Campagna di Grecia

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Campagna di Grecia
Campagna di Grecia
Campagna di Grecia
Alpini e Fanti
copyright © 2010
1° edizione 2010
Campagna di Grecia
Alpini e Fanti
Editrice Storica
Treviso
Grafica e impaginazione di Stefano Gambarotto
Le immagini fotografiche che illustrano il presente volume, ove non diversamente indicato, provengono dai seguenti archivi: Servizi Fotografici dell'Esercito Italiano (SFEI), Archivio Emilio Pisani, Archivio Bruno e Giandomenico Pagnacco e Archivio Emilio Bosi L'editore ha effettuato ogni possibile
ricerca nel tentativo di individuare altri soggetti titolari di copyright ed è a
disposizione degli eventuali aventi diritto.
La tragica avventura ellenica
Le conseguenze dell'8 settembre 1943
Creta - Cefalonia - Corfù - Lero
Enzo Raffaelli
Stefano Gambarotto
con scritti di
Editrice Storica è un marchio di proprietà di ISTRIT
Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano - Comitato di Treviso
Via Sant'Amborgio di Fiera, 60
31100 - TREVISO
[email protected]
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ISBN 978-88-96674-07-9
Renato Callegari
Giandomenico Pagnacco
EDITRICE STORICA
TREVISO
2010
L'avventura greca
Un'immagine simbolo della campagna di Grecia: Mussolini spinge la sua macchina
rimasta impantanata nel fango. SFEI.
Fronte Greco-Albanese: il traino di un pezzo di artiglieria. SFEI.
Il 29 ottobre 1940 il Comando Supremo del regio esercito comunicava:
«All'alba di ieri le nostre truppe dislocate in Albania hanno varcato la frontiera greca e sono penetrate per vari punti nel territorio nemico, l'avanzata prosegue.» Perché il regime di Mussolini in quell'ottobre di settant'anni fa aggredì la Grecia? La risposta a questa domanda è in realtà piuttosto complessa.
L'Italia era impreparata a sostenere un confronto militare con una qualsiasi
delle maggiori potenze europee. Tanto i comandi delle forze armate quanto i
quadri del partito fascista conoscevano perfettamente la condizione di arretratezza che gravava sul nostro esercito. Del resto tale stato di cose era stato
ufficializzato in modo autorevole dal generale Ugo Cavallero poco più di un
anno prima con il suo noto promemoria datato 30 maggio 1939. Il documento era stato reso pubblico otto giorni dopo la firma del malaugurato patto
d'acciaio che avrebbe legato fra loro i destini di Germania e Italia. A livello
direttivo, le forze armate del nostro paese erano un arretrato mastodonte che
si era strutturato durante il primo conflitto mondiale. Le perdite patite fra gli
ufficiali in particolar modo di grado meno elevato, erano state enormi. Alla
fine del primo anno di combattimenti, su 4.600 ufficiali subalterni, circa 500
avevano perso la vita. La necessità di colmare questi vuoti e la creazione di
nuove unità collegata all'aumento di dimensioni dell'esercito aveva imposto
promozioni veloci e l'immissione nei ranghi di nuovi ufficiali con una formazione carente, poiché provenienti da corsi organizzati in modo affrettato. Alla
fine del 1915 erano inoltre stati creati circa 130 generali. Gli inglesi e gli
americani avevano risolto il problema con l'attribuzione di «gradi temporanei» mentre i tedeschi presero ad affidare il comando di unità che normalmente erano guidate da ufficiali di grado elevato a colleghi di rango inferiore. In
Francia ad esempio, De Gaulle ebbe il grado temporaneo di generale di brigata ma al termine delle ostilità andò in pensione con quello di colonnello.
Tanto ovvio pragmatismo era naturalmente inconcepibile in un paese come
l'Italia dove al comando di ogni unità doveva corrispondere il relativo grado.
Si produsse così un'eccedenza di ufficiali dei quali poi sarebbe stato impossibile liberarsi. Alla fine della guerra il regio esercito ne allineava 21.926 di cui
556 generali. L'ipotetico ritorno alla situazione del 1914 avrebbe comportato
il collocamento in congedo di ben 400 di essi. Il problema non trovò mai
soluzione e i ranghi furono lentamente sfoltiti solo con i pensionamenti per
raggiunti limiti di età. Si assegnarono anche due o tre colonnelli per reggimento e molti ufficiali vennero dirottati verso la neonata milizia fascista. Il
contemporaneo insistere di numerose circostanze negative rese gli anni del
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dopoguerra particolarmente duri per i quadri delle nostre forze armate. L'Italia doveva reggere il fardello di una pesante crisi economica, accompagnata
da un'accesa conflittualità sociale. La politica non riusciva a formare governi
duraturi e sostanzialmente si disinteressava delle problematiche militari. Privata com'era stata per l'intero conflitto, durato quattro anni, del controllo sulle operazioni belliche, affidato in toto allo Stato Maggiore, ora guardava ad
esso con sospetto, giudicando quantomeno inadeguato il modo in cui a suo
tempo aveva condotto la guerra fino all'infausto episodio di Caporetto. La
propaganda antimilitarista delle sinistre contribuì poi a colmare la misura. La
politica militare italiana si rivelò in quegli anni priva di qualsiasi consistenza.
Quando nel 1922 il fascismo prese il potere ben dieci diversi ministri della
guerra si erano fino ad allora avvicendati restando al potere per una media di
circa 135 giorni l'uno. Quali effetti questo tipo di gestione potesse avere avuto sull'efficienza dell'esercito italiano è facile intuirlo. La Relazione Belluzzo
redatta nel 1924 dal professor Giuseppe Belluzzo, docente al politecnico di
Milano, fotografava in maniera impietosa la situazione. Belluzzo, che non era
un miliare e che aveva redatto il proprio studio per la Sottocommissione guerra e marina della giunta del bilancio sullo stato di previsione della spesa pubblica del ministero della Guerra, partiva da un semplice assunto. La prima
guerra mondiale si era rivelata un conflitto eminentemente tecnologico. Era
dunque sull'innovazione tecnologica che si doveva puntare. Meno uomini e
più sistemi d'arma al passo coi tempi. L'Italia avrebbe insomma dovuto dotarsi di uno strumento militare più piccolo ma tecnologicamente in linea con
quelli delle maggiori potenze europee. L'esercito doveva poi essere organizzato in modo da potersi ingrandire celermente in caso di bisogno. L'esatto
opposto degli «otto milioni di baionette» di mussoliniana memoria. Belluzzo
proponeva lo sfoltimento dei quadri e la chiusura di tutta una serie di strutture
giudicate inutili. A sostegno delle sue tesi portava ad esempio la situazione
organizzativa della sanità militare che per un totale di circa 6000 soldati ricoverati annualmente poteva disporre di 9150 uomini tra medici e personale
vario con una evidentissima sproporzione tra il personale in servizio e quello
effettivamente necessario. La Relazione Belluzzo non fu tenuta in alcuna
considerazione e non avrebbe potuto essere altrimenti. Le gerarchie militari
guardate con diffidenza e poste sotto accusa erano arroccate in una granitica
difesa dei propri privilegi corporativi. Ciò che importava loro era il mantenimento dello status quo, la difesa dei ruolini di avanzamento, la protezione
delle posizioni acquisite. In questo ormai l'esercito era omologabile ad una
qualsiasi branca della grande burocrazia pubblica. La difesa dell'esistente è
ovviamente nemica di qualsiasi forma di progresso e la nostra classe militare
Benito Mussolini e Adolf Hitler.
Il dittatore tedesco era assolutamente contrario all'intervento italiano in Grecia.
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Il generale Sebastiano Visconti Prasca
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di stampo ottocentesco, che si era frettolosamente formata sui campi di battaglia della Grande Guerra si rivelò impermeabile all'innovazione e del tutto
disattenta a quanto negli altri paesi veniva sperimentato e adottato. Per lei il
«nuovo» era una minaccia. Furono commessi enormi errori sia dal punto di
vista scientifico che decisionale. Alti ufficiali ancora legati al modo in cui si
era combattuto il primo conflitto mondiale presero decisioni relative agli armamenti che si rivelarono disastrose. Esempi ormai classici di questa tragica
commedia sono i test sui nascenti apparati radar o sui motori aeronautici a
reazione, allegramente bollati come inutili curiosità scientifiche. A questo atteggiamento dei vertici militari fece da contraltare quello del sistema industriale che, con Fiat e Ansaldo in testa, spinto da mere logiche di profitto,
continuò ad imporre la produzione di mezzi assolutamente superati ancor prima dell'inizio della guerra: biplani quali i CR.42 «Falco» e carri armati come
gli L.6 e gli M.13/14. Le forze armate erano dunque del tutto inadeguate a
sostenere le velleità bellicistiche delle gerarchie fasciste che comunque, per
buona parte degli anni Venti, continuarono a sviluppare progetti offensivi
contro buona parte delle nazioni circostanti. Fra il 1925 e il 1929 lo Stato
Maggiore italiano si riunì in 22 occasioni, a volte con la partecipazione dello
stesso Mussolini. Sedute brevi, della durata di un paio d'ore nei cui verbali si
continuava a fare riferimento alle esperienze della Grande Guerra. La riunione del 22 febbraio 1928 ad esempio, presieduta dal Duce, fu dedicata all'ipotesi di una guerra di aggressione contro la Jugoslavia, che Mussolini dava per
sicura arrivando a fissare per il 1932 l'anno in cui le forze armate avrebbero
dovuto aver completato il loro approntamento a tale scopo. Il conflitto, dichiarò il dittatore, sarebbe molto probabilmente iniziato da parte nostra «con
un violento atto di offesa» che avrebbe dovuto essere «aggressivo» e «improvviso.» Alla riunione, oltre a Badoglio presero parte il generale Giuseppe
Ferrari per l'Esercito, il vice-ammiraglio Francesco Acton per la Marina e il
generale di brigata Armando Armani per l'Aeronautica. Badoglio era convinto che una guerra contro la Jugoslavia avrebbe avuto «buone probabilità di
successo» e le riunioni su tale argomento proseguirono per tutti gli anni Venti con l'allargamento delle ipotesi di attacco anche alla Francia discusse nelle
sedute del 3 e 4 ottobre 1929. Quello transalpino era però considerato uno
degli eserciti meglio preparati del continente e Badoglio avversava tale ipotesi con decisione fino a considerarla, in una lettera indirizzata nel 1931 al ministro Dino Grandi, un «suicidio.» Di ben diverso parere erano altri colleghi
come il sottocapo di stato maggiore dell'Aeronautica Valle che prospettò addirittura l'immediata occupazione della Corsica da dove i nostri bombardieri
avrebbero poi potuto colpire il territorio francese. Nel 1929 i nostri velivoli da
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bombardamento erano infatti 200 in tutto. Si trattava di macchine tecnologicamente arretrate e con una quota di tangenza così bassa da rendere loro impossibile il sorvolare le Alpi. Gli Avro Lancaster britannici invece, dieci anni
più tardi, saranno tranquillamente in grado di attaccare le città dell'Italia del
nord decollando dall'Inghilterra. E' appena il caso di ricordare che l'ideatore
del bombardamento strategico era stato il generale italiano Giulio Douhet, i
cui costrutti teorici furono sviluppati in tutte le maggiori nazioni - tranne che
in Italia - con la costruzione di adeguati mezzi aerei. E' interessante notare,
sempre in riferimento all'ipotesi di conflitto con la Jugoslavia, quanto carenti
fossero le informazioni sull'avversario e fantasiose le ipotesi sulle sue probabili contromosse. Per esempio si stimò che gli jugoslavi disponessero di 24
idroscali salvo poi scoprire che la medesima località era stata elencata con
due o tre differenti denominazioni. E' comunque difficile capire quali obiettivi Mussolini si proponesse di ottenere con un'aggressione alla Jugoslavia
che non avrebbe lasciato indifferenti né i francesi né gli inglesi. Mussolini e
lo stato maggiore erano comunque ben consapevoli delle condizioni di impreparazione delle nostre armate. Nelle riunioni del giugno-luglio 1925 Badoglio
dichiarò che con gli scarsi mezzi economici sui quali - stante la precaria situazione del Paese - l'esercito avrebbe potuto fare affidamento qualsiasi ipotesi
di ammodernamenti era irrealizzabile. Le sue parole furono: «Non è possibile, per ragioni finanziarie, pensare per ora a costruzioni nuove, eccetto quanto
riguarda mitragliatrici leggere, artiglierie controaerei, qualche bocca da fuoco
e qualche proietto di speciale importanza.» Ben nota ai capi militari e ai gerarchi fascisti era l'«infelice situazione» del nostro parco artiglierie ai cui problemi lo stato maggiore dedicò più di una seduta. Va notato per contro il fatto
che in nessuna riunione si ritenne opportuno esaminare la situazione delle
forze corazzate equipaggiate con mezzi da operetta. Come già anticipato
Badoglio considerava alte le possibilità di successo in una campagna militare
contro la Jugolavia e identico atteggiamento ebbe anche nei confronti della
Grecia che giudicava avversario poco consistente e che riteneva destinato ad
essere facilmente travolto. In una lettera al generale Cesare Maria De Vecchi, governatore del possedimento italiano delle isole dell'Egeo, spedita alla
vigilia dell'inizio delle operazioni contro gli ellenici, scrisse: «Caro De Vecchi, il 28 ha inizio la spedizione punitiva contro la Grecia. Questi porci greci
avranno il trattamento che si sono meritati.» Badoglio sembrava avere scarsa
stima anche degli americani sostenendo che «come soldati, sono, tutt'al più,
della materia grezza che dà più imbarazzo che altro.» Gli inglesi per lui erano
«un popolo di pecoroni» mentre i tedeschi sarebbero stati invece inadatti alla
guerra nel deserto. Cosa spingesse Badoglio a proferire queste ridicolaggini
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Il generale Ubaldo Soddu.
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Il generale Ugo Cavallero.
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resta un mistero ma tali opinioni, specialmente quelle riferite ai greci, erano
largamente condivise sia dai militari che dai fascisti. Il generale Sebastiano
Visconti Prasca, autore del piano di invasione della Grecia, interrogato da
Mussolini circa la potenzialità dell'esercito ellenico così rispose: «Non è gente che sia contenta di battersi.» Ugo Cavallero proseguì sulla stessa falsariga
sostenendo che «i greci non sono dei buoni soldati [e] spesso vengono mandati all'assalto ubriachi.» Nel tranciare questo giudizio il buon Cavallero
ometteva naturalmente di ricordare che in condizioni identiche venivano spediti all'assalto anche i fanti italiani sul Carso, dopo ampie distribuzioni di alcolici. Al coro di quanti sottostimavano le capacità dei greci si aggiunge l'allora ministro degli esteri Galeazzo Ciano il quale confidò a monsignor Francesco Borgoncini, primo nunzio apostolico della Santa Sede presso il Quirinale, che gli ellenici erano «gente di cui non possiamo fidarci in nessuna
maniera e mantengono un atteggiamento schifoso.» Lo stesso Duce, secondo
quanto Ciano riferisce nel suo diario, ebbe infine a dichiarare: «Do le dimissioni da italiano se qualcuno trova delle difficoltà per battersi coi greci.» L'aggressione alla Grecia fu una delle pagine più disonorevoli nella storia delle
nostre forze armate. Le operazioni iniziano il 29 ottobre e sino al successivo
10 novembre i comunicati dal fronte non fanno che riferire buone notizie. La
progressione della nostra avanzata sembra essere continua. Le forze di invasione raggiungono nell'Epiro il fiume Kalamas e quindi l'importante nodo
stradale di Kalabaki. Questa almeno è la guerra che gli italiani leggono sui
giornali. Sul campo di battaglia però le cose stanno andando in maniera diversa. Il 3 novembre, quando si riunisce lo stato maggiore, Badoglio deve ammettere che le forse elleniche stanno evidenziando una capacità di «resistenza
piuttosto notevole nell'Epiro» e inoltre riescono anche ad esercitare «pressione sulla [nostra] ala sinistra.» La piega che i fatti stanno prendendo suscita
sgomento. Mussolini vorrebbe uno sbarco di bersaglieri a Prevesa. Ritiene
che un reggimento di 1300 uomini sia sufficiente a prendere alle spalle l'avversario. Badoglio e il sottosegretario alla guerra Ubaldo Soddù però non la
pensano come lui. Non se ne farà nulla. Il 12 novembre i comunicati italiani
cominciano ad ammettere che sul fronte greco la situazione si sta facendo
critica. Gli ellenici contrattaccano in Epiro. Nei giorni successivi le forze di
invasione italiane sono ricacciate indietro. In dicembre l'espressione «fronte
greco» scompare dai comunicati sostituita dal termine «Albania.» La nostra
fuga è affannosa. Il generale Ubaldo Soddu che comanda le nostre forze sullo
scacchiere albanese è sopraffatto dagli eventi e il 4 dicembre, in piena crisi
nervosa, telefona al sottocapo di stato maggiore Alfredo Guzzoni prospettandogli l'impossibilità di continuare le operazioni. Soddu viene sostituito da
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Cavallero e dopo un inverno terribile l'intervento dei tedeschi impedisce ai
greci di ributtarci in mare. La folle campagna in terra ellenica ci costa 40.000
uomini e delle 5 divisioni inizialmente previste per portarla a termine ne assorbirà 29 palesando tutta la nostra impreparazione. Perchè dunque il fascismo scelse di impegnarsi in un'avventura tanto sciagurata? Come abbiamo
visto, il già ricordato promemoria Cavallero del 30 maggio 1939, evidenziava l'impossibilità per il nostro Paese di impegnarsi in un qualsiasi conflitto
prima del 1943 poiché le forze armate italiane abbisognavano di un corposo
programma di ammodernamento. Quando la Germania diede inizio alla guerra, l'opzione della neutralità fu dunque ovvia e necessaria. Per il fascismo
però si trattava comunque di una scelta temporanea. La neutralità era incompatibile con le sue aspirazioni di grandezza e di espansione. Quale sarebbe
stato infatti il futuro del Paese qualora esso fosse rimasto inerte di fronte ai
successi teutonici? A Mussolini l'ipotesi della neutralità lasciava intravedere
per l'Italia un triste destino di vassallaggio nei confronti della Germania hitleriana, cosa che il duce del fascismo considerava intollerabile. La guerra per
lui non era dunque una questione di «se» ma soltanto di «quando.» Si trattava
dunque solo di attendere fino al momento in cui le ragioni della convenienza
e dell'onore lo avessero consentito. Il repentino crollo dei francesi e l'annientamento del corpo di spedizione britannico in terra transalpina impressero
agli eventi una brusca e inattesa accelerazione. Esisteva il concreto rischio
che l'Italia entrasse in campo a partita ormai conclusa senza poter prendere
parte alla divisione del bottino. L'alleanza coi tedeschi non era né paritetica
né basata sulla reciproca fiducia. Entrambe le parti intendevano sfruttarla a
proprio vantaggio. Mussolini si convinse allora della necessità di iniziare una
sua «guerra parallela» secondo un termine entrato in uso all'epoca e a lui stesso attribuito. Poiché era velleitario poter pensare di intervenire al fianco dei
tedeschi, offrendo loro un contributo decisivo ai fini della vittoria, in quanto
l'Italia non disponeva dei mezzi necessari, il duce ritenne di iniziare un conflitto che consentisse al nostro Paese di conquistare con le sue sole forze «pegni territoriali» che gli avrebbero permesso di sedere al tavolo delle trattative
da vincitore. Questa impostazione volta alla ricerca di successi laddove fosse
più facile guadagnarli aveva però il grave difetto di disperdere le nostre poco
efficienti forze su di un ampio scacchiere. Inoltre tale strategia non prevedeva
alcun coordinamento con il cosiddetto «alleato» tedesco perché i successi
dell'Italia fascista, per essere spendibili al tavolo delle trattative, dovevano
ovviamente venire conseguiti senza l'aiuto germanico. Altro grave limite di
questa impostazione era dato dal fatto che la vittoria militare doveva essere
ottenuta in tempi brevi poiché il sistema paese non era in grado di reggere un
Il generale Carlo Geloso.
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conflitto di lunga durata né il regime si era curato di pianificare la produzione
industriale per adeguarla alle necessità di una guerra. Purtroppo per il duce
nulla andò come previsto. Quel che accadde è storia: le operazioni contro la
Francia già battuta dai tedeschi ebbero una portata insignificante, la guerra
contro la Grecia si rivelò fallimentare così come le operazioni in Africa e gli
inglesi a Taranto distrussero subito metà della nostra flotta… Il regime subì
una serie di scoppole che distrussero in breve tempo le sue illusioni di una
guerra autonoma e concorrente alla Germania. Il ruolo dell'Italia da quel momento in poi divenne chiaro e comportò la sua assoluta subalternità a Hitler.
Dal 1940 al 1943 furono i tedeschi a condurre le danze e a stabilire la strategia. Essi decisero di concentrare le forze contro i russi e di restare sulla difensiva nel Mediterraneo. In questa prospettiva all'Italia di Mussolini non rimase
da sostenere che un logorante compito di resistenza all'interno del mare nostrum. Ciò in attesa che i tedeschi, una volta avuta la meglio sui russi, vi
concentrassero i mezzi necessari ad ottenere anche qui una vittoria i cui frutti
certo non sarebbero stati divisi alla pari con un alleato tanto debole quanto
l'Italia. Mussolini non era un politico nel senso tradizionale del termine. Molte delle sue decisioni furono prese sotto la spinta del carattere animoso e indocile che lo agitava. Fra le cause scatenanti l'attacco alla Grecia, larga parte
ebbe infatti la sorda gelosia e il risentimento che il dittatore provava nei confronti di Hitler e che, prima che la triste avventura ellenica avesse inizio, lo
portano ad affermare per un evidente spirito di rivalsa che in quell'occasione,
il dittatore tedesco, avrebbe appreso solo dai giornali la notizia dell'invasione
italiana. Conscio della condizione di vassallaggio nella quale era caduto e
desideroso di riscattarsi in qualche modo, il duce commette poi il suo ultimo
e più tragico errore. Imbarca l'Italia nella campagna di Russia. E' noto che i
tedeschi non ci volevano sullo scacchiere sovietico: preferivano che concentrassimo i nostri sforzi nel mediterraneo. Ma Mussolini insistette. Per il dittatore italiano intervenire in Russia e partecipare alla guerra contro il comunismo era in punto d'onore. Riteneva che gli fosse indispensabile sia sul fronte
interno, per questioni di propaganda e di prestigio, che in quello internazionale per accreditarsi almeno come primo fra gli alleati di Hitler...
Il generale Mario Vercellino.
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L'attacco alla Grecia
«L'Italia perse la [seconda] guerra [mondiale] nel breve arco di tempo che
va dal 28 ottobre – inizio dello sciagurato attacco alla Grecia – al 12 novembre 1940, mattino nel quale si poterono constatare i danni provocati dal
raid degli aerosiluranti inglesi alla flotta placidamente ancorata nella rada
di Taranto»1. L'invasione della Grecia e soprattutto le conseguenze che essa
produsse si ripercossero dunque in modo decisivo sull'intera conduzione del
conflitto da parte italiana. Quando l'ambasciatore ad Atene Emanuele Grazzi,
si recò dal generale Johannis Metaxas, che dal 1936 era al potere in Grecia,
per consegnargli il pretestuoso ultimatum che Ciano e Mussolini gli avevano
trasmesso da Roma, dovette provare un certo imbarazzo. Il dittatore ellenico
era infatti ideologicamente molto vicino al fascismo. Il generale, vecchia volpe della politica balcanica, che aveva preso parte a tutte le guerre combattute
in quelle terre, si aspettava quanto stava per accadere ma era comunque legato
da un rapporto di amicizia personale con Grazzi così come l'Italia era stata
fino a qualche mese prima vicina alla Grecia poiché entrambi erano governati
da dittature di destra. Il giorno prima della malaugurata visita di Grazzi a
Matexas il nostro governo aveva lamentato un non meglio precisato «incidente» che si voleva fosse accaduto presso la frontiera con l'Albania. Secondo
quanto sostenava Roma, una fantomatica «banda armata greca» aveva fatto
fuoco contro un posto di frontiera causando la morte di due militari albanesi.
La storia non dice se il fatto si sia realmente verificato. In ogni caso, un episodio di tal genere non era così grave da giustificare l'ultimatum che il governo
italiano intimò a quello greco. Nel documento che l'ambasciatore italiano
consegnò alle 2,30 del mattino del 28 ottobre era scritto:
[…] Il Governo italiano è venuto pertanto nella determinazione di chiedere al Governo Greco, come garanzia della neutralità della Grecia e come
garanzia della sicurezza dell'Italia, la facoltà di occupare con le proprie forze armate per la durata del presente conflitto con la Gran Bretagna, alcuni
punti strategici in territorio greco. Il Governo italiano chiede al Governo
greco che esso non si opponga a tale occupazione e non ostacoli il libero passaggio delle truppe destinate a compierla. Queste truppe non si presentano
come nemiche del popolo greco e in nessun modo il Governo italiano intende
che l'occupazione temporanea di alcuni punti strategici, dettata da necessità
contingenti e di carattere puramente difensivo, porti pregiudizio alla sovraIl generale Pirzio Biroli.
1 Ernesto Brunetta, La Tragedia – La società italiana dal 1939 al 1949, Milano, Mursia,
2006, pag. 280.
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nità e all'indipendenza della Grecia. Il Governo italiano chiede al Governo
greco che esso dia immediatamente alle autorità militari gli ordini necessari
perché tale occupazione possa avvenire in maniera pacifica. Ove le truppe
italiane dovessero incontrare resistenza, tali resistenze saranno piegate con
le armi e il Governo si assumerebbe la responsabilità delle conseguenze che
ne deriverebbero.
L'ultimatum sarebbe scaduto alle sei del mattino cioè poco più di tre ore
dopo quella in cui l'ambasciatore italiano lo aveva fisicamente consegnato
nelle mani del generale Metaxas. Quest'ultimo non mancò di far rilevare la
circostanza a Grazzi notando che, anche qualora la Grecia avesse deciso di
aderire alle richieste italiane, non vi sarebbe stato il tempo di far giungere gli
opportuni ordini alle unità dell'esercito ellenico che proteggevano i confini
del paese. Poiché nel documento si accennava anche a «punti strategici» che
l'Italia pretendeva di occupare d'imperio, il dittatore greco chiese al nostro
ambasciatore con una notevole dose di ironia di indicargli quali fossero questi
punti. L'imbarazzato Grazzi dovette ammettere di non saperlo. Forse questi
punti non esistevano perché il cosiddetto ultimatum altro non era che una
mera scusa per aggredire la Grecia secondo i desideri di Roma. Il concetto è
chiaramente espresso in una nota scritta dal ministro degli esteri fascista Galeazzo Ciano il quale, riferendosi all'ultimatum così annotava sul suo diario:
«Naturalmente si tratta di un documento senza via d'uscita: o accettare l'occupazione o essere attaccati.»
I rapporti fra Italia e Grecia.
Prima dello scoppio del conflitto, esistevano reali motivi di attrito fra Italia
e Grecia? In effetti, all'indomani della conclusione dei conflitti nell'area balcanica, qualche questione aperta sul tavolo dei rapporti fra i due paesi era rimasta. Nel 1912 la marina italiana aveva occupato Rodi e le isole del Dodecanneso fino a quel momento appartenute all'impero turco e rivendicate anche
dagli ellenici poiché anche la Grecia aveva combattuto contro lo scomparso
impero ottomano. Tra i due paesi si era dunque aperto un contenzioso. La
questione fu affidata ad una conferenza internazionale che riconobbe fondate
le ragioni Atene. I greci però non riuscirono ad occupare il Dodecanneso perché lo scoppio della prima guerra mondiale congelò la situazione. Al termine
del conflitto la questione tornò d'attualità. Una nuova conferenza internazionale organizzata questa volta a Losanna ribaltò le decisioni della prima e riconobbe nel 1923 all'Italia il possesso di Rodi e del Dodecanneso.2 Rimaneva
Il generale Gabriele Nasci.
2 A Losanna fu la prima apparizione di Mussolini, capo del Governo italiano, in un consesso
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da definire la questione dei confini tra Grecia e Albania. L'incarico fu affidato
dalla Conferenza degli Ambasciatori di Parigi a una delegazione italiana formata da 4 uomini e guidata dal generale Enrico Tellini. La missione cadde
purtroppo in un'imboscata nella località di Zepi, in territorio greco, tra il cinquantatreesimo ed il cinquantaquattresimo chilometro della strada che collegava Giannina a Kakavia, e che era destinata a fissare il confine tra i due
paesi. Il generale Tellini, il suo autista e altri due ufficiali persero la vita. Il
gesto fu certamente una grave provocazione ma stabilire chi fossero i colpevoli non si rivelò cosa semplice. Gli assassini erano greci o albanesi? La missione Tellini aveva uno status internazionale e di conseguenza il governo
italiano non avrebbe dovuto esservi coinvolto a nessun titolo. Mussolini però
non la pensava in questo modo e identificati nei greci i responsabili del massacro inviò ad Atene un perentorio ultimatum con il quale chiese oltre alle
scuse ufficiali, i solenni funerali delle vittime alla presenza di tutto il governo
ellenico, onori militari da parte della flotta greca e 50 milioni di lire come risarcimento. I greci non aderirono alle richieste di Roma e si rivolsero alla
Società delle Nazioni. Il Duce rispose allora inviando una squadra navale a
bombardare Corfù, uccidendo almeno quindici persone. L'isola venne poi occupata dagli italiani. Ancora una volta la Conferenza degli Ambasciatori di
Parigi intervenne a sbrogliare la matassa. La Grecia avrebbe presentato le sue
scuse non all'Italia ma bensì alla comunità internazionale che aveva organizzato la missione guidata da Tellini. Al nostro paese sarebbe poi andato un
risarcimento. Non i 50 milioni richiesti ma una cifra congrua da valutare in
separata sede. L'isola di Corfù venne allora sgomberata dalle nostre truppe. I
veri colpevoli dell'eccidio di Zepi non furono però mai identificati. Tali episodi convinsero i greci che il clima dei rapporti con l'Italia era ormai mutato
in negativo. Il trattato di amicizia, di conciliazione e di regolamento giudiziario che sarebbe stato siglato tra i due paesi a Roma nel 1928 e la cui validità
avrebbe dovuto coprire un arco di dieci anni si rivelò solo un mero accordo
formale. Tutte le volte che, in ambito internazionale, se ne presentò l'occasione, il governo di Atene si schierò sempre contro l'Italia di Mussolini votando
ad esempio le sanzioni contro il nostro paese. Nonostante tutto ciò la situazione diplomatica tra Roma e Atene si mantenne sempre entro binari di assoluta
correttezza. Il generale Metaxas, dittatore di destra, ebbe anzi con il fascismo
rapporti di cordialità. Che cosa fece dunque precipitare la situazione? Il 7
aprile 1939, una settimana dopo la conclusione della guerra di Spagna nella
quale Mussolini aveva coinvolto il nostro paese al fianco di Francisco Franco,
Il generale Mario Arisio.
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internazionale. In quell'occasione il ministro degli esteri britannico lo giudicò «demagogo,
pericoloso e privo di scrupoli.»
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l'Italia invase l'Albania. Il piccolo paese balcanico era già stato da noi occupato fin dal 1917 anche se poi il governo Giolitti aveva rinunciato al protettorato su di esso riconoscendone la piena indipendenza. Le mire espansionistiche del fascismo avevano però mutato la situazione. Falliti i tentativi di reimpossessarsi dall'Albania con una serie di accordi diplomatici che, di fatto,
l'avrebbero obbligata a rinunciare alla sua sovranità, il fascismo decise di
occuparla con la forza. Il capo dello stato Ahmed Zog e il suo governo fuggirono in Grecia. Lo Stato Maggiore di Atene entrò subito in allarme. Presero
a circolare notizie non controllate che ingigantivano le dimensioni del corpo
di spedizione italiano. Si diffuse anche la voce che le truppe inviate da Roma
stavano muovendo verso i confini ellenici. Due divisioni dell'esercito greco
vennero quindi allertate in Epiro e in Macedonia con l'ordine di prepararsi a
contenere un possibile nostro attacco.3 I militari greci facevano pressione sul
governo perché il paese si preparasse al peggio. Metaxas però, confortato
dalle notizie in arrivo da Londra, reagì in maniera misurata. Lo stesso Mussolini da Roma si preoccupava di fargli sapere, tramite il suo incaricato d'affari,
che tra i due paesi «le relazioni cordiali di amicizia» non erano in discussione.
Quanto le parole del Duce corrispondessero al vero non è dato sapere. E' un
fatto però che nemmeno un mese dopo l'invasione dell'Albania, il ministro
degli esteri Galeazzo Ciano in visita al piccolo paese balcanico, manifestò
ben altre intenzioni. Il 23 maggio una folla sapientemente orchestrata lo aveva accolto al grido di Kosovo e Ciamuria4, invocando l'annessione di quelle
terre all'Albania e quindi all'Italia. La sera stessa Ciano aveva incontrato il
generale Carlo Geloso, comandante delle forze italiane. Nel corso del colloquio che ebbe con l'alto ufficiale gli manifestò chiara la nostra intenzione di
occupare la Grecia «giacché – disse Ciano - il territorio ellenico stava per
diventare una base navale per i franco-inglesi.»5 Geloso si irrigidì sostenendo
che tale ipotesi era contraria a tutte le direttive fino ad allora ricevute. Il ministro degli esteri però insistette e chiese al generale quale sarebbe stata a suo
3 Lo Stato maggiore inviò al comandante della guarnigione di Corfù un documento nel
quali si diceva: « Informazioni riferiscono che l'esercito italiano tenterà uno sbarco e la conseguente occupazione di Corfù fra il dieci e il dodici corrente. […] Vi rendo noto che la
capitolazione o resa saranno considerate alto tradimento. […] La citazione è ripresa da: La
campagna di grecia, Ufficio Storico SME, Roma 1980, tomo I, pag. 13. D'ora in avanti:
USSME.
4 La Ciamuria è un lembo di terra greca ai confini con l'Albania. Quel nome «entrò nell'immaginario collettivo degli italiani […] e destinato poi a restare nell'oblio nel quale da sempre
era collocato. Per qual ragionevole motivo gli abitanti della Ciamuria avrebbero dovuto chiedere l'annessione all'Albania e dunque all'Italia, non è chiaro e non lo sarà mai, ma questa era
la carta politica […]» E. Brunetta, op. cit. pag. 283..
5 USSME cit. I, pag .34.
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I generali Gastone Gambara (a sinistra) e Carlo Rossi.
Il cacciatorpediniere greco «Helli» affondato a tradimento dal sommergibile italiano «Delfino».
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A sinistra Galeazzo Ciano. A destra il siluro lanciato dal sommergibile italiano «Delfino» esplode
contro la fiancata del cacciatorpediniere greco «Helli» nel porto dell'isola di Teno il 15 agosto 1940.
Il sommergibile italiano «Delfino» che silurò il cacciatorpediniere greco «Helli».
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avviso la direttrice operativa strategicamente più conveniente. Messo alle
strette Geloso rispose che una nostra eventuale azione, per avere possibilità di
successo, avrebbe dovuto mirare ad isolare la Grecia dalla Turchia puntando
su Salonicco. Il generale calcolava che per il raggiungimento di tale tale
obiettivo, che ci avrebbe consentito di occupare una parte del territorio greco,
gli sarebbero servite almeno dieci divisioni. Si consideri che il piano di occupazione integrale della Grecia messo a punto quello stesso anno dai generali
Guzzoni e Pariani in seno allo stato maggiore, prevedeva l'impiego addirittura di venti divisioni. Per Ciano e Mussolini però, anche l'utilizzo di dieci sole
divisioni contro un avversario del «modesto» calibro di quello ellenico era
troppo. Come uscire dunque da questa impasse? Il problema fu brillantemente risolto con il servile apporto del generale Ubaldo Soddu che, nella sua veste
di sottosegretario alla guerra, rispondeva del proprio operato direttamente al
ministro e cioè allo stesso Mussolini che deteneva anche quella carica. Il troppo prudente Geloso venne rimosso dal comando delle truppe italiane in Albania, base di partenza per l'attacco alla Grecia. Al suo posto fu insediato il generale Sebastiano Visconti Prasca decisamente più conciliante del suo predecessore e di certo molto più ambizioso di lui. Il malleabile Visconti Prasca
disse ai suoi superiori le cose che essi volevano sentirsi dire. Sistemato al
comando «l'uomo giusto» bisognava ora preparare politicamente il terreno
per l'aggressione ricorrendo al solito campionario di pretesti. In ciò esordì
Galeazzo Ciano il quale, il 2 agosto, pretese che il governo ellenico richiamasse in patria il suo ambasciatore a Trieste reo di avere in qualche modo
offeso il nostro esercito. Il generale Metaxas fece rientrare ad Atene il funzionario senza nulla eccepire. La provocazione più grave fu però da noi messa in
atto due settimane più tardi, il 15 agosto 1939, giorno della festa dell'Assunta.
La ricorrenza era particolarmente sentita dagli abitanti dell'isola di Tinos6 che
la celebravano con una processione che traversava le vie del paese. All'ancora
nel porto dell'isola per partecipare alla cerimonia, si trovava il vecchio incrociatore della marina greca Helli, tutto pavesato a festa. Poco prima che il
corteo si muovesse un sommergibile italiano in immersione di fronte al porto
lanciò tre siluri contro la vetusta nave militare. Una delle tre torpedini la colpì affondandola e causando la morte di due membri dell'equipaggio oltre a
numerosi feriti. Solo per un caso gli altri due siluri non provocarono una strage fra la folla di civili che assiepava la banchina del porto. In Italia le autorità
fasciste si affrettarono a negare ogni coinvolgimento nell'accaduto accusando
6 Alla statua della Madonna, nell'isola, venivano attribuite qualità taumaturgiche. Nel giorno della solenne festa, con grande processione la statua raggiunge il mare mentre una nave
da guerra spara delle salve di artiglieria.
