i notaru” (“Il massaro è sedia di notaio”).
Dura e difficile era, però, la vita del massaro che solo nel suono della zampogna e nel canto trovava il
modo e il momento ideale per combattere e alleviare fatica e solitudine, immerso com’era tra collina e
montagna che egli considerava il suo habitat naturale, il suo spazio vitale. E’ qui che trascorreva con un
tozzo di pane raffermo e poche olive nere le sue lunghe e faticose giornate a contatto con la natura in
quello spazio volgarmente chiamato “jazzo”, parola dialettale che deriva dal latino “giacium”, che
significa luogo della pastura (pascolo), o meglio ancora nel “màrcato”, ovile parzialmente coperto, usato
durante la stagione invernale. Il massaro dava molta importanza al posto in cui lo posizionava, stando
attento a costruirlo sempre esposto al sole e al riparo dalla tramontana, possibilmente vicino a qualche
piccolo ruscello, in pendenza per favorire la ventilazione e il deflusso delle acque.
Era qui, in questo spazio, recintato con rami e spine in modo da non essere violato da volpi o da lupi,
micidiali per il suo amato gregge, che il massaro, al calar del sole e dopo una giornata di pascolo per le
montagne circostanti, riportava gli ovini, i quali d’inverno e durante le lunghe giornate di pioggia,
dimoravano in quelle che venivano chiamate “terrate”, veri e propri capannoni, lunghi e bassi, fatti con
legname e ricoperti di fogliame e di terra. Adiacente alle “terrate”, il massaro riservava uno spazio,
chiamato “‘zzaccanu”, dove venivano temporaneamente ricoverati gli agnelli e i capretti allo scopo di
poter mungere gli ovini senza la loro ingombrante presenza.
Alle sue dipendenze aveva sempre, in base al numero dei capi da accudire, almeno un aiutante,
giovane o meno giovane, chiamato “’u garzuni”, che si occupava particolarmente del pascolo e della
mungitura delle pecore che avveniva, una o due volte al giorno, sempre all’interno del
“màrcato” (“jazzo”). Da questo luogo il massaro si allontanava solo di sabato per fare un veloce salto a
casa, recuperare le necessarie provviste e il ricambio del vestiario e tornare subito il giorno dopo alle sue
abitudinarie mansioni, tra le quali fare formaggio e ricotte di ottima fattura.
Per la contabilità mensile, in un’epoca in cui è da venire l’uso di computer e di calcolatori elettronici,
il massaro si serviva di un bastone di oleandro, chiamato “landru”, lungo circa 120 cm, che veniva
squadrato con un coltello particolarmente affilato, consentendo al massaro di segnare con un piccolo
taglio (“tagghja”) sulle sue quattro facce il numero giornaliero delle “pezzotte” (forme) di formaggio, i
giorni del mese, le quantità di ricotte , gli animali da latte (agnelli-capretti) nati nel corso del mese.
Vestiva pantaloni di tela, o, più generalmente, calzoni d’orbace, di “arbasciu” (un tessuto di lana
tipico della Sardegna, già facente parte del vestiario dei soldati dell’antica Roma), lavorati al telaio, che
arrivavano all’altezza del ginocchio e si legavano con lacci laterali alle calze di lana, fatte a mano dalle
donne di casa, lasciando scoperto il ginocchio, protetto solo dal bianco tessuto dei lunghi mutandoni
indossati dal massaro. Una camicia bianca e un corpetto (gilè) di panno di fustagno di colore nero sotto
una giacca rigorosamente d’orbace completavano un vestiario che si adattava perfettamente al rigido
clima invernale montanaro. Un berretto nero di tarpa nera a mortaio, a fondo circolare, senza miseria, in
alcuni posti chiamato “basco”, e le calandrelle rendevano il massaro un tipico “figurino” del nostro
Aspromonte.
Nel contesto dell’ambiente rurale, importante, diremmo fondamentale, è stato il ruolo che ha assunto
la moglie del massaro, che la gente del paese chiamava con il simpatico appellativo di “gnura”, anteposto
al suo nome di battesimo, ad indicare il ceto sociale di appartenenza. Era lei, la “gnura”, che si occupava
della casa, sostituiva il marito nella cura e nella vendita dei prodotti caseari (formaggio, ricotte…). In
paese era stimata e riverita, tanto che era a lei che si rivolgeva la gente del luogo, per ottenere
un’agognata giornata di lavoro utile in qualche modo ad allontanare lo spettro della fame.
Un antico proverbio esaltava il suo ruolo all’interno della casa (e della famiglia), il cui peso, il
“pondo”, ricadeva, per la maggior parte, sulle sue gagliarde spalle di donna forte e generosa: “Si vòi
vidìri ’a fìmmina massàra, guàrdala quandu gliùma la lumèra” (Se vuoi vedere la donna massara, guardala
quando accende la lumiera”).
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La figura e il ruolo del massaro cominciano a decadere verso la fine della metà del secolo scorso,
quando quella costante emigrazione tipica di quegli anni postbellici, ma soprattutto la sua strisciante
voglia di riscatto sociale, lo spingono, piuttosto che a perpetuare il suo mestiere, a mandare i figli a
scuola, spingendoli verso un futuro migliore e diverso.
Oggi “quel” massaro non c’è più, di “gnura Antonia” nemmeno si parla, quel “mondo” è scomparso,
vive soltanto in qualche ambiente di paese montano e nel ricordo di chi ancora rimane ammaliato da quel
mondo, inghiottito ormai dalla modernità contemporanea lusingata da altri e diversificati valori che sono
lontano anni-luce da quel mondo povero, ma bello. A ricordo rimangono le antiche strutture masserizie
che, ristrutturate, vengono oggi adibite a varie forme di aggregazione, quali le unità abitative ben
arredate ad uso turistico, le attività ricettive a conduzione familiare (le cosiddette “bed and breakfast”),
le foresterie per turisti, le strutture agrituristiche.
Bruno Palamara
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