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del fatto gli inglesi. I greci naturalmente non credettero a una parola di quanto sostenuto dagli italiani. Londra aveva subito smentito le assurde affermazioni di Roma e del resto nessuno sapeva indicare un valido motivo per il
quale gli inglesi, tradizionali amici dei greci, avrebbero dovuto affondare una
loro nave a tradimento. Assodato che i britannici erano - ovviamente - estranei alla vicenda resta da chiedersi chi sia stato ad ordinare il siluramento
dell'Helli. In Italia nessuno sembrava ansioso di rivendicare il «merito» di
questa «impresa.» Ciano, annotò sul suo diario: «per me c'è sotto l'intemperanza di De Vecchi.» Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon, quadrunviro del
fascismo, che lo stesso Ciano aveva già definito in altre pagine del suo diario
«un intrepido buffone», rivestiva a quell'epoca la carica di governatore
dell'Egeo. In quelle isole egli deteneva tutto il potere civile e militare. Il sommergibile responsabile dell'affondamento dell'Helli, il Delfino, salpato da Leros agli ordini del tenente di vascello Aicardi, dipendeva formalmente proprio
da lui. Nelle sue memorie De Vecchi cercò prima di scaricare le responsabilità dell'accaduto sul comandante del Delfino che, a suo dire, avrebbe agito di
propria iniziativa. Tale spiegazione però non reggeva alla prova dei fatti, in
quanto Aicardi non patì per il suo gesto alcuna conseguenza disciplinare poiché aveva agito in base a ordini superiori, provenienti con ogni probabilità
dallo stesso De Vecchi. Alla fine quest'ultimo scelse genericamente di incolpare dell'accaduto lo stato maggiore. Scrive Giorgio Rochat: «Era stato Cavagnari7 a ordinare il siluramento clandestino di navi neutrali con carichi inglesi, poi De Vecchi, governatore dell'Egeo, aveva ampliato le direttive e indicato l'obiettivo di Tinos, infine il comandante del sommergibile aveva scelto come bersaglio l'incrociatore greco in un porto pieno di imbarcazioni in
festa. Un bell'esempio di inefficienza tecnica e criminale faciloneria.»8 Di
fronte a questo gravissimo episodio il governo greco mantenne dapprima i
nervi saldi e un basso profilo. Ciò almeno fino a quando non furono recuperati i resti dei siluri che avevano colpito il suo incrociatore, sui quali facevano
bella mostra di sé scritte in italiano... Il caso diplomatico che esplose a seguito dell'affondamento dell'Helli rischiò paradossalmente di frustrare sul nascere le ambizioni fasciste di aggressione alla Grecia. Infatti, come annotava
il ministro Emanuele Grazzi, «a partire dal 15 agosto attorno alla Legazione
d'Italia in Atene si fece il vuoto.»9 Ogni opposizione interna al regime di
7 L'Ammirgalio Domenico Cavagnari, sottosegretario di stato alla marina, era membro del
governo all'epoca dei fatti di Gracia.
8 Giorgio Rochat, Le guerre italiane 1935-1943. Dall'impero d'Etiopia alla disfatta, Milano, Einaudi, 2005, p. 255. Cfr anche.: Mario Cervi, Storia della Guerra di Grecia, Milano,
Mondadori, 1965, pp.48-52.
9 Emanuele Grazzi, Il principio della fine, op. cit. p.16.
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Soldati italiani sul fronte greco-albanese.
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Metaxas cessò di colpo: la tragedia dell'Helli aveva ricompattato il paese. A
Roma frattanto «l'orchestrata campagna antiellenica» si interruppe bruscamente. «L'emergenza G» come era stata definita l'ipotesi di attacco alla Grecia, previsto in origine per il primo settembre, sembrò dissolversi nel nulla.
La situazione subisce però un nuovo, improvviso cambiamento quando Mussolini apprende dai giornali che Hitler ha occupato il bacino petrolifero della
Romania. Furibondo per non essere stato avvisato dall'«amico» di quanto stava per accadere, corre a sfogarsi con Ciano dicendogli che questa volta toccherà al dittatore nazista scoprire - leggendolo sulla stampa - che l'Italia ha
invaso la Grecia. Fermo nei suoi rinnovati propositi di aggressione, il Duce
convoca per il 15 ottobre una nuova riunione a Palazzo Venezia alla quale
sono invitati tutti gli attori interessati all'imminente avventura ellenica. La
sequela di rinvii subiti dall'operazione aveva finito col convincere mezzo stato maggiore che la guerra alla Grecia non si sarebbe mai fatta. All'incontro del
15 ottobre sono invitati il ministro degli esteri Galeazzo Ciano, il luogotenente del re in Albania Francesco Jacomoni di Savino, il generale Visconti Prasca che comanda le nostre forze militari nel piccolo paese balcanico, il capo
dello Stato Maggiore Badoglio e il sottosegre etario alla guerra Soddu. A riunione ormai in corso arriva anche il sottocapo di stato maggiore Mario Roatta.
Mussolini entra subito in tema e annuncia: «ho deciso di iniziare la guerra
contro la Grecia.» Dopo avere rapidamente descritto il concetto strategico
dell'azione, peraltro già noto a tutti i partecipanti alla riunione, dichiara che
l'attacco: «non può essere ritardato di un'ora» e dovrà scattare «il 26 di questo
mese.»10 Il generale Quirino Armellini scrisse su quella riunione:
«Ciano e Jacomoni vogliono la loro guerra e probabilmente l'avranno.
Può darsi infatti – se ancora una volta il Duce non fa macchina indietro – che
fra pochi giorni dichiari guerra alla Grecia senza neppure valutare – Grecia
a parte, il che non è poco – le conseguenze d'indole strategico-navale dovute
alla reazione inglese. Tutti: Badoglio, Esercito, Marina, Aviazione sono contrari ma dovranno probabilmente subire.»11
Ioannis Metaxas, generale e primo ministro greco. Era a capo di un governo che si ispirava alle ideologie mussoliniane. Nato ad Itaca fu un militare di carriera. Studiò in Germania e fu tra i protagonisti
della modernizzazione dell'esercito greco prima della guerra dei Balcani (1912-1913).
10 Verbale riunione del 15 ottobre 1940 in parte riportata dal Corriere della Sera del luglio 1944.
11 Quirino Armellini, Diario di guerra, ripreso da USSME cit. pag. 77.
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L'ineffabile Visconti Prasca
Come aveva scritto il generale Armellini, è anche probabile che le gerarchie militari siano state tutte contrarie all'avventura greca ma resta il fatto che
nessuno, Badoglio in testa, osò contraddire Mussolini. A capo delle operazioni si trovava l'ineffabile generale Sebastiano Visconti Prasca, designato a quel
ruolo direttamente dal Duce su suggerimento di Ciano e Soddu. Il «primo
tempo» della campagna prevedeva l'occupazione dell'Epiro. Riferendosi a
questa parte dell'operazione, Visconti Prasca ebbe a dire che, come richiesto
da Mussolini, essa sarebbe stata pronta scattare per il giorno 26 ottobre. Tutto
si presentava «sotto auspici molto favorevoli» ed ogni cosa si sarebbe conclusa entro «dieci o quindici giorni.» Tanta sicurezza gli derivava dal fatto che, a
suo dire, l'azione era stata «preparata fin nei minimi particolari ed [era quindi]
perfetta per quanto umanamente possibile.» Ma Visconti Prasca andava ben
oltre spingendosi ad assicurare Mussolini che questa mossa avrebbe forse
potuto - in un sol colpo - «consentirci di liquidare tutte le truppe greche» e che
era stata preparata «in modo da dare l'impressione di un rovescio travolgente.» Da cosa gli derivava tanta orgogliosa sicurezza? In primis dal fatto che
«le forze greche [gli risultavano] calcolate a circa 30 mila uomini e noi [avevamo dunque] una superiorità di due a uno.» Inoltre, sempre a suo dire, «lo
spirito delle nostre truppe [sarebbe stato] altissimo» e «l'entusiasmo [...] al
massimo grado.» La sua opinione sui greci poi era nota: «non è gente che sia
contenta di battersi.» Pietro Badoglio, massima autorità militare del paese, di
fronte alle roboanti affermazioni di Visconti Prasca tacque avallando ogni sua
parola.12 Quello del nostro capo di stato maggiore era in realtà un silenzio più
che eloquente perché confermava a Mussolini ciò che il duce voleva sentirsi
dire. Purtroppo per i soldati italiani che finirono col ritrovarsi impantanati sui
campi di battaglia ellenici, quasi nulla di ciò che Visconti Prasca aveva baldanzosamente sostenuto corrispondeva al vero. Ma allora – ci domandiamo
- l'Italia a chi aveva affidato i suoi uomini? A questo punto è necessario fare
Valle della Vojussa. Una colonna italiana avanza mentre
è in corso l'offensiva di primavera ordinata da Mussolini. SFEI.
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12 Non possiamo dimenticare che Badoglio era lo stesso che il pomeriggio del 23 ottobre
1917, alla vigilia di Caporetto, alla fine del rapporto tenuto a Cormons dal comandante della
2ª armata generale Capello se ne uscì con la battuta «ho dimenticato di predisporre i campi di
prigionia per i tedeschi che cattureremo.» Enrico Caviglia, a proposito della nomina di Badoglio a capo dello Stato Maggiore dell'esercito, scrive sul diario del 26 maggio 1925:«Oggi
tutti restano silenziosi davanti alla nomina di Badoglio a capo di stato maggiore dell'esercito,
con l'incarico di organizzare la difesa della nazione. Nulla di più burlesco che preporre alla
difesa della Nazione l'eroe di Caporetto, il quale essendo stato sfondato il suo corpo di armata, fuggì abbandonando prima tre divisioni, poi ancora una quarta, e portò il panico nelle
retrovie.» Enrico Caviglia, Diario, Milano, Casini, 1952, pag.4.
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un breve riepilogo per capire come andarono le cose e perché gli alpini della
Julia e i fanti della Siena finirono intrappolati in quel marasma. Mussolini,
capo del governo, aveva di fronte a sé una gerarchia militare completamente
genuflessa e pronta ad accondiscendere ad ogni sua richiesta. Ciò impedì
qualsiasi dibattito e qualsivoglia riflessione critica su quanto stava per accadere. La cosa era doppiamente grave perché spesso il Duce prendeva le proprie decisioni guidato più dal suo indocile carattere che vero calcolo. In questo caso la ragione ultima che lo spinse ad attaccare la Grecia fu il desiderio
di rivalsa contro Hitler che non lo metteva mai a parte delle sue intenzioni.
Nessuno gli fece notare la sequela di incongruenze e di errori che si stavano
commettendo. Mentre preparava l'attacco ad una nazione che mai nella storia
era stata nemica dell'Italia, Mussolini, contemporaneamente, congedava metà
dell'esercito: 600.000 uomini con migliaia di ufficiali di complemento già
esperti ed addestrati. Il Duce poi fingeva di non conoscere o comunque non
teneva in alcun conto il piano di invasione predisposto dallo Stato Maggiore
nel quale si affermava con chiarezza che per occupare la Grecia erano necessarie almeno 20 divisioni. Tutti coloro i quali, ai massimi livelli, furono imbarcati nell'impresa si diedero al contrario da fare per rivedere scandalosamente al ribasso tale progetto in modo da riadattarlo all'italiana facendo si che
alla fine i suoi enunciati combaciassero con le striminzite forze a disposizione
in Albania.13 Mussolini e la sua cerchia sottovalutarono poi allegramente fattori tutt'altro che imponderabili. Innanzitutto non tennero in alcun conto le
capacità di reazione dell'esercito ellenico, esaltate dal fatto che i soldati greci
avrebbero combattuto per difendere il proprio paese. E' difficile poi comprendere in base a quale logica si diede inizio ad una campagna militare alla fine
di ottobre, senza considerare gli effetti negativi rappresentati dall'inclemenza
del tempo. Pioggia e nebbia impedirono all'aviazione di sostenere per molti
giorni gli sforzi delle truppe che combattevano sul terreno e che dovevano
misurarsi anche con le sue asperità, ingigantite dagli effetti delle avverse condizioni meteorologiche. Scandalosa infine fu - come al solito - l'inefficienza
della logistica. Gli alpini ad esempio furono mandati a combattere in pieno
inverno con i pantaloni di tela estivi. L'ultima illusione nella quale le gerarchie fasciste si cullarono fu quella rappresentata dal fantomatico concorso
bulgaro all'azione militare italiana in Grecia. Ciano aveva garantito a Mussolini che la Bulgaria sarebbe intervenuta al nostro fianco poiché storicamente
13 Le divisioni del nostro esercito con la Riforma Pariani da ternarie diventarono binarie
ossia composte da due soli reggimenti di fanteria e uno di artiglieria, insomma poco più che
una brigata. In Albania, inoltre, i reggimenti erano su due battaglioni anziché su tre, il terzo
era formato da soldati albanesi che, messi alla prova, si comportarono scandalosamente.
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Un pezzo di artiglieria in Val Devoli. SFEI
contendeva agli ellenici una parte della Macedonia che le avrebbe consentito
l'accesso al mare. La surreale riunione di Palazzo Venezia del 15 ottobre 1940
si concluse ancora peggio di com'era incominciata. Oltre alle otto divisioni
già in campo, Mussolini chiese quante altre ne sarebbero state necessarie per
quanto previsto dal «secondo tempo» del piano d'attacco, ovvero l'integrale
occupazione del territorio greco, una volta che lo scontato successo in Epiro
fosse stato ottenuto. La Relazione Ufficiale ricorda come la risposta a tale
interrogativo fosse semplice: ne occorrevano altre dodici come previsto in
origine dello Stato Maggiore. In quel momento chi di dovere avrebbe dovuto
cogliere la palla balzo e rimettere l'intero progetto in discussione. Ma tutti
tacquero e Visconti Prasca rispose che «in un primo tempo [gli sarebbero
bastate] tre divisioni organizzate da montagna» fatte sbarcare in una sola notte a Preveza. A quel punto - con la vittoria già in tasca - Mussolini pose termine alla «discussione» e concluse: «Riassumendo: offensiva in Epiro; osservazione e pressione su Salonicco e, in un secondo tempo, marcia su Atene.» Il
giudizio della Relazione Ufficiale su quanto accadde in quella sciagurata riunione è caustico: «Nel colloquio erano stati eliminati, uno a uno, senza contrasti, quasi che gli interlocutori fossero ipnotizzati, tutti gli elementi condizionatori del problema operativo.» Quando l'indomani al capo di stato maggiore della Marina, ammiraglio Domenico Cavagnari, furono comunicati i
dettagli dell'operazione, l'alto ufficiale si affrettò a far notare che il contemporaneo sbarco notturno di ben tre divisioni a Preveza era semplicemente impossibile. L'ammiraglio segnalò anche che, una volta iniziate le ostilità, la
permanenza della flotta a Taranto avrebbe esposto le nostre navi alla minaccia
di possibili azioni da parte degli inglesi. La reticenza di Cavagnari sembrò in
parte far rinsavire anche il sottocapo di stato maggiore Roatta che, a quel
punto, espresse «la sua seria perplessità su tutta l'operazione nelle condizioni
del momento.» Anche Badoglio iniziò allora ad avere qualche dubbio. Cercò
il Duce ma il dittatore era fuori Roma. Decise quindi di rivolgersi a Ciano il
quale, non appena Mussolini fece rientro nella capitale, gli comunicò le perplessità improvvisamente insorte nella mente di Badoglio. Il capo del fascismo reagì da par suo. Il Duce, scrive Ciano: ««ha un violento scoppio d'ira e
dice che andrà di persona in Grecia ''per assistere all'incredibile onta degli
italiani che hanno paura dei greci''. Intende marciare a qualunque costo e se
Badoglio darà le dimissioni le accetterà seduta stante […]»14. Per il capo di
stato maggiore arriva il momento di presentarsi a rapporto a Palazzo Venezia.
Quando vi arriva il generale tutto fa tranne che presentare le dimissioni. Si
limita a chiedere qualche giorno di rinvio, «almeno due», per dare inizio alle
14 Galeazzo Ciano, Diario, op. cit. pag. 315 – 316.
Aprile 1941. Truppe greche in ripiegamento. SFEI
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operazioni. L'imminente tragedia assume addirittura i tratti della commedia
quando si apprende che i capi dello Stato Maggiore italiano a Roma vengono
a conoscenza del fatto che alla Grecia è stato intimato un ultimatum ascoltando la radio inglese. Da quella stessa fonte essi acquisiscono anche un'altra
ferale notizia: gli ellenici hanno chiesto l'aiuto della Gran Bretagna. In tutta
questa paradossale vicenda vi fu però anche un altro personaggio che venne
colto del tutto di sorpresa dagli eventi proprio come Mussolini aveva auspicato. Adolf Hitler, il quale non desiderava affatto impantanarsi - almeno per il
momento - nel groviglio balcanico - apprese effettivamente dalla stampa
quanto stava per accadere...
In viaggio verso il fronte greco-albanese. Archivio Pagnacco.
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In viaggio verso il fronte greco-albanese. Archivio Pagnacco.
Il piano operativo e lo scacchiere
L'originale piano di attacco allo stato ellenico concepito nel 1939, per conto dello stato maggiore, dai generali Alfredo Guzzoni e Alberto Pariani era
diviso in due parti. La prima prevedeva «di recidere la Grecia dal resto dei
Balcani col taglio Albania – Salonicco». La seconda mirava invece all'occupazione di Corfù e possibilmente delle isole joniche, per evitare che gli
inglesi potessero impiantarvi basi dalle quali operare contro di noi. Il disegno
offensivo concepito dai due generali prevedeva un largo ricorso alla componente aerea che avrebbe dovuto dare ampio sostegno alle forze operanti a terra. Il presupposto indispensabile per la riuscita dell'operazione era però che in
Albania, dove l'attacco sarebbe dovuto scattare, venissero concentrate «forze
sufficienti per consentire la tempestiva alimentazione dello sforzo dallo sbocco oltre frontiera al raggiungimento dell'obiettivo» (schizzo 2). Il progetto di
Guzzoni e Pariani teneva naturalmente nel dovuto conto la capacità di reazione dell'esercito greco analizzando nel dettaglio la collocazione e l'entità delle
sue forze nelle zone interessate dalla nostra offensiva. I due generali avevano
calcolato che per il solo settore macedone essa avrebbe assorbito un totale di
dodici divisioni di una corazzata e due autotrasportate inquadrate in quattro
corpi d'armata. Tutto doveva avvenire «con rapidità e violenza per travolgere
immediatamente le difese di frontiera, superare celermente l'ostacolo montano impedendo al nemico di riorganizzarsi e raggiungere al più presto Salonicco.» Nel settore dell'Epiro l'impegno previsto sarebbe invece stato minore
essendo state qui pianificate solo azioni di rettifica delle posizioni a breve
raggio. Guzzoni e Pariani avevano calcolato che due divisioni e un reggimento di alpini sarebbero stati più che sufficienti, in considerazione del fatto che
le nostre forze si sarebbero trovate dinanzi a una sola divisione greca. Qui
l'obiettivo era quello di raggiungere il fiume Kalamas lungo una direttrice
predefinita. Altre truppe sarebbero poi servite per la protezione del confine
albanese lungo la frontiera con la Jugoslavia e per la gestione dello scacchiere
jonico. In tutto le divisioni necessarie a condurre in porto l'impresa dovevano
essere venti e non meno di tre i mesi richiesti per la preparazione dell'intero
apparato. Il piano Guzzoni-Pariani venne dapprima rivisto dal generale Geloso per poi assumere il suo impianto definito nella riunione di Palazzo Venezia
del 15 ottobre 1940. Il disegno finale delle operazioni contro la Grecia uscì
dunque dallo stato maggiore il 20 ottobre, cioè una settimana prima dell'attacco. Esso non faceva altro che recepire quanto Mussolini e Visconti Prasca
avevano detto cinque giorni prima nella riunione appena ricordata. Il primo
obiettivo era l'occupazione dell'Epiro sino alle posizioni che dominavano il
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Di fronte al porto di Valona. Archivio Pagnacco.
golfo di Arta da sud e da est. Qui le nostre truppe avrebbero dovuto attendere
i rinforzi necessari a dare il via al secondo tempo della manovra che doveva
portarci ad Atene lungo due direttrici. La prima - che partiva proprio da Arta
- doveva svilupparsi lungo il percorso Lamia, Atalanti, Tamara fino alla capitale ellenica. La seconda avrebbe invece dovuto raggiungerla percorrendo
la via Agrinon - Missolungi. Nel frattempo, le truppe stanziate nella regione
del Korcano, una volta rinforzate dovevano passare all'offensiva per attirare
su di loro le forze greche della Macedonia. Nell'imminenza dell'operazione
si dovevano naturalmente organizzare i comandi. Lo stato maggiore avrebbe
voluto inviare in Albania il generale Geloso ma si Mussolini si oppose. Il suo
uomo era Visconti Prasca e nessun generale a lui superiore in grado, dove vaessere fisicamente presente nel territorio del piccolo stato balcanico. A quel
punto furono costituiti in maniera del tutto frettolosa due distinti comandi di
corpo d'armata, affidati a due generali di divisione «con incarico superiore.»
Si trattava di Gabriele Nasci e Carlo Rossi, entrambi alpini, da tutti considerati ottimi elementi. Quando Nasci giunse in zona d'operazioni, scoprì che il
suo comando esisteva solo sulla carta, essendo del tutto privo di personale.
Dovette allora in qualche modo arrabattarsi recuperando gli ufficiali di cui
aveva bisogno in seno alle unità che da lui dipendevano. Tanta approssimazione e leggerezza nella costituzione dei centri nevralgici dai quali l'intera
campagna avrebbe dovuto essere diretta, non sarà priva di serie conseguenze.
«Si può affermare – scrive infatti la relazione Ufficiale, - alla luce della dura
realtà degli avvenimenti, che il dramma delle truppe d'Albania è stato prima
di tutto il dramma di comandi di grandi unità posti nella quasi impossibilità di
esercitare le loro funzioni.» Il 23 ottobre il Comando Supremo sintetizzò in
un documento il complesso delle operazioni che l'attacco alla Grecia, la cosiddetta «Emergenza ''G''», avrebbe comportato). A quella data una prima illusione si era già dissolta. La Bulgaria non avrebbe partecipato alla campagna
contro gli ellenici. Non era una notizia da poco perché ciò avrebbe consentito
all'esercito greco di concentrare il grosso delle sue forze sul fronte albanese.
Questa fondamentale informazione non parve però preoccupare troppo Badoglio il quale preferì invece perdere il proprio tempo scrivendo un'euforica
lettera a Cesare De Vecchi, governatore dell'Egeo, con la quale gli annunciava
allegramente l'inizio «della spedizione punitiva» contro la Grecia.
Di fronte al porto di Valona. Archivio Pagnacco.
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Le forze in campo
Le forze che dovevano entrare in azione in Grecia erano le seguenti. Nel
settore dell'Epiro avrebbero operato sei divisioni: la Julia15, la Ferrara, la
Siena, la Centauro, la Piemonte e il cosiddetto Raggruppamento del Litorale. Il fronte del Korcano era invece affidato alla divisione Parma. Due
altre divisioni infine, la Venezia e la Arezzo, sarebbero state dislocate lungo la
frontiera jugoslava. Nel frattempo, anche se nessuno in Italia sembrava curarsene, l'esercito ellenico - perfettamente conscio di quanto stava per accadere
- si preparava all'imminente scontro. Da Atene l'ambasciatore Gazzi segnalò
inascoltato che la campagna di richiamo dei riservisti era in pieno corso. Alla
fine gli ellenici avrebbero potuto disporre di 300.000 uomini e non di solo
30.000, come ipotizzato nelle fantasiose previsioni di Visconti Prasca. Gazzi
comunicava anche che le divisioni di Patrasso e di Nauplia erano già affluite
in Epiro. Visconti Prasca, nell'emanare i suoi ordini operativi, diede qualche
ultimo ritocco spostando, ad esempio, la divisione Venezia sulla sinistra della
Parma. Poco prima dell'attacco il duce gli scrisse:
Il generale Cavallero con alcuni feriti italiani. SFEI.
Caro Visconti, Voi sapete, e se non lo sapete Ve lo dico io adesso, che
mi sono opposto a tutti i tentativi fatti per toglierVi il comando alla vigilia
dell'azione. Credo che gli eventi, ma soprattutto l'opera Vostra mi daranno
ragione. Attaccate con la massima decisione e violenza. Il successo dell'azione dipende soprattutto dalla sua rapidità.16
Il rapporto tra Mussolini e Visconti Prasca era ormai diretto e privo di intermediari. Con quelle poche righe il Duce17 scavò una voragine tra la Stato
Maggiore e il Comando Truppe Albania. La sera del 27 ottobre il generale
telegrafò a Mussolini: «truppa ovunque schierata per attacco e pronta a scattare.» Anche i greci però erano pronti...
15 La Julia era in Albania dalla metà di aprile del 1939. Poco prima che iniziasse la campagna il gen. Fedele De Giorgis fu sostituito al comando dal generale Mario Girotti.
16 USSME cit. pag. 132. In pratica con quella lettera Mussolini faceva chiaramente capire
che nemici di Visconti Prasca erano allo Stato Maggiore ossia, Badoglio e i suoi generali,
mentre gli amici erano lui, il duce, Ciano e Soddu. A mio parere quel biglietto spiega meglio
di tante analisi l'ambiente politico- militare romano di quei giorni e del perché la campagna
di Grecia non poteva che finire in un disastro.
17 Questo lo sferzante giudizio sul Mussolini politico e condottiero, ma anche sul popolo
italiano di Enrico Caviglia scritto sul diario il 7 maggio 1942: «Ricordo il discorso di Mussolini per l'entrata in guerra: ''La guerra sarà breve''. Grandi applausi. ''Anzi brevissima''. Strepitosi applausi. ''La comanderò io''. Battimani frenetici. Risultato: botte per mare, per terra e
nel cielo. Caviglia, Diario, op. cit., pag.366.
Una nostra trattrice. SFEI.
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Il settore dell'Epiro
La mossa iniziale di Visconti Prasca doveva svilupparsi in Epiro e prevedeva la veloce avanzata della nostra principale massa di attacco sull'asse
Kalibaki – Gianina – Arta. Con le altre forze il generale aveva invece previsto
di bloccare il passo di Metsovo e lo sbocco a sud della regione. Per il momento, nelle sue intenzioni, non c'era traccia di alcuna «trionfale» puntata su
Atene. I greci dal canto loro intendevano difendere l'Epiro in prossimità della
frontiera, lungo una linea che da Kalamas si sviluppava attraverso il nodo di
Kalibaki, il versante nord-ovest del monte Gamila, il nodo di Konitsa, per
giungere sino al monte Grammos. L'intero settore era protetto da fortificazioni campali e permanenti oltre che da sbarramenti anticarro. Era prevista anche
una possibile offensiva che, scattando dalla Macedonia, avrebbe dovuto cogliere alle spalle le forze di invasione italiane. Gli ellenici avevano sistemato
tre divisioni in prima schiera, una in seconda schiera e una sola in riserva. Nel
complesso allineavano 14 reggimenti di fanteria, 2 di frontiera, 5 di artiglieria e altre unità varie per un complesso di 60 –70.000 uomini. Di fronte ad
essi erano schierati il corpo d'armata Ciamuria, agli ordini del generale Carlo
Rossi, che disponeva delle divisioni di fanteria Siena, comandata dal generale Gualtiero Gabutti e Ferrara affidata al generale Licurgo Zannini oltre che
della divisione corazzata Centauro del generale Giovanni Magli. Si trattava
in tutto di 12 battaglioni di fanteria, 3 di bersaglieri, 4 di carristi e 6 di camice
nere. Vi erano poi i 5 battaglioni alpini della divisione Julia comandati dal
generale Mario Girotti e integrati da un battaglione di volontari albanesi. Il
Raggruppamento del litorale, agli ordini del generale Carlo Rivolta era infine
composto da 3 battaglioni di granatieri, da 4 gruppi squadroni di cavalleria
e da 2 battaglioni di volontari albanesi. In totale, sul fronte dell'Epiro, potevamo contare su 33 battaglioni di fanteria, 4 di carristi e 6 gruppi quadroni
di cavalleria. Forte di queste truppe il generale Carlo Rossi avrebbe dovuto
«rompere con la massa le forze di resistenza avversarie poste a difesa del nodo
di Kalibaki e sfruttare il successo in direzione di Gianina e Arta» (schizzo 14).
La Julia, che operava alle dirette dipendenze di Visconti Prasca, costituiva il
perno di manovra di tutta l'azione col compito di occupare il nodo di Metsovo
per impedire al nemico della Ciamuria di sfuggire verso est attraverso il passo
del Pindo (schizzo 15).
Klisura. SFEI.
Il settore macedone
In Macedonia era destinato a combattere il XXVI Corpo d'Armata agli ordini del generale Gabriele Nasci. La grande unità era però ancora in corso di
formazione e poteva contare sulla sola divisone Parma integrata da qualche
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Tepeleni. SFEI.
In viaggio verso il fronte greco-albanese. Archivio Pagnacco.
Due immagini riprese davanti al porto di Valona
Archivio Pagnacco
altro reparto di supporto. In tutto, le nostre forze sullo scacchiere macedone
ammontavano a 16 battaglioni che avrebbero dovuto misurarsi contro una
forza presunta di 28 battaglioni greci già pronti in linea, mentre altri stavano
affluendo in quell'area. Di fronte a questi semplici dati è del tutto chiaro che
il rapporto di forza di due a uno a nostro favore che Visconti Prasca aveva
rappresentato a Mussolini, si rivelava irreale.
Il totale delle forze italiane
La forza d'invasione italiana pronta a scattare verso la Grecia dal territorio albanese era formata da un totale di 140.000 uomini. Le salmerie erano
a disposizione per il 75% del bisogno previsto. Decisamente non buona era
invece la situazione delle artiglierie, insufficiente per numero considerata la
vastità della regione in cui gli italiani sarebbero stati chiamati ad operare, la
robustezza del sistema di fortificazioni predisposto dagli avversari e la tipologia dei cannoni da 105 in dotazione alle truppe elleniche. Allo scoppio delle
ostilità infine, la nostra aviazione allineava 8 squadriglie da bombardamento,
9 da caccia e 3 da osservazione. In totale 120 aerei da caccia e un centinaio
di bombardieri.
Fronte Greco: il generale Geloso con Vittorio Emanuele III. SFEI.
50
51
Gli alpini della Julia all'attacco sul Pindo
A poche ore dall'inizio delle operazioni le forze di fanteria delle due parti
erano schierate sul campo come segue. Nel settore dell'Epiro 5 battaglioni
greci ne fronteggiavano 24 italiani, 6 dei quali erano però composti la Camice
Nere, truppe - per difinizione - molto meno efficienti di quelle dell'esercito
regolare. Sul Pindo invece, 2 soli battaglioni ellenici sbarravano il passo a 5
del regio esercito. La situazione era differente in Macedonia dove 22 ventidue
battaglioni greci attendevano al varco 16 battaglioni italiani, 2 dei quali erano
composti da mitraglieri e uno da carabinieri. In totale dunque, 45 battaglioni
grigioverdi si preparavano ad attaccarne 39 ellenici. Nella prima settimana di
guerra però, Atene potrà mettere in campo il I e il II copro d'armata e una divisione di cavalleria, mentre le nostre truppe dovranno fare affidamento solo
su 5 battaglioni della divisione Venezia e, più tardi, sulla divisione Arezzo.
Gli alpini della Julia dovevano battersi sul settore del Pindo, una lunga
dorsale montuosa che si allunga dal gruppo del monte Grammos fino passo
di Metsovo. L'area è segnata da pendenze molto forti, da fitte foreste di conifere e da dorsali tondeggianti. Il terreno è prevalentemente argilloso e, se le
condizioni metereologiche sono sfavorevoli, si tramuta rapidamente in fango.
La situazione delle vie di comunicazione si presentava non favorevole poichè
esse erano costituite per lo più da sentieri che si rivelarono altrettanti passaggi
obbligati. Lungo l'intera catena montuosa il movimento delle truppe risultava
più agevole in senso trasversale che non longitudinale. In un contesto tanto
aspro, due erano i punti chiave dell'intero sistema di comunicazioni: il nodo
di Furka– Amarina e quello di Metsovo. Ogni movimento in direzione est
rendeva necessario il controllo del primo. Il secondo invece, per poter essere
difeso in modo efficace, richiedeva l'impiego di un elevato numero di truppe.
Il settore era poi caratterizzato dalla presenza di due fiumi: il Sarandaporos
e la Vojussa che rappresentavano altrettanti ostacoli da superare. Il Sarandaporos, il cui letto corre per buona parte su un fondo dai fianchi scoscesi, non
risultava guadabile per buona parte del suo corso e gli unici due ponti presenti erano subito stati fatti saltare dai greci. Quanto alla Vojussa il tratto che
serpeggia tra Vovusa a Konitsa scorreva all'interno di una gola rocciosa che
lo rendeva del tutto impraticabile. Gli alpini della Julia, per portarsi sul loro
settore d'impiego, erano obbligati a spostarsi in direzione nord-ovest – sudest, lungo la direttrice che presentava le peggiori vie di comunicazione. Era
necessario avanzare su un terreno sconosciuto e caratterizzato da forti dislivelli dove moltio erano i passaggi obbligati che si prestavano ad imboscate e
attraverso in quali le salmerie spesso potevano transitare solo con enormi dif52
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ficoltà. Per potersi muovere su un terreno di questa natura gli alpini dovevano
spostarsi divisi in piccole colonne non profonde per sfruttare al meglio ogni
possibile itinerario. Nella zona dello Smoilka però, montagna che si elavana
fino a 2636 metri d'altezza, questo era impossibile poichè l'intero settore era
roccioso, ripido, isolato e privo di comunicazioni che lo attraversano. Una
vera fortezza naturale di roccia che obbligava le colonne delle penne nere a
perdere contatto fra loro, allargandosi proprio in vista dei punti più delicati che erano il passaggio del fiume Vojussa e l'attraversamento del cruciale
nodo Furka–Samarina. C'era poi da considerare il fatto che la direzione lungo la quale le nostre truppe stavano avanzando poneva i greci i condizione
di attaccarle sul fianco. Per evitare questo pericolo era dunque necessario
garantirsi prima il controllo della cresta del monte Mavripetra che avrebbe
dovuto essere mantenuto fino a che tutta la Julia non avesse completato il suo
movimento. Naturalmente, i problemi legati alla viabilità e alla logistica non
si esaurivano solo con cio che siamo venuti sin qui esponendo. Tutte le vie di
comunicazione convergevano infine al passo di Metsovo presso il quale gli
alpini avrebbero dovuto giungere riuniti e in quantita tale da potersi sistemare
a difesa. Ricorda Giancarlo Fusco:
Un po' dopo il tramonto il battaglione «Tolmezzo», zuppo e stanco, raggiunse indisturbato il fondo della Val Belica, sotto i monti di Gramos, una
ventina di chilometri oltre il confine. Il «Gemona» e il «Cividale» si attestarono alle pendici dei monti Stauros, al centro dello schieramento. Il «Vicenza»
occupò Amorandos, un paesino di dieci case, dove i pastori erano rimasti con
le greggi, ma tacevano fissando le fiamme nei caminetti primitivi. L'«Aquila»,
più in basso, controllava la media valle del Sarantaporos. Durante la notte
si alzò un vento turbinoso. All'alba, scemato il vento, crollarono da cielo valanghe d'acqua. Valanghe è dir poco. Gli alpini non avevano mai visto una
pioggia così massiccia, pazza, incessante. Impediva la visibilità, come una
fitta nebbia. Sollevava zampilli alti un palmo nelle pozze. Scioglieva la terra
e scopriva le radici con la violenza di una manichetta. «S'è sfondà il ciel!»
disse l'alpino Claut Angelo, masticando un po' di galletta.18
Fronte greco-albanese: gli alpini avanzano. Archivio Pagnacco.
Sul Pindo i greci non avevano molte truppe, ma erano in grado di farne
accorrere celermente al bisogno. Le unità presenti erano costituite, per lo più,
da distaccamenti armati con due mitragliatrici, in grado di intervenire con
efficacia contro le piccole colonne degli alpini in marcia. Alle spalle erano
sistemate unità più grandi con il compito di impedire la penetrazione italiana
18 Gian.Carlo Fusco, Guerra d'Albania, Milano, Garzanti, 1977.
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Fronte greco-albanese: gli alpini avanzano. Archivio Pagnacco.
Il generale Alexander Papagos, comandante supremo delle forze elleniche. Archivio Life Magazine.
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che – come abbiamo visto - tendeva a separare le unità greche dell'Epiro
da quelle della Macedonia. Per i motivi che abbiamo registrato la Julia era
articolata in due raggruppamenti di forze. Il primo era costituito dall'8° reggimento agli ordini del colonnello Vincenzo Dapino, disposto su tre colonne
rappresentate dai battaglioni Tolmezzo, Gemona (col gruppo artiglieria Conegliano) e Cividale anch'esso con al seguito una batteria del Conegliano. Il
comando di reggimento accompagnava il battaglione Gemona mentre quello
di divisione si spostva dietro al Cividale. L'obiettivo era il passo di Metsovo
che doveva esser occupato a difesa con la fronte rivolta ad est. Il secondo raggruppamento era invece costituito dal 9° reggimento, comandato dal colonnello Gaetano Tavoni, che avanzava su due colonne con i battaglioni Aquila seguito da una batteria del gruppo Udine - e Vicenza accompagnato anch'esso
da una batteria dell'Udine. Il comando di reggimento muoveva con l'Aquila.
Le truppe di Tavoni avrebbero dovuto occupare a difesa le posizioni da Plaka
(q.1593) a Peristeri (q.2294), rivolgendo la propria fronte a ovest. Sul fianco
della divisione il V battaglione volontari albanesi con qualche squadra di
alpini aveva il compito di occupare la conca di Konitsa per poi assicurare il
fiancheggiamento fino a Metsovo. I piani prevedevano che tutto si svolgesse
nell'arco di quattro giorni. Considerata quindi la rapidatà dell'azione e il fatto
che il terreno non permetteva di far affluire rifornimenti da tergo fu presa un
decisione drastica: tutto il carreggio, il corredo della truppa, le cucine, le mense, i bagagli, il materiale sanitario e delle trasmissioni, venne lasciato nelle
retrovie a Ersekë. Sotto il profilo tattico la decisione poteva apparire corretta
e lo sarebbe stata se i tempi fossero stati rispettati e gli obiettivi raggiunti.
Purtroppo il successivo svolgersi dei fatti fece si che quella risoluzione avesse
pesanti conseguenze. Eppure, alle prime luci dell'alba del 28, gli auspici sembravano buoni. Gli alpini travolsero di slancio e rapidamente i piccoli avamposti di frontiera, catturarono armi automatiche, munizioni e materiale vario e
raggiungero il Sarandaporos dopo aver superato le difese. Prima del tramonto
il Gemona ed il Cividale avevano occupato lo Stravos. Il cattivo tempo però
non dava tregua e i suoi effetti cominciarono ben presto a farsi sentire. La
mattina dopo infatti la marcia riprese sotto un vero diluvio. I sentieri, stetti e
tortuosi, divennero rapidamente torrenti di fango e detriti. Il fiume si ingrossò
così come i suoi affluenti. In quelle condizioni, aggravate da un freddo gelido
che provocò i primi casi di assideramento, guadare il Sarandaporos si rivelò
un'impresa impossibile. Insomma, il nemico più temibile non era rappresentato dalle pur valide difese greche, ma dalle terribili condizioni ambientali.
La situazione della Julia all'alba del 31 ottobre 1940 appariva piuttosto
buona. L'8° reggimento si era attestato al nodo di Furka con il Gemona a
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sud-est e il Cividale a Sud. Seppure in ritardo era giunto anche il Tolmezzo
che si era sistemato a nord-est della posizione. Il 9° Reggimento si era invece arrestato alle pendici settentrionali dello Smolika. Dunque, parte della
Julia aveva garantito il controllo del nodo di Furka ma la situazione poteva
considerarsi tutt'altro che stabilizzata a nostro vantaggio. Il movimento delle
forze italiane era infatti troppo lento. Le avverse condizioni metereologiche
rendevano quasi impraticabili vie comunicazione già di per sé ostiche a causa
della natura del terreno trasformato in fango dalla pioggia. Durante la notte
il freddo era intenso e la visibilità ridotta al lumicino. Bisognava a tutti i costi
accelerare l'avanzata su Metsovo prima che la crisi dei rifornimenti, che erano
stati lasciati nelle retrovie, cominciasse a far sentire i suoi effetti. In effetti
la nostra manovra era riuscita in un primo tempo a sorprendere i Greci . Nel
pomeriggio del 30 un ufficiale inviato a constatare direttamente la situazione
nel settore, secondo quanto riferisce la Relazione Ufficiale greca, aveva comunicato: «La situazione è disperata. Ho racimolato una trentina di uomini in
condizioni indescrivibili. Mancano armi, munizioni, il cibo. Non è possibile
inviarli in quota a causa del loro bassissimo morale […] Mandate pane.»19
Dunque l'obiettivo della Julia di separare le forze greche del Pindo da quelle
della Macedonia appariva davvero sul punto di essere conseguito. La reazione del Comando supremo ellenico fu però rapida ed efficace. Esso ordinò
l'afflusso immediato in zona di tutte le unità che potevano giungervi nel minor
tempo possibile. All'8ª divisione ellenica fu invece ordinato di schierarsi in
profondità per arrestare il nemico sulla prima linea di difesa Elea–Kalamas.
Le truppe di stanza sul Pindo, che erano alle dipendenze della Sezione d'Armata operante nella Macedonia occidentale (SAMO), furono trasferite agli
ordini del comando della 2a Armata. Quest'ultima era infatti molto più vicina della prima all'area delle operazioni, ed era in grado di intervenire con
maggiore celerità. L'effetto di tali provvedimenti, presi rapidamente, si fece
sentire già dalla sera del 30. Il rapporto di forze adesso era mutato. Da una
parte c'erano 5 battaglioni di alpini isolati dalla loro base e con gravi carenze
logistiche; dall'altra la 1ª divisione greca con il compito di consolidare la difesa sulla linea di arresto, ridurre progressivamente la breccia aperta dagli italiani e ed infine eliminarla. La situazione era dunque mutata in questo modo.
Contro i tre battaglioni dell'8° reggimento c'erano adesso nove battaglioni
greci, un gruppo di squadroni e unità minori. Ai due battaglioni del 9° reggimento gli ellenici opponevano per il momento un solo battaglione rinforzato.
Era insomma palese che la situazione si stava capovolgendo perché la direzione dell'avanzata italiana verso Vovusa era chiara ed era chiaro anche che
19 Ripresa. da USSME cit. pag.198.
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A sinistra il generale Charalambos Katsimitros comandante dell'8° Divisione in Epiro.
A destra una madre saluta il figlio in partenza per il fronte.
I riservisti greci mobilitati per opporsi alle forze di invasione italiane.
Ufficiali greci
il nostro fianco sinistro poteva in qualsiasi momento subire un contrattacco
avversario. La Grecia stava buttando nella fornace soldati appena richiamati
e dunque provvisti di un addestramento approssimativo, ma dal punto di vista motivazionale essi traevano senza dubbio una grande spinta dal fatto di
combattere per la propria terra. Sul Pindo la popolazione, uomini e donne,
si unì all'esercito trasportando a spalla o a dorso di mulo, armi, munizioni e
materiali di ogni genere. Il giorno successivo, il primo di novembre, gli ellenici
cominciarono a rispondere attaccando le posizioni difese da una compagnia del
Tolmezzo che riuscì a disimpegnarsi con abilità e a raggiungere il resto del battaglione che, nella circostanza, era di retroguardia. L'azione avversaria proseguì
ma «al nodo di Furka [...] si infranse contro il Gemona e non riuscì ad arrestare
il Cividale che si aprì il passo arrivando a Samarina nella tarda serata.» L'8°
reggimento era finalmente riuscito a riunirsi e poté procedere in un'unica colonna per raggiungere Distraton attraverso il versante orientale dello Smolika. Il
9° reggimento nel frattempo non aveva ancora potuto superare la Vojussa e, la
sera del 2 novembre, il generale Girotti diede disposizione di provare di nuovo
a passare il fiume. Nel caso il guado del corso d'acqua non fosse stato coronato
da successo l'ordine era di raggiungere l'8° a Distraton. La Vojussa, a causa
della piena, si rivelò impossibile da superare e fallì anche il congiungimento
coll'unità del colonnello Dapino. L'itinerario che conduceva al settore controllato dall'8°era infatti battuto con violenza dalle artiglierie e dalle mitragliatrici
appostate sulla sinistra del fiume. Al tramonto del successivo 3 novembre la
situazione si era così assestata: il 9° reggimento, dopo tutte le vicissitudini che
aveva dovuto affrontare, si era raccolto tra Paleoselio e Pades. L'8° era invece
ancora attestato a Distraton. Il battaglione Cividale in particolare si trovava
isolato nei pressi di Vovusa ed era costantemente a rischio di essere accerchiato
dalla brigata di cavalleria ellenica. A complicare le cose intervenne poi anche
il fatto che la Julia era in azione continua da una settimana e aveva seco viveri
e foraggi per soli cinque giornate. Si ricorderà infatti che i comandi italiani,
erroneamente convinti di dover affrontare un'impresa di breve durata, avevano
lasciato nelle retrovie ogni genere di materiali, stanti gli enormi problemi che
si sarebbero dovuti affrontare per alimentare la zona di combattimento, con
regolari linee di rifornimenti, considerata la scarsa praticabilità delle vie di comunicazione. Nella zona era possibile procurarsi solo della carne e nient'altro.
Il foraggio per i muli era introvabile e gli animali si ritrovarono ben presto allo
stremo. Il comando della divisione aveva chiesto rifornimenti a mezzo di aerei,
ma non se ne vide nessuno. Il cattivo tempo rendeva impossibile volare. Il
generale Girotti riassumeva così efficacemente la situazione al Comando Superiore Albania:
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A sinistra il colonnello Davakis, comandante delle
forze sul Pindo. Sopra: i greci si mobilitano per
resistere all'aggressione italiana.
«Nemico est a tergo, su fianco et avanti alt per procedere in qualsiasi direzione occorrono rifornimenti alt Gradirei conoscere in merito intendimenti et
possibilità codesto comando alt Inviata Konitsa colonna per rifornimenti per
quanto risulti che nemico discende da Saradaporos alt Aerei nemici sorvolano et agiscono su nostri reparti alt.»
Alle parole del generale Girotti che descriveano senza mezzi termini la
gravità del momento, la risposta del Comando fu di «contenere il nemico, fare
massa in zona Distraton et assicurare la via di comunicazione con Konitsa.»
Nessun documento riferisce purtroppo quale fu la reazione del comandante
della divisione e dei suoi alpini di fronte a queste righe. Il 5 novembre il Gemona si trovò sotto attacco. Le posizioni occupate dal battaglione, da q.1609
a q.1991 tra il Kergli e lo Smiliani, furono affrontate da due battaglioni avversari e da un reggimento di cavalleria. La q.1609 venne occupata dagli
ellenici che cercavano di scendere nel villaggio di Distraton. Un successivo
contrattacco li fece però desistere. Le truppe creche miravano a seprarare fra
loro i bue reggimenti alpini ma il piano fallì grazie all'intervento dei battaglioni Aquila e Vicenza. Accaniti combattimenti si protrassero per sette ore
al termine delle quali la situazione permaneva complicata. Il 5 novembre fu
un gran brutto giorno la Julia: 126 gli alpini morti, 259 feriti e 306 dispersi.
Tra loro anche 22 ufficiali. I greci per affrontarla avevano messo in campo
due reggimenti e mezzo di fanteria, un reggimento di cavalleria, intergrati da
altri reparti provenienti da sud. Erano forze sufficienti per schiacciare la Julia
che era ormai in situazione critica. I suoi esausti battaglioni si comportarono
al meglio: il Tolmezzo tenne testa, pur a fatica, a reiterati assalti di due battaglioni greci; il Cividale si trovò di fronte, alternativamente, addirittura quattro
battaglioni avversari; il Gemona aggrappato alle pendici dello Smiliani e del
Kersoli, dopo una disperata resistenza e ormai stremato dovette cedere alle
preponderanti forze che lo assediavano. In quel frangente intervenne allora
l'Aquila che, sbucando lateralmente, riuscì a trattenere i greci. Per quanto
ancora si sarebbe potuto resistere? Dopo dieci giorni di combattimenti ininterrotti, respingendo tutti gli attacchi, senza rifornimenti, sotto la pioggia e
la neve, sempre sotto tiro o sotto attacco da ogni parte la Julia era ormai allo
stremo. Fu deciso allora che l'8° reggimento si sganciasse dal nemico e raggiungesse la zona di Pades-Elefterio. Il Tolmezzo riuscì ad allontanarsi dopo
aver operato un violentissimo contrattacco che mise in fuga gli avversari che
lo circondavano. Il Cividale non riuscì invece ad alleggerire la pressione che
gravava su di esso e l'Aquila, sullo Smolika, si batteva per impedire il crollo di tutte le posizioni. Approfittando della notte infine, il Cividale, assalito
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Un caduto greco trasportato dai commilitoni.
A sinistra il generale Haralambos Katsimitros comandante dell'8° Divisione di fanteria in Epiro. A destra
il generale Vassilios Vrachnόs che comandò la controffensiva contro gli italiani il 14 novembre 1940.
da ogni parte riuscì non si sa come ad aprirsi una via per ricongiungersi al
reggimento. Seguirono altri tre giorni di marcia lenta all'indietro, fra neve,
pioggia, fango e bombe. Gli alpini, ormai privi di energie, senza viveri e con i
muli ridotti, se possibile, peggio degli uomini, furono finalmente raggiunti da
un beffardo telegramma con il quale il generale Visconti Prasca sanzionava la
fine dell'offensiva attraverso il Pindo.
«Essendo finita vostra missione fiancheggiatrice riunitevi su base Konitsa
a sbarramento due ponti Vojussa monte Graspenizza costone Messaria punto per sbarramento Sarandaporos est già stato inviato un battaglione 139°
fanteria et una compagnia motociclisti Giornata sarà fatto affluire altro battaglione. Zona Leskoviku-Erseke si sta concentrando aliquota divisione fanteria Bari. Azione divisione Julia habet aggiunto nuova gloria storia alpini et
tuo comportamento est stato magnifico. Bravo voi bravi tutti.»20
Fanteria greca sulle montagne. Il mitragliere ellenico ritratto nella foto brandeggia una «St. Etienne»
francese, arma utilizzata sui campi di battaglia del primo conflitto mondiale.
Il generale Girotti nella risposta a Visconti Prasca segnalò che l'8° reggimento era ancora sotto pressione del nemico a Distraton e che le sue condizioni erano tutt'altro che buone soprattutto per la perdita di numerosi comandanti di compagnia, ma anche di uomini, muli e armi. Aggiunse inoltre che
gli alpini stavano letteralmente morendo di fame perché da cinque giorni si
trovavano senza viveri e che i rifornimenti per via aerea si erano dimostrati
«troppo insufficienti.» I greci nel frattempo erano in piena azione. La 1ª
divisione tentò di attuare una manovra il cui fine era quello di chiudere una
tenaglia intorno alla Julia e annientarla. Grazie però alla tenace resistenza
delle penne nere l'obiettivo non venne conseguito. Per tutto il giorno 10, gli
alpini dell'8° reggimento continuarono a combattere riuscendo infine a sfuggire alla morsa e a raccogliersi a Konitsa sotto la protezione del 9°. Finalmente, alla sera, sostituite dai fanti della Bari, le penne nere della Julia iniziarono
il trasferimento verso Premeti per riordinarsi. Quella sera gli alpini poterono
finalmente dormire dopo aver mangiato qualcosa di caldo ed essersi asciugati
davanti ad un fuoco.
20 Telegramma inviato il 6 novembre 1940.
Mortaisti greci in azione contro le forze italiane.
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Roma: le conseguenze del fallimento dell'offensiva
La nostra prima offensiva sul fronte greco si risolse in un disastro. A
Roma, nelle stanze del potere, lo stato d'animo tendeva al dramma. La promessa «passeggiata» sull'Acropoli di Atene e le espressioni tipo «romperemo le reni alla Grecia», sembravano gli echi lontani di uno scherzo di cattivo gusto. Evidentemente anche Mussolini doveva avere scherzato affermando che «si sarebbe dimesso da italiano» se ci fossero stati problemi a far
fuori la Grecia in quattro e quattr'otto. Il Duce rimase naturalmente al suo
posto. Il 30 ottobre salì su un treno diretto a Grottaglie, in Puglia, doveva
impiantò il proprio «Comando Tattico.» Là Mussolini fece affluire quanti
più poté fra gli attori coinvolti nel dramma ellenico. A Grottaglie arrivano
dunque il sottosegretario alla guerra Ubaldo Soddu, l'ammiraglio Domenico
Cavagnari, membro del governo, nella sua duplice veste di sottosegretario
e di capo di stato maggiore della Marina Militare e il generale Francesco
Pricolo, anch'egli con il doppio ruolo di sottosegretario e capo di stato maggiore dell'Aeronautica. Badoglio invece rimase a Roma e a rappresentare
l'esercito a Grottaglie pensò dunque il sottocapo di stato maggiore Roatta.
C'è molto nervosismo nell'aria perché ormai è chiaro a tutti che quello che
doveva essere «un colpo di maglio fulmineo» si sta tramutando un una umiliante débacle. Soddu appena giunto in Puglia telegrafa a Visconti Prasca
questo messaggio: «ho pronte nove divisioni: te le manderò a richiesta tre
per volta.» Dopo qualche ora è il duce stesso che telefona a Visconti Prasca ribadendogli la disponibilità delle tre fantomatiche grandi unità. Anzi,
aggiunge il Duce, «intanto ho mandato immediatamente a Roma il gen.
Soddu per accelerare l'invio delle tre divisioni.» Se questo fosse il corretto
svolgersi degli avvenimenti ci sarebbe da chiedersi come mai il generale
Soddu, che si trovava già Roma, avrebbe dovuto recarsi fino in Puglia per
spedire un telegramma a Visconti Prasca in Albania e fare quindi immediato
ritorno nella capitale per dare corso a quanto aveva preannunciato per telegrafo. Non avrebbe fatto prima a rimanersene a Roma? Si, se le cose fossero andate proprio così. Soddu in realtà era tornato di corsa indietro perché
Badoglio, che lo vedeva come fumo negli occhi, aveva indetto una riunione
al Comando Supremo per il primo novembre. Oggetto dell'incontro erano
proprio i rinforzi da inviare in Albania. Dopo una relazione tecnica da parte di Roatta sulle scarse possibilità di trasporto in Albania, cui si sarebbe
potuto porre rimedio solo con l'invio di oltre mille autocarri dall'Italia, fu
Badoglio a prendere la parola, proprio per rivolgersi direttamente al sottosegretario di Stato alla Guerra:
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Fronte albanese: artiglieria greca in movimento. Si trascina un cannone francese da 155 della
Grande Guerra. Il fucile in spalla all'artigliere ellenico è un «Mannlicher Schoenherr» da 6,5 mm.
Artiglieri greci su un pezzo da montagna Schneider-Dahlgren
«Io prego Soddu - disse - di riferire al duce quanto segue: […] data l'intensità dei trasporti, la poca capienza dei porti, la distanza dei porti dalle
basi delle truppe […] le tre divisioni che era previsto inviare nel golfo di Arta
per il secondo balzo, saranno oltremare a fine dicembre.»
Donne greche mobilitate a sostegno dello sforzo bellico sostenuto dall'esercito ellenico.
Un intero popolo si mobilita per opporsi alle forze di invasione italiane.
Le parole del generale concellarono ogni residua illusione: qualsiasi immediato invio di truppe era impossibile. Badoglio fece anche notare che Visconti Prasca non aveva mai chiesto, per occupare l'Epiro, le tre divisioni che
ora gli venivano promesse. A chiusura della riunione, il vecchio maresciallo
si rivolse ancora a Soddu apostrofandolo in questo modo: «Dite [a Mussolini]
che lo prego di non dare ordini se non per mio tramite.» Tra Badoglio e il
duce non c'era mai stato del tenero, anzi, il maresciallo nell'ambiente fascista
era considerato un avversario del regime. Terminato l'incontro, Soddù ripartì
alla volta di Grottaglie per riferire al duce, ma quando arrivò il momento di
parlare delle tre divisioni da inviare «subito» a Visconti Prasca, scelse di mantenersi sul vago. Stava andando in scena una vera e propria commedia delle
parti in seno alla quale ognuno degli attori pareva augurarsi che il problema scomparisse da sè. Dal «Comando tattico» di Grottaglie parte allora per
l'Albania il generale Pricolo che va ad incontrare il responsabile delle nostre
forze di invasione, ufficialmente per «consegnargli una lettera» del Duce. In
realtà viene spedito oltremare soprattutto per rendersi conto di persona della
situazione. Il due novembre giunse a Doliana davanti a Visconti Prasca con il
quale parlò a lungo della situazione greca. Pricolo trovò Il comandante di Superalba21, che dirigeva le operazioni sul campo, tranquillo e pacifico come se
tutto andasse per il meglio e, di fronte a questa realtà, se ne tornò a Grottaglie
riportando quella che definì una «sensazione di sbigottimento.» Ragguagliò
il duce sulla situazione e ne parlò con Soddu, il quale siccome era presente
Mussolini, interruppe prudentemente il discorso. La stella di Visconti Prasca era sul punto di tramontare mentre si infittivano le manovre per il suo
siluramento. Il giorno seguente il «Comando tattico» smobilitò e tutti se ne
tornarono a Roma con qualche pensiero in più per la testa. Nella confusione
generale poteva forse mancare l'ennesima - inutile - uscita di Ciano? Il baldo
e prestante ministro era andato personalmente a Tirana e il 31 ottobre aveva
scritto una lettera al duce accusando lo Stato Maggiore e dunque Badoglio,
«di non aver fatto quanto doveva per preparare l'azione» perché «Badoglio
era [a dire dello stesso Ciano] convinto che la questione greca sarebbe stata
risolta al tavolo della pace ed agiva con questa pregiudiziale.» Quando Mussolini lesse la lettera se la prese con Soddu, forse perché anche lui - al pari di
21 Superalba = Comando Superiore Truppe Albania,
Fronte albanese. Una squadra di fucilieri fronteggia gli italiani.
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Badoglio - era un generale, e tirò di nuovo in ballo la spinosa questione delle
tre divisioni, che sopra abbiamo definito «fantomatiche» e che avrebbero dovuto venire spedite subito in Albania. «Siamo alle solite! - sbottò il duce - Le
promesse non vengono mantenute! Le tre divisioni non sono ancora partite
e pare che non siano neppure pronte.» La vicenda stava ormai assumendo i
tratti della commedia. Che fine avevano fatto le tre grandi unità di cui si continuava vanamente a parlare? Scrive la Relazione Ufficiale:
«In realtà le tre divisioni di cui parlava Mussolini non erano mai state
calcolate ne richieste per l'occupazione dell'Epiro e neppure per il fronte del
Kotcka. Si trattava molto semplicemente, di una confusa memoria circa le
Grandi Unità da inviare ad Arta in ''una notte sola''. Siffatta confusione non
sarebbe potuta esistere se il gen. Soddu avesse riferito con precisione quanto
discusso nella riunione del primo novembre. Preso di petto, Soddu – che pur
aveva assicurato Visconti Prasca di aver pronte nove divisioni – e di essere in
grado di mandargliene tre alla volta, a richiesta – se ne lavò le mani, dicendo
che la questione era di competenza del S.M.R.E...»22
Alla fine il duce dovette farsene una ragione. La trasferta pugliese servì almeno a chiarire le idee a Mussolini sulla reale situazione del fronte balcanico.
Ripreso il possesso di palazzo Venezia il duce si vestì da stratega e inviò un
messaggio a Badoglio:
Soldati greci con un mortaio di piccolo calibro.
«È ormai evidente che la resistenza opposta dai Greci in Ciamuria si palesa
superiore al previsto. Per disincagliare le divisioni che segnano il passo bisogna prendere alle spalle lo schieramento nemico. Questo si può fare creando
una testa di sbarco a Prevesa e correndo per questa operazione i rischi più
gravi e meno redditizi che si volevano correre occupando Corfù.»
Una nuova riunione venne dunque convocata allo Stato Maggiore ma da
essa i generali uscirono con più dubbi di quando vi erano entrati. Organizzare
quello sbarco presentava grossi rischi. Il più preoccupato di tutti era Badoglio
che, il 4 novembre, inviò a Visconti un telegramma. Scrisse il maresciallo:
«Mia norma è essere saldamente ancorato in un punto durante la battaglia.
Questo punto è per Voi il settore di Korcia. Avete colà divisioni Parma, Piemonte ed in arrivo Venezia. Potrete impiegare anche l'Arezzo e la Bari. Con
cinque divisioni ritengo che potrete resistere sul posto. Vi prego di dirmi esattamente e francamente come vedete la situazione.» Animato ancora da un in22 S.M.R.E. = Stato Maggiore Regio esercito.
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Un pezzo da montagna «Schneider-Dahlgren». Di produzione francese, il cannone fu
modificato dai greci. Si notino i serventi al pezzo con le mantelline mimetiche bianche.
Soldati greci trasportano una mitragliatrice «St. Etienne».
Truppe da montagna elleniche schierate a difesa contro le forze di invasione italiane.
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comprensibile ottimismo e inconsapevole del destino che si stava preparando
per lui, Visconti Prasca la situazione continuava a vederla bene. Si dichiarò
d'accordo con il maresciallo su tutto e chiese autocarri per il trasporto degli
uomini e «l'intervento in massa dell'aviazione sugli obiettivi tattici aderenti
alle truppe.» Il giorno dopo anziché i soliti dispacci da Roma gli comparve
davanti l'amico, collega e sottosegretario del duce, Soddu. Questi, dopo baci
e abbracci disse di essere venuto per recarsi a Korka, sede del comando del
XXVI Corpo del generale Nasci. In quei giorni di inizio novembre era appena
terminato il ripiegamento sulla posizione di resistenza del Morova. Soddu,
dopo aver parlato con Nasci tornò da Visconti Prasca e con certo imbarazzo
gli comunicò finalmente che vero scopo del suo viaggio in terra albanese era
quello di assumere «un Comando.» Soddu insomma era destinato a rilevare
l'inconcludente Visconti Prasca ma la cosa sarebbe dovuta avvenire senza
eccessivi traumi. La struttura delle forze italiane destinate a proseguire la
campagna greca venne dunque modificata prevedendo due armate agli ordinidi Soddu. Una di esse fu assegnata a Visconti Prasca che venne così ridimensionato. Alla fine ogni cosa rimase come prima e il solo risultato ottenuto
fu il raddoppio dei comandi. Mentre tutto questo avveniva la Julia era quasi
accerchiata a cinquanta chilometri dal confine e alle sue spalle c'era solo il
vuoto. Il compito di andare in aiuto agli alpini venne assegnato alla divisione
Bari23. Il 7 novembre anche l'ottimista Visconti Prasca fu infine costretto ad
ammettere che l'offensiva era terminata.24 La Julia si trovava ormai in una
situazione drammatica. L'8 il rischio era il completo avvolgimento dell'unità.
Solo combattendo duramente fu possibile aprirsi la strada del ripiegamento.
Il 9 gli artiglieri del gruppo Conegliano e due compagnie dell'8° vennero
attaccati mentre ripiegavano verso la sella di Cristobasile e accerchiati da
truppe greche scese dallo Smolika. Le batterie, sparati gli ultimi, colpi furono
difese dagli artiglieri con i moschetti. Dopo un combattimento durato sei ore,
gli italiani si aprirono un varco e riuscirono a sganciarsi. In quei frangenti
cadde il giovane sottotenente del Conegliano Joao Turolla, decorato di medaglia d'oro al valor militare alla memoria.
Ubaldo Soddu, una volta insediato in quello scomodo Comando prese su23 La Bari non aveva ancora incontrato il nemico, ma di guai ne aveva passati. Predisposta
per lo sbarco a Corfù aveva un organico ridotto, battaglioni di 500 uomini e senza salmerie.
Era stata dirottata a Valona in quelle condizioni e senza artiglieria e avviata al fronte per
singole unità. «Era già così provata che si rese necessario sostenerla mandando d'urgenza il
1° bersaglieri, anch'esso appena giunto dall'Italia. Questo a ulteriore dimostrazione dell'insipienza del Comando delle nostre truppe in Albania.
24 Sotto certi aspetti è interessante leggere il memoriale di Sebastiano Visconti Prasca, Io
ho aggredito la Grecia, Milano 1947.
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bito contatto con Mussolini. Nel messaggio pieno di retorica che gli inviò,
si prese il merito di avere convinto Visconti Prasca a rimanere in posizione
defilata, ma sotto una patina di obbligato e formale ottimismo, cominciarono
ad affiorare le prime «allusioni all'impreparazione dell'impresa e alla sottovalutazione dell'avversario.»25
Il nuovo ordinamento delle forze italiane in Albania prevedeva come abbiamo visto due Armate: la 11ª (Visconti Prasca)26 a destra e la 9ª (Vercellino) a
sinistra. In tutto erano disponibili venti divisioni: 17 in Albania e tre in Italia.
A Roma il 10 novembre Mussolini, convocò una riunione con i vertici militari e stabilì di riprendere l'offensiva a partire dal 5 dicembre. Era l'occasione che aspettava Badoglio il quale, stanco di vedere scaricate tutte le responsabilità sui militari, finalmente parlò chiaro. Dopo l'introduzione di Mussolini
chiese la parola e disse:
[Il 14 ottobre] avete convocato me e il generale Roatta e ci avete chiesto
quante divisioni occorrevano per occupare la Grecia: abbiamo risposto venti,
il che voleva dire mandarne altre dieci in Albania e creare una attrezzatura logistica adeguata. Il giorno dopo ci avete nuovamente riuniti […] e senza più interpellarci ci avete dato ordine di attaccare il 26, divenuto poi il 28. I fatti sono
quelli che avete esposto, ma di questi fatti non può essere reso responsabile né
lo S.M. Generale, né lo S.M.R. Esercito. In quanto ad attaccare il 5 dicembre, a
meno che non si voglia ripetere quanto avvenuto, non credo possibile.
Al centro della foto il generale Vassilios Vrachnos e il suo comando all'arrivo
sul fronte presso Heptachorion il 30 ottobre 1940.
Mussolini che aveva iniziato la seduta scaricando tutte le responsabilità su Jacomoni e Visconti Prasca non si aspettava quell'uscita del «sempre
devotissimo»27 Badoglio che in pratica accusava lui, il Duce, di avere sottovalutato la situazione greca. Accusò il colpo, ma apparentemente non reagì.
La riunione proseguì con formale correttezza, ma fu chiaro a tutti che il vecchio Badoglio era al capolinea come capo dello S.M.28
25 Il generale Quirino Armellini, in merito al messaggio di Soddu a Mussolini, scrisse sul
suo diario: «Soddu però dimentica di dire che uno dei responsabili è lui. Dimentica il giorno
in cui era fuori della grazia di dio perché Badoglio – che considerava nella posizione di un
cuscinetto – faceva un ultimo tentativo, andando dal Duce con i tre Capi di stato maggiore,
per dimostrare che l'operazione contro la Grecia non si poteva fare. Dimentica di aver criticato aspramente Roatta quando faceva il computo delle forze, sostenendo che non si poteva
numericamente paragonare un greco ad un italiano perché questo vale non so quanti di quelli
[…] Ripreso da USSME, pag.223.
26 All'inizio l'Armata al Comando di Visconti Prasca era la 2ª, ma due giorni dopo divenne 11ª.
27 Con questa espressione Badoglio chiude una lettera inviata a Mussolini il 26 giugno 1936.
28 «La liquidazione di Badoglio era inevitabile perché il regime, secondo una prassi consolidata, aveva bisogno di un diversivo in una situazione difficile. Tuttavia Mussolini non
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Fronte greco-albanese: la fanteria italiana si lancia all'attacco.
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La sera dell'11 dalla radio si apprende che «Le divisioni attualmente operanti sul fronte greco o che vi saranno mandate costituiscono il Gruppo di Armate di Albania, il cui comando è stato assunto il 9 corrente dal gen. Ubaldo
Soddu. Le armate che compongono il Gruppo sono la 9ª e la 11ª. A comandare
la 9ª è stato scelto il gen. Mario Vercellino […] a comandare l'11ª il gen. Carlo
Geloso.» Aveva così termine il valzer delle nomine anche se in realtà Visconti
Prasca rimase al suo posto fino al 15 dicembre, data in cui fu promosso e posto in congedo.29
In definitiva, sul fronte Korciano c'erano 29 btg. di fanteria e 11 gruppi di
artiglieria; su quello dell'Epiro 32 di fanteria con 11 gruppi, 3 di carri L e 6
gruppi di cavalleria. La Julia, tra le grandi unità la più malconcia, aveva solo
2 btg. e qualche batteria in grado di combattere. Ma, se possibile, il peggio
toccava ancora alla logistica. Abbiamo visto che i corpi d'armata non avevano
l'intendenza e questo spiega molte cose. Delle condizioni logistiche rimase
esterrefatto anche il generale Geloso il quale, appena assunto il comando,
telegrafa a Soddu in questi termini: «trovo situazione logistica veramente impressionante et insostenibile.»
Soldati ellenici rendono omaggio ai propri commilitoni caduti
per opporsi alle forze di invasione italiane.
si espose personalmente, ma preferì arrivare all'esonero del maresciallo per gradi, in modo
di saggiare le reazioni degli ambienti militari prima di prendere una decisione di grande ripercussione.» Questo il giudizio riportato in: Piero Pieri e Giorgio Rochat, Pietro Badoglio,
Milano ed. del 2002, pag.508.
29 Dopo tutti i rimpasti il quadro di battaglia delle unità operanti in Albania era quello di
seguito riportato. Al comando di Superalba fu posto il generale Ubaldo Soddu con agli ordini
la 9a e l'11a armata. La 9ª armata (gen. Vercellino) era stanziata in Macedonia occidentale
tra la Jugoslavia e il Pindo con i seguenti corpi d'armata: III (gen. Mario Arisio), forte delle
divisioni Venezia ed Arezzo e XXVI (gen. Nasci), con le divisioni Parma e Piemonte. I Corpi
d'armata erano privi dell'intendenza che però era di prevista costituzione e avevano alle dipendenze reparti di supporto, artiglieria, genio e sanità. L'11ª armata (gen Geloso), si trovava
invece in Epiro tra il Pindo e il mare con questi corpi d'armata: VIII (gen. Bancale), formato
dalle divisioni Bari e Julia e XXV ( gen. Rossi), composto dalla Ferrara, dalla Centauro e
dalla Siena. Dal 15 novembre erano inoltre affluiti alcuni rinforzi dall'Italia. In particolare
a Valona sbarcarono: il 5° gruppo alpini Valle con i battaglioni Val Tagliamento, Val Fella e
Val Natisone, aliquote della divisione Tridentina (Santovito): il btg. Tirano con il comando
del 5° alpini; il comando del 6° con il btg. Verona e il gruppo da montagna Bergamo erano
sbarcati a Durazzo. I btg. Morbegno e Edolo, aviotrasportati a Tirana, erano arrivati a Korka
in autocarro, ma senza salmerie.
Fucilieri greci in posizione.
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La controffensiva Greca
Il 15 novembre Soddu invia un lungo promemoria sulla situazione in Albania. Scrive il generale: « Il nemico ha iniziato ieri un'azione in forze, sviluppando grande pressione nel settore Korciano ed attaccando in corrispondenza
della zona di Ersechë: ciò allo scopo evidente di separare le nostre forze. Nel
settore Korciano il nemico è riuscito a portarsi a contatto con la nostra linea di
resistenza […] In zona Ersechë il nemico si è impadronito delle nostre posizioni in corrispondenza dei cippi 7 e 8 ed un nostro contrattacco per riprendere tali posizioni è fallito.» In conclusione – riferiva a Roma Soddu - «La situazione potrà evolvere verso la necessità di un ripiegamento.» Siccome miracoli
in guerra non se ne possono fare e considerato che occorrevano almeno venti
giorni «per consentire l'afflusso di rinforzi, l'unica alternativa rimasta era ripiegare. La leggerezza e l'insipienza dell'inizio della campagna, venivano ora pagate a caro prezzo. Si viene anche a sapere che i bagagli di diverse unità, la Julia per prima, erano ancora dove si trovavano il 28 e ancora qualcuno discuteva
se conveniva portarli avanti o meno; che i soldati avevano avuto a disposizione
una sola coperta da campo, che mancava tutto dalle tavole ai chiodi al cartone
catramato per costruire baracche campali da trincea (perché ormai si era finiti
in trincea come nella Grande Guerra), o tettoie per proteggere dalle intemperie
(pioveva sempre!) almeno le cucine. Per non parlare dei quadrupedi, almeno
di quei pochi che erano ancora vivi. Dalla l'altra parte del fronte regnava invece una giusta euforia. Nella Relazione Ufficiale dell'esercito greco possiamo
leggere: «I successi del periodo iniziale della guerra in Epiro, nel Pindo ed
anche nelle Macedonia occidentale, hanno avuto un effetto tonificante. In
Epiro l'avversario nulla è riuscito ad ottenere di concreto; nel Pindo non solo
è stata arrestata la sua penetrazione ma le sue forze sono state distrutte; nella
Macedonia occidentale le azioni locali greche sono state coronate da esito positivo. L'elevato morale delle truppe in relazione a questi successi, gli effetti
pressoché nulli ottenuti dall'aviazione italiana contro i nostri movimenti di
radunata e limitati nei bombardamenti sul fronte, ed i risultati insignificanti conseguibili da mezzi corazzati del nemico, hanno contribuito ad aprire
maggiori orizzonti al Comando supremo.»30 Il piano operativo preparato dal
gen. Tsolokaglou per la controffensiva ellenica era concepito in due tempi.
Dapprima le forze greche avrebbero dovuto avvolgere la Morova da nord e
da sud con una manovra a tenaglia, mediante due attacchi contemporanei. In
un secondo tempo era quindi prevista l'occupazione totale della Morova con
obiettivo finale Korka. Siccome bisognava agire di sorpresa si prevedeva di
Un'immagine scattata durante la controffensiva ellenica.
Soldati greci festeggiano la cattura di un cannone italiano.
30 S. M.E. Greco, vol..II pag. 229 – 230, ripresa da USME cit., I, pag.254.
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rinunciare alla preparazione di artiglieria. Per sferrare l'attacco in un primo
tempo era stato scelto l'11 novembre, ma una serie di aggiustamenti, correzioni e discussioni tra generali, fece spostare ogni cosa al 18 o 19. In conclusione, poiché i greci avevano avuto tutto il tempo per fare affluire unità fresche
sul fronte, anche perché non si era manifestata alcuna minaccia alla frontiera
bulgara, al 15 novembre le forze contrapposte erano le seguenti:
- settore di Korca:
• greci: 80.000 uomini con 198 pezzi (III corpo d'armata e riserva SAMO);
• italiani: 45.000 uomini con 208 pezzi (9ª armata);
- settore di Ersekë-Leskoviku:
• greci: 32.000 uomini con 114 pezzi;
• italiani: 23.000 uomini con 112 pezzi (VIII corpo d'armata):
- settore dell'Epiro:
• greci: 80.000 uomini con 184 pezzi (I corpo d'armata);
• italiani: 47.000 uomini con 248 pezzi (XXV corpo d'armata).
Inoltre i greci avevano una riserva strategica di 40.000 soldati mentre gli
italiani stavano raccogliendo circa 10.000 uomini dalle truppe che sbarcavano
in Albania.
Gli alpini della Julia di nuovo in prima linea.
La Julia nel corso dei primi combattimenti era stata la divisione più
impiegata in battaglia. La sua iniziale funzione tattica l'aveva vista recitare il
ruolo di cerniera tra due corpi d'armata. Partita senza bagaglio e con autonomia,
quanto a viveri, di soli cinque giorni, si era trovata impantanata tra i monti del
Pindo da sola e costretta ad un difficile ripiegamento. L'onere maggiore era
toccato all'8° reggimento che aveva perso quasi 700 uomini. Nel nuovo assetto
tattico la divisione viene inquadrata nell'VIII corpo dell'11ª armata. Il 18
novembre, quando si manifestò il contrattacco greco, la Julia era schierata a
difesa della testa di ponte di Perati con il 139° fanteria, il 9° alpini, il btg.
Cividale, un btg. del 4° bersaglieri ed uno di carri leggeri. La forte pressione
cui era sottoposta consigliò al generale Bancale di rinforzare il settore con
l'invio a Perati anche del battaglione Val Tagliamento. In quei giorni al
comando dell'VIII corpo si presentò il generale Geloso che voleva
personalmente rendersi conto della situazione in quel delicato settore del
fronte. Bancale gli disse che la resistenza prolungata non poteva continuare.
Il fianco sinistro della difesa «era appoggiato sul vuoto e la destra stava
perdendo terreno.» Le truppe erano sfinite per il logoramento subìto,
In alto a destra: l'artiglieria greca in azione. A sinistra; un soldato ellenico si difende dal freddo
avvolgendosi in una coperta. Sopra: militari di Atene in posa per la classica foto ricordo.
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l'insufficienza dei mezzi e il morale a terra. Ipotizzare un contrattacco in una
simile situazione sarebbe stato velleitario. Propose quindi di indietreggiare
sulla destra della Lengatica in modo di guadagnare un po'di spazio e di tempo
e sistemarsi meglio a difesa fuori dal contatto con il nemico. Geloso convenne
con il collega, ma volle prima interpellare Soddu. Nel frattempo però autorizzò
lo spostamento delle artiglierie non dotate di propri mezzi di trasporto e le
predisposizioni relative al ripiegamento del grosso. Evidentemente si
aspettava che il gen. Soddu non avrebbe avuto niente da eccepire, ma le cose
andarono in modo diverso. Soddu, che già aveva approvato a malincuore il
ripiegamento sulla linea di difesa che da SS. Quaranta, attraverso la stretta del
Devoli, arrivava a Kamia, questa volta si oppose e ordinò di rimanere sulle
posizioni occupate. Scrisse a Geloso poche frasi grondanti retorica il cui tono
era: «i comandanti tengano fermissimamente, con quella tenacia che logora
ed arresta il nemico più deciso.» Che dire! Geloso aveva ispezionato tutto il
fronte della sua armata, aveva parlato con i comandanti sul campo, osservato
i soldati e constatato il loro misero stato. «Era persuaso della necessità di una
ritirata su scala assai più ampia, che togliesse per qualche tempo l'armata
dalla pressione greca senza requie ed evitasse lo stillicidio di perdite di uomini
e di materiali provocato dai frequenti minori ripiegamenti, i quali finivano
con l'essere imposti e compiuti sempre con l'avversario alle calcagna.»31
Geloso si era convinto che la difesa sul confine non portasse da nessuna parte
e che i ripiegamenti limitati facessero più danno che altro. Vedeva anche il
rischio che la indifendibilità della linea potesse provocare «lo sfasciamento
delle unità dell'armata con la conseguenza di aprire al nemico le vie di accesso
a Valona e a Berat.» Tanto valeva – secondo il comandante dell'armata –
attuare un ripiegamento ben studiato programmato e definitivo in modo da
consentire di riordinare con la dovuta calma, senza la pressione del nemico,
le unità e da lì ripartire. Proposta saggia quella del generale Geloso, che però
non fu approvata dall'ineffabile Soddu. Come avrebbe fatto costui a spiegare
al suo capo a Roma che in guerra talvolta ripiegare è più utile e saggio che
resistere su posizioni precarie? Soddu impose dunque un arretramento lento e
solo parziale che, si augurava, avrebbe fatto meno rumore a Roma. La ritirata
fu dunque pianificata a scaglioni su un terreno dove, a causa delle poche vie
di comunicazione, i trasporti risultavano oltremodo difficili. La nuova linea
Sjada – Makrikambos – Q. Martes era stata preventivamente occupata dal 3°
granatieri, da elementi del 42° fanteria e da unità di cavalleria. L'VIII corpo
teneva con la Bari le posizioni dalla sella di Barmash a Ponte Perati in
collegamento con la Julia che difendeva con tre battaglioni la testa di ponte
Quella di Grecia è passata alla storia come la «campagna del fango».
L'immagine qui riprodotta na da una testimonianza eloquente. SFEI.
31 USSME, cit. p.301.
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ormai ridotta e con altri battaglioni sbarrava la strada rotabile per Premeti.
Indietro i due battaglioni Val Fella e Val Natisone. Il mattino del 21 il II corpo
ellenico era in movimento. Aveva occupato con una brigata Ersekë mentre
l'altra brigata con tre colonne avanzava frontalmente. L'avanzata tendeva ad
assicurarsi il possesso della strada Perati – Korka. Il punto centrale era
considerato Perati per l'importanza del nodo stradale e del ponte. Contro il
saliente di Perati i greci sferrarono un violento attacco con una divisione di
cavalleria. Nel pomeriggio la linea era rotta in più punti e il comandante della
Julia, gen. Girotti, chiese l'autorizzazione di far saltare la struttura. Dopo il
brillamento delle cariche la piccola testa di ponte difesa con tanta tenacia
dagli alpini fu evacuata e iniziò il ripiegamento sulla nuova linea di resistenza.
Fu un arretramento molto complicato con cedimenti improvvisi. Alla fine
della delicata manovra, il 24 «le cose si riassestarono per il corpo d'armata
Bancale.» In quel frangente fu ancora la Julia a pagare il tributo più alto. Il 20
un'incursione aerea nemica a Premeti aveva provocato gravi danni a quel
poco che rimaneva dell'apparato logistico della divisione. Furono distrutti
dalle bombe buona parte del comando con il quartier generale, 3 ospedali da
campo, 2 nuclei di sussistenza, l'ufficio postale, il deposito di munizioni e 17
baracche contenenti gran parte dei materiali di scorta de i reggimenti. I morti
e i feriti furono 385. Dopo tutto questo durissimo lavoro svolto con l'avversario
addosso Geloso comunicò con schiettezza a Soddu di ritenere «che l'attuale
schieramento non possa che essere temporaneo e rappresenti quindi soltanto
una sosta, che consente di imporre all'avversario un tempo d'arresto.» Con
queste parole Geloso non faceva che ribadire concetti già espressi. Tuttavia
il generale con onestà intellettuale ribadiva il suo pensiero e chiedeva, con
una lettera del 23, al suo superiore diretto di poter ripiegare e spiegava il
perché: «Le forze attuali sono poche ed in gran parte logore: si impone perciò
una linea più breve, di più facile difesa. A ciò risponde, a parer mio, quella
definita, grosso modo, da Passo Logora – Tepeleni – Klisura – Q. Martes,
punto di saldatura quest'ultimo con la 9ª armata. È assai più breve; consente
economie di forze; è costituita da posizioni di notevole valore tattico; si presta
ad una resistenza ad oltranza. […] Chiedo l'autorizzazione vostra, lasciandomi
libertà di riprendere il movimento di ripiegamento non appena la situazione
lo consigli.» Il giorno successivo, avendo saputo dello sbarco a Valona della
div. Pusteria,32 Geloso chiede che venga assegnata alla sua armata. Soddu,
Gli alpini avanzano in territorio albanese. Archivio Pagnacco.
32 Nel mese di novembre erano sbarcati in Albania: 4 gruppi di artiglieria da montagna e
la Tridentina con i reggimenti 5° e 6° e il 2° artiglieria; il 1° gruppo alpini con tre btg. Valle
(Val Tagliamento, Val Fella, Val Natisone) e un gruppo artiglieria; il 2° gruppo con i btg. Val
Leogra e Val Pescara. In dicembre era poi giunta la div. Cuneense (1° e 2° alpini e 4° art.)
Sulla campagna di Grecia, in particolare sulle formazioni alpine si veda Storia delle truppe
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solo allora si recò a Tepeleni, sede del comando dell'armata per discutere
della situazione e delle prevedibili future conseguenze. Dovette convenire
che il fronte era troppo lungo (120 km.) per essere tenuto da forze «rarefatte.»
L'incompletezza della difesa nei punti di saldatura consentiva ai greci di
ammassare truppe proprio nei settori critici in previsione di future offensive.
La Pusteria fu dunque assegnata al III corpo all'11ª armata, per tappare
qualche falla.33 Ma non bastava. La pressione esercitata dai greci sull'11ª
rimaneva fortissima. Il 27 Geloso scrive ancora una volta a Soddu: «La
situazione dell'armata si è oggi sensibilmente aggravata, Il nemico incalza
sull'intera linea ed esercita forte pressione sulla giunzione dei due corpi
d'armata, dove i reparti hanno ceduto. Le truppe sono per la maggior parte
stanche. I reparti albanesi non danno alcun affidamento di ulteriore resistenza
(il btg. Dajti si è stamane arreso al nemico quasi senza combattere). Difettano
le munizioni sulla linea del fuoco. […] il ritmo d'affluenza della divisione
Pusteria non ne garantisce l'impiego che a spizzico, con grave danno per la
sua efficienza di grande unità. Di fronte a tale situazione ho deciso il
ripiegamento sulla linea porto Palermo –Kurvelesh – riva destra Vojussa –
Kliusura- Kjarista – Potomit […] iniziando questa notte il movimento con
l'ala destra attualmente più avanzata.» Il generale elenca «dopo un minuto
esame» tutti i motivi che lo hanno indotto a prendere quella decisione tra i
quali «anche la divisione Pusteria, sul cui impiego tanto contavo, si
polverizzerebbe di fronte alle incalzanti necessità di dover tamponare e reagire
in numerosi punti della fronte, per assicurare la integrità.» Quando Soddu, a
Tirana, lesse il documento fa un salto sulla sedia. Non avalla la decisione del
collega e «giudica comunicazione troppo grave per ripercussioni militari et
politiche34 alt. Richiedere ogni sforzo et sacrificio per coprire linea Santi
Quaranta – Argirocastro – Premeti.» Poi chiese aiuto a Roma, al gen. Roatta,
sottocapo dello S.M., ma che in pratica svolgeva le funzioni di capo, il quale
scrisse una lettera-supplica a Geloso, promettendo l'invio di rinforzi, perché
obbedisse al suo comandante Soddu. Geloso obbedì «tenendo duro», ma le
cose peggiorarono ancora. Questa volta è il gen. Bancale, comandante di
corpo d'armata che prende l'iniziativa. L'ufficiale si dice preoccupato
soprattutto della Julia. Girotti gli aveva appena fatto un quadro per niente
alpine a cura di E. Faldella, vol. III, pagg. 1193 – 1303.
33 La divisione alpina Pusteria era sbarcata solo con il comando del 7° alpini ed i btg. Feltre
e Cadore. Le altre unità dovevano seguire.
34 Nel diario storico del Comando Supremo si legge: «1° novembre: […] arriva un telegramma di Soddu col quale annuncia di aver dato ordini perché questa notte abbia inizio il
ripiegamento della 9ª armata nel settore Korcano. […] il Duce telegrafa a Soddu di pesare
bene questa decisione, data la ripercussione che ne potrebbe avere nel campo politico.»
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Fronte greco-albanese. Si supera un ponte in pietra. Archivio Pagnacco.
rassicurante «un vero e proprio stato di esaurimento degli ufficiali e della
truppa (ne avevano ben donde!) le cui manifestazioni sono preoccupanti per
l'efficienza bellica.» Detto in parole povere gli alpini cominciavano a ribellarsi
a quello stato di cose. Il comandante della Julia non parlava solo di uomini
ma anche di logistica. Scrive Girotti: «[…] Vi ho già detto, Eccellenza, che
per me il problema logistico supera di gran lunga qualsiasi altro; ho perfino
soggiunto che ai nuovi battaglioni preferisco salmerie. Sto insistendo,
purtroppo invano, per rifornimento aereo di viveri e di munizioni per la
divisione Julia. Prego pertanto di considerare se non sia il caso di dare la
precedenza tanto negli sbarchi quanto nei trasporti all'avviamento delle
salmerie.»35 Gli attacchi dei greci sul fronte dell'VIII corpo continuavano
senza soste. Il 29 avevano occupato un importante posizione, nei pressi di
Vinhiau, ma erano stati respinti da un contrattacco della Julia, ma la perdita
di q. 900 in Val Dhrinos da parte del Val Natisone scopriva però pericolosamente
il fianco della Ferrara. «Ma era destino che le giunture dovessero sempre
scricchiolare» e a quei buchi spesso le pezze le mettevano i battaglioni della
Pusteria che anch'essa, come era accaduto per la Julia andava incontro ad un
precoce logoramento. A Roma continuavano i maneggi. Badoglio aveva dato
le dimissioni ma aveva chiesto a Mussolini di non nominare un successore
alla guida dello stato maggiore. La richiesta del Badoglio dimissionario è
sconcertante. Era considerata inutile quella carica? O dopo una scampagnata
in Piemonte pensava di tornare? Sul fronte balcanico le cose continuavano a
peggiorare. Soddu il 4 dicembre telefona allo S.M. a Roma comunicando «la
impossibilità di continuare le operazioni e la necessità di intervento
diplomatico.» A Roma non sono d'accordo con l'analisi di Soddu e il duce
«ordina [ a Soddu] di contendere il terreno al nemico sino all'estremo» e
spedisce di corsa Cavallero ad accertarsi della situazione sul campo. Ciano
trova il duce prostrato come non mai «Qui non c'è più niente da fare. È assurdo
e grottesco, ma è così. Bisogna chiedere la tregua tramite Hitler.»
Fronte greco-albanese. Si piantano le tende per la notte. Archivio Pagnacco.
35 La lettera è riportata in USSME, II allegati 153, 154.
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La battaglia di arresto: dicembre 1940
All'ora di pranzo del 4 dicembre Cavallero è a Tirana davanti a Soddu.
Questi fa illustrare la situazione da un suo collaboratore. Le cose non andavano affatto bene. Le forze sono insufficienti e il fronte da difendere troppo
ampio. Il comando non ha personale qualificato e l'organizzazione logistica
è rudimentale con riferimento ai porti, alle strade, ai mezzi di collegamento
e alle scorte. Cavallero prende anche atto degli errori compiuti sin dall'inizio
della campagna dove le truppe erano convinte di dover affrontare una marcia
militare anziché una battaglia. Si riparla anche dell'azione aggirante contro
la Julia spinta pericolosamente da sola verso l'alta Vojussa. La conclusione
della lunga relazione tenuta dal ten. Col. Fornara fu che i rinforzi non erano
mai stati impiegati a massa ma quasi sempre «a spizzico» per tamponare le
falle e che i bilanci giornalieri degli scontri erano stati quasi sempre passivi.
In definitiva la situazione appariva grave «anche se non gravissima.» Ascoltata la relazione Cavallero e Soddu vanno a Elbasan sede del comando della
9ª armata, quella che teneva il settore più delicato. Quando incontrano il generale Vercellino, l'ufficiale spiega loro che «la situazione più tragica è alla
testata dello Skumbini, ove abbiamo un uomo contro cinque.» La sua proposta è di ritirarsi sulla linea dello Skumbj e attendere i rinforzi. A sostegno di
questa idea Vercellino fa notare che tutto ciò che resta del III corpo d'armata
è rappresentato solo dai due reggimenti alpini, il 5° e il 6° e da nient'altro. Gli
viene detto che entro dieci giorni devono arrivare le due divisioni alpine Taurinense e Cuneense. Cavallero in serata telefona a Mussolini e lo rassicura:
«Ritorno ora da Elbasan - dice. - Le persone sono con i nervi a posto.»36 Poi
ripete al duce quanto gli già avevano riferito Soddu e Vercellino. Aggiunge
che «il morale di Vercellino è migliorato, ma non tanto» e gli passa al telefono Soddu, il quale aggiunge: «Duce ho visto il CLII btg. CC.NN., ha fatto
ovazioni al vostro nome.» Poi: «ho deferito al tribunale il comandante del 41°
per abbandono di posto: Ho tolto il comando de divisione a Z. ed è in corso
un'inchiesta.»37 Nel frattempo l'ambasciatore Alfieri fu spedito urgentemente
Un momento di sosta durante le operazioni. Archivio Pagnacco.
36 Quando il Duce aveva inviato Cavallero in Albania gli aveva detto di verificare lo stato
nervoso di Soddu.
37 La Relaz. Uff. riporta: «il nome non è decifrabile, comunque la notizia non trova alcun
riscontro nei fatti.» Per quanto riguarda invece il comportamento delle CC.NN. Lo stesso
giorno, 4 dicembre, il gen. Geloso spediva questa telegramma a Soddu: « Ero stato lietissimo annunciato arrivo battaglioni CC.NN. Ho avuto vera disillusione, trattasi gruppi uomini raccolti frettolosamente, incompletamente armati, poco o nulla addestrati, quasi sempre
mal comandati […] maggioranza uomini non ha alcuna istruzione militare. Corresi rischio
gravi conseguenze valutando forze combattenti numero uomini e non in relazione effettiva
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Fronte greco-albanese: aviolancio di rifornimenti. Archivio Pagnacco.
a Berlino per chiedere, a nome di Ciano, «Qualunque aiuto purché immediato
[…].» Al diplomatico fu ordinato di «ottenere la decisione favorevole in sede
politica personalmente da Hitler. La situazione è tale per cui l'invio di alcuni aereoplani e cannoni, il rinforzo di alcuni reparti di truppa può esserci di
grande aiuto. Si tratta di guadagnare dei giorni, forse anche delle ore […].»
Il viaggio di Cavallero a Tirana non era stato inutile. L'arrivo di materiali
dall'Italia fu sensibilmente migliorato e questa era una delle cose che chiedevano da tempo Geloso e Vercellino. Anche il nuovo intendente gen. Squero
descrisse senza alcuna remora la situazione reale. Non c'erano viveri di riserva e neanche munizioni: una situazione logistica allucinante. Giunti a questo
punto tutti i provvedimenti erano urgenti, ma nessuno poteva essere risolutivo. Tornato a Roma Cavallero prese importanti decisioni: entro dieci giorni
«due terzi» delle divisioni di rinforzo, complete di tutto, dovevano essere in
mare. Le divisioni che si stavano preparando a partire erano: Cuneense, Cuneo, Legnano, Aqui e Lupi di Toscana. Si arrivava così a quelle famose 20 divisioni che sarebbero state necessarie sin dall'inizio della campagna. Intanto
il Albania la 9ª era stata costretta ad un ulteriore ripiegamento, in particolare
il XXVI corpo aveva dovuto lasciare «posizioni di aspra montagna che sarà
duro riconquistare.» Sull'altro versante del fronte c'era, al contrario, grande
euforia. I greci, non solo avevano resistito all'attacco, ma addirittura superato
i loro confini e, dall'Albania, puntavano a «rigettare a mare» l'aggressore.
Da Roma si assisteva all'incredibile spettacolo del vecchio generale Metaxas
che parlava alla radio ellenica esaltando gli straordinari successi delle truppe
greche. Sul piano strettamente militare però i nostri antagonisti non avevano
valutato adeguatamente la profonda crisi di comando del nostro schieramento. Al contrario temevano per la tenuta di alcune delle loro divisioni, stremate
dai duri combattimenti in quelle condizioni climatiche e ambientali. È pur
vero che due dei tre obiettivi che si erano dati, la conca di Korca e la strada
Perati – Korca, erano stati presi mentre il terzo, la conquista del tratto SS.
Quaranta- Delvino – Kakavia era a portata di mano. Nel settore della 9ª armata la Tridentina venne a trovarsi con il fianco sinistro minacciato sulla direttrice di Devoli e fu costretta modificare rapidamente lo schieramento. Al 6°
alpini spettava di sorvegliare il displuviale fra lo Skumbi e Devoli cercando il
collegamento con l'Arezzo per la continuità del fronte. Ma le cose andavano
di male in peggio. Ogni giorno un ripiegamento ed enormi difficoltà a tenere
il fronte compatto. Prima o poi bisognava trovare una linea d'arresto definitiva Era in corso una lunga battaglia di logoramento: all'esaurimento fisico si
Fronte greco-albanese: a rapporto dal tenente. Archivio Pagnacco.
capacità militare slancio e manovra. Occorrono per resistere e vincere reparti organici bene
inquadrati e addestrati.» Di che parlava dunque Soddu?
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sommava quello mentale che andava ad incidere anche sulla forza di volontà.
Tuttavia è bene tenere presente che il problema del logoramento – come abbiamo visto – riguardava anche i greci. I nostri avversari però loro dovevano
fronteggiare «solo» quello fisico e non anche quello morale, che invece gravava sulle truppe italiane. La differenza non è da poco.
Le sofferenze delle smilze unità della 9a armata continuavano. Alle perdite
per gli scontri si sommavano quelle per i congelamenti.38 La divisione Piemonte, o meglio i suoi resti, in soli due giorni aveva avuto 34 casi di assideramento. Recita un rapporto 8° reggimento, redatto mentre l'unità ripegava:
«Ore 13 alt. Altri tre morti per assideramento al III btg. alt. Totale dodici nella
giornata di oggi alt. Rimanente truppa et ufficiali molto sofferenti alt. […]
Ore 13,45 alt […]. Si attendono molti altri congelati dalla linea nonostante
si facesse uso pomata antiassiderante […] reparto someggiato sanità impossibilitato ricoverare infermi per mancanza di mezzi alt. Sgombero fino at ore
molto difficile oggi impossibile […].» Il 9 sera, si ebbero altri dieci casi mortali di assideramento e un centinaio di casi di congelamento. «Di guardie ne
sono rimaste solamente 18» scrive un comandante. E ancora: «Dato il numero
dei congelati sgombrati in questi giorni è soltanto per un miracolo di energia
morale che le truppe si sono tenute in piedi fino ad oggi. Il caso di un attacco
in forze […] si rischia di veder spezzata ora tutta la difesa.» All'estremo sud
dell'armata un btg. di finanzieri che agiva come saldatura con l'11ª armata
sparisce nel nulla. L'ultima comunicazione giunta era che cercava di rompere
l'accerchiamento ripiegando. Il giorno successivo fu considerato disperso. Il
5° alpini aveva perduto il collegamento a causa delle interruzioni telefoniche
e 450 complementi giunti per ripianare le perdite non furono in grado di raggiungere l'unità. Il gen. Santovito, comandante della Tridentina, che era andato direttamente a vedere come stavano le cose, riportò notizie scoraggianti.
In un solo giorno 120 casi di congelamento avevano colpito gli alpini che
sommati a feriti, ammalati e morti condizionavano pesantemente l'efficienza
del reggimento tenendo conto dell'estensione del fronte da coprire. Il btg.
Vestone aveva perduto 300 alpini per congelamento ed un centinaio di muli. I
btg. della G.d.F. avevano perso oltre il 30% degli effettivi Il gelo non colpiva
solo i soldati, provocava seri inconvenienti anche alle armi; le munizioni per
mitragliatrici Fiat 35 modificate da usare per la Breda 37 risultavano difettose; l'insufficienza di olio anticongelante faceva il resto. Il comandante del 5°
alpini col. Fassi in una lettera al comandante della divisione, gen. Santovito
38 Al 10 dicembre le sei divisioni, Taro, Piemonte, Parma e Tridentina, Venezia e Arezzo
con tutti i supporti, potevano contare solo su circa 27.000 uomini. Questa situazione è bene
tenerla presente e non lasciarsi fuorviare dalle «sei divisioni.»
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Fronte greco-albanese: il rancio. Archivio Pagnacco.
La «campagna del fango». Si notino le condizioni dei pantaloni di tela dei quattro alpini ritratti nella
fotografia. Sul fronte greco-albanese le vie di comunicazione erano inesistenti. Archivio Pagnacco.
scrisse: «Le pile si sono gelate. Ore 13,30. Ho trascorso la notte a q. 925 circa
due km. a sud di Sqimari presso lo schieramento delle batterie. Battaglioni
Tirano e Morbegno trascorsero la notte fra passo di q. 971 e lo schieramento
delle batterie. La violentissima bufera neppure per un istante calmatasi ha
talmente sfinito gli uomini che non è più possibile fare assegnamento su loro
forza fisica et per conseguenza su loro capacità combattiva in queste condizioni minorata efficienza, il 5° alpini non ha ceduto di fronte al nemico, gli
uomini cedono di fronte all'imperversare della bufera et al rigore del clima
senza la possibilità di piantare tende, di fare un po' di fuoco e di prender qualcosa di caldo. Ieri notte e stanotte la temperatura è scesa di certo a meno 20
gradi. Numerosissimi i casi di congelamento, numerose le perdite dei muli
per sfinimento e cadute nei calanchi della gelata mulattiera.»39
Italo Pietra, giornalista e ufficiale del btg. Mondovì del 1° alpini ha
raccontato la sua esperienza in un articolo pubblicato per L'Illustrazione
Italiana del settembre 1955. Scrive Pietra:
Kukes: il campo. Archivio Pagnacco.
«Correva il dicembre 1940. Veniva giù la sera, un vento freddo spazzava
il molo di Durazzo levando nuvole di polvere bianca; le botteghe, gli uffici le
calate erano piene di bruttissime voci sulle cose del fronte […] Mezzora dopo
una lunga fila di autocarri portò via il battaglione, lo portò in una lunga notte
di neve […] su per i sentieri della Val Tomoritsa affondando a ogni passo
nel fango fin quasi al ginocchio; poi dopo molte ore di cammino un vento
gagliardo squarciò le nubi, e raggelò la terra […] La linea, in quelle ore, non
era continua né ben nota, ma ormai le retroguardie del 5° alpini, e i greci
dovevano essere ben vicini. Dall'alto di un sentiero che pareva un torrente
di ghiaccio vedemmo venir giù un alpino con un braccio insanguinato, al
collo, e coi piedi avvolti in coperte: pareva solo in quel deserto di neve e di
guerra, doveva essere ben giovane, la ferita dava sangue, e i piedi congelati,
parevano patate: al vedere la nappina rossa io gli dissi: «coraggio Tirano.»
La risposta fu questa «il Tirano non ha bisogno di coraggio da nessuno.»40
Intorno al 20 dicembre, un lieve rialzo delle condizioni materiali e morali in
quella martoriata zona del fronte fu possibile grazie all'arrivo della Cuneense
e dei rincalzi dei vari battaglioni. Il 5° alpini semidistrutto e la divisione
Piemonte, unità anch'essa fra le più provate, vennero ritirati dal fronte. Alcuni
giorni di riposo furono concessi al Tirano e al Morbegno. Certo le terribili
condizioni climatiche colpivano anche i greci, ma la loro netta superiorità
39 Ripresa da USSME, cit. pag. 375.
40 Ripreso da: Mario Cervi, Storia della guerra di Grecia, Milano, Mondadori, 1966, p.284.
Kukes: l'adunata. Archivio Pagnacco.
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numerica consentiva la rotazione delle unità con una certa frequenza, cosa
che non era possibile per gli italiani.
Sul fronte dell'11ª armata41 per la cronica difficoltà nei trasporti i quattro
battaglioni della divisione Pusteria erano senza salmerie e si arrangiavano in
qualche modo con muli messi a disposizione dalla divisione Bari. Gli animali
però erano ormai in arrivo da Valona. Stessa situazione per il 5° art. da
montagna: aveva i cannoni ma non i muli. Per quanto riguardava i materiali
vari scrive il generale Geloso a Cavallero: «La Bari ha perduto tutto, l'8°
alpini ha perduto l'80%, il 9° ha perduto meno. I btg. Vicenza e Aquila si sono
comportati eroicamente. C'è da baciare il terreno dove hanno messo i piedi.
La Julia è striminzita ma continua a battersi. Tre battaglioni valle non sono
ancora del tutto logorati ma non hanno salmerie […].»42
All'inizio della battaglia di arresto il rapporto delle forze in campo vedeva
i greci in netto vantaggio: 2 uomini a 1 in loro favore e 36 battaglioni contro
13. L'attacco dell'esercito ellenico per puntare verso l'interno dell'Albania e
tentare di battere le due armate italiane, si svolse lungo quattro direttrici43 e,
recita la relazione ufficiale «I greci attaccarono contemporaneamente lungo
tutte e quattro le direttrici: questa, unitamente alla resistenza dei difensori,
fu la ragione principale per la quale in nessun punto riuscirono a conseguire
un successo tattico di tale importanza da consentire sviluppi strategici»44.
Le informazione che erano state assunte sull'entità delle forze attaccanti
risultarono sufficientemente esatte, a parte la identificazione delle divisioni che
cambiavano la dipendenza frequentemente. La superiorità greca era notevole,
ma non sufficiente, contro truppe ben schierate in difesa, per determinare un
successo definitivo. Col senno del poi si può osservare che i greci avrebbero
dovuto scegliere fra le direttrici, forse quella della Vojussa e dell'Osum, e
concentravi tutto il loro sforzo. La difesa di quei settori era affidata all'VIII
corpo che aveva la responsabilità dello sbarramento della valle dell'Osum e del
contatto con la 9ª armata. Inoltre controllava la valle della Vojussa e il punto di
saldatura con il XXV corpo. Ogni settore del fronte era stato assegnato ad una
41 Il quadro di battaglia sul fronte dell'11a armata era il seguente: VIII corpo, 7°, 11° alpini
(con btg. in meno) e 5° art.alpina della Pusteria; 8 e 9° alpini, btg. Val Tagliamento e Val
Fella, 3° art. della Julia; dalla div. Bari. Dall'11a armata, poiché erano schierati nel settore,
dipendevano anche il Val Natisone e il Belluno.
42 Ugo Cavallero, Comando supremo: diario 1940-43 del capo di S. M. G., Bologna, Cappelli, 948.
43 A cavaliere delle direttrici: - Osum – Tomorrecesës. Zona di contatto fra 11ª e 9ª; - Vojussa Dshnicës; - Dhrinos –Vojussa; - la Val Sushica per aggirare le difese insinuandosi verso
la bassa Vojussa.
44 USSME op. cit., p. 386.
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Kukes: i fumi delle cucine da campo. Archivio Pagnacco.
Kukes: vicino alla tenda medica ci si prepara per la disinfestazione. Archivio Pagnacco.
Kukes: si lasciano i vestiti. Archivio Pagnacco.
divisione: i quattro battaglioni della Pusteria a nord, i sette della Bari a sud. In
mezzo, a fare da perno i sette battaglioni della Julia. Su quel settore di fronte
i greci ritenevano il nemico battibile. La lotta fu durissima: Il comandante
del 7° alpini, Col. Psaro cadde sul campo l'8 dicembre con tre comandanti
di compagnia. Un'intera compagnia del Cadore finì dispersa. Il problema
principale per gli italiani rimaneva la difficoltà di alimentare le truppe a causa
della deficienza dei trasporti. I mezzi erano insufficienti e la situazione stradale
pessima. Scrive Cavallero sul suo diario: «questi battaglioni [Trento e Feltre]
non hanno le artiglierie perché le quattro batterie alpine raccolte fra la Julia
ed i btg. valle hanno potuto fare avviare solo uno o due pezzi a causa delle
difficoltà del terreno e del clima Sugli altri non ci si può far conto per ora.[…]
La deficienza di salmerie è stata la causa del ripiegamento perché ha causato
scarsità di munizioni.» I nostri battaglioni erano ormai ridotti a 400 uomini, la
metà della forza normale. Chi più pagò l'alto prezzo di quella decisiva battaglia
fu la Julia. Dall'inizio della guerra all'8 dicembre la divisione aveva perduto
94 ufficiali e 2.170 uomini di truppa, metà dei quali dell'8° alpini. I gruppi di
artiglieria da montagna dell'unità disponevano in tutto di 13 pezzi. Altrettanti
furono recuperati smontando e riassemblando quelli inefficienti. Come
trasportare in quota i cannoni visto che le salmerie erano ormai un ricordo?
Ebbene gli artiglieri fecero i muli e trasportarono quei cannoni dove servivano.45
Difendersi in quelle condizioni era assai problematico. La saldatura con le altre
unità, quando si riusciva a trovare, era fatta da semplici pattuglie. Ancora una
volta il gen. Girotti lancia alte grida di allarme sulla situazione degli alpini.
E, quando si trattava della Julia bisognava drizzare le orecchie perché su quel
fior di divisione non potevano esserci dubbi. Scrive il comandante della Julia
il 12 dicembre: «[..] vivendo in mezzo ai reparti si ha la vera reale sensazione
che tutto influisca ormai sulle facoltà fisiche, psichiche e mentali di tutti; il
cuore alpino può ancora reggere, ma può avere da un momento all'altro un
tracollo ed è questo che reputo dovere di comandante di fare presente. Né
è conveniente immettere subito, in questo stato di cose, nell'ambiente della
linea, dei complementi per tema che questa latente depressione possa avere la
sua ripercussione su qualche elemento fresco messo a contatto con truppe in
tali condizioni.»46 Bancale non poteva certo ritirare la Julia dalla linea come
sarebbe stato necessario e giusto, ma puntellò le traballanti posizioni tenute
dal 9° alpini, chiave di volta di tutto il settore, con reparti della Bari. Furono
45 «Per il trasporto dei cannoni furono impiegati 40 uomini per pezzo, tenendo conto che
occorreva una squadra di sei uomini per ogni parte del cannone; che era possibile tenere una
velocità di 300 metri orari su quei sentieri infernali e che ogni uomo poteva portare il carco
per due minuti al massimo.» USSME, cit. nota di pag. 393.
46 La lettera era indirizzata al comandante del corpo d'armata gen. Bancale
Kukes: l'ingresso nella tenda infermeria per la disinfestazione. Archivio Pagnacco.
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brutti giorni per il comandante dell'VIII corpo: Bancale riceveva solo cattive
notizie e richieste di aiuto. Il comandante della Pusteria, generale Giovanni
Esposito De Cia completava l'opera chiedendo munizioni, viveri e foraggio per
le salmerie. Per nostra fortuna il logoramento colpiva anche l'avversario. Il II
corpo ellenico aveva iniziato l'offensiva nella zona di Klisura e aveva concesso
alla Julia un momento di relativa calma. Sul fronte dell'altro corpo d'armata,
dove operavano le divisioni Modena, Acqui, Siena e Ferrara la situazione era
analoga. Il giorno 15 un contingente di complementi del 47° fanteria, appena
giunto in linea a Tepeleni, fu sottoposto ad un duro attacco greco, sferrato con
rapidità e violenza. Il battaglione di rimpiazzi «si è polverizzato come una
palla di neve lanciata contro uno sperone di roccia», scrisse il comandante
del reggimento, che intervenne in suo soccorso e ci vollero ore di disperati
combattimenti e la quasi distruzione di un altro battaglione, per ricucire la
falla. Dall'Italia era giunto, con il comando al completo ma senza truppe,
anche il generale Messe per costituire un corpo speciale che avrebbe avuto
il compito di «garantire l'assoluta integrità di Valona e il suo retroterra.»
Ebbe a disposizione la Acqui e una costituenda Divisione alpina speciale
al comando del gen. Piazzoni. Gran nome per poca cosa: si trattava del 2°
alpini con due striminziti battaglioni, un reggimento di cavalleria appiedato47,
due compagnie di mitragliatrici e qualche supporto. Tutto qui. Intanto non si
sa quale notizie giungessero a Roma dalle parti di Palazzo Venezia, perché
Mussolini, attraverso Cavallero, tuonava di «passare senza indugi all'offensiva,
ovunque si avessero truppe fresche, con precedenza sul fronte dell'11ª armata,
ove il nemico sta attaccando per raggiungere Valona.» Il generale Geloso, da
parte sua, aveva già predisposto i piani per sferrare, entro natale, una serie di
attacchi. Qualcuno ha etichettato quel piano come «controffensiva.» In realtà
esso restava nell'ambito locale e aveva, più che altro, uno scopo psicologico
e di alleggerimento. Anche da parte greca si chiedevano nuove truppe e
rifornimenti, ma lo scopo era diverso. Gli ellenici volevano «battere il ferro
finché era caldo», ossia volevano ributtare gli italiani in mare. Da noi, invece
«oggi urge Valona» - diceva Cavallero a Geloso.
Il 23 dicembre La 15ª divisione greca, rinforzata da altre unità sferra un
poderoso attacco con l'intento di sfondare, sul fronte della Julia per poi puntare
risolutamente in avanti verso la catena del Mali Trebeshines. Nevicava e faceva
freddo quel mattino e, singolarmente, l'attacco ebbe inizio a metà mattinata.
L'operazione fu condotta con forze ingenti su un fronte di circa sei chilometri
proprio sul punto di sutura fra la Julia e la Bari. Il 9° alpini combatté per
tutto il giorno a metà del costone e alla sera era sempre lì. Un cedimento
Kukes: per la disinfestazione del vestiario il regio esercito impiegava le stufe «Gianoli».
Gli alpini caricano le divise nei macchinari. Archivio Pagnacco.
47 Erano meno di 1000 uomini che venivano impiegati come fanti senza averne l'addestramento.
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Kukes: si aspetta che le «Gianoli» abbiamo terminato il proprio lavoro. Archivio Pagnacco.
si registrò invece nei reparti della Bari che coprivano il fianco destro della
Julia . Si ricominciò a combattere il giorno dopo: quattro assalti dei greci, uno
dopo l'altro, furono respinti dagli alpini a prezzo di forti perdite. Quegli assalti
costavano però molto anche all'avversario. Nelle prime ventiquattro ore i due
reggimenti attaccanti avevano perso 28 ufficiali e 631 soldati48 e alcuni reparti
si erano ritirati in disordine. La tenace resistenza della Julia scompaginò i
piani ellenici: la prosecuzione dell'avanzata era condizionata dalla conquista
del Quarshata e Fratarit, base ideale di partenza ai fini della rottura della fronte
italiana. La sera della vigilia di Natale la Pusteria, pur avendo operato un'ampia
flessione, era comunque riuscita a conservare le posizioni più importanti come
quelle che garantivano il controllo dei passi di Kulmakës e Sirakurt. Dalla
Julia il comandante dell'intrepido 9° comunicava che «le posizioni sono
ancora in nostro possesso, ma le condizioni della truppa fortemente provata
dai combattimenti e dal maltempo sono giunte all'estremo delle possibilità.
Conscio della responsabilità che mi incombe chiedo che sia fatto tutto il
possibile perché nella mattinata di domani affluiscano immancabilmente i
rinforzi.»49 Il settore della Bari, era il più complicato dal punto di vista tattico
perché aveva il fianco sinistro sbilanciato in avanti allo scopo di appoggiarsi
al Qarishta e Fratarit. Sulle pendici meridionali del Qarishta e Fratarit si era
aperta una breccia tra la Julia e la Bari che non era stata chiusa. Battaglioni di
complementi appena giunti in linea, senza un adeguato addestramento e senza
armi di reparto, furono gettati nella mischia, con scarsi risultati. Neanche il
passaggio del Val Tagliamento al 9° alpini bastò: il mattino del 30 il generale
Papagos attaccò con due divisioni, dopo una violentissima preparazione di
artiglieria compiuta con ottanta pezzi e concentrata tutta nella zona del 9°
alpini. Questa volta il Qarishta Fratarit fu sommerso e cadde. I resti del 9°
dei gruppi Conegliano, Udine e Val Tanaro si raccolsero a Topajanito che
però era quasi accerchiato dal nemico. L'arrivo di alcune compagnie del Val
Tagliamento consentì di tenere la posizione. Quel giorno «tutti i comandanti di
battaglione e di compagnia e quasi tutti i comandanti di batteria erano caduti
al loro posto, morti o feriti.»50 L'anno non si chiudeva affatto bene per il
nostro esercito. Il comandante dell'11ª armata in una lettera ai comandanti
dei due corpi d'armata dipendenti scriveva: «Nell'attuale fase operativa ogni
attività dei Capi di qualsiasi grado e delle truppe deve rispondere in tutti i suoi
vari aspetti e nel modo più assoluto all'imperativo categorico ''durare''; durare
Kukes: Vita al campo... Il rancio. Archivio Pagnacco.
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48 Relazione Ufficiale greca, da USSME, cit. pag . 433.
49 Ibidem. Il giorno dopo un battaglione di complementi era già in viaggio per raggiungere
la Julia.
50 Il solo 9° alpini nel corso dell'ultima settimana aveva perso 37 ufficiali e 596 tra sottufficiali e truppa. USSME, cit. pag.436.
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in attesa che la macchina sia pronta per la controffensiva che al momento
opportuno sarà sferrata con carattere decisivo, risoluto, totalitario […].»
Nonostante il ricorso a Kant, magari non adeguato alla situazione, l'esercito
era in crisi. Aveva esaurito le forze. L'invio di Cavallero in Albania voluto
direttamente da Mussolini non semplificava ed anzi ingarbugliava la situazione:
nessuno sapeva più chi fosse il comandante sul campo. Quando Cavallero
giunse a Tirana trovò Soddu «poco fiducioso.» Certo, data la situazione, il
generale aveva ben poco di cui rallegrarsi... Per una specie di contrappasso
dantesco, Soddu, e cioè uno degli uomini che più avevano voluto la guerra
alla Grecia e che si erano compromessi in tutti i modi con quella sciagurata
campagna, essendo stato mandato personalmente sul campo dal duce, doveva
ora constatare de visu le carenze, i gravi errori politici, le grettezze e i guasti
piccoli e grandi prodotti dai dissidi tra generali e politici o, meglio, dai generali
politici quali lui stesso era. Soddu a Roma portava infatti spavaldamente due
cappelli: quello di generale e quello di sottosegretario di Stato alla Guerra e in
quella veste rispondeva solo al duce stesso. Il tritacarne degli ufficiali di alto
rango sul fronte greco - albanese non lo risparmiò. Soddu aveva ormai perso
credibilità. Era stanco e sfiduciato e il suo stato di prostrazione traspariva con
chiarezza nelle comunicazioni inviate allo Stato Maggiore di Roma. In un
passo di una lunga lettera che egli inviò all'alto comando nella capitale, si
legge: «Finora non ho preso posizione perché so che Cavallero agisce in base
a direttive ricevute dal Duce; ma quando si è sul punto di combinare un guaio
di questo genere, io debbo parlare chiaro. Dirò quindi che non mi sento di
reggere il Comando di Gruppo di Armate sulla base delle attuali direttive; e
ciò perché le direttive me le danno gli altri, ma gli ordini li debbo dare io. Dirò
che non si può comandare in quattro. Aggiungerò che siccome sono un soldato
e non me ne voglio andare nel momento del pericolo, mi si dia il comando di
un'armata, in Albania, alle dipendenze del nuovo comandante di gruppo di
Armate.» «Il guaio» di cui parlava Soddu era rappresentato da una profonda
divergenza nel concetto operativo sorta tra lui e Cavallero in merito all'impiego
delle quattro divisioni nuove arrivate: la Acqui, la Brennero, la Cuneo e la
Cuneense. Cavallero intendeva impiegarle subito per una serie di contrattacchi
mentre Soddu voleva usarele «per far muro», ossia per difendersi. Fra i due fu
Soddu ad avere la peggio. Di fronte al suo attendismo, Mussolini gli ordinò di
«venire a Roma per conferire.» A Cavallero indirizzò invece un telegramma
che diceva: «Ho chiamato a Roma per conferire il gen. Soddu. Durante la sua
assenza assumerete il comando Gruppo Armate Albania» era inevitabile. E a
quel comando naturalmente Cavallero rimase.
Kukes: Si prepara la polenta. Archivio Pagnacco.
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Kukes: cucinieri al lavoro. Archivio Pagnacco.
I successivi avvenimenti
A gennaio fu combattuta quella che venne chiamata la «battaglia di Berat
che iniziò proprio sul fronte della Julia il giorno 8. Ma l'intervento tedesco
era ormai alle porte. Già in dicembre erano stati fatti i primi passi a Berlino
per ottenere una divisione alpina germanica in Albania. Hitler cominciava
a preoccuparsi per i riflessi strategici che creava la situazione sul fronte
balcanico. Il 31 dicembre, nel formulare gli auguri al duce scrive: «In seguito
agli avvenimenti in Grecia, come pure in Albania, io medito continuamente le
contromisure realmente efficaci che possono essere adottate da parte mia. Con la
parola ''efficaci'' io intendo evitare tutti questi aiuti che si esauriscono in se stessi
ed effettuare in loro vece operazioni veramente decisive […]. Naturalmente
Hitler mentre meditava aveva già ordinato, fin dal 13 dicembre, che truppe
tedesche muovessero verso la Romania «per raggiungere rapidamente i luoghi
stabiliti per l'avanzata.» Da Berlino l'addetto militare gen. Marras riferiva a
Roma: «La nostra guerra contro la Grecia ha sorpreso e contrariato la Germania
perché ha intralciato lo svolgimento di trattative diplomatiche e di combinazioni
a scadenza più o meno lunga destinate a sviluppare l'influenza tedesca nella
penisola balcanica ed assicurare al Reich una posizione egemonica in tutto il
Sud-Est europeo. Per questo senso realistico della situazione che sempre ispira
la politica tedesca, la sorpresa e la contrarietà sono state rapidamente dominate
per agire positivamente e volgere la situazione a proprio vantaggio. Da qui l'idea
di un intervento militare contro la Grecia diretto ad impadronirsi di Salonicco.»
Dunque la Germania hitleriana faceva di necessità virtù. La decisione era presa
e tra i vantaggi si considerava che «la Grecia, di fronte a un'offensiva germanica,
si sentirà impossibilitata a resistere e sarà portata a cedere di fronte ai Tedeschi
anziché agli Italiani, preferendo l'occupazione tedesca a quella italiana; la
politica tedesca è diretta a rafforzare questa convinzione.» Veniva anche valutato
che l'Inghilterra non avrebbe difeso il territorio greco peninsulare con l'invio di
truppe. Quindi, - scrive Marras - «la Germania vuole occupare Salonicco» e
dato il rapporto delle forze in campo, ossia che tutto l'esercito greco è schierato
contro gli italiani, tutto lascia prevedere che l'avanzata tedesca sarà «più rapida
di quella italiana e perciò le forze germaniche potranno giungere fino ad Atene
prima di quelle italiane […]. Non è da escludere che la minaccia tedesca porti
soltanto un limitato alleggerimento della fronte albanese.» Mussolini letta la
relazione, la inviò a Cavallero commentando: «la conclusione è che bisogna
precedere i tedeschi nell'opera di annientamento della resistenza greca.» Ma,
al di là delle dichiarazioni di principio, deve aver masticato amaro il duce. Le
parole della relazione di Marras esprimevano la sconfessione bella e buona da
Kukes: di guardia... ai quarti di bue. Archivio Pagnacco.
109
parte del potente alleato della politica estera fascista nei balcani. Intanto era
giunta in Albania una missione tedesca guidata dall'addetto militare a Roma. Il
generale, dopo aver girato in lungo e in largo il fronte, concluse che «nessuna
delle divisioni di fanteria tedesche, anche se scelta tra le più addestrate,
potrebbe vivere e combattere in terreni così difficili.» Come dire: «ma dove vi
siete cacciati.» Tuttavia, il generale von Rintelen ammise che «la situazione era
sufficientemente stabilizzata e ormai sicura.» Una seconda missione militare
tedesca visitò il settore del III corpo, e senza scoprire le carte, comunicò a
Cavallero che in previsione dell'occupazione della Grecia i tedeschi «avrebbero
visto volentieri un corpo italiano di montagna su due divisioni col compito di
operare su Korca e successivamente su Larissa. In previsione del convegno fra
i due dittatori che si doveva tenere il 19 gennaio a Berchtesgaden, Mussolini
convocò a Foggia Cavallero, Vercellino e Ranza. Ciano riferisce che il duce
tornò a casa «scuro e pessimista», anche perché si era appena consumata la
perdita di Klisura. Quando, due giorni dopo, parte per Salisburgo «Mussolini
arriva in treno scuro e nervoso. È scosso dalle notizie albanesi. […] abbiamo
rinculato ed abbiamo lasciato molti prigionieri in mano al nemico. Il più grave
è che si tratta dei Lupi di Toscana, una divisione di ottima fama e di grandi
tradizioni. […] ripete il suo pessimismo sull'esercito e sul popolo italiano. Non
sa spiegarsi il perché delle cose. Ripete spesso: «se qualcuno il 15 ottobre, avesse
previsto quanto dopo è in realtà accaduto, l'avrei fatto fucilare.»51 Giunto alla
stazione, prima di scendere dal treno e trovarsi di fronte a Hitler disse a Ciano:
«Non mi basterà il sangue che ho nelle vene per arrossire davanti a Hitler.»
Quando l'ambasciatore Alfieri gli fece notare che l'alleato era ben disposto e
pronto ad accogliere eventuali richieste, il duce rispose piccato: «io non ho
nulla da chiedere.» I Greci, anche quando l'intervento tedesco si manifestò
come probabile, non cambiarono di una virgola il loro schieramento militare. Il
generale Papagos sapeva bene che di fronte alle divisioni corazzate germaniche
nulla poteva e inoltre non sarebbe stato possibile spostare in tutto o parte le sue
forze con la necessaria rapidità. Dunque tutto doveva rimanere come prima.
Si doveva continuare ad esercitare lo sforzo principale sul teatro di operazioni
albanese. «L'esercito greco – scrisse il generale Papagos - si sarebbe presentato
comunque nella posizione del vincitore degli italiani, qualunque fosse stata la
conclusione delle operazioni sul fronte bulgaro.»
Sul fronte albanese Cavallero era ottimista. Il primo febbraio in un colloquio
con Mussolini a Bisceglie dice: «il 4 dicembre eravamo sull'orlo della catastrofe, mentre oggi siamo in deciso vantaggio.» Lamentò la scarsa preparazione dei
complementi che giungevano in Albania e chiese truppe ben addestrate.
Kukes: posto di guardia. Archivio Pagnacco.
51
Galeazzo Ciano, Diario, op. cit., 17.
111
L'ultimo sforzo dell'esercito greco
L'ultimo tentativo di raggiungere il mare dell'ormai esausto esercito greco
fu esercitato tra la fine di febbraio e la metà di marzo per la conquista di Tepeleni. In quella direttrice, nel settore del XXV corpo, era schierata la Julia. Durante i primi combattimenti furono coinvolte le divisioni Sforzesca, Legnano
e Ferrara. Negli ultimi giorni di continui scontri le due divisioni, Sforzesca e
Ferrara, avevano perduto circa 4.000 uomini e un gran numero di armi. Il generale Rossi chiese allora il rinforzo di un paio dei battaglioni della Julia, ma
Cavallero, che teneva l'unità alpina come una reliquia, rifiutò. Nel pensiero
del generale la Julia era la carta vincente per la manovra che aveva in animo
di compiere. Gli alpini dovevano bloccare preliminarmente la penetrazione
greca per dare poi vita ad una vasta controffensiva. Quindi i sette battaglioni
della Julia che rappresentavano per Cavallero «il nostro tallone più prezioso»
non dovevano essere toccati. Alla fine tuttavia gli italiani furono costretti ad
impiegare alcuni di essi. Scrive Cavallero: «È avvenuto l'avvicinamento della
Julia in Val Vojussa […] ho fatto un grosso sacrificio, perché volevo tenere
questa unità in mano per altro scopo, ma ho dovuto provvedere in modo totale
a quel punto che è il più delicato.» In effetti la divisione aveva messo in campo pochi effettivi e «non ne risentirà. L'ordine è per un impiego unitario.»
Tra la fine di febbraio e la metà di marzo l'esercito ellenico riaccese la
battaglia per la città di Tepeleni (12 – 31 marzo).52 Nell'economia del piano strategico greco l'attacco alla cittadina albanese non era che un episodio
che doveva portare alla conquista di Valona distante 48 chilometri.53 L'azione
principale della manovra offensiva il generale Papagos, l'affidò alla Sezione
d'armata dell'Epiro, formata da dieci divisioni raccolte in due corpi d'armata. La difesa dell'arco del fronte d'attacco era affidata al XXV corpo. In quel
settore operavano la Julia, rinforzata per l'occasione dal gruppo alpino «Pizzi», la Ferrara e la Legnano. Tra il 24 e il 27 marzo la divisione alpina entrò
in linea proprio in sostituzione dei reparti della Legnano. Il generale Girotti
aveva la responsabilità del settore compreso fra Chiaf Mezgoranit e q. 1615
del Golico. Era appena avvenuto il cambio dei reparti quando all'alba del 28 il
nemico, accortosi della sostituzione e con l'intenzione di sfruttarla, lanciò un
forte attacco con l'ausilio di aerei che lanciavano spezzoni sulle linee italiane,
contro le posizioni avanzate della riva sinistra della Vojussa, che erano tenute
dal Cividale e dal Susa. Nello slancio iniziale gli attaccanti portarono a casa
52 Sulla battaglia di Tepeleni in particolare si veda Emilio Faldella (a cura di), Storia delle
truppe alpine, Cavallotti, Milano 1972, Vol. II, pp..1269-1292.
53 Il sogno dei Greci era di raggiungere Valona e di costringere gli italiani a reimbarcarsi.
Kukes: monenti di vita al campo... Si fa il bucato. Archivio Pagnacco.
113
qualche successo, ma fu cosa breve perché i contrassalti degli alpini li ricacciarono indietro. Il primo marzo Cavallero ritenne che la situazione si evolvesse a nostro favore. Tuttavia la minaccia su Valona era ancora considerata
possibile e una divisione fu destinata a tale scopo alla difesa in profondità. Il
settore del XXV corpo, dallo Shëndeli al Kurvelesh, era a questo punto presidiato dalla divisione Sforzesca, rinforzata con il gruppo alpino «Signorini»,
formato dai battaglioni Bolzano, Val Cismon e Cervino. Vi era poi la Julia,
disposta a cavaliere della Vojussa, con l'8° e il 9° alpini, il battaglione Susa e
il gruppo alpino «Pizzi» costituito dai battaglioni Val Natisone, Val Fella, e
Val Tagliamento. Il dispositivo difensivo era infine completato dalle divisioni
Ferrara, Modena e Brennero. Il limite di settore tra il I e il II corpo d'armata
greco che muovevano all'attacco era rappresentato dal fiume Vojussa. Così
davanti alla Julia venivano a trovarsi le ali interne dei due corpi. I greci erano
riusciti a far ripiegare la nostra linea di sicurezza fino allo sbocco di Val Zagorias. Tale successo era stato però pagato a caro prezzo e la perdita di uomini
e mezzi che il suo conseguimento aveva imposto non poteva che avere significative ripercussioni sui successivi avvenimenti. La notte del 7 marzo ci fu
una relativa calma sul fronte ma, improvvisamente, all'alba un intenso fuoco
di artiglieria si concentrò sul caposaldo 27, (q. 1615 del Golico) occupato dal
Gemona. Due reggimenti, appoggiati da aerei si lanciarono all'assalto contro
la quota. Dopo le 8 il combattimento si estese anche nel settore del battaglione Aquila. I collegamenti tra le unità adiacenti saltarono. Alle 10 il Gemona,
dopo quattro ore di strenua resistenza è sopraffatto. Alle 11 il comando dell'8°
invia un portaordini al comando della divisione con questa comunicazione:
«Ore 10. le truppe del btg. Gemona sono state sopraffatte sulla q. 1615. Ho
lanciato un contrassalto con la 70ª, ma è stato infranto all'altezza di q. 1500
ovest di 1615. La 70ª resiste lassù ma è morto il comandante e feriti molti ufficiali. La 69ª distrutta. La 71ª è quasi interamente distrutta. Urge provvedere
nell'interesse generale con truppe fresche per impedire che i Greci scendano.
L'azione delle nostre artiglierie è stata poco efficace. I colpi non scoppiavano. Sono sceso per ultimo dalla quota e sono leggermente ferito. Le perdite
sono molto gravi. Tutti hanno fatto il loro dovere, soprattutto gli ufficiali.
Maggiore Perrot.» La situazione era delicata. Con la caduta della q. 1615 si
trovarono a malpartito il II/3° granatieri mentre il III battaglione era battuto
di spalle e il I preso d'infilata dal micidiale tiro dei mortai greci. Il genenerale
Girotti modificò il suo schieramento durante la battaglia richiamando il Val
Fella a tamponare le falle. Ne pomeriggio tutta la Julia era sotto pressione. I
greci avevano raggiunto le pendici orientali dello Shëndeli contrastati da una
sola compagnia completamente isolata, da quel che restava dell'Aquila, dal
114
Kukes: il ricovero dei muli. Archivio Pagnacco.
Kukes: una panoramica del campo. Archivio Pagnacco.
Il monte Golico. SFEI.
Vicenza e a sud dal Civiale e dal Susa. Gli alpini erano riusciti con fatica a
respingere l'avversario, ma erano dominati dal Golico. Venne anche il Val Tagliamento, ma gli ellenici continuavano ad incalzare. Si combatteva ormai da
quattordici ore quando un ulteriore attacco nemico contro i btg. Susa e Cividale ebbe la meglio. Alle 22 fu occupato lo sperone est di q. 1437, ottima base
di partenza contro la linea di cresta. Questa è la sintesi degli avvenimenti che
fece il comandante della Julia, gen. Girotti: «[…] Nei pressi del Monastero di
Kodra v'era il btg. Val Natisone, ammontante in tutto ad un centinaio di uomini e facente parte, con Val Fella ed il Val Tagliamento del gruppo Pizzi. Data
l'urgenza, ordinavo al comandante dell'8° di impiegarlo […]. Le perdite da noi
subite nella giornata apparivano di già gravi; da ogni parte s'invocava l'invio
di rinforzi. È l'invocazione di chi sta innanzi e dei momenti critici. Qualcuno
poteva anche supervalutare perdite e situazioni, ma certo i reparti si erano
molto assottigliati. Nella previsione di non poter fare assegnamento su altre
unità provenienti da tergo, disponevo, allo scopo di rinforzare i rgt. e di avere
altre forze alla mano, che fosse portato in linea il massimo numero di conducenti, si svuotasse la base della divisione di tutti gli elementi, si raccogliesse
la compagnia artieri, le staffette ed attendenti del Comando della divisione i
CC.RR. ancora disponibili, per poter tutto impiegare e portare in linea.» Alle
23 la situazione era la seguente:
• sullo Scindeli il contrattacco effettuato dai reparti del gruppo Signorini e la
reazione dei plotoni della 61ª cp. del Vicenza avevano alleggerito la pressione esercitata su q. 1717 e q. 1693;
• sul costone roccioso […] sbarramento fondo valle della Vojussa si erano dislocati elementi del Val Natisone, una cp. del Tolmezzo e i resti di una cp. del
Vicenza tutti agli ordini del ten.col. Martini, comandante dello sbarramento
di fondo valle;
• sulla sinistra Vojussa i btg. Cividale e Susa avevano respinto gli attacchi e
mantenevano le primitive posizioni, però il nemico continuava a premere
sul fronte del Susa;
• sul Golico il nemico aveva posto piede sulla q. 1615 e 1531, fronteggiato
dai resti del Gemona e da due cp. del Tolmezzo: Le due cp. del Val Fella col
comandante del btg. magg. Zancanaro avevano già serrato sotto e si accingevano a contrattaccare.
Tende italiane abbarbicate alle pendici del monte Golico. SFEI.
116
La situazione che si poteva creare preoccupava il comando dell'11ª armata
che dispose l'invio della Legnano al momento in riorganizzazione nelle retrovie. L'intervento del 67° fanteria e del 48° consentì di rinforzare lo schiera117
mento. I greci ebbero la sensazione che l'ultimo tentativo stesse fallendo. Provarono ancora a passare ma tutti i tentativi fallirono. Gli italiani non erano in
condizione di prendere iniziative d'attacco e gli ellenici non riuscivano a sfondare: era lo stallo. La situazione trovò la sua risoluzione da sola, o meglio, si
risolse per sfinimento delle forze in campo. In due esettimane solo gli italiani
avevano perduto quasi 8.500 uomini.54 L'ultimo atto della battaglia di Tepeleni coincise con l'arrivo della div. Lupi di Toscana messa a difesa «ad oltranza»
dello sbarramento della Vojussa a protezione del ponte di Dragoti mentre la
Julia continuava a tenere le spalle della stretta. Cavallero «si trovava dunque
ad impiegare uno strumento bellico che aveva raggiunto una buona capacità
difensiva, come posto in evidenza dalla battaglia di Tepeleni, ma non ancora
la capacità offensiva necessaria per un'azione di rottura e l'operazione di Val
Deshnicës lo dimostrerà.»55 Certo, per come si era messa la guerra era già un
successo non rinculare davanti ai greci. Il primo ad avvertire il cambiamento
del vento fu Mussolini il quale aveva anche un impellente interesse politico e,
in qualche maniera, doveva giustificarsi di fronte agli italiani per quanto era
successo. Il 23 febbraio a Roma, al cinema Adriano, davanti alle gerarchie
del partito, dopo aver scaricato sui generali le responsabilità dell'andamento
della guerra sui vari fronti, il duce giustificò in questo modo il proditorio attacco alla Grecia: « […] L'ultimo appoggio alla Gran Bretagna sul continente
era ed è la Grecia, l'unica nazione che non ha voluto rinunciare alla garanzia
britannica. Era necessario affrontarla e su questo punto l'accordo di tutti i
fattori militari fu assoluto. Aggiungo che anche il piano operativo, preparato
dal Comando Superiore delle Forze Armate in Albania, fu unanimemente approvato, senza riserve di sorta e non fu chiesto, nell'intervallo fra la decisione
e l'inizio dell'azione, che un ritardo di due giorni. […] Sia detto una volta per
tutte che i soldati italiani in Albania hanno superbamente combattuto; sia detto, in particolare, che gli alpini hanno scritto pagine di sangue e di gloria che
onorerebbero qualsiasi esercito. Quando si potrà raccontare nelle sue vicende
la marcia della Julia sino quasi a Metsovo tutto apparirà leggendario […].»56
Era vero, ma solo in parte. Disse quello che voleva far sapere, ovvero quello
che gli accomodava e che non gli faceva ombra. «Non aggiunse che i fattori
militari responsabili avevano approvato i piani operativi basati su premesse
e situazioni politiche che la realtà aveva dimostrato del tutto inesistenti, ma a
cui si doveva credere perché avallate dall'autorità del Capo del Governo, del
54 USSME cit. pag.607.
55 Ibidem, pag. 613. Il corsivo è nel testo.
56 Ibidem pag. 613 – 614.
Fronte greco-albanese: il fiume Vojussa. SFEI.
Fronte greco-albanese: passo Siracut. Archivio Pisani.
118
119
ministro degli Esteri e dal luogotenente in Albania.» 57 La campagna si conclude in aprile quando i tedeschi intervengono risolutamente e con decisione.
Ai Greci non rimaneva che ritirarsi. «Campagna dolorosa che resta nella storia d'Italia come una pagina agghiacciante della leggerezza e dell'improvvisazione di Mussolini, come una ennesima riprova della capacità di resistenza e
di abnegazione del nostro soldato.»58
Fronte greco-albanese: L'artiglieria tedesca martella le forze greche.
1941: forze tedesche sul fronte greco.
Tirana 1941. Archivio Emilio Bosi.
57 Ibidem.
58 Mario Cervi, L'attacco alla Grecia, in Storia Illustrata febbraio 1970, p.162.
121
Con gli alpini sul fronte del Tomori
Fronte greco-albanese: in vetta al Tomori. Archivio Emilio Bosi.
«Ad ogni passo si affonda fino al ginocchio; si incontrano muli morti, zaini abbandonati, tende deserte, cofani da cancelleria sfondati, treppiedi di mitragliatrici, piastre da mortai, villaggi pieni di feriti e di congelati. Dopo
molte ore di salita un vento gagliardo squarcia le nubi e raggela la terra; […]
basta poco per raggiungere le ultime retroguardie italiane e le prime pattuglie
greche; sulla valle, gialla tra le cime bianche del Tomori e di Maia e di Korbiet, pende un silenzio onnipotente, il silenzio della guerra in montagna.» La
prosa di Italo Pietra sintetizza con efficacia ciò che fu la campagna ellenica,
un'avventura militare che, a detta di Mussolini, con «poche divisioni» avrebbe dovuto regalare al fascismo un successo di prestigio. Ricorda Mario Rigoni Stern: «…Il 9 giugno era domenica […]. Anche quella sera eravamo un
piccolo gruppo vicino alla cucina […]. Venne Nicolini dal paese per gridare
nella quiete: - El Crapù [Mussolini ndr] ha dichiarato la guerra e a Roma urlano come matti! Sul nostro accampamento scese il silenzio e non ci furono
commenti; solo ci sedemmo pensierosi a guardare il fuoco…»59 Il fronte del
Tomori divenne famoso durante la campagna greca. Si sviluppava per 250
chilometri e lo difendevano 160.000 soldati, per la maggior parte alpini. Era
la metà di dicembre del 1940 quando la linea fu consolidata dal lago di Ochrida fino al mare. La tenevano gli effettivi di due armate. La 9ª difendeva l'ala
sinistra mentre il compito di proteggere il fianco destro era stato affidato
all'11ª. La difesa gravitava sul monte Tomori che rappresentava il punto di
unione tra i due schieramenti. La condotta delle operazioni era stata affidata
al generale Ugo Cavallero. Il Tomori era il punto chiave dello schieramento e
Cavallero lo sapeva bene. Era là infatti che, sotto la pressione avversaria, si
poteva realizzare a danno degli italiani la peggiore fra le ipotesi ovvero la
perdita del contatto fra le due armate. Il generale aveva naturalmente pronto
un piano di riserva nel caso le situazione si fosse rivelata insostenibile. L'eventualità era tutt'altro che remota: tenere di 250 chilometri di fronte con un velo
di uomini non era impresa da poco. Cavallero aveva dunque previsto che nella peggiore delle evenienze la 9ª Armata ripiegasse arroccandosi attorno a
Tirana, mentre l'11ª arretrasse fino a Valona. Per nostra fortuna il fronte non
cedette e il disastro fu evitato. Gli alpini sostennero quasi interamente l'onere
di tenere la linea del Tomori. Quando fu necessario vennero effettuate piccole
flessioni all'indietro della difesa, ma l'esercito greco non riuscì mai a sfondare. Nel corso di quei duri giorni di combattimenti perse la vita il colonnello
Rodolfo Psaro della Pusteria che con i battaglioni Feltre e Cadore si era gettato a chiudere le falle che le forze elleniche stavano aprendo lungo il fronte.
Fronte greco-albanese: in vetta al Tomori. Archivio Emilio Bosi.
59 Mario Rigoni Stern, Quota Albania, Torino, Einaudi, 1971.
122
123
Il monte Tomori. Archivio Emilio Bosi.
Adunata di batteria sul monte Tomori. Archivio Emilio Bosi.
124
Poco dopo il Natale del 1940 morirà anche il colonnello Gaetano Tavoni della divisione Julia. Comandante del 9° reggimento, Tavoni era caduto sul Mali
Topijanit. Dal fronte del Tomori tornò cadavere anche il colonnello Umberto
Tivinella del Val Tagliamento. Lungo il lato nord dello schieramento, sul Gur
i Topit, erano sistemati i battaglioni della Tridentina, disposti fin quasi alla
Val Tomorezza. Alla loro destra si trovava invece il 1° alpini. Ancora più a
destra, a cavallo della Valle dell'Ossum, settore particolarmente delicato, i
comandi italiani avevano dislocato la Pusteria con i reggimenti 7° e 11° . La
divisione Julia infine, restava nella valle della Vojussa a proteggere la strada
verso Valona. L'aggressione agli ellenici si era trasformata in una trappola e
mentre a Roma Mussolini continuava a favoleggiare che «avremmo spezzato
le reni alla Grecia», oltremare gli alpini cominciavano tristemente a riadattare
la canzone del ponte di Bassano alle nuove e infelici circostanze del fronte
greco-albanese: «Sul ponte di Peirati bandiera Nera, l'è il lutto della Julia che
va alla guerra, la mejo zoventù che va sotto terra.» Agli inizi di novembre del
1940 gli alpini mantenevano una testa di ponte oltre il torrente Sarantaporos
nel settore di Konitza sul quale dovevano affluire le nostre forze impegnate in
una manovra di ripiegamento. Il possesso dell'unica struttura che superava il
corso d'acqua a Peirati era dunque fondamentale. L'intera divisione Julia si
sacrificò per mantenerlo. Così, dopo quello di Bassano, un secondo ponte
sarebbe entrato nella leggenda degli alpini. Alla fine, l'elegante arcata di pietra che superava il Sarantaporos fu fatta saltare dalle nostre forze che ripiegavano e una nuova linea di difesa venne realizzata su Premeti. Si era ormai alla
fine di novembre e il freddo cominciava a far sentire i propri effetti con i primi casi di congelamento. Le forze greche tentarono in ogni modo di sfondare
il fronte premendo lungo le valli dei fiumi che scendevano verso l'adriatico.
Ottennero però solo successi locali. I loro attacchi vennero bloccati a Elbasani, a Berat e a Tepeleni. A Klisura, fra Chiarista e il Mali Tabaian, riuscirono
invece a far indietreggiare la Julia. A gennaio del 1941 però la Pusteria e i
fanti della Sforzesca riconquistarono dopo tre giorni di battaglia il terreno
perduto. Gli alpini e i fanti riuscirono ad avanzare in salita per una decina di
chilometri ma quando erano ormai in vista dell'abitato di Klisura, le truppe
elleniche passarono al contrattacco travolgendoci. Nel breve volgere di 48 ore
i greci avevano respinto gli italiani sulle posizioni di partenza. Guidati dal
generale Papagos tentarono anche di spingere la propria azione in profondità,
aggirando gli italiani infilandosi nel strette del Tomorezza e del Devoli. Furono però bloccati dalla Cuneense, dalla Tridentina e dalla Parma integrate da
finanzieri e da guardie di frontiera. Le nostre forze lamentarono un gran numero di vittime ma altrettante ne fecero il freddo, il gelo e l'umidità. La qua125
lità dei materiali prodotti «autarchicamente» era ridicola. L'acqua provocava
il disfacimento delle scarpe mentre le uniformi dopo un po' cadevano a pezzi.
Vi erano migliaia di casi di congelamento, di polmonite, di diarrea amebica
che dovevano essere evacuati nelle retrovie e che rimbalzavano da un ospedaletto all'altro, senza possibilità di ottenere cure efficaci. I congelati fra il dicembre del '40 e il marzo del '41 furono oltre dodicimila. I centri medici erano
sovraccarichi e pazienti che si sarebbero potuti curare con semplici frizioni,
impacchi e antisettici venivano trascurati finché non doveva intervenire il chirurgo quando ormai il piede era arrivato alla cancrena. Scrive Mario Rigoni
Stern: «Le compagnie erano dimezzate, più dai congelamenti che dalle battaglie; l'equipaggiamento era a brandelli; molti senza scarpe e tutti irsuti, impidocchiati, qualcuno scabbioso. Stavano intorno ai fuochi in silenzio e facevano bollire dentro i barattoli maglie e camicie per avere una breve tregua dai
pidocchi. […] Sovente nelle mie scorrerie di portaordini, incontravo gruppetti di congelati che, aiutandosi a vicenda, scendevano verso i posti di medicazione; e, una sera, camminai affiancato ai muli con i morti sopra, di traverso.»60
Il gennaio del 1941 sul fronte del Tomori fu terribile. La Julia e la Pusteria
avevano patito perdite pesanti. Alla Julia erano rimaste in tutto 12 mitragliatrici, 5 mortai e poco più di mille uomini. La Pusteria a sua volta era stata
decimata sia nel tentativo di proteggere il ripiegamento della Julia sia per il
costante rifiuto di abbandonare le posizioni che occupava anche quando i
battaglioni rischiavano di rimanere accerchiati. Finalmente, il 25 gennaio del
1941, la martoriata divisione poté lasciare il fronte ed essere ricostituita. La
divisione Cacciatori delle Alpi aveva infatti imbastito una nuova linea di resistenza. La Julia tornerà in campo il successivo 22 febbraio, dopo nemmeno
un mese di riposo, per dare il cambio a ciò che rimaneva della Legnano sul
fronte di Tepeleni. Le condizioni del tempo in quel febbraio del 1941 furono
così avverse da togliere anche ai greci la voglia di battersi. Per qualche tempo
il fronte si stabilizzò e gli alpini tornarono a combattere una guerra che aveva
le caratteristiche del conflitto di posizione già sperimentato sul Carso e sulle
Alpi. Come allora il principale problema tornò ad essere quello logistico-organizzativo: far affluire i rifornimenti, potenziare le riserve e sgomberare i
feriti mentre si attendeva il momento di riprendere a combattere. Il fango, la
fatica e lo sfinimento sono gli elementi che ricorrono con maggiore frequenza
nelle esperienze dei combattenti di Grecia. Fango che lega i movimenti di
animali e uomini, che accresce lo sforzo e che aumenta una fame che non si
riesce a saziare. Della triste sorte che accomuna alpini e muli sul fronte ellenico, così scrive Mario Rigoni Stern: «Queste nostre bestie ci fanno pena: non
Una botte di cognac da 70 litri sul monte Tomori con scarponi e gavetta.
Archivio Emilio Bosi.
Monte Tomori. Alpini della «Pusteria» consultano una carta.
Archivio Emilio Bosi.
60 Mario Rigoni Stern, Quota Albania, op. cit., pp. 111-112.
126
127
Monte Tomori. Un alpino trasporta la ruota di un cannone.
Archivio Emilio Bosi.
Monte Tomori. Un pezzo di artiglieria non ancora assemblato.
Archivio Emilio Bosi.
128
hanno il pelo lucente sopra i muscoli ben sodi, e il brio, e le orecchie spavalde
come una volta le penne sui nostri cappelli: il fango li copre tutti impiastricciandoli, i fianchi magri mostrano le costole, e le ossa delle spalle e della
groppa sembrano voler bucare la pelle. Molti sono piagati dal basto, o sono
senza ferri agli zoccoli perché il fango li ha cavati. […] Non hanno lettiera,
non hanno riparo alla tormenta, brevi i riposi e poco e magro il cibo; tanto che
è fortuna quando, scendendo nelle retrovie dove non c'è la neve, possono allungare il collo per abbrancare con i denti un ramoscello di latifoglia. Il fieno
è un sogno, come per noi il pane, e il poco mangime composto da carrube
macinate, crusca e chissà cos'altro ancora è diviso con i conducenti che spesso fanno dei pastoni nell'acqua di neve: ne viene una specie di polenta scura,
granulosa e dolciastra che anch'io più volte ho mangiato.»61 La pausa nei
combattimenti si protrae fino al 14 febbraio data in cui le forze elleniche ripresero l'iniziativa. Nel settore dello Scindeli, al centro dello schieramento,
esse riuscirono a conquistare quota 1.178 ed ad obbligare le forze di invasione
italiane a ripiegare di qualche chilometro. Gli alpini organizzarono un nuovo
centro di resistenza nel settore del Golico che ribattezzeranno il «Golgota.» A
respingerci indietro erano stati gli uomini della divisione Creta una delle più
note ed efficienti dell'esercito greco che eseguì una manovra offensiva da
manuale. Per nostra fortuna la sua azione si arrestò e gli ellenici non riuscirono ad andare oltre. Le penne nere tennero duro nonostante le condizioni di
estrema ristrettezza nelle quali si trovavano ad operare. Ricevere rimpiazzi e
rifornimenti dalle retrovie diventava ogni giorno più difficile. La sera del 18
febbraio sul Goligo, il battaglione Val Natisone poteva disporre soltanto di 47
alpini ancora in grado di battersi e di 4 ufficiali per guidarli. Le cose andavano
poco meglio al Belluno che aveva ancora 7 ufficiali e circa 100 uomini validi.
Il Belluno era in linea senza ricevere il cambio da più di tre mesi. Finalmente,
il 24 febbraio, il suo posto fu preso dal Susa che proveniva dai contrafforti del
Tomori. Come anticipato più sopra, la Julia tornò in linea ricostituita il 22
febbraio quando già dalla notte precedente le forze elleniche avevano lanciato
un massiccio attacco che gli alpini erano riusciti a contenere. Vista l'impossibilità di sfondare i greci arrestarono l'azione e scatenarono un pesante bombardamento di artiglieria sulle nostre linee. Il risultato dello scontro era cruciale e tale da richiedere il massimo accanimento da ambo le parti. Sul Golico
infatti, lo sperone di roccia di quota 1.615 rappresentava l'ultimo ostacolo che
si frapponeva fra le avanguardia elleniche e il ponte di Dragoti, a monte di
Tepeleni. Se fossero riuscite a scendere di lassù esse avrebbero tagliato fuori
numerosi reparti italiani oltre a tutte le artiglierie schierate tra la Vojussa e il
61 Mario Rigoni Stern, Quota Albania, op. cit., p. 105..
129
Drino. La strada per Valona a quel punto sarebbe stata spalancata. Le forze di
invasione italiane avevano trovato nei greci un avversario determinato nel
difendere la propria terra e capace di metterle alla corda. Esse dovevano però
misurarsi con un nemico altrettanto insidioso: la manifesta incapacità del regime fascista di accettare il fatto che lo strumento militare italiano non era in
grado di affrontare alcun conflitto. Come già accennato ciò si doveva al suo
bassissimo livello addestrativo e organizzativo e alla vetustà degli armamenti
e dei mezzi di cui disponeva. I primi responsabili di tale stato di cose erano
proprio lo stesso Mussolini e gli apparati del regime la cui deleteria azione fu
però colpevolmente sostenuta dalla stolida piaggeria delle gerarchie militari.
Il duce nel frattempo ha saputo che l'«alleato» germanico si prepara esso stesso ad intervenire in Grecia. Le forze tedesche agiranno con un'azione lampo
dalla Macedonia così da liquidare alla svelta la pratica ellenica. Mussolini è
ossessionato dal desiderio di precedere Hitler e dispone in tutta fretta che in
primavera le forze italiane tornino all'offensiva. Si reca di persona ad ispezionare il fronte. Che il capo stia per arrivare i soldati lo comprendono dall'agitazione che improvvisamente infiamma i comandi nelle retrovie. I feriti si
vedono sostituire bende più lacere e sporche mentre le scarpe sfondate e le
uniformi sbrindellate vengono cambiate in tutta fretta per trasmettere al duce
una realtà di pulizia, ordine ed efficienza che non esiste e che è invece perfettamente esemplificata nei suoi tratti più autentici da un'immagine simbolo
dell'intera campagna greca: la famosa foto che ritrae Mussolini impegnato a
spingere la propria auto rimasta impantanata nel fango delle strade elleniche.
«A primavera verrà il bello» aveva dichiarato il duce annunciando l'offensiva
la cui preparazione era stata affidata al generale Gastone Gambara veterano
della guerra in Spagna. Il progetto di Gambara aveva convinto Mussolini e
superato le resistenze di Cavallero il quel avrebbe voluto un'azione a nord, sul
lato sinistro del fronte, dove le forze elleniche erano più deboli. Gambara invece volle puntare direttamente contro il nucleo più forte dello schieramento
avversario, quello rivolto a Valona. Se l'azione che aveva elaborato fosse stata coronata da successo, le forze d'invasione italiane avrebbero scongiurato il
rischio di essere ributtate i mare e il potenziale greco ne sarebbe uscito alquanto sminuito. L'offensiva di primavera fu lanciata il 9 maggio alla presenza del duce ma non approdò a nulla di concreto. Nelle intenzioni dei comandi
italiani doveva essere una «battaglia di logoramento» destinata a ridurre l'avversario a più miti consigli ma anche a noi essa costò oltre di dodicimila uomini. Nel settore di Berati attaccammo Quota 731, considerata strategicamente importante per il controllo della città. L'altura, che era denominata Quota
Monastir fece rivivere a chi fu chiamato a scalarne le pendici le tragiche sug-
gestioni dell'Ortigara. La nostra artiglieria scatenò in due ore su quelle posizioni un fuoco di preparazione fatto di oltre 100.000 cannonate ma fu tutto
inutile. Nel settore alpino i greci tentarono – per nostra fortuna senza successo - di contrattaccare le posizioni della Julia. Le penne nere dell'11° reggimento della divisione Pusteria ottennero qualche risultato sul Mali Spadarit.
Le forze che li accompagnavano a destra a sinistra non riuscirono a tenere il
loro passo ed alla fine, contrastati di fronte e sui fianchi, gli alpini dell'11°
dovettero ripiegare. L'offensiva di primavera si rivelò un fallimento. Il pomeriggio del 14 marzo il generale Cavallero fece timidamente presente al duce
l'opportunità di sospendere l'azione. Mussolini di parere opposto ripartì per
l'Italia lasciando le «direttive numero 21» del 19 marzo con le quali disponeva che l'11ª armata riprendesse ad attaccare il successivo giorno 28. Gli avvenimenti in Jugoslavia modificarono però radicalmente la situazione. Il 6 aprile le truppe di Hitler varcarono il confine greco in Macedonia e gli ellenici si
arresero dopo 4 settimane.
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Tardo aprile 1941. Cannoncino antiaereo tedesco sul fronte greco.
1941. Un blindato Fiat 3000 mod. 21 sulla frontiera greco albanese.
Il comandante del 3° Corpo d’Armata greco generale Tsolakogolu si arrende
a Sepp Dietrich, comandante della Liebstandarte «Adolph Hitler».
1940. Carro tedesco sul fronte greco. A bordo un prigioniero neozelandese.
I plenipotenziari greci a bordo di un'auto tedesca si recano a firmare la resa.
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L’occupazione della Grecia
I tedeschi sul Partenone. Bundesarchiv.
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Il grosso dell’esercito greco era dislocato lungo il confine albanese di fronte
alle armate italiane; quattro divisioni erano lungo il confine con la Jugoslavia
unitamente al Corpo di spedizione inglese del generale Wilson (due divisioni
britanniche, una australiana, una neozelandese e una brigata polacca). A
difesa della linea Metaxas, ossia della Grecia continentale, era schierata
solo la 2ª armata con tre divisioni. Dunque per le truppe tedesche e bulgare
l’occupazione dei punti nevralgici del territorio greco presentava pochi rischi.
Il 6 aprile le truppe da montagna del XVIII Corpo d’armata, comandato dal
generale Böhme, attaccarono frontalmente le smilze unità a difesa della linea
Metaxas. Contemporaneamente una divisione corazzata aggirava la stessa
linea fortificata. I greci si difesero al meglio, ma la sproporzione delle forze
non lasciava loro scampo. Il 9 aprile di fronte all'avanzata tedesca, l’armata
greca comandata dal generale Bakopoulos, è costretta a capitolare, con
l’autorizzazione del Comando Supremo e 70.000 uomini finiscono prigionieri.
15 divisioni tedesche proseguono l'avanzata verso l’Egeo scontrandosi con
le restanti truppe greche e con il corpo di spedizione britannico comandato
dal gen. Henmy Maitland Wilson. Ad Atene il generale Papagos e i generali
inglesi Wavell e Maitland Wilson decidono in concerto l’evacuazione del
Corpo di spedizione britannico dalla Grecia continentale. La resistenza
continuerà nelle isole ad opera dei partigiani. Circa 43.000 britannici e alleati
per non essere catturati dovevano tentare il reimbarco. Nei porti di Nàuplion,
Monemvasia e Kalàmai erano pronti sei incrociatori, 19 cacciatorpediniere e
numerosi trasporti di piccolo tonnellaggio. Gli uomini del generale Wilson
combatterono strenuamente alle Termopili costringendo i tedeschi a fermarsi
giusto il tempo per sottrarsi alla loro morsa e ripiegare in ordine su Tebe.
Il 26, dai porti meridionale greci, l’intero Corpo s’imbarcò sfuggendo alla
cattura.
L’attacco congiunto di tedeschi e bulgari consentì alle divisioni italiane,
impantanate da mesi sulle montagne albanesi, di poter avanzare celermente
in territorio greco. Il 17 aprile la divisione Siena conquista Klisura, posizione
strategica dello schieramento greco dove convergono anche la Sforzesca
e la Legnano provenienti da Tepeleni e dallo Schendeli. Il 20 la Venezia
s’impadronisce del passo di Brades, da dove i reparti italiani si aprono la
strada per riunirsi ai tedeschi provenienti dalla Macedonia. Il 21 aprile il
generale Papagos, dopo ampia discussione perché non voleva arrendersi
agli italiani, fu costretto a firmare l’armistizio. Il 27 le truppe tedesche
entrarono ad Atene. La Grecia fu suddivisa in tre zone d’occupazione. I
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tedeschi occuparono la Macedonia centrale e orientale fino all’Olimpo, con
Salonicco e il suo importante porto, le isole dell’Egeo settentrionale, Atene,
in condominio con gli italiani e i bulgari; una piccola parte della Tracia con
le isole di Lemmo, Lesbo, Chio e gran parte di Creta, aeroporto compreso. La
Bulgaria ottenne parte della Tracia, considerata il granaio della Grecia, la zona
centrale della Macedonia con lo sbocco sul Mar Egeo e le isole di Thaso e
Samatracia. Dai territori occupati i bulgari iniziarono subito la pulizia etnica,
espellendo la popolazione greca. Tutto il resto della Grecia, isole comprese,
all’Italia che era in ogni modo già presente nell’Egeo con i possedimenti del
Dodecanneso. I poteri politici sull’intero territorio furono distribuiti fra gli
occupanti. All’Italia furono anche attribuiti gli oneri amministrativi della
penisola ellenica. I tedeschi avevano delegato agli italiani il ruolo d’occupante
ufficiale dell’intera Grecia. Ad Atene fu instaurata un Governo militare greco,
con a capo il generale Tsolakoglu che però era sottoposto a controllo e tutela
degli occupanti tedeschi e italiani. Il Governo di Roma provvide alacremente
a stampare «buoni d’occupazione emessi dalla Cassa Mediterranea per la
Grecia, buoni che la banca centrale greca avrebbe convertito in dracme,
moneta ufficiale. I tedeschi, da parte loro, avevano emesso carta moneta
d’occupazione senza avvisare nessuno. Nell’agosto del 1941, il governatore
della Banca d’Italia segnalò che l’aumento abnorme della massa monetaria (a
quella stampata dagli italiani andava sommata quella stampata dai tedeschi)
avrebbe avuto gravi ripercussioni inflazionistiche sull’intero paese. E così fu:
la circolazione monetaria greca, da 20 miliardi di dracme raggiunse, alla fine
del 1941, i 50 milioni. L’Italia sospese la sua circolazione nella primavera del
1942, senza peraltro regolare l’emesso. L’occupazione della Grecia comportò
gravi conseguenze per il paese. La penuria di generi alimentari, soprattutto
nel continente, provocò, secondo alcune stime, almeno 400.000 morti per
fame. Nelle isole del Dodecanneso, si provvide ad una emissione speciale
stampando cartamoneta per due miliardi di dracme convertibili (otto dracme
valevano una lira italiana). La limitata circolazione della cartamoneta ebbe il
pregio di non provocare inflazione come invece stava avvenendo nella Grecia
continentale.
L’occupazione del territorio greco da parte delle forze armate italiane ebbe
bruscamente termine con la firma dell’armistizio di Cassibile con il quale, in
pratica, l’esausto esercito italiano cessava di considerare gli anglo-americani
come nemici. La cessione delle armi ai tedeschi da parte dell’11ª armata
rese questi padroni della Grecia continentale e delle isole dello Jonio con le
tragiche conseguenze che ne derivarono.
A partire dalla metà di settembre del 1944 le sorti della guerra erano decise: i
tedeschi erano stati sconfitti su tutti i fronti. In Grecia cominciò l’evacuazione
degli organi amministrativi e degli ospedali militari e, a seguire, delle unità
della marina militare e del personale di terra della Luftwaffe. Ma quello che
fece più impressione sull’opinione pubblica greca fu il modo: la partenza
disordinata e precipitosa della macchina burocratica e logistica tedesca era
il segno che la guerra si avvicinava al suo epilogo. Quell’inusuale disordine
colpì anche il comandante militare per il Sud-Est il quale prese carta e penna
e inviò una solenne reprimenda a tutti gli organi amministrativi (militari e
civili) dei territorio. Scrisse il generale:
136
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«I rovesci subiti sui fronti e le rivolte scoppiate nelle città, paralizzano
– in un momento decisivo – Gli Stati Maggiori militari e civili che hanno
finora una vita tranquilla ed irresponsabile, poco preparati agli eventi
bellici, e spesso in compagnia delle loro famiglie e dei loro impiegati. Si
offre allora alla truppa lo spettacolo della fuga precipitosa e priva di dignità
di una intendenza di bassa lega, costituita da donne tedesche e straniere,
dai beni propri ed altrui, accumulati durante una vita girovaga. Niente può
compromettere maggiormente il prestigio dell’Alta Amministrazione e quindi
del Reich, di fronte alla truppa ed alla popolazione straniera.»62
Un soldato greco mentre scrive una lettera e utilizza il calcio
del fucile come piano d'appoggio.
62 Storia della resistenza greca, pag.492.
Creta
Infermiere australiane e neozelandesi a Creta dopo il ritiro dalla Grecia.
Isolano cretese catturato dai tedeschi dopo l'occupazione e condannato alla pena capitale.
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Krīt, in greco antico o Candia, isola dell’Egeo, con i suoi 8.261 kmq è
la più grande della Grecia e la quinta del Mediterraneo, separa l’Egeo dal
mar Libico. Creta è parte della Grecia solo dal 1913. L’isola, nella sua storia
millenaria, è stata occupata da Romani e Bizantini. I Veneziani furono padroni
di Creta dal 1.204 al 1.669, quando furono cacciati, dopo un assedio durato
ben 23 anni, dagli Ottomani. Gran parte dell’isola è montuosa; le sue coste
quasi tutte frastagliate, e dunque dal mare presenta pochi punti adatti ad uno
sbarco di forze militari in massa.
Quando Mussolini attaccò la Grecia il governo d’Atene invocò la garanzia
data da Londra nell’aprile del 1939. Il re d’Inghilterra rispose al sovrano
degli Elleni «La vostra causa è la nostra causa, noi combatteremo contro un
nemico comune.» Ma nei fatti, in quei frangenti, gli inglesi poco potevano
dare occupati com’erano sul fronte africano. Nello Ionio e nell’Egeo la
superiorità di Marina ed Aeronautica italiana era schiacciante. Allora – scrive
W. Churchill «balzò alla nostra attenzione un fatto strategico saliente: Creta!
Gli italiani non dovevano prenderla.» Non passarono che due giorni e le
forze inglesi avevano occupato la baia di Suda, il miglior porto dell’isola.
Ottima intuizione, poiché il possesso della grande isola dell’Egeo consentì la
micidiale incursione degli aerei britannici nel porto di Taranto azzerando, di
fatto, la nostra supremazia aereonavale nel Mediterraneo.
Ai tedeschi, dopo la conclusione della campagna Balcanica, interessava
proteggere le spalle all’ala sud dello schieramento predisposto per l’attacco
all’Unione Sovietica e, per far questo, dovevano eliminare la «spina» di
Creta. L’isola era stata occupata dagli inglesi fin dal 29 ottobre del 1940
ed era ritenuta un importante obiettivo tattico e strategico. Da Creta, nelle
intenzioni degli inglesi, dovevano partire le azioni di disturbo, soprattutto per
mezzo degli aerei, sul continente. In realtà Hitler da un pezzo aveva in mente
di eliminare tutte le basi nemiche in Egeo. Già nel gennaio del 1941 aveva
manifestato a Mussolini tale proposito, ma le complicazioni create dagli
italiani nell’infausta guerra alla Grecia avevano costretto lo stato maggiore
germanico a rinviare qualsiasi decisione in proposito. Hitler era conscio che
i britannici si erano assicurati un’amplissima base; se poi si considera che i
nuovi bombardieri della RAF costruiti negli Stati Uniti, avevano autonomia
di 4500 chilometri, il pericolo di Creta in mano al nemico era preoccupazione
giustificata per i tedeschi. L’esperienza fatta finora, inoltre, aveva dimostrato
l’impossibilità da parte dell’aviazione nazista di mettere davvero fuori uso tali
apprestamenti. Infine, il pericolo maggiormente paventato era che gli aerei
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Prigionieri alleati si preparano a lasciare la Grecia alla volta della Germania.
britannici potessero giungere a bombardare i campi petroliferi della Romania
tanto importanti per la logistica delle armate naziste spinte ad est. Sulla base
di tali considerazioni dunque Hitler non vedeva l’ora di farla finita con gli
inglesi a Creta.
Il piano per l’occupazione dell’isola era stato denominato «Operazione
Merkur» e affidato in prevalenza a reparti aviotrasportati da paracadutare
sull’isola. 16.000 uomini dovevano scendere dal cielo e 7.000 sbarcare dal
mare. Gli aerei preparati per l’invasione, compresi 100 alianti, sono 1.280.
Pochi giorni bastano per portare a compimento l’azione. Già nella tarda
mattinata del 20 maggio il grosso dell’artiglieria britannica, schierata a
difesa dell’aeroporto di Maleme, è posta fuori combattimento dalle micidiali
bombe da 225 e 450 kg. lanciate dai bombardieri tedeschi. Il primo lancio di
paracadutisti, un reggimento su quattro battaglioni, avviene al mattino, un
secondo nel pomeriggio. I lanci furono eseguiti tra i 100 e i 200 metri di quota.
Alla fine della giornata circa 5.000 tedeschi, pur avendo subito durissime
perdite, avevano toccato terra. La reazioni dei soldati neozelandesi però li
annientò quasi completamente e non fu possibile conquistare l’aeroporto. La
battaglia prosegue senza soste fino al 25 e, dopo 72 ore di combattimenti, le
forze britanniche sono costrette a cedere. Questo il comunicato del valoroso
generale Freyberg che il 26 invia al generale Wavell: «Mi spiace dover riferire
che, a mio giudizio, le truppe ai miei ordini qui nella baia di Suda, sono
ormai giunte al limite estremo della resistenza.» Si imponeva il reimbarco dei
superstiti sotto la protezione della flotta del Mediterraneo. La squadra navale
inviata in soccorso riuscì ad imbarcare circa 4.000 soldati da Heraklion, ma i
caccia tedeschi con attacchi ad ondate successive colpirono il cacciatorpediniere
Hereward gli incrociatori Dido e Orion danneggiandone altri. Alla fine un
quinto degli uomini reimbarcati era andato perduto. L’operazione continuò
nel resto dell’isola e 16.500 soldati superstiti dell’intera guarnigione furono
imbarcati dalla flotta e portati in Egitto. Il primo giugno sono definitivamente
spenti anche gli ultimi focolai locali di guerriglia presso Rhethymnon e nel
golfo di Suda.
I britannici avevano a Creta un contingente di circa 9.000 soldati e 25.000
del Commonwealth in particolare australiani e neozelandesi al comando
del generale neozelandese Bernard Fryberg, oltre alla guarnigione stanziale
greca comprendente 9.000 uomini. In totale 43.000 uomini dei quali però
10.000 si occupavano solo di logistica. I tedeschi, al comando del generale
Kurt Student, approntarono una forza aereo-navale composta dall’XI Corpo
aereo supportato dalla 5ª divisione da montagna del generale Julius Ringel.
Tale unità, trasportata da un piccolo convoglio navale eterogeneo, doveva
140
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Truppe neozelandesi dopo il reimbarco.
essere sbarcata completa d’armamento pesante: in tutto 31.000 uomini. Nel
piccolo convoglio navale che trasportava i soldati tedeschi c’era di tutto:
piccoli pescherecci requisiti ai greci (Caicchi) con il compito di sbarcare i
fanti sulle coste con l’appoggio di due torpediniere della Marina Italiana,
Lupo e Sagittario che dovevano dirigere le forze occupanti verso l’Isola.
La protezione del singolare convoglio era affidato alla Luftwaffe che aveva
effettuato micidiali e pesanti bombardamenti nella zona prevista per gli
sbarchi e i lanci di paracadutisti. Gli obiettivi iniziali dell’azione tedesca erano
i due aeroporti, Maleme e La Canea, situati nei pressi della baia e al porto di
Suda. Gli aerei lanciarono la prima ondata di paracadutisti al mattino; nel
pomeriggio era previsto un secondo passaggio con il lancio di altre truppe che
dovevano assicurare il controllo degli obiettivi (piste di decollo e aeroporto
di Heraklion). Questi i piani elaborati a tavolino. In pratica però, i difensori
erano più numerosi e meglio addestrati di quanto gli attaccanti si aspettassero
e accolsero gli ospiti non graditi con un fuoco micidiale sui paracadutisti
in aria e dunque senza difesa: insomma gli inglesi li aspettavano. Scrive
Churchill: [I tedeschi] «Nella confusione dell’esultanza per l’occupazione di
Atene custodirono il segreto assai meno gelosamente del solito; i nostri agenti
erano invece attivi e audaci.» E così il tentativo di conquistare l’aeroporto di
Maleme, obiettivo primario senza la conquista del quale non poteva essere
effettuato il lancio successivo, non ebbe successo. Da Atene si pensò di
sospende l’intera azione, ma il generale Student, al quale era riservata l’ultima
parola, decise di continuare. La battaglia riprese e fu durissima. Dopo altre
sette ore di accaniti combattimenti lo scalo era in mano tedesca e fu possibile
effettuare il secondo lancio di truppe dal cielo.
L’aviolancio di uomini a Creta, sotto certi aspetti, era senza precedenti «nulla
di simile si era mai visto prima. Rappresentava negli annali della guerra il primo
attacco in grande stile con forze aviotrasportate […] Il fior fiore della gioventù
tedesca era rappresentato da queste truppe di paracaduti nazisti valorosissimi,
magnificamente addestrati e assolutamente fedeli.»63 L’aviolancio su Creta fu
un successo delle truppe paracadutate, tuttavia furono proprio i paracadutisti
a subire le perdite maggiori nell’azione, (sul totale di 6.000 uomini persi dai
tedeschi per l’invasione dell’isola 3.674 erano paracadutisti) al punto che lo
stato maggiore di Berlino si guardò bene da impiegarli in aviolanci in territori
presidiati dal nemico per il resto della guerra.
Come spesso succede quando si cerca di contabilizzare le perdite, ci si
inoltra in una ridda di cifre incontrollabili: i tedeschi dichiararono 1.971 morti
(ma per alcuni i morti furono 4.900), 1.900 dispersi (presunti morti), e 2.600
63 W. Churchill La Seconda Guerra Mondiale vol. II, pag.325.
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Creta 1941: scatta l'operazione «Merkur».
Creta 1941: il lancio dei paracadutisti tedeschi.
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Creta 1941: in questa foto scattata da un ufficiale britannico si vedono tre partigiani
cretesi impegnati in un combattimento corpo a corpo con altrettanti tedeschi.
Creta 1941: il comandante delle forze alleate sull'isola, generale Freyberg.
144
feriti, circa 1/3 della forze impiegate che è un’enormità. Gli alleati ebbero
1.750 soldati morti che però vanno sommati a 1.800 marinai caduti, 1.900
feriti che lasciarono in mano agli occupanti e 17.500 prigionieri.
Con l’occupazione di Creta poteva dirsi raggiunto l’obiettivo della
protezione del fianco Sud Orientale dello schieramento tedesco. Tuttavia la
mancanza di forze adeguate ne rese impossibile lo sfruttamento come punto
di partenza per operazioni di carattere offensivo nel Mediterraneo orientale,
benché Creta apparisse particolarmente adatta allo scopo. L’isola si trasformò
allora, proprio per il suo valore strategico, in oggetto di contesa che costrinse
i comandi tedeschi ad impiegare cospicue forze per la difesa con pregiudizio
per altri compiti operativi.
Per il prestigio britannico, la cacciata delle truppe dalla terraferma di Creta
e la perdita dell’isola, rappresentò un duro colpo controbilanciato, almeno
in parte, nell’aver coinvolto nel conflitto il settore dei Balcani ove cospicue
forze dell’Asse sarebbero state impegnate in futuro. Sull’intero territorio
greco, nonostante la fine delle operazioni militari vere e proprie, la guerra
non poteva certo dirsi conclusa.
Creta occupata fu divisa in due settori. La zona tedesca, la più importante, e
la zona italiana, quella orientale, di secondaria importanza tattica e strategica.
Dal gennaio 1943, dopo il disastro di Stalingrado e i rovesci in Africa, i
tedeschi temevano che l’isola potesse essere invasa dagli inglesi. I presidi
cretesi furono così rinforzati da carri armati, mezzi meccanici e truppe. Un
ufficiale italiano, poi passato al servizio degli inglesi, calcolò che fossero
presenti nell’isola 45.000 tedeschi e 32.000 italiani.
Le unità italiane destinate a condividere l’occupazione di Creta erano:
• Divisione Siena (51ª) al comando del generale Angelo Carta, composta dai
reggimenti di fanteria 31° e 32° e 51° artiglieria. La Grande Unità dopo
l’armistizio con la Grecia, dalla Valle dell’Osul era stata trasferita nel
Peloponneso e, alla fine del settembre 1941, a Creta.
• LI Brigata Speciale, al comando del generale Mario Matteucci, era stata
costituita a Bari il 1° febbraio 1942; Nel mese di maggio fu assegnata al
Comando Forze Armate dell’Egeo con i reggimenti 265° e 341° con compiti
di difesa costiera. La brigata dipendeva organicamente della Divisione
Siena.
Alle 23,30 dell’8 settembre, quando già la radio aveva annunciato la
firma dell’armistizio, giunse al generale Carta il messaggio emanato dal comando dell’armata, nel quale si sottolineava che alle armi si doveva ricorrere solo in caso d’attacco diretto dei tedeschi alle truppe italiane. Nella notte
Carta, riunisce i suoi comandanti per stabilire il da farsi. Si poteva resistere
145
ai tedeschi? Cercò anche collegamenti con gli agenti inglesi sull’isola con i
quali già si era avuto qualche contatto nei giorni precedenti. Purtroppo dal
Cairo non giunsero buone nuove: gli inglesi non sarebbero stati in grado
d’intervenire a Creta prima di qualche mese. Quasi tutti i comandanti delle
unità italiane erano d’accordo con il generale: vista la situazione sull’isola, con gli italiani praticamente incapsulati dalle forze germaniche, la resistenza sarebbe stata impossibile.64 Carta, accettò di trattare con il generale
Müller, comandante della 22ª divisione germanica proprio quando da Atene
giungeva l’ordine del comandante dell’11ª armata, generale Vecchiarelli di
cedere le armi ai tedeschi. Il generale tedesco giunse al comando italiano di
primo mattino con le proposte per il generale Carta. Solito canovaccio: continuare a combattere al fianco dei tedeschi oppure lasciare le armi pesanti e
di reparto e le posizioni occupate sull’isola. Dopo lunghe e inutili discussioni, Carta decise per la resa cercando di ottenere qualcosa che salvasse l’onore militare. Alle prime ore della sera l’accordo era stato raggiunto tenendo
presente «l’amicizia e la reciproca comprensione che aveva sempre regnato
tra le truppe tedesche e le truppe italiane a Creta.»65 L’accordo prevedeva
il rimpatrio degli italiani, ma neanche il nostro generale lo credeva tant’è
che in serata riprovò a mettere in contatto il Cairo, ma nessun aiuto poteva
essere inviato agli italiani di Creta.
Non tutti avevano accettato l’idea di farsi disarmare. Il I e II battaglione
del 265° reggimento (tenente colonnello Lodi e maggiori Galoppi e Pucci),
il primo schierato a Sitoà, il secondo a Piscocefalo, dopo aver abbandonato
l’armamento pesante ripararono sulle montagne della penisola di Sitià con
il 16° battaglione della Guardia di Finanza e una batteria costiera. L’altro battaglione del reggimento, ten.col. Cipriani, per due giorni si oppose
alla consegna delle armi pesanti, pronto a riparare in montagna. Il 13, su
pressione degli ufficiali del comando italiano, fu convinto che era inutile
combattere: alla fine avrebbero comunque avuto la meglio i tedeschi. Ma un
centinaio di uomini, con due tenenti «vissero la loro drammatica esperienza
sui monti cretesi.»66 Tra gli ufficiali il maggiore Pucci rimase in clandesti64 Si dissero pronti a combattere il colonnello Fanella, il comandante del 51° artiglieria e
successivamente anche il comandante del 265° fanteria.
65 Queste le parole usate n e rapporto tedesco. Cfr. Pasquale IUSO, La resistenza dei militari italiani all’estero – Isole dell’Egeo, Commissione per lo studio della resistenza del militari
all’estero, Roma 1994. D’ora in avanti Atti Commissione.
66 I tedeschi non smisero di cercare il gruppo dei «ribelli» e il 15 ottobre, su indicazione di
un delatore, ad individuarli: ci fu uno scontro a fuoco nel quale ebbero la meglio gli italiani.
Dopo qualche giorno furono costretti alla resa. I quattro ufficiali subalterni che comandavano
le piccole unità furono uccisi con un colpo alla nuca e sepolti sommariamente in una fossa
146
Creta 1941: inglesi nei presi di Chora Sfakion
in attesa di evacuare alla volta di Alessandria .
Creta 1941: due navi inglesi in fiamme dopo un attacco aereo tedesco
presso la baia di Suda.
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nità e, dal 1944, farà parte del personale di una stazione radio alleata. Alla
fine catturato, insieme al ten. Arena, finì deportato in Germania.
L’operato del generale Carta, data la situazione, per alcuni era giustificabile: egli prese tutti i provvedimenti del caso, come la distruzione del
carteggio segreto etc. Secondo altri, e questi erano gli ufficiali che non avevano accettato di arrendersi supinamente, l’operato del comandante era censurabile e fu giudicato duramente per aver lasciato soli i suoi uomini in un
frangente tanto drammatico. Tuttavia a Creta di generali ce n’erano altri tre:
Andreini, Matteucci e Ghiselli i quali si distinsero per il loro anonimato,
delegando comodamente tutto al Carta.
Nelle prime ore del pomeriggio del 17 settembre, il generale Andreini,
e il tenente colonnello Corazza capo di stato maggiore della divisione, comunicavano al comando germanico dell’isola che il generale Carta si era
reso irreperibile dalle 18,15 del giorno prima. Erano uccel di bosco anche
l’aiutante di campo, capitano Ludovici, il capitano Grossi, i tenenti Tavana
e Ciccuto, il brigadiere del carabinieri Cirillo e il fante Angeli. Sulle prime
i tedeschi pensarono ad uno scherzo: proprio in quei giorni si stava mettendo in pratica l’operazione di subentro tra i due schieramenti contrattata
con i germanici dallo stesso Carta! Quel generale così ben disposto, come
aveva potuto compiere una simile sfrontatezza ai fedeli alleati germanici?
Il fatto finì per assumere toni paradossali. Il comando italiano che denuncia
la diserzione di un gruppetto di ufficiali, con in testa il comandante della
divisione, non al tribunale di guerra, ma a coloro che, in qualche modo, avevano intimato la resa era sconcertante e grottesco. Il fatto – scrive Pasquale
Iuso - «prese in contropiede il comando tedesco che non poté non rimanere
meravigliato della fuga e del come ciò potesse essere accaduto visto il contegno assunto dal comandante italiano e da altri ufficiali durante le operazioni di subentro, spostamento e disarmo. L’atteggiamento del generale non
faceva presagire certo una fuga vista anche la totale mancanza di mezzi di
trasporto aereo-navali in mano italiana.67» Insomma i tedeschi che nelle
trattative con i comandi italiani, in tutta la Grecia, avevano sempre bluffato,
promettendo quello che, sapevano bene, non avrebbero mantenuto, caddero
dalle nuvole quando la controparte si era comportata con loro nello stesso
modo. La commedia continuò il giorno dopo. Il comando italiano, pressato
da quello tedesco, «riuscì – attraverso sopralluoghi, interrogazioni, perquicomune. Poco dopo stessa sorto toccò al capitano Bonifazio, catturato in una abitazione civile. Il più ribelle del gruppo, il tenente Villani, riuscì ancora una volta a farla franca e visse
nascosto in montagna fino al 9 maggio 1944, quando venne concesse l’amnistia a tutti coloro
che erano stati etichettati come Franchi tiratori.
67 Atti Commissione cit. pag.791.
148
sizioni – a ricostruire in modo sostanzialmente esatto la dinamica della
fuga.» Non possiamo fare a meno di seguire il secondo atto della commedia
ben descritto da Pasquale Iuso:
Verso le 18,00 del 16 l’attendente del generale Carta informava il nuovo
capo di Stato maggiore (T.Col. Corazza) che il comandante quella sera
avrebbe cenato fuori. Una circostanza che non insospettì alcuno perché era
abbastanza frequente che il Gen. Carta non partecipasse alla mensa. La
cosa rimase in questi termini fino alla mattina successiva quando il T.Col.
Corazza – per esigenze di servizio – cercò ripetutamente di entrare in contatto
telefonico con l’abitazione privata del generale. Non riuscendovi, inviò un
suo ufficiale che trovò solo l’attendente il quale, interrogato su dove fosse il
generale, rispose semplicemente che non era rientrato.68
Questa la versione fornita dal capo di stato maggiore al comando tedesco.
Nel primo pomeriggio dello stesso giorno, quando ormai non c’erano più
dubbi che il gruppetto con alla testa il generale aveva preso il largo, da zelanti
investigatori i germanici accertarono anche che l’autovettura di servizio del
generale, alle 17,30 del 16 «era di fronte alla casa del Carta da dove uscì il
Cap. Ludovici che rimandò indietro l’autista asserendo di voler guidare lui.
Circa mezzora più tardi, lo stesso capitano rientrò al parcheggio ed ordinò
all’autista di portare la vettura ad un chilometro a est di Karasi, di lasciarla e
di rientrare.» La certezza del complotto si ebbe però quando venne fuori che
lo stesso capitano, a sua volta, aveva chiesto una vettura che alle 18 condusse,
nel luogo ove era parcheggiata la macchina di Carta, il tenente Ciccuto, il
brigadiere Cirillo e, fatto ancor più inquietante, «un soldato con tre o quattro
sacchi da montagna.» Il mattino dopo si scoprì anche che era sparito un autocarro dal parcheggio, «che rientrò solo la sera.» L’autiere non ebbe difficoltà
a riferire che aveva trasportato il tenente Tavana (quello che parlava con gli
inglesi) «un carabiniere e un soldato con quattro o cinque sacchi. Erano partiti da Neapolis in direzione ovest e poco dopo avevano caricato un civile
e il Cap. Grossi che aveva recuperato una copia dei piani di fortificazione
dell’isola; tutti scesero dopo aver raggiunto il passo di Deserniades.»
In effetti, i due gruppetti si ritrovarono sul passo. Da qui, con l’aiuto dei
partigiani della zona, ebbe iniziò con una serie di spostamenti notturni per
sottrarsi alla caccia dei tedeschi, la marcia verso la costa meridionale dell’isola. Finalmente il 24 l’intero gruppo de generale Carta riuscì ad imbarcarsi su
un cacciasommergibili inglese e prendere il largo..
68 Ivi, pag.792.
149
La fuga del generale Carta provocò l’arresto degli ufficiali del comando
della divisione Siena. I generali, Andreini, Matteucci e Ghiselli - scrive nella
sua relazione il generale Müller - «sono stati internati per mio ordine la sera
del 17 e nel corso del 18 avviati in marcia passando per Iraklion e Chania. I
comandanti di reggimento vengono sorvegliati continuamente da ufficiali di
grado appropriato, restano però intanto ai loro posti di comando, per portare a
termine il movimento di marcia in corso. Il loro internamento è previsto iniziando dal 18/9 a secondo della loro decisione relativa all’ulteriore impiego.»
E così avvenne. I tre generali furono subito portati sul continente; il 19 toccò
a tutti gli ufficiali del comando e, il giorno dopo, quelli dei reggimenti. Tutti
finirono concentrati nella fascia nord dell’isola nelle località di La Canea,
Retymnon, Iraklion e Neapolis. I tedeschi sfruttarono al meglio gli specialisti
d’artiglieria, il genio, marinai, addetti alla contraerea. Carabinieri, finanza
e camice nere addetti all’ordine pubblico. Tutti indistintamente agli ordine
della 22ª divisione.
All’atto della resa concordata dal generale Carta, le truppe italiane a Creta
ammontavano a circa 21.700 unità. Dopo il disarmo e il concentramento i tedeschi, come facevano dappertutto, svolsero propaganda tendente ad indurre
ufficiali e soldati ad accettare di collaborare con loro. L’indottrinamento della
truppa era lasciato agli ufficiali italiani «ai quali era esplicitamente richiesto
di presentare le opportunità offerte dal comando germanico.» La cosa non
funzionò e allora il comando germanico «avocò a sé il piano per la raccolta
delle adesioni all’esercito tedesco.» Gli italiani erano «obbligati a scegliere
liberamente» tra queste opzioni: - combattere con i tedeschi; - lavorare, disarmati, per la Germania; - lavorare disarmati senza alcun impegno (al solo
scopo di guadagnarsi il diritto di mangiare); - rifiutare ogni forma di collaborazione e ritenersi internati, rinchiusi in campi di concentramento e trasferiti
sul continente. Il 19 i primi risultati: «la grandissima parte di coloro che si
erano consegnati ai tedeschi scelse la terza e la quarta categoria; un numero
trascurabile la prima e la seconda.»69
Tuttavia, già nei giorni 12 e 13 e 14 settembre, - secondo i dati riportati
dallo Schrieber - le navi Aprilia ed Eubea ed altre non identificate, avevano
scaricato al Pireo 2.400 italiani. Le prime due erano giunte a Creta da Eubea,
ove probabilmente avevano caricato altri internati, mentre le altre erano partite direttamente da Creta. Il 24, le navi Trapani e Kari trasportarono, sempre
al Pireo, rispettivamente 1.990 e 1.395 uomini.70 Il giorno successivo con le
navi Sonja e Pier Luigi i trasportati sono rispettivamente 1.547 e 2.207. Il 18
ottobre il piroscafo Sinfra di 4.470 tonnellate di stazza, con a bordo 2.389
uomini dei quali 155 ufficiali internati italiani e 204 tedeschi di scorta, è attaccato ed affondato da aerei inglesi: è una strage, i superstiti sono solo 539.
Nel corso del mese di dicembre, sempre diretti al Pireo, partono in 1.142. A
gennaio e febbraio del 1944, un primo carico di 289 soldati; il giorno otto la
nave Petrella carica 3.173 internati, sono gli ultimi, a Creta non ci sono più
italiani. La nave subisce la stessa crudele sorte che era toccata al Sinfra: i
superstiti sono 503.
Partigiani cretesi.
69 Ivi, pag.812. Secondo i dati riferiti da te. Tavana, che era rimasto in clandestinità sull’isola, il 10% aveva accettato di combattere con i tedeschi; il 20% di lavorare e il 68% l’internamento. Solo il 2% prese la via dei monti con i partigiani greci. Tra i collaborazionisti è
singolare notare la presenza di tre cappellani militari.
70 Schreiber annota che «secondo altre fonti, il 23 e 24.9, furono sgomberati da Creta 8.000
italiani.»
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Otto settembre 1943: il dramma
8 settembre 1943.
152
L’armistizio
All’atto dell’armistizio le forze italiane in Grecia, erano costituite dall’11ª
armata al comando del generale Carlo Vecchiarelli che aveva sede ad Atene.
Dopo la caduta del fascismo – 25 aprile 1943 - i tedeschi avevano chiesto
la trasformazione dell’unità italiana in armata mista italo-tedesca. Questa la
costituzione: XXVI corpo d’armata (gen. Marghinotti) nell’Acarnania, Etolia
e nelle isole di S. Maura e Cefalonia. La divisione Casale aveva il comando
a Missolungi; la Acqui a Corfù, e Cefalonia (due batterie erano dislocate
a S.Maura); la 104ª divisione cacciatori tedesca con sede del comando ad
Agrinion. LXVIII corpo d’armata tedesco (gen. Felmy), nel Peloponneso,
composta dalla divisione Piemonte a Patrasso, Cagliari a Tripolis; la 117ª
divisione tedesca a Tripolis, la 1ª divisione corazzata ad Argos: settori
autonomi di Corinto (gen. Mattioli) e Argolide (gen. Caracciolo). III Corpo
italiano (gen. Manzi) in Tessaglia, Attica e isola Eubea, comando a Tebe, con
le divisioni Pinerolo, Forlì e Truppe Eubea. In Grecia era anche dislocata la
2ª divisione aerea tedesca che aveva il comando ad Atene, ma dipendeva dal
comando Gruppo d’armate Sud-Est. Nel complesso, alla data dell’armistizio,
le forze italiane in Grecia ammontavano a circa 172.000 uomini, compresi
7.000 ufficiali. I tedeschi, fin dall’occupazione della Grecia, controllavano le
città più importanti: Atene, Salonicco, Patrasso, Larissa e le principali vie di
comunicazione, come la ferrovia Atene-Salonicco.
L’armistizio fu reso pubblico dagli alleati, in anticipo sul previsto: alle
19,45 dell’8 settembre. Tra i comandanti dei vari Corpi dislocati fuori del
territorio nazionale, l’unico che non fu colto di sorpresa dalla notizia fu il
generale Vecchiarelli, non perché egli fosse un veggente, ma la sera prima
aveva avuto dal generale Gandini, suo capo di stato maggiore in missione a
Roma, il Promemoria n. 2. inviato alle Grandi Unità dal Comando Supremo.
Il documento, per quanto riguarda la particolare situazione dello scacchiere
greco, precisava che «Particolari situazioni d’ordine generale possono imporre
di deporre le armi indipendentemente dai tedeschi. L’esperienza insegna che
questi reagiranno violentemente.» Per quanto riguarda la Grecia e Creta si
disponeva: «[…] Dire francamente ai tedeschi che se non faranno atti di
violenza armata le truppe italiane non prenderanno le armi contro di loro,
non faranno causa comune né coi ribelli né colle truppe anglo-americane che
eventualmente sbarcassero.» Si disponeva anche l’ammassamento delle truppe,
con evidente intenzione di lasciare la Grecia, sulle coste «preferibilmente in
prossimità dei porti.» E però il punto successivo del Promemoria prescriveva
153
di cessare ogni atto d’ostilità contro gli anglo-americani, ma rispondere con
le armi «ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza.» E ancora, di
reagire «immediatamente ed energicamente e senza speciali ordini ad ogni
violenza armata germanica e delle popolazioni in modo da evitare di essere
disarmati.» Come si può vedere, in quel documento, l’ambiguità la fa da
padrone. Vecchiarelli non prese neanche in considerazione il rischieramento
delle forze in prossimità dei porti. I problemi logistici erano insuperabili:
le truppe avrebbero dovuto compiere centinaia di chilometri a piedi, per
strade impervie e disagevoli sotto gli occhi dei tedeschi, padroni delle vie di
comunicazione. Pensare poi al reimbarco delle divisioni era semplicemente
velleitario: i tedeschi avevano il controllo completo dei cieli e la Luftwaffe mai
lo avrebbe consentito. Che fare allora? Altro non rimaneva che diramare gli
ordini attenendosi alle direttive ricevute e sperare bene. Già alle 21,30 dell’8
settembre partì l’ordine n. 02/25006 a firma del comandante dell’armata:
Seguito conclusione armistizio truppe italiane 11ª armata seguiranno
seguente linea di condotta alt. Se tedeschi non faranno atti di violenza armata,
italiani non – dico non – volgeranno le armi contro di loro, non – dico non
– faranno causa comuni con i ribelli né con le truppe anglo-americane che
sbarcassero alt. Ognuno rimanga al suo posto con i compiti attuali alt Sia
mantenuta con ogni mezzo disciplina esemplare alt. Comunicare quanto
precede at corrispondenti comandi tedeschi alt. Dare assicurazione alt
Generale Vecchiarelli.
Un paracadutista tedesco viene decorato con la Croce di Ferro
di prima classe per l'azione su Creta.
Sembra evidente che le disposizioni emanate dal comandante dell’armata
mirassero a tranquillizzare i tedeschi circa il comportamento dei soldati
italiani, ma così non fu. Dopo poche ore il generale Gyldenfeld, capo dello
stato maggiore operativo tedesco affiancato all’11ª armata, si presentò a
Vecchiarelli con un alternativa secca. O continuare a combattere a fianco dei
germanici o cedere le armi. In entrambi i casi venivano meno le condizioni
dettate dall’armistizio. Insomma – se accettate quelle condizioni – Vecchiarelli
avrebbe disubbidito agli ordini ricevuti. Il generale italiano rifiutò entrambe
le proposte e iniziò una trattativa con il comandante del XXII corpo
tedesco. Tempo perso: i germanici attuavano un piano elaborato da tempo.
Per prima cosa interruppero le comunicazioni telefoniche e tutti i comandi
italiani rimasero isolati. «Occuparono uffici, magazzini, punti strategici,
si impadronirono in Atene dei due campi di aviazione (Kalamaki e Tatoi),
degli stabilimenti dell’Intendenza di armata, mettendovi i propri uomini di
20 maggio 1941. Uno Junkers JU52/3M da trasporto truppe abbattuto
dalla contraerea alleata sui cieli di Creta.
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155
Creta: un aliante tedesco per il trasporto di truppe ha preso terra con violenza dopo essersi
sganciato dall'aereo che lo trainava. Sotto le ali i cadaveri di alcuni soldati germanici.
guardia. Tutta la potente ed efficiente macchina da guerra tedesca, favorita
dalla propria posizione strategica che le aveva permesso di incapsulare le
unità italiane, approfittando della loro pressoché generale acquiescenza, si
mosse sollecitamente per stroncare subito ogni resistenza»71. I tedeschi non
avevano improvvisato nulla: il piano d’intervento era pronto da tempo, bastava
attuarlo. In pratica mentre Vecchiarelli trattava, senza rendersi conto che di
fatto era già prigioniero, le truppe di Hitler operavano con rapidità contro le
unità italiane.
Non passarono che poche ore – erano le 9,50 del 9 - che il comandante
dell’armata, ribaltando le direttive precedenti, trasmise l’ordine di resa72,
giustificato dallo «scopo di evitare un inutile spargimento di sangue.» Era un
ordine estorto dai tedeschi, quello diramato dal generale italiano, e dunque
non si doveva eseguire, come rilevò il Giudice Istruttore presso il tribunale
militare di Roma nel corso del processo che si celebrò nel 1957 contro i militari
tedeschi in ordine ai fatti che avevano coinvolto la divisione Acqui a Cefalonia?
Forse, ma non lo giudicarono così i comandanti delle sette divisioni che se lo
videro recapitare con tanto di firma del comandante dell’armata, dislocate sul
sull’intero territorio greco - con le eccezioni che vedremo - che quell’ordine
lo eseguirono. Da quel momento il generale italiano diventava – di fatto –
un collaborazionista dei tedeschi in quanto era andato contro le direttive
tassative che aveva ricevuto73. Questo è quel che è accaduto e a poco valgono
le considerazioni di quello che invece poteva accadere se Vecchiarelli avesse
ordinato non di arrendersi, ma di resistere come era suo dovere. Taluni si sono
presi la briga di scrutare il futuro, con il senno del poi, e allora oggi si può leggere,
tanto chi può smentire? «che un deciso e massiccio intervento armato da parte
71 G. Girudi, La resistenza dei militari italiani all’estero, Grecia continentale e isole
dell’Egeo, -Commissione per lo studio della resistenza dei militari italiani all’estero. D’ora
in avanti: Atti Commissione. pag.66.
72 Le disposizioni impartite da Vecchierelli stabilivano che «[…] Truppe rientreranno al
più presto in Italia alt pertanto una volta sostituite G.U. si concentreranno in zona che mi
riservi di fissare unitamente at modalità trasferimento alt Siano lasciate at reparti tedeschi
subentranti armi collettive e tutte artiglierie con relativo munizionamento alt Siano portate at
seguito armi individuali ufficiali e truppa con relativo munizionamento in misura adeguata
ad eventuali esigenze belliche contro ribelli alt Consegneranno parimenti armi collettive per
tutte Forze Armate italiane conservando solo armamento individuale alt Consegna armi collettive per tutte le Forze Armate italiane i Grecia avrà inizio at richiesta comandi tedeschi at
partire ore 12 di oggi alt generale Vecchierelli.
73 M. Torsiello nel volume «Le operazioni militari italiane nel settembre 1943» giustifica
in parte il comportamento di Vecchierelli ricordando che il generale Gandini a Roma aveva
appreso che «l’armata veniva sacrificata» e che Badoglio metteva in previsione di perdere
mezzo milione di uomini.
Creta: due soldati alleati si fanno fotografare nella zona di atterraggio dei parà tedeschi.
157
delle numerose divisioni costituenti l’11ª armata, unito ad una concomitante
azione delle forze della resistenza greca, avrebbe potuto modificare il corso
della guerra, almeno temporaneamente, specie risultasse vero che inizialmente
i tedeschi intendevano abbandonare il territorio greco.»74 Il tutto naturalmente
a vantaggio delle nostre unità a Cefalonia e Corfù. «Oppure aggiungere altre
consistenti forze alla divisione Pinerolo riparata sulla catena del Pindo»,
considerando anche il fatto «che la Grecia offriva un ambiente particolarmente
adatto alla guerriglia.» Francamente ci sembrano argomentazioni, anche se
teoricamente plausibili, fuori della realtà storica. I fatti sono quelli che sono
e a quelli ci dobbiamo semplicemente attenere senza voli pindarici che non
portano da nessuna parte. Tuttavia una cosa la dobbiamo tenere ferma: la
repentina resa ordinata dal generale Vecchiarelli non è giustificabile e non fa
onore al nostro generale responsabile di tutte le forze d’occupazione in Grecia.
Lo sfacelo dell’11ª armata, le migliaia di vittime, oltre ai passeggeri della nave
Baionetta in crociera verso Pescara, potrebbero essere messe in conto anche a
quella discutibilissima e improvvida resa.
Come si è visto i tedeschi si aspettavano la resa degli italiani: sin dal mese
di aprile erano informati che a Roma ci si stava preparando al cambio di
regime: il duce ormai faceva ombra al re. La preoccupazione maggiore di
Hitler era quella di tenere la guerra lontana dai confini della Germania. Troppo
importante era poi lo scacchiere meridionale. Dalla Iugoslavia si attingevano
risorse minerarie come cromo, rame e dalla Romania il petrolio, essenziale
per il proseguimento della guerra. Quel fronte inoltre era un baluardo a
difesa delle divisioni impegnate contro l’Unione Sovietica. Nei cassetti
dello stato maggiore a Berlino erano pronti due piani denominati Alarico e
Costantino, riuniti poi nel piano Achse (Asse) allo scopo di mantenere quelle
posizioni in vista dell’abbandono degli italiani. La caduta di Mussolini in
un primo momento sgomentò Hitler ma l’armistizio di Badoglio, nonostante
il machiavellismo della «guerra continua», trovò gli alleati ormai preparati
al peggio. Aveva voglia il maresciallo d’Italia ad essere ossessionato dal
pensiero che gli alleati tedeschi venissero a conoscenza dei contatti con gli
anglo-americani: essi sapevano tutto «tanto che in un documento classificato
segreto, datato 5 settembre avevano addirittura indicato, come data d’inizio
della dell’operazione Achse, il 9 settembre»75. Subito dopo il 25 luglio i
tedeschi prepararono le contromosse e le otto divisioni che sciamarono in Italia
dal Brennero furono la prova provata di quanto poteva accadere. In Grecia il
primo provvedimento, fu la trasformazione dell’11ª armata italiana in Armata
74 Commissione per lo studio cit. pag. 69.
75 Ibidem, pag. 77.
158
mista italo-tedesca che ebbe come conseguenza il controllo dall’interno dei
nostri comandi da parte dei tedeschi. Già dal 2 agosto seguirono gli ordini circa
il comportamento da tenere al solo sentire la parola «Achse»76. Ma questi fatti
non suscitarono nessun allarme nei nostri comandi e questo è sorprendente.
L’ordine alla Wehrmacht di dare inizio alle operazioni contro gli italiani
in territorio greco fu trasmesso già alle 22,45 della sera dell’8 e fu subito
operativo. La fretta del comando tedesco era anche motivata dal timore che
i partigiani greci, assai attivi, potessero approfittare di un eventuale conflitto
tra alleati. Bisognava dunque procedere con cautela, senza provocare caos:
fermezza, ma anche prudenza e astuzia. Si cominciò quindi dalla consegna
delle armi collettive, come aveva ordinato il generale Vecchiarelli rispettando
(per ora) che le unità conservassero le armi leggere individuali, tanto i conti
li avrebbero fatti in seguito. Il resto venne a cascata. Il primo a capitolare,
già la mattino del 9, fu l’VIII corpo del generale Mario Marghinotti; poche
ore dopo lo fece il comandante del XXVI corpo, generale Guido Della
Bona il quale provò a chiedere qualcosa in cambio, ma dopo un paio d’ore,
anche lui «si dichiara disponibile ad una onorevole resa con l’onore delle
armi di tutti i reparti da lui dipendenti.» Le divisioni seguirono la linea del
loro comandante e «si ritennero appagate quando venne loro promesso quel
formale riconoscimento.» L’onore militare, in quelle condizioni, non può che
essere un vuoto nominalismo, una parola quasi priva di senso, o peggio, una
bella scusa da sfruttare a futura memoria. A nessuno di quei baldi generali
passò per la mente che l’onore militare si difendeva combattendo, senza
lasciarsi sopraffare da quanto chiedeva loro un messo, neanche di grado
elevato, inviato da un loro pari grado germanico. Si tenga anche presente
che coloro che chiedevano la resa erano a tutti gli effetti alle dipendenza del
comandante italiano dell’armata. Ma ci fu anche di peggio: ad Arta, sede del
comando della divisione Modena ove non vi erano truppe tedesche, il generale
Papini respinse la proposta dei partigiani greci di far causa comune contro i
tedeschi e «si lasciò accerchiare e disarmare dai sopraggiunti germanici, tra
la costernazione dei civili greci»77. Papini agì in quel modo perché aveva
ricevuto un telegramma da Della Bona che avvisava: «Data situazione qui
creatasi truppe Gianina consegneranno armi ore 18 alt Per presidi dipendenti
regolatevi secondo situazione alt.» Quella della Modena sarebbe stata
un’ottima occasione per resistere fieramente, ma fu perduta.
76 Il 2 agosto il comando tedesco di Atene aveva impartito gli ordini per il disarmo delle
unità italiane e il controllo del territorio ellenico. Si attuarono persino degli esperimenti locali
per saggiare la fattibilità del piano e a Kalamaki fu ucciso un aviere.
77 Commissione per lo studio cit. pag.79.
159
I tedeschi avevano pianificato tutto. A mano a mano che i reparti dell’armata
si arrendevano avevano inizio trasferimenti dei soldati italiani verso il nord in
treno o a piedi. Il 14 settembre circa 23.000 uomini del XXVI corpo (Gianina)
furono costretti a marciare a piedi verso i campi di prigionia. I trasporti per
ferrovia furono organizzati in modo da smembrare i reparti e separare i soldati
dai loro ufficiali. Cominciò così la partenza da Atene di una lunga serie di
convogli formati da carri bestiame stipati fino all’inverosimile e scortati da
soldati armati. Il 18 fu catturato ad Atene anche il generale Vecchiarelli e
trattato duramente. Stessa sorte subirono gli altri generali ad eccezione di
Gandin a Cefalonia ed Infante in Tessaglia. Alla fine di settembre su circa
170.000 militari italiani presenti in territorio ellenico, 140.000 erano stati
catturati ed internati. Dei rimanenti, circa la metà appartenevano alla divisione
Pinerolo o in marcia verso il Pindo, mentre un migliaio di uomini, ancora a
Cefalonia, impiegati dai tedeschi per lavori di difesa.
La divisione Pinerolo sul Pindo
L’8 settembre la divisione Pinerolo era dislocata dai confini del Korciano
lungo il versante est del Pindo, sino all’Egeo fino a Domokos. Il comando
dell’unità aveva giurisdizione su quattro province con i presidi dislocati a
notevole distanza fra loro. Proprio perché la divisione copriva un vasto
territorio aveva una forza di circa 23.000 uomini. Comandante dell’unità, dal
15 luglio, era il generale Adolfo Infante. La zona dell’Olimpo e sul Pindo
vedeva una forte presenza di partigiani dell’ELAS, calcolabili in circa 10.000
combattenti. I fanti della divisione avevano avuto scontri ed erano stati
costretti ad abbandonare anche delle posizioni. Già al mattino del 9 settembre
i dirigenti della resistenza chiesero al generale Del Giudice, comandante del
presidio di Volos, la liberazione dei prigionieri politici e il passaggio degli
italiani dalla parte degli alleati. Il 10, a Volos non si era ancora visto un soldato
germanico e iniziò una frenetica corsa fra partigiani e tedeschi a chi riusciva ad
impossessarsi delle armi e dei magazzini degli italiani. Approfittando del fatto
che i tedeschi erano ancora lontani, i partigiani si dettero da fare. A Trikkala il
6° Lancieri di Aosta fu circondato e fu chiesto al comandante di passare dalla
parte degli alleati. Il colonnello Berti rifiutò, ma si mise subito in contatto
con la missione militare inglese che aveva chiesto di parlare con il generale
Infante. I tedeschi, ricevuti rinforzi occupavano Larissa. Infante, con la scusa
di portare soccorso al presidio di Trikkala, organizzò una colonna e prese
contatto con un membro della missione militare alleata del Medio Oriente.
Il colonnello inglese Hill gli comunicò che le truppe italiane sarebbero state
considerate cobelligeranti. L’11 settembre fu firmato un patto di cooperazione
160
fra il comandante della divisione Pinerolo e il Comando interalleato delle
forze greche firmato, oltre che da Infante e dai greci, anche dal colonnello
Chris della Missione Militare Inglese. L’ELAS comunicò ai propri reparti la
notizia dell’accordo: «Il generale Infante ha concluso un trattato nell’orbita
dell’armistizio con tre generali tra cui un inglese. Hanno deciso che le truppe
italiane sfuggite ai tedeschi scelgano: o restare a combattere insieme ai greci
per scacciare i tedeschi, o deporre le armi ed essere concentrati in un paese
nel quale attenderanno di andare in Italia.» Le truppe al comando di Infante
assunsero la denominazione di Forze Armate italiane in Grecia e a farne parte
furono uomini provenienti da altre divisioni che erano riusciti a sfuggire alla
cattura.
I primi caduti contro i tedeschi si ebbero il 23 in un combattimento che
vide impegnato il 6° Aosta nel corso del quale rimasero uccisi due uomini.
Ma – scrive la Commissione per lo studio della Resistenza dei Militari Italiani
all’estero - «Quando dovevano combattere, greci ed italiani dimostravano
piena solidarietà resa più forte dal comune pericolo; ma nei momenti di
tregua, nei campi di sosta, nei villaggi, bastava un nonnulla, un malinteso,
uno sgarbo, perché si scagliassero l’uno contro l’altro, con litigi e dispute che
denotavano mal sopiti risentimenti. I partigiani non potevano dimenticare che
gli italiani, quali ex aggressori della Grecia, erano considerati la causa di tutti
i loro mali.» Il tutto aggravato da problemi logistici gravissimi, da tensioni
e diversità politiche a volte insuperabili. Non erano mancate aggressioni a
piccole unità italiane da parte di gruppi di partigiani, con l’intento di prendere
armi ed equipaggiamenti fino a quando, il 14 ottobre, Infante fu chiamato al
comando generale dell’ELAS a Pertuli «per urgenti decisioni.» Era iniziato,
da parte dei greci, il disarmo della Pinerolo. La scusa accampata dai greci
riguardava una generica «attività di ufficiali fascisti.» Effettivamente qualche
problema con la Pinerolo nei mesi passati c’era stato. Il 16 giugno 1943, nelle
vicinanze del villaggio di Domenikom un convoglio italiano era stato oggetto
di un’imboscata da parte di partigiani greci. Nell’attacco erano morti nove
soldati della Pinerolo. Il generale Benelli, allora comandante della divisione,
ordinò «una salutare lezione», non contro i partigiani che non si lasciavano
prendere, ma contro i civili inermi del villaggio. Nel primo pomeriggio il paese
fu prima circondato, la popolazione rastrellata e radunata in piazza; infine i
caccia scesero a bassa quota bombardando il paese con bombe incendiarie. Gli
uomini, separati dalle famiglie furono portati fuori del paese, in una località
chiamata «curva dei partigiani» e fucilati al tramonto. I greci denunciarono la
161
fucilazione di 150 uomini: «una piccola Marzabotto» come fu definita dagli
autori di un documentario realizzato da italiani e greci.78
All’imposizione del disarmo della divisione gli unici a ribellarsi furono i soliti
Lancieri di Aosta e per questo avevano chiamato Infante perché intervenisse
adeguatamente. «Gli italiani improvvisamente e proditoriamente non erano
più cobelligeranti, assumevano le vesti di “ospiti”[…] D’un tratto, nel breve
volgere di qualche ora, per una premeditata ed infame decisione, gli italiani
venivano spogliati delle garanzie acquisite col “Patto di Cooperazione”; erano
di nuovo in balia della sorte.»79
La Missione Alleata non fece niente per modificare la decisione presa
dai greci, anche perché i rapporti con l’ELAS andavano cambiando o, più
semplicemente, perché non poteva nulla. «Sulle montagne del Pindo si
scontravano due mentalità opposte, mondi che non potevano coesistere, ma
erano destinati ad esplodere in un drammatico contrasto. E gli italiani, anche
politicamente più deboli, e impreparati, di fronte alla grezza concezione
marxista e staliniana dell’ELAS, dovettero soccombere.»
Il grosso delle truppe fu raccolto in tre campi mentre gli ufficiali, in completo
isolamento, rinchiusi in un monastero. In quei campi, per la fame e per le
malattie ne morirono un migliaio, nonostante i soccorsi della Missione
Militare alleata. Il generale Infante, rimpatriato per ordine del Comando
supremo, giunto a Brindisi presentò un memoriale sulla situazione degli
italiani in Grecia e in Albania che consentì il rimpatrio di molti soldati e i
soccorsi per i soldati rimasti.
Cefalonia
«Fra le stragi di vite umane degli ultimi anni, questa ha un particolare
aspetto […] Qui, a Cefalonia, furono soldati – cioè uomini organizzati sulle
leggi dell’onore – che premeditatamente uccisero, dopo la resa, inermi
soldati. La tragedia di Cefalonia non è che un vivido e rapido scorcio degli
immensi avvenimenti da cui siamo appena usciti: ma le convulse narrazioni
di questi superstiti resteranno vive per lungo tempo nella storia d’Italia e
nella memoria del mondo.80»
L’8 settembre l’isola di Cefalonia era affidata al comando della divisione
Acqui. Il presidio era composto dal 17° e 317° reggimento fanteria, due
compagnie del 110° battaglione mitraglieri, il I gruppo del 33° artiglieria
due gruppi di artiglieria su tre batterie, contraerea, genio, servizi logistici,
un battaglione di finanzieri, una compagnia di carabinieri. Un Comando
Marina Argostoli con batterie antinave una flottiglia dragaggio, motovelieri
di vigilanza, squadriglia Mas, squadriglia antisom con due idrovolanti da
ricognizione.
Il contingente tedesco era composto da un reggimento di fanteria da fortezza
su due battaglioni, una batteria semovente, un plotone genio, un gruppo di
pionieri, batterie antinave. Il tutto al comando del tenente colonnello Hans
Barge. Le truppe tedesche erano state inviate nell’isola nella prima decade
di agosto, in seguito alla caduta di Mussolini al fine di poter intervenire in
caso di cenni di cedimento da parte dell’alleato italiano. Il presidio era alle
dipendenze del XXII corpo d’armata da montagna al comando del generale
Lanz. A Cefalonia erano presenti circa 12.000 soldati italiani con 525 ufficiali
e poco più di 1.800 tedeschi schierati in settori diversi, ma vicini e dunque
in frequente contatto fra loro.81 Nell’Isola non mancavano alcune cellule
della resistenza greca, sempre in conflitto fra loro, ma dopo l’8 settembre,
superando le divisioni ideologiche, diedero vita ad un’unica organizzazione
che collaborò con gli italiani anche dopo gli scontri con i tedeschi. Inoltre, a
Cefalonia operava, in clandestinità, anche una missione militare alleata con il
compito di contattare i rappresentanti della resistenza e per cercare di mettere
78 Le notizie sull’eccidio di Domenikon e sul film che lo riguarda è stato pubblicato sul
settimanale l’Espresso del 6 marzo 2008 a firma di Enrico Aroisio.
79 IVI, pag. 172.
80 Giuseppe Moscardelli, Cefalonia, Roma 1947. purtroppo così non è avvenuto. Anzi,
negli ultimi anni, la pubblicistica (non la chiamo storia per il rispetto che ho della Storia)
ha rivisto al ribasso la tragedia di Cefalonia, a cominciare dal numero dei morti ammazzati
dai nazisti, fino ad attribuire le colpe dell’accaduto ai morti (generale Antonio Gandin) e ai
superstiti Apollonio, Pampaloni e altri.
81 A Cefalonia c’erano anche un centinaio di funzionari civili italiani impiegati presso il
locale Consorzio agrario, Banca del Lavoro, Banco di Napoli etc.
162
163
d’accordo le varie fazioni. La notizia dell’armistizio fu un fulmine a ciel
sereno. Come nella maggior parte dei presidi in terra greca, la prima reazione
delle truppe italiane fu di euforia: la guerra è finita! gridavano i soldati nelle
strette viuzze di Argostoli. Non passò molto tempo che l’incertezza prese il
sopravvento. Di andarsene da Cefalonia neanche a pensarci: mezzi di trasporto
navali non ne esistevano e poi, i tedeschi come avrebbero reagito? Nei giorni
immediatamente successivi l’amarezza crebbe: dalla Patria nessuna notizia,
nessun ordine, nessuna disposizione. Scrive un testimone di quei giorni:
Giunge da lontano un festoso scampanio di vigilia, che fino allora era
vietato nell’isola, ed anche il fragore di qualche scoppio giù nella valle [..]
il caporale Baldasso domanda: «allora xe finida la guera sior tenente?» ed
il tenente per nulla allegro, col volto più serio del solito, dà una risposta che
non sono mai riuscito a dimenticare: «La guerra, forse, è finita per altri e
non certo per noi! Per noi è solo finita la pace e da domani, statene certi,
incominceranno i nostri guai.82
Alla notizia dell’armistizio il generale Gandin ordinò la consegna della
truppa nelle caserme a scopo cautelare, il coprifuoco immediato e pattugliamenti
per assicurare il controllo del territorio. Poco prima della mezzanotte giunse
il primo ordine a firma di Vecchiarelli, era l’ordine inviato a tutte le unità
dipendenti dall’armata. Gandin lesse l’ordine in chiave antitedesca e provvide
a rinforzare la difesa assegnando alle batterie di artiglieria obiettivi quali il
controllo del parco semovente tedesco, deposito munizioni, la banchina del
porto al fini di interdire l’accesso in Argostoli, sede del comando divisione.
All’alba la prima prova di forza: i tedeschi tentarono il forzamento del blocco
con il pretesto che dovevano rifornirsi di viveri, però avevano al traino
4 pezzi anticarro da 75, non proprio indicati per andare a fare la spesa al
mercato. Quando se li vide davanti il capitano Apollonio, comandante di una
delle batterie, fece puntare i cannoni minacciando di sparare, ma il Comando
divisione, nell’intento di evitare incidenti, almeno fino a che era possibile,
autorizzò il passaggio del convoglio. Altro tentativo nel pomeriggio: questa
volta il comandante di una compagnia del III/317°fanteria schierò i fanti con
i fucili imbracciati. I tedeschi capirono che non era il caso di insistere e fecero
marcia indietro. Si può dire che l’atteggiamento di Gandin era stato ineccepibile:
aveva eseguito alla lettera gli ordini ricevuti. I problemi – e che problemi –
si manifestarono in seguito al secondo dispaccio di Vecchiarelli, il famoso
ordine 02/25006 quello della cessione delle armi ai tedeschi. Quell’ordine,
Il generale Antonio Gandin.
82 Ivi, pag. 333.
164
Soldati della divisione Acqui.
Tedeschi a Cefalonia.
in palese contrasto con le clausole armistiziali, suscitò a Cefalonia dubbi e
lacerazioni, qualcuno lo giudicò persino apocrifo tanto era contraddittorio.
Gandin cercò di verificare l’autenticità del dispaccio, ma l’interruzione delle
comunicazioni operate dai tedeschi non lo consentirono. La divisione Acqui,
come tante altre unità, era completamente isolata dal comando dell’armata,
figurarsi poi dal Comando supremo, impegnato com’era nella «marcia di
trasferimento» verso Brindisi. Il comandante della Acqui si rese conto che la
divisione doveva sbrigarsela da sola.
Sperando che qualche informazione gli arrivasse, Gandin cercò di prendere
tempo dialogando con i tedeschi e facendo arretrare alcune batterie rinunciando
così a vantaggiose posizioni tattiche. Fu un errore, perché quando le cose
volsero al peggio per la riconquista di quelle posizioni furono sacrificati i
migliori reparti. Due batterie del 33° reggimento e una della marina rimaste
nella penisola di Paliki, controllata dai tedeschi, finirono sotto il loro controllo.
L’atteggiamento del generale finì per convincere i tedeschi che sarebbe stato
difficile il disarmo dell’intera guarnigione senza ricorrere all’uso della forza.
D’altronde, sull’isola, il rapporto di forza in favore degli italiani era di 6/1.
Lo capì bene il generale Lanz che ordinò perentoriamente al ten.col. Barge
di trattare Gandin «nella maniera più cavalleresca possibile in virtù del suo
atteggiamento particolarmente amichevole nei confronti dei tedeschi»83.
La mattina dell’11, In quel clima di grande incertezza e nell’isolamento più
totale, giunse a Gandin, mediante la Marina militare di Argostoli, l’ordine
del Comando supremo di «Considerare le truppe tedesche come nemiche.»
Quell’ordine, tardivo e per di più ricevuto solo dalla divisione Acqui, era
stato diramato quando la dissoluzione dell’11ª armata era ormai cosa fatta.
Alla ricezione dell’ordine di considerare i tedeschi come nemici – scrive in
una relazione dell’agosto 1944 il S.Ten di Vascello Di Rocco - «il generale
preparò l’attacco contro i tedeschi di Cefalonia con gli opportuni spostamenti
delle nostre truppe. Il personale della R.Marina lasciò i comandi ed il porto
per prendere posizione nei due capisaldi. […] Quando tutto sembrava pronto
per iniziare l’attacco, giunse l’ordine dal comando divisione Acqui che le
truppe dovevano ritornare alle posizioni primitive, perché il predetto comando
continuava le trattative con il comando tedesco.» La revoca dell’ordine di
preparazione per l’attacco fu dunque revocato poco dopo dallo stesso Gandin
e la decisione è strettamente legata all’ultimatum tedesco di cedere le armi.
Sul perché di tale decisione l’allora capitano Renzo Apollonio84, superstite
83 Il generale Alberto Gandin nel 1942, era stato insignito dai tedeschi della croce di ferro
di 1ªclasse.
84 R. Apollonio, La divisione da montagna Acqui a Cefalonia e Corfù 1943., Torino 1943.
Uomini della divisione Acqui.
167
dell’eccidio degli ufficiali a Cefalonia, rileva che fu dovuta alla richiesta di
chiarimenti, da parte del generale, al comando tedesco. Gandin obiettava che
la consegna delle armi avvenisse ad Argostoli il ché – argomentava il generale
- «assumerebbe l’aspetto e il carattere effettivo di un’umiliazione che la
divisione Acqui non merita.» La consegna – secondo il generale – potrebbe
aver luogo nelle vicinanze delle batterie o in altro luogo da concordare, mai
nel capoluogo. Inoltre non era possibile la cessione delle armi entro le ore
18, come chiedevano i tedeschi, vuoi per la mancanza di mezzi di trasporto,
vuoi per le distanze fra i reparti; e infine - secondo Gandin - il termine della
risposta (ore 19), non era accettabile in quanto «solo per tale ora potrà essere
indetta una riunione dei comandanti di corpo», sempre per via delle distanze.
La risposta del ten.col. Barge non si fece attendere: conferma dei termini per
la cessione delle armi pesanti, per quelle leggere, pistole, fucili mitragliatori,
la consegna era procrastinata alle 18 del 14 in una località «nelle vicinanze
di Argostoli.» Gandin, alle 19 come stabilito rispondeva che la Acqui era
disposta a cedere le armi e impartiva le relative disposizioni ai suoi comandi.
Quanto sopra è documentato dalla relazione di un ufficiale, che fungeva da
interprete che partecipò al colloquio tra Gandin e Barge. Scrive il capitano:
Alle ore 19 vennero al comando divisione il Barge e il Fauth. Il generale
s’intrattenne dapprima da solo col Barge. Vennero poi chiamati il capo di
stato maggiore, il Fauth ed io.[…] Il generale comunicò ai due tedeschi che,
in linea di massima, la divisione era disposta a cedere le armi. Le modalità
della consegna, nonché dello sgombero dell’isola da parte nostra, sarebbero
state concordate quella sera stessa fra i capo di S.M. e il Fauth. Io avrei funto
da interprete. Verso le ore 21 cominciarono le trattative che durarono fino alle
3,30 del mattino successivo […] La discussione venne bruscamente interrotta
dal Fauth, che si allontanò ritenutosi offeso da una osservazione del capo di
S.M. Alle 4 mi venne affidata una breve lettera che portai tradussi al comando
tedesco in Argostoli. Con essa il generale dichiarava semplicemente che, in
linea di massima, la divisione era disposta a cedere le armi, null’altro.
Il tedesco, non appena ricevuta la comunicazione, si affretta a comunicare
al generale Lanz che «la maggior parte della divisione italiana Acqui sarà
disarmata. Completa esecuzione del disarmo entro il 12.IX. Il resto della
divisione rimane sotto comando tedesco per l’impiego. Forza esatta sarà
comunicata oltre. Per il resto situazione calma[…]» E invece la situazione
calma non era. Gli ufficiali, i soldati, i marinai di Cefalonia non erano affatto
d’accordo: le armi se li volevano tenere. Già la sera del 9 l’operatore radio
168
della marina a Patrasso aveva gridato «siamo sopraffatti dai tedeschi.»
L’11 mattina i cannoni germanici avevano sparato sulla nave Enrichetta
Maddalena che, stava arrivando in porto con un carico di munizioni. Da Santa
Maura erano giunte notizie che i tedeschi avevano disarmato gli italiani del
presidio e li avevano spediti in un campo di internamento nella zona malarica
di Missolungi. Insomma i segnali negativi sulle intenzioni dei tedeschi non
mancavano. Se ne accorse anche il generale Gandin, quando sulla sua auto, in
transito ad Argostopoli, un carabiniere esasperato dalle notizie sulla cessione
delle armi gli buttò contro una bomba a mano, per fortuna senza fare danni.
Il maggiore Fanucchi, comandante di un battaglione del 317°, accorso per
sedare una vibrata protesta dei soldati che rifiutavano il disarmo, disse che il
suo passato di soldato non gli consentiva di farsi disarmare senza resistere e fu
acclamato. Era evidente che all’interno della divisione vi erano degli ufficiali
che intendevano fermamente attenersi alle direttive governative e dunque
a opporsi a cedere le armi. Tra di essi il capitano di fregata Mastrangelo,
i capitani del 33° artiglieria Apollonio, Pampaloni, Pantano, il sottotenente
Boni e altri. Apollonio e Pampaloni concordano tra loro le misure di
sicurezza da prendere e le espongono al colonnello Romagnoli, comandante
dell’artiglieria divisionale e del 33° artiglieria. Dunque nessuna rivolta e
ammutinamento: il referente naturale di quegl’ufficiali era Romagnoli e a lui
si rivolsero. Apollonio, con un pugno di uomini riuscì ad impossessarsi di due
mitragliere da 20 mm. Recuperate dal dragamine Patrizia sotto la minaccia
di un semovente tedesco. Dal 9 erano cominciati i contatti con i partigiani
greci dell’isola con la cessione di alcune armi e promesse di collaborazione. I
contatti con le forze della resistenza erano tenuti da Apollonio e Pampaloni.
Il mattino del 12 si presentò a generale Gandin l’altero tenente Fauth
comunicandogli che non avendo cominciato la consegna delle armi, alle 12
saremmo stati attaccati dagli Stukas. Il generale telefonò a Barge e ottenne
la dilazione di 24 ore, ma allertò tutti i reparti dell’isola. Tutto sembrava
ricomposto, almeno ufficialmente, le armi dovevano essere consegnate,
l’indomani 13 alle 8 ma all’interno della divisione – come abbiamo visto
– la resistenza al disarmo montava. L’incidente che cambiò tutto avvenne
nel primo pomeriggio del 12, i tedeschi avevano intimato la resa e catturato
tre batterie (due del 33° e una di marina), reparti di carabinieri e finanzieri
dislocati a Lixuri. La notizia della cattura giunse ad Argostoli in pieno
consiglio di guerra. Romagnoli, a malincuore, accettò lo stato di fatto. Chi
invece non l’accettò fu il capitano Apollonio che insisté per conferire con il
generale Gandin. Ligi alla forma ma fermi nella sostanza, nel pomeriggio si
presentano al comando divisione, accompagnati dal colonnello Romagnoli,
169
i capitani Apollonio, Pantano, Pampaloni e il tenente Ambrosini. A loro si
aggiungono il comandante di marina Mastrangelo e il tenente colonnello
Fioretti. Gandin, prudentemente, ascolta gli ufficiali singolarmente, ma tutti
gli dicono la stessa cosa: di non cedere le armi senza combattere. Il generale
promette che avrebbe continuato le trattative sulla «base della non cessione
delle armi.» Nelle more dell’impegno il generale chiese agli ufficiali di
non prendere iniziative. Rispose per tutti Pampaloni: «se non giustificate.»
Apollonio chiese come si dovevano comportare se i tedeschi, non nuovi a
venir meno agli accordi, avessero violato lo status quo. Il generale risponde:
«in questo caso il tentativo va represso col fuoco.» Da quel momento il
comandante della Acqui, dopo tante incertezze, si pone «spiritualmente a
capo dei suoi uomini, con atteggiamento deciso.»85
La resistenza
Alle prime luci del 13 due pontoni armati tedeschi provenienti da Patrasso,
doppiano Capo S. Teodoro dirigendosi verso Argostoli, sede il comando della
divisione Acqui. L’avvicinamento dei natanti armati fu letto dai comandanti
delle batterie schierate a difesa, come un atto d’aggressione, e non poteva
essere altrimenti. I tre ufficiali comandanti delle batterie della riserva
divisionale, intelligentemente coordinati tra loro, si consultano rapidamente
e, in conformità con gli ordini ricevuti, realizzano che l’azione tedesca è un
vulnus allo status quo e decidono, senza indugi di intervenire con le armi a
loro disposizione. Apollonio si prende la briga di fare il primus inter pares
e ordina il fuoco dei cannoni. I baldanzosi tedeschi non si aspettavano una
simile reazione e sono colti di sorpresa. Il primo pontone da sbarco è colpito
e affondato a pochi metri dalla banchina, il secondo, vista ala malaparata,
inverte la rotta per sottrarsi ai colpi sicuri del cannoni del 33°, ma non fa in
tempo a uscire dagli obiettivi della batteria della marina che gli scaraventa
contro una micidiale salva. Bandiera bianca, sì, gli altezzosi teutonici sono
costretti ad issare la bandiera della resa ai piccoli italiani.86 Nell’azione i
tedeschi lamentarono cinque morti e otto feriti, mentre tra gli italiani solo
un ferito, il primo di quella tragica vicenda. Le cannonate ai pontoni pieni
di armi che stavano per approdare ad Argostoli non furono prese bene dal
generale Lanz, informato tempestivamente dai suoi. Presa carta e penna il
tedesco scrive a Gandin definendo l’accaduto «un aperto ed univoco atto di
85 IVI, pag.364.
86 I capitano Renzo Apollonio fu sentito, nel 1957 dal tribunale militare di Roma e scagionato dall’accusa di abuso di potere. «l’ordine di fuoco alle tre batterie fu impartito [ da
Apollonio] al solo scopo di coordinamento.
170
ostilità.» Effettivamente riesce difficile un’altra, più convincente, definizione.
Naturalmente Lanz si guardò bene dal ricordare tutte le violazioni che avevano
fatto i suoi uomini. Il capitano Tomasi – interprete ufficiale – così descrive
quei concitati avvenimenti:
«Erano entrate nella baia due motozattere tedesche[…] le nostre batterie
[…] aprirono il fuoco[…] I due natanti si difesero con le loro mitragliere
di cui erano abbondantemente muniti e vennero subito appoggiati dal fuoco
delle batterie semoventi. Dopo una decina di minuti, una zattera prese ad
affondare, mentre l’altra, ridotta a mal partito, in seguito affondò e alzò
bandiera bianca.»
Comunque lo si voglia giudicare, e – soprattutto in questi ultimi tempi
dove il cosiddetto revisionismo storico la fa da padrone – c’è chi ha letto
in quest’episodio il futuro, ossia la causa della feroce e barbara repressione
nazista. Furono gli ordini che Apollonio pronunciando, ad alta e stentorea
voce, le parole «prima, terza e quinta batteria, fuoco!» la causa della
repressione tedesca? O perché avevano osato difendersi com’era loro dovere.
Gli uomini della Acqui dovevano fare i pecoroni, come tanti loro colleghi
avevano fatto e avrebbero continuato a fare in seguito? Il fuoco delle batterie
del 33° fu un gesto emblematico che risvegliò tante coscienze assopite dei
soldati di Cefalonia.
Una missione ambigua
Poco dopo l’episodio dei pontoni da sbarco attaccati dalla nostra artiglieria,
un idrovolante tedesco giunge sull’isola. A bordo il tenente colonnello della
Luftwaffe Busch accompagnato dal capitano Arnaldo Bezzi della Regia
Aeronautica. L’italiano era stato mandato per convincere gli uomini della Acqui
a cedere le armi. Non fece una buona impressione l’aviatore quando si presentò
ai colleghi dicendo: «stringo la mano ad amici o nemici?» Poi aggiunse che in
Grecia ormai tutti erano con i tedeschi, generale Vecchiarelli compreso. Anche
l’aviazione era passata ai tedeschi, disse il capitano87. Dunque c’è rimasta solo
la Acqui, che aspetta dunque il generale Gandin ad allinearsi? Il tedesco, invece
era latore di una lettera di Mussolini indirizzata al generale invitandolo a aderire
prontamente, con tutta la divisione s’intende, al nuovo governo fascista di Salò.
Gandin, fece finta di non capire e tentò di reimpostare la trattativa circa la consegna
delle armi e il reimbarco della divisione per l’Italia. «Era una trattativa fondata
87 Questo non era vero. Proprio le sezioni di stanza a Cefalonia e Corfù, all’atto dell’armistizio erano ripiegate su Taranto.
171
sull’equivoco, perché il generale sapeva che non avrebbe aderito all’invito di
Mussolini, e il Busch era consapevole che l’imbarco per l’Italia non avrebbe mai
avuto luogo.»88 Gandin, ad ogni buon conto, comunica a tutti i reparti che sono
in corso trattative con «Il comando supremo tedesco.» Il giorno successivo altra
comunicazione nella quale è scritto: «Sono continuate le trattative con la parte
germanica per ottenere che alla divisione vengano lasciate le armi e le munizioni.
Da parte germanica è stato richiesto che la divisione Acqui si raccolga nella
zona Sami-Digaleto-Porto Poros, in attesa di imbarcarsi per l’Italia, lasciando
tutte le armi in Cefalonia prima dell’imbarco. […] Seguiranno ordini quando le
trattative saranno concluse.» In pratica Gandin comunicava l’esito del colloquio
(o delle promesse) che egli aveva avuto con il colonnello Busch. Ma il generale
Lanz, comandante del XXII corpo d’armato tedesco, quanto aveva promesso
Busch non lo considerava valido. Ammarato a Cefalonia, il generale confermò
l’ultimatum del disarmo che doveva avvenire «entro le 12 del giorno 14.» Lanz
scrive: «Chiedo il concorso dell’aviazione e della marina da guerra poiché la
divisione del generale Gandin, quale unico reparto dell’area del XXII e del
XXVI C.A. italiani, sia a Cefalonia, come pure in Corfù oppone resistenza alla
consegna delle armi e Gandin si richiama al fatto che egli attende ordini, o dal
Re d’Italia, o dal maresciallo Badoglio, io ritengo non possibile il suo previsto
impiego.» Dunque, par di capire, che fino a quel momento i tedeschi avevano
sperato che l’intera divisione passasse armi e bagagli dalla loro parte. Questo
fatto è reso probabile «dall’iniziale atteggiamento di Gandin che cercava una
soluzione onorevole della vicenda attraverso la trattativa.» I tedeschi, sembra
avessero Gandin in grande considerazione in quanto avevano avuto con lui
rapporti diretti quando era a capo dell’ufficio operazioni del Comando supremo
italiano.
Il dilemma del comandate della Acqui fu sciolto nella notte tra il 13 e il 14
quando fu decisa la resistenza armata. I motivi dell’importante e irreversibile
decisione - Scrive Luigi Ghilardini, cappellano e amico di Gandin - furono
motivati: « [dalla] consapevolezza della sorte che attendeva i suoi soldati;
la coscienza della fedeltà al dovere militare, come la lealtà verso l’alleato
divenuto improvvisamente nemico. Deve essergli apparsa evidente, infatti la
malafede nella manovra tedesca di scindere le forze della divisione, di privarla
delle armi e di concentrarla in una vallata dove non avrebbe avuto scampo.»89
Inoltre qualche peso sulla decisione fu determinato dalla posizione assunta dal
colonnello Romagnoli e dal capitano di fregata Mastrangelo, i quali prima di
cedere le armi chiedevano «garanzie precise», garanzie che evidentemente i
88 Commissione per lo studio cit., pag.373.
89 Luigi Ghilardini, «Sull’arma si cade ma non si cede», Genova, 1965.
172
Parà tedeschi.
tedeschi non avevano intenzione, o non erano in grado, di dare. Intanto da Corfù
giungevano notizie che il colonnello Lusignani aveva respinto la resa. L’inusuale
referendum indetto nella notte dette un risultato incontrovertibile: gli uomini
della Acqui non ci stavano a cedere le armi: resistenza! In quel drammatico
contesto giunse anche «il chiarimento» del comando supremo italiano. Il
dispaccio n.1029/CS trasmesso alla Marina Cefalonia era secco e chiaro. In
esso c’era scritto: «Comunicate al generale Gandin che deve resistere con le
armi at intimazione tedesca di disarmo Cefalonia et Corfù et altre isole. Marina
Brindisi.» Nell’isola furono immediatamente presi i seguenti provvedimenti: revoca dell’ordine di trasferimento dei reparti nella zona indicata dai tedeschi;
-schieramento a difesa dei reparti; -il capitano Tomasi, alle 12 del 14 (scadenza
ultimatum) doveva consegnare al delegato tedesco, tenente Fauth, la risposta
alla richiesta germanica. Il quella risposta Gandin scriveva:
Cefalonia: la «casa rossa» dove venne fucilato il generale Gandin.
Uomini della divisione «Acqui».
174
«La divisione si rifiuta di eseguire l’ordine di radunarsi nella zona di Sami,
poiché teme di essere disarmata, contro tutte le promesse tedesche, o di essere
lasciata nell’isola come preda per i greci, o, peggio, di non essere portata in
Italia ma sul continente greco per combattere contro i ribelli.
Perciò gli accordi di ieri non sono stati accettati dalla divisione. La divisione
vuole rimanere nelle sue posizioni, fino a quando non ottiene assicurazione
– come la promessa di ieri mattina, che subito dopo non è stata mantenuta
– che essa possa mantenere le sue armi e le sue munizioni, e che solo al
momento dell’imbarco possa consegnare le artiglierie ai tedeschi. La divisione
assicurerebbe, sul suo onore e con garanzie, che non rivolgerebbe le armi
contro i tedeschi.
Se ciò non accadrà, la divisione preferirà combattere, piuttosto che subire
l’onta della cessione delle armi, ed io, sia pure con rincrescimento, rinuncerò
definitivamente a trattare con la parte tedesca, finché rimango a capo della mia
divisione.
Prego mi venga data una risposta entro le ore 16.»
Trattative erano andate avanti sino all’alba, ma si erano chiuse quando i
tedeschi rifiutarono di fornire garanzie «al massimo livello» circa il trasferimento
della divisione in Italia e di lasciare le artiglierie agli italiani. I tedeschi fecero
sapere che erano disposti a trattare «per venire incontro per quanto possibile
alle nostre richieste.» Scrive l’interprete capitano Tomasi. Per le 16 è previsto
un incontro tra Barge e il capo di stato maggiore, poiché Gandin si era rifiutato
di partecipare. Le due piccole delegazioni s’incontrarono «in una casetta vicina
al ponte di Argostoli.» Si discusse fino alle 23,30. Barge lamentò – racconta
175
Tomasi – che Gandin non avesse aderito all’invito di Mussolini di passare la
divisione con i tedeschi. I tedeschi avevano preso tempo, quel tempo che serviva
loro per fare intervenire gli aerei per l’attacco. Infatti in una nota stilata alle 7,30
del 15, il Barge comunica al comando del XXII corpo d’armata a Gianina che:
«Il generale Gandin si è trovato pronto a consegnare solo le armi pesanti
fisse. L’artiglieria mobile e quella antiaerea vuol consegnarla solo all’atto
dell’imbarco. Conclusi i nostri preparativi d’attacco. Momento favorevole
per l’inizio dell’attacco: ore 14,00. La notte è trascorsa calma. Barge, ten.
colonnello.»
La lotta
Alle 14 del 15 una trentina di Stukas sganciavano bombe lungo il costone
Faraò – Spillià – Chelmata contro le nostre batterie. La risposta fu rabbiosa ed
immediata. Il rapporto di forza fra italiani e tedeschi era radicalmente mutato:
i rinforzi, gli aerei, i mezzi navali ora erano tutti a favore loro. Nel frattempo
la risposta «ad altissimo livello» che aveva invocato Gandin era arrivata da
Berlino, ma era diretta solo alle truppe tedesche. La direttiva stabiliva che i
militari italiani venissero divisi in tre categorie: quelli fedeli all’alleanza che
continuavano a combattere al fianco dei tedeschi o che comunque prestassero
la loro opera nei servizi ausiliari; quelli che si rifiutavano di collaborare;
quelli che oppongono resistenza, o collaborano con le bande partigiane, che
andranno trattati come nemici. Gli appartenenti al primo gruppo conservano
le armi e saranno considerati alleati; i militari del secondo invece saranno
considerati prigionieri di guerra e destinati alle organizzazioni per l’economia
bellica del paese. Infine gli altri: gli ufficiali saranno immediatamente fucilati;
sottufficiali e soldati spediti sul fronte orientale. La direttiva riguardava tutti i
fronti sui quali erano schierati gli italiani. Il 18 settembre però il comandante
del fronte Sud-Est riceve un ordine da Berlino, trasmesso subito a Cefalonia.
Quell’ordine prevedeva che nell’isola, visto il comportamento «insolente
e proditorio» tenuto dalla divisione Acqui, non venissero fatti prigionieri
italiani.
La breve resistenza italiana a Cefalonia fu caratterizzata da quattro
battaglie. La prima chiamata di Argostoli o «battaglia di Cima telegrafo» fu
combattuta sulle alture attorno al capoluogo. L’iniziativa fu prese dai tedeschi
i quali, con due colonne di marcia, attaccarono due settori difesi dalle truppe
italiane. Appoggiati da una quindicina di Stukas, che ormai agivano impuniti,
attaccarono la zona difesa da due battaglioni del 17° fanteria e da un battaglione
mitraglieri. Nel settore orientale l’attacco riguardò invece due battaglione del
176
Una cruda immagine dell'eccidio di Cefalonia.
Cefalonia fotografata dall'alto.
317° reggimento e truppe miste. In entrambi i settori intervennero le batterie
sia dell’esercito che della marina. Fu una battaglia feroce che si concluse dopo
il tramonto. Alla fine i fanti della Acqui conquistarono di forza le posizioni
difensive tedesche di monte Telegrafo. «Ma, nel chiarore del cielo stellato e
della luna piena, apparve tra Liguri e S. Teodoro, una moltitudine di mezzi
da sbarco che tentavano di portare soccorso al gruppo tattico tedesco in piena
disfatta.» Le fotoelettriche fecero luce sulla flottiglia e le artiglieri del 33° e
della Marina la falcidiarono con precisione. Diversi natanti affondarono con
il loro carico umano. I tedeschi, nel corso di quella giornata, avevano persero
circa 300 uomini, 500 furono catturati; agli italiani costò la perdita di 180
uomini.90 Il tenente colonnello Barge, nella sua relazione al comando del XXII
corpo d’armata sugli avvenimenti di quel giorno, scrive «gruppo tattico Fauth,
alle ore 23, causa troppo elevate perdite e preponderante pressione nemica,
costretto alla cessazione della resistenza.»91 La situazione era tutta orientata
a nostro favore, era l’occasione per annientare le colonne nemiche, «ma il
comando divisione, forse impressionato dall’asprezza dei combattimenti e
dal logoramento degli uomini, fece sospendere l’inseguimento, rinunciando
incredibilmente a sfruttare il successo ottenuto con tanti sacrifici.»92 Quella
giornata costò il posto al colonnello Barge e l’altero Fauth, finì addirittura sotto
processo. Il generale Lanz con ogni probabilità non si aspettava una simile
reazione da parte degli italiani, né che le sue truppe prendessero una simile
batosta. Dopo gli scontri, considerò la situazione a Cefalonia «molto critica»
e fu costretto a richiedere il concorso di tutti i caccia-bombardieri disponibili
per il sostegno alle truppe a terra; il concentramento a Prèvesa di tutti i mezzi
navali disponibili per trasferire nell’isola un paio di battaglioni e un gruppo
d’artiglieria della divisione da montagna Edelweiss, un battaglione della 1ª
divisione Cacciatori. Il tutto comportò anche il rinvio dell’attacco a Corfù che
era stato programmato per il 17 settembre. Il generale si trasferì sull’isola per
seguire direttamente l’evolversi della situazione.
La seconda delle battaglie di Cefalonia è quella di Kardakata, o Battaglia del
Ponte Kimoniko che fu combattuta dal 16 al 19 settembre. Fin dal 15 Antonio
Gandin aveva ordinato il trasferimento di tutti i comandi e magazzini da
Argostoli per non dare il pretesto ai tedeschi di bombardare la città. Non bastò.
La notte del 16 bombardieri tedeschi effettuarono un pesante bombardamento
sull’abitato causando circa 800 morti e 2.000 feriti tra la popolazione.
Cefalonia in un'immagine contemporanea.
90 La storiografia greca considera la battaglia di Argostoli come il più importante atto di
resistenza contro i tedeschi.
91 In Commissione per lo studio, cit. pag. 399.
92 Ibidem.
Scorcio di Cefalonia in una fotografia degli anni Quaranta.
178
179
Il nodo di Kardakata è indispensabile per il controllo della zona nordoccidentale dell’isola occupata dal grosso delle truppe tedesche. Gandin
tentò, con abile manovra come riconobbero gli stessi tedeschi, di accerchiare
le posizioni nemiche e di tagliare loro i collegamenti. I fanti del 317° erano
costretti ad avanzare allo scoperto e dunque vulnerabili dall’alto. «Con l’arrivo,
giusto in tempo, del III gruppo del 98° Cacciatori il pericoloso attacco è stato
respinto e il battaglione italiano che aveva attaccato è stato sbaragliato con
forti perdite», scrive la relazione tedesca. In effetti il I/317°, dopo una furiosa
battaglia nel corso della quale era rimasto senza comandante perché ferito, aveva
perso 37 ufficiali e quasi 500 uomini di truppa. Praticamente il battaglione fu
distrutto. Attacchi si susseguirono anche in altri settori e, per la prima volta, i
tedeschi lanciarono volantini propagandistici con l’intento di fiaccare il morale
dei soldati della Acqui93.
La battaglia di Capo Munda fu combattuta «a sud dell’isola tra l’ampia
spiaggia di Katelios e quella di Skala, un pianoro che ospitava un caposaldo
tedesco ben fortificato ed armato, presidiato da 120 artiglieri. Il caposaldo
era distante dal centro dell’isola una sessantina di chilometri, e non sembrava
particolarmente remunerativo come obbiettivo. Il comando divisione decise
tuttavia l’occupazione, forse perché riteneva quel caposaldo a difesa di un
facile approdo adatto per ricevere rinforzi che certamente sarebbero giunti
sull’isola. Per l’attacco fu costituito un piccolo gruppo tattico della forza di
un battaglione. La notte del 18 iniziarono le operazione, ma per lo scarso
coordinamento tra artiglieria, mortai e fanteria e l’accanita resistenza tedesca,
favorita da un formidabile sbarramento fatto da tre file di reticolati, il successo
fu scarso. I fanti riuscirono a seminare scompiglio e procurare perdite ma,
quando erano sul punto di sopraffare i difensori furono attaccati, come al
solito, dagli Stukas padroni dell’aria. L’alba vide gli attaccanti allo scoperto
sottoposti al micidiale bombardamento degli aerei che agivano praticamente
indisturbati come se fossero stati su un poligono di tiro. Non rimase che
ripiegare lasciando sul posto i tanti feriti94. La sfortunata impresa costò una
cinquantina di morti tra cui cinque ufficiali.
La battaglia finale, che si concluse con il massacro degli uomini della
divisione, fu combattuta nei giorni 21 e 22. Da alcuni storici è indicata come
«seconda battaglia di Kardakata» perché quella località era l’obiettivo finale
degli uomini della Acqui. Nella relazione della Commissione per lo studio
della resistenza che abbiamo davanti, è invece indicata come «Battaglia di
Divinata» per i seguenti motivi: - «per l’azione di contrattacco tedesco che
sorprese nella notte le nostre truppe impedendo di perseguire l’obiettivo
di Kardakata; - Divinata, sede del comando divisione e dell’osservatorio
avanzato, era anche considerata l’estrema linea di resistenza. Contro la
marea incalzante nemica, anche se la lotta fu continuata da nuclei isolati, fino
all’esaurimento delle forze e delle munizioni.» In quella zona erano schierate
le tre batterie del 33° reggimento che il 13 settembre avevano sparato contro
i pontoni tedeschi. Gli artiglieri di quelle batterie, sparando ad alzo zero,
difendendosi con moschetti e bombe a mano avevano confermato, sino in
fondo, il loro valore e degni ad essere additati come «primi assertori della
lotta contro i tedeschi.»
L’attacco avrebbe dovuto iniziare all’alba del 21, ma mentre il III/317° era
ancora in fase di organizzazione fu investito improvvisamente dal fuoco
tedesco. Si trattava di due battaglioni di truppe da montagna che erano giunti di
rinforzo qualche giorno prima appoggiate da un gruppo d’artiglieria alpina. La
manovra tedesca aveva anticipato l’attacco italiano e prevedeva l’aggiramento
a vasto raggio per annientare la Acqui. Racconta un testimone:
«Nella notte qualche mortaio da 45 rompeva il silenzio; poi, a poco a
poco, l’estrema destra del Risocuzzolo pareva un inferno, mentre mortaisti
e mitraglieri non si davano tregua e la mia compagnia faceva da intero
battaglione… La situazione era drammatica: nessuno parlava, non s’udiva a
più alcun comando, i morti superavano forse la metà della compagnia, i feriti
non si contavano. I tedeschi tuttavia avanzano cautamente… I morti, distesi
sulla roccia, o accovacciati presso qualche sasso, pareva che dormissero…»95
93 Il testo dei volantini era il seguente: «Italiani di Cefalonia! Camerati! Italiani, ufficiali e
soldati! Perché combattete contro i tedeschi? Voi siete stati traditi dai vostri capi! Voi volete
tornare nel vostro paese per stare vicino alle vostre donne, ai vostri bambini, alle vostre famiglie? Ebbene la via più breve per raggiungere il vostro paese non è certo quella dei campi
di concentramento inglesi. Conoscete già le infami condizioni imposte al vostro paese con
l’armistizio anglo-americano […]. E voi volete proprio ora che l’orizzonte della patria si
delinea ai vostri occhi, volete proprio ora preferire morte e schiavitù inglese! Non costringete
gli Stukas germanici a seminare morte e distruzione. Deponete le armi! La via della patria vi
sarà aperta dai camerati tedeschi.» Al processo di Norimberga il generale Lanz giustificò il
lancio di volantini su Cefalonia, un altro di tono più duro fu lanciato il 19, come un tentativo
di salvare quegli uomini dalla morte certa. Tuttavia – aggiunse il generale - «quei volantini
produssero l’effetto assolutamente contrario. […] La nostra speranza che il combattimento
sarebbe cessato non si realizzò.»
94 Al presidio del caposaldo di capo Munda si presentarono, per prelevare i feriti, due cappellani militari italiani, don Angelo Ragnoli e don Luigi Ghilardini i quali ebbero «un’accoglienza glaciale.» Tra i feriti c’erano il capitano Giorgio Baldi e il tenente Pietro Crapanzano
che, dopo lo sbarco dei tedeschi e la resa di capo Munda, furono passati per le armi. Baldi fu
decorato di medaglia d’oro al valor militare alla memoria.
95 Ripresa da Commissione per lo studio cit. pag.428. La testimonianza è del fante Arcangelo Lambiase del II/317° reggimento fanteria.
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Nel corso di un breve, accanito combattimento nella notte, il battaglione
della Acqui fu praticamente annientato. Al tenente colonnello Siervo non restò
che la resa. Altre due colonne tedesche attaccarono le altre posizioni tenute
dal 1/317° che resistevano con tenacia e valore. L’equilibrio fu rotto alle
prime luci dell’alba quando gli Stukas e una ventina di bombardieri pesanti,
indisturbati come sempre, cominciarono a mitragliare e a bombardare a
bassa quota sconvolgendo quello che rimaneva delle linee di difesa italiane.
Le infiltrazione tedesche giunsero sino alle batterie, ormai eravamo alla fine.
I difensori erano senza munizioni e contro gli aerei non c’era praticamente
difesa. Il generale Gandin, che era all’osservatorio del comando tattico di
Divinata, emanò immediatamente un ordine di arretramento delle unità nel
tentativo di fermare l’avanzata nemica sulla linea dei capisaldi di Castrì,
Radierà, Procopata, Razata, Passo Volumi. Proprio mentre predisponeva
il movimento il III/17° fu quasi distrutto dall’aviazione tedesca. L’altro
battaglione riuscì a stendere una debole linea di difesa solo al tramonto.
All’alba del 22 l’epilogo: i battaglioni travolti, gli ufficiali uccisi. La Acqui
come unità militare armata non esisteva più.
La rappresaglia
Il 18 settembre al comando tedesco Sud-est giunse l’ordine di Hitler
che «a causa dell’infame e proditorio comportamento a Cefalonia, non
dovevano essere fatti prigionieri italiani..» L’ordine era stato trasmesso per
radio direttamente dall’aiutante di campo di Hitler. La direttiva chiariva
di non fare prigionieri a Cefalonia, in quanto a quei soldati non bisognava
applicare le leggi di guerra ma quelle della guerriglia, in quanto ribelli e
franchi tiratori, e fu rapidamente e zelantemente applicata. Dopo la resa
del III/317° iniziò immediatamente la rappresaglia. I 19 ufficiali che erano
in linea furono subito condotti a Drapanon e fucilati nel vallone di Santa
Barbara. Nello stesso luogo furono anche trucidati gli ufficiali del comando
tattico: alla fine i giustiziati nell’«orrido dantesco» furono 36. A cominciare
dal comandante del battaglione, tenente colonnello Siviero, i comandanti
di compagnia fino all’ultimo subalterno. Stessa scena sul fronte del 17°
reggimento «Ufficiali e soldati, dopo essere stati depredati, furono fatti
arretrare lungo la rotabile Kardakata – Argostoli. Nei pressi di uno stretto
vallone furono falcidiati, dalle raffiche delle mitragliatrici: i morti furono
oltre 300. Alle batterie del 33° artiglieria, la prima ad essere coinvolta fu la
5ª del tenente Abele Ambrosiani uno dei tre comandanti ribelli che avevano
aperto il fuoco sui pontoni tedeschi. Ambrosiani fu catturato ferito e
immediatamente fucilato con i suoi. A Divinata era caduto in combattimento
182
il tenente colonnello Deodato comandante del I gruppo del 33°. Il capitano
Amos Pampaloni scampò alla morte per puro caso, non così gli artiglieri
della batteria. Raccontò il capitano:
«Mi fu detto [dall'ufficiale tedesco] di andare in testa al gruppo, ed io
vi andai, seguito dal s.ten. Tognato; il capitano era al mio fianco, mise la
pallottola in canna nella sua pistola e mi fece cenno di camminare. Feci un
passo e un colpo mi raggiunse al collo; caddi senza dolore e senza perdere
la conoscenza. Contemporaneamente, in un secondo, con una mitragliatrice
che era piazzata di lato, tutti i miei artiglieri furono massacrati. […]. Dal
mio braccio destro appariva scoperto l’orologio che nessuno mi aveva preso
prima; un tedesco venne e lo prese senza fortunatamente accorgersi che ero
vivo. I tedeschi ridendo e sghignazzando partirono quasi subito.»96
Anche la 3ª batteria, quella di Renzo Apollonio, fu attaccata. Gli artiglieri
si difesero strenuamente, un giovane ufficiate, Di Carlo, come ultimo atto,
si lanciò contro i tedeschi con bombe a mano fin quando fu falciato da una
raffica. I pochi sopravvissuti, tra i quali Apollonio, dopo aver tolto gli otturatori
dai cannone, riuscito a mettersi in salvo97. Al posto di combattimento era
rimasta anche la batteria dei filosofi, comandata dal capitano Amedeo Arpaia,
così chiamata per distinguerla da quella degli ingegneri. Era la 2ª batteria
antiaerea da 75/27 che aveva, invano cercato di contrastare i nugoli di Stukas
che si avventavano sull’isola. Arpaia, ingegnere, non era giovanissimo, era
nato, primo di 11 figli, nel 1908 a Torre Annunziata. Quando viene catturato
sembra capire subito il suo destino. Scrive padre Formato: «Amedeo Arpaia
è ora più che mai consapevole del suo compito di primus inter pares. Gli par
di sentirsi investito di una speciale missione: quella di confortare i colleghi in
quella tragica circostanza. Sereno, lui contribuisce efficacemente a rasserenare
gli altri. Sorride a tutti. Dice a tutti la sua parola di coraggio. Torreggia con la
sua monumentale persona, e fa circolo intorno a sé98.
I tedeschi proseguono la loro avanzata, ormai quasi senza ostacoli. Nelle
96 Ivi, pag.438. Pampaloni, sul far della sera, fu salvato dai partigiani, curato e in seguito si
unì alle organizzazioni partigiane greche.
97 In seguito Apollonio fu catturato, processato e condannato a morte, ma fu salvato grazie
alla testimonianza di un ufficiale del genio tedesco che era stato preso prigioniero dai soldati
dello stesso Apollonio il 15 settembre. Il tedesco dichiarò di essere stato trattato bene e con
umanità- Cfr. Apollonio,La battaglia e il sacrificio della divisione di fanteria da montagna Acqui a Cefalonia e Corfù, in Italia e resistenza europea – atti del convegno di studio -, Treviso
1983, pagg. 101 –138.
98 Romualdo Formato, L’eccidio di Cefalonia, Milano 1968, pag. 129.
183
prime ore del pomeriggio sono nel villaggio di Frankata «spargendo morte
lungo il loro cammino. Si sono poi riversati nel villaggio di Valsanta e nel
Camposanto, dove sistematicamente hanno passato per le armi tutti gli italiani
fatti prigionieri», così lo storico greco Loukatos. Giunti a Passo Volumi, i
tedeschi catturarono e fucilarono venti fra ufficiali e soldati «facendoli
addossare ai blocchi di calcestruzzo dello sbarramento.» A Frankata altro
massacro e stessa scena sui resti dei soldati di una compagnia cannoni e
fanti del 17° fanteria. Tutti, dal primo all’ultimo, depredati di tutto: orologi,
catenine, portafogli e poi uccisi barbaramente, senza un minimo di pietà.
L’atroce scena fu raccontata da un superstite, scampato per caso alla morte,
perché era andato a bruciare il drappo della bandiera del reggimento. Non
scamparono al massacro neanche 75 militari della 44ª sezione di sanità,
fucilati insieme agli addetti alla sussistenza, magazzini ecc. In tutto furono
454 i rastrellati e inviati al supplizio. I medici, i cappellani, i nati in Alto
Adige e Trieste giudicati cittadini tedeschi, venivano risparmiati, i primi
perché giudicati utili, gli altri per opportunità politiche. Fu proprio il maggiore
medico Morelli a protestare vivacemente contro l’esecuzione di addetti alla
sanità, appellandosi alla Convenzione di Ginevra. Ottenne solo il rilascio di 6
di loro per il funzionamento dell’infermeria. E fu lo stesso ufficiale medico,
insieme ad un cappellano che, nelle prime ore del mattino del 22, avvertito
degli eccidi, «rovistò fra quei corpi massacrati trovandone 18 che davano
ancora segni di vita.» Il medico ed il cappellano riuscirono anche a portare
via i feriti e ricoverarli all’ospedale militare, sfidando l’ira dei tedeschi. I
superstiti del II/17° furono rinchiusi in una scuola di Troionata e, al mattino
successivo, condotti in uno spiazzo sotto il paese e massacrati a raffiche.
Scrive il cappellano don Luigi Ghilardini99:
«Nessuno poteva immaginare quel che stesse per accadere. Ad un tratto un
ufficiale tedesco si avvicinava a un prigioniero, lo prendeva per le spalle e gli
faceva fare il dietro-front, ordinando quindi a tutti gli altri di compiere lo stesso
movimento. Nello stesso tempo due tedeschi si buttavano a terra impugnando
le mitragliatrici.Il ten.medico Ambrosini, intuita la manovra, faceva appena
in tempo a gridare al ten.col. Fiandini ''Signor colonnello, qui ci fucilano
tutti'' che si abbatteva al suolo agonizzante. La strage era cominciata; mentre
le raffiche falciavano senza pietà; alcuni prigionieri, in preda a folle terrore,
cominciavano a sbandare tentando di evadere dal quadrato di fuoco altri
cadevano invocando Dio e i familiari, altri ancora imprecavano e imploravano
confusamente. Qualche superstite calpestava e scavalcava i caduti per cadere,
99 Ghilardini cit. pag.115.
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a sua volta, subito dopo, massacrato sui massacrati; da ultimo un tedesco
saliva su un muricciolo a secco e, percorrendolo da un capo all’altro, apriva il
fuoco su chi dava ancora segni di vita.
Quindi silenzio. Un interprete si avvicinava allora al cumulo dei cadaveri
gridando forte: ''Italiani, se qualcuno è ancora vivo, venga fuori. Non ha più
nulla da temere; è finita.'' Quindici ombre, intrise di sangue, sangue delle
proprie ferite, misto a quello dei compagni morti, si alzavano lentamente
liberandosi dai morti. Avevano creduto alla parola di un tedesco: una raffica,
accompagnata da una sghignazzata di scherno, li abbatteva.»
Cefalonia: monumento ai caduti italiani.
Targa commemorativa.
186
Circa 600 di quei poveri corpi furono gettati in due profonde cisterne nei
pressi di Troianata, dove furono recuperati dieci anni dopo dalla missione del
cappellano Ghilardini. I tedeschi liquidarono l’orribile episodio con poche
parole sul diario storico del XXII corpo d’armata: «Verso le 22 il gruppo di
combattimento Klebe, dopo 20 ore di marcia e di riposo, attacca a sorpresa un
battaglione che si trovava a riposo presso H.Giorgius, lo annienta e libera 470
prigionieri di guerra tedeschi. Ciò è stato decisivo.»100 A Cocolata, insieme
ad altri ufficiali, fu catturato il generale Gherzi. Tutti, immediatamente portati
presso un casolare di campagna e passati per le armi. Alla sera del 21 settembre
solo qualche nucleo sperso ed isolato resisteva. Il giorno dopo, Gandin,
constatata ormai ogni possibilità di resistenza invia due ufficiali, i capitani
Saettone e Tomasi al comando tedesco per trattate la resa senza condizioni.
I due sono accolti dal maggiore degli alpini, l’austriaco von Hirschfeld, che
accorda la resa. Alla 16 i tedeschi prelevano Gandin e gli ufficiali del comando
divisione e li trasferiscono ad Argostoli, relegandoli all’ultimo piano e in una
soffitta dell’ex Comando Marina. Al primo mattino del 24 un ufficiale tedesco
prelevò il comandante della Acqui e lo portò alla Casetta Rossa di S.Teodoro
dove un plotone di esecuzione lo attendeva.101 Il corpo del generale non fu
mai ritrovato.102
100 Quei prigionieri erano stati catturati nella battaglia di Cima Telegrafo. Il generale Gandin aveva assicurato loro l’incolumità trasferendo il campo (segnato da bandiere uncinate
ben visibili dagli aerei tedeschi, mettendoli al sicuro dalle zone del combattimento. I tedeschi
passarono per le armi l’ufficiale e i soldati di guardia al campo senza che questi avessero
opposto resistenza.
101 Alcuni soldati tedeschi riferirono ai nostri soldati prigionieri che il generale era morto
con serenità e dignità.
102 I corpi di molti ufficiali fucilati, tra i quali probabilmente lo stesso Gandin, per ordini
superiori furono trasportati al largo, chiusi in sacchi zavorrati e gettati nei fondali. Come manovalanza alla macabra azione furono impiegati 17 marinai italiani che subito dopo furono
uccisi.
187
Quel giorno a S.Teodoro le fucilazioni ebbero termine all’ora di pranzo. Gli
ufficiali fucilati furono 129, ai quali si aggiunsero i 7 prelevati dall’ospedale
militare, ove erano ricoverati, perché ammalati o feriti. Per ragioni diverse,
scamparono alla morte solo in 37.
Quanti furono i morti di Cefalonia?
Per anni si è discusso sul numero dei morti a Cefalonia e, soprattutto, quanti
di essi furono uccisi dai tedeschi per rappresaglia dopo la resa. Ancora non
ci è messi d’accordo, anche perché mancando la documentazione, qualsiasi
calcolo diventa opinabile e manipolabile. Lo ha capito bene Giorgio Rochat
che scrive: «La premessa di ogni ricostruzione è che non sarà mai possibile
sapere con precisione quanto avvenne nel settembre 1943 a Cefalonia. La
documentazione italiana andò distrutta, le fonti disponibili sono in sostanza
alcune relazioni posteriori di ufficiali scampati all’eccidio e una memorialistica
quanto mai scarna (con pochi acquisti recenti che risentono delle polemiche).
Come tutte le testimonianze, nessuna di queste merita fede assoluta, dal loro
confronto emergono frequenti divergenze grandi e piccole, su tutte pesa il
trauma dell’eccidio.» Tra «i pochi acquisti» emerge la polemica innescata
da Paolo Paoletti con il libro I traditi di Cefalonia il quale sostiene che il
primo responsabile dell’eccidio perpetrato dai tedeschi fu il comandante della
divisione Acqui, generale Antonio Gandin. La tesi è sostenuta sulla base del
contenuto di una lettera del generale al comando tedesco, datata 14 settembre,
che – secondo Paoletti – sarebbe stata nascosta agli italiani e trovata dallo
stesso autore negli archivi tedeschi. La lettera, già conosciuta per la sostanza
del suo contenuto, inizia con la frase: «la divisione si rifiuta di ubbidire al
mio ordine» che non era stata riportata dalle testimonianze italiane. Dunque,
per Paoletti, Gandin sarebbe stato vittima di un gruppo di ribelli che non ne
volevano sapere di essere disarmati dai tedeschi. Ma l’autore si spinge anche
oltre. Secondo lui, il generale aveva in animo di passare ai tedeschi con la
minoranza della fanteria a lui fedele e lasciare tutti gli altri al loro destino.
In realtà anche altri autori hanno scritto di una spaccatura all’interno della
divisione tra il comando e le unità dipendenti, in particolare il 33° artiglieria
del colonnello Romagnoli e il comandante Mastrangelo del comando Marina
di Argostoli. La tesi è sostenuta da due fatti: la convocazione, da parte di
Gandin, dei cappellani militari della divisione per saggiare lo stato d’animo
della truppa e il cosiddetto referendum considerato un atto «quasi bolscevico»
Il tutto rincarato dal fatto che il generale era ritenuto assai vicino ai tedeschi,
al contrario di molti suoi colleghi. Ma nessuno si era spinto fino al punto di
188
tacciare Gandin di tradimento103. D’altronde non ci vuole molto ad esprimere
un giudizio più pacato e sereno: basta guardare i fatti – quelli veri – che si
sono verificati a Cefalonia nei giorni successivi e il destino toccato al generale
e a quasi tutti i suoi ufficiali. Quanto alla lettera ritrovata da Paoletti non è
vero che era stata tenuta nascosta. In parte è stata citata e pubblicata da G.
Schreiber nel 1993 «senza darle più importanza di quanto merita.» Scrive
Rochat. Ma la frase di Gandin «tenuta rigorosamente nascosta per decenni»
era anche a conoscenza di Renzo Apollonio, uno degli artiglieri ribelli, anzi il
più ribelle di tutti. Scrive Apollonio:
«Quasi trent'anni dopo, scoprì questa lettera consultando il Diario di
guerra del XXII C.A. tedesco da montagna, avuto in microfilm dall’Archivio
Nazionale degli Stati Uniti. La lettera riportata, risulta tradotta in tedesco.
Il primo periodo è grave, molto grave:«La divisione si rifiuta di obbedire al
mio ordine di concentrarsi…» Certo, noi vogliamo pensare che il generale
comandante l’abbia formulato nell’intento di conferire maggior vigore al suo
rifiuto di piegarsi all’intimidazione tedesca di resa, ma sta di fatto che quel
periodo configura anche la denuncia dei suoi soldati come ribelli alla cui
volontà aveva dovuto sottostare: il che, come abbiamo visto, non risponde a
verità.»104
Infine una considerazione finale: in nessuna delle testimonianze dei
reduci di Cefalonia, giunta fino a noi, si trova traccia di ricatti o altro
compiuti nei confronti del generale. È anche difficile immaginare, almeno
per chi ha un minimo di esperienza di gerarchia militare, che un generale
sotto ricatto, praticamente privato delle sue prerogative di comando, possa
poi condurre in porto e dirigere una serie di azioni di vera e propria guerra
contro reparti agguerriti e ben addestrati come quelli tedeschi. Dunque non
ci resta che concludere che, al di là della fantasia e della voglia di dimostrare
l’indimostrabile, la resistenza della divisione Acqui a Cefalonia fu un
esempio di come, ad ogni costo, si può salvare l’onore di un esercito e di una
nazione.105
I caduti di Cefalonia quanti furono? Anche in questo caso i dati
sono discordanti, talvolta in modo vistoso, per via della mancanza della
103 Paoletti arriva al punto di chiedere la revoca della medaglia d’oro al valor militare alla
memoria concessa al generale.
104 Apollonio cit. pag. 117.
105 Quanto alle medaglie d’oro al valor militare concesse ai martiri di Cefalonia ci si aspetterebbe una lamentela del perché siano state così poche, altro che togliere quelle poche concesse.
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documentazione precisa da parte italiana. Giorgio Rochat ha scritto che la
compilazione di una statistica completa dei caduti italiani dal 1940 –1945
è «una ricerca impossibile» in quanto «calcolare le perdite umane di una
guerra è possibile soltanto in termini approssimativi, nonostante i complessi
sistemi di registrazione e controllo della popolazione e della forza alle armi di
cui dispongono gli stati e gli eserciti moderni.»106 Nel caso poi di Cefalonia
separare i morti in combattimento da quelli trucidati dai nazisti è impresa
che possiamo definire di fantasia. Nel corso degli anni c’è stata una tendenza
al ribasso sul numero degli uccisi dai teschi, ma la verità, oltre ad essere
lontana, è impossibile da raggiungere. Ciò detto, da parte nostra riportiamo
i dati elaborati dallo storico tedesco Gerhard Schreiber che ha compiuto un
mirabile lavoro sugli internati militari italiani.
A Cefalonia la presenza accertata delle truppe italiane alla data
dell’armistizio dell’8 settembre 1943, era di 11.525 uomini. Alla capitolazioni
«dovevano esservi rimasti in vita ancora 5.035 militari, ivi compresi 305
ufficiali.» Il generale Löhr, dopo la cattura aveva disposto che, in applicazione
degli ordini del Führer, tutti i comandanti responsabili della resistenza
venissero fucilati. Il generale Lanz, presente sull’isola, chiese al comando
supremo come si sarebbe dovuto comportare con i nemici sopravvissuti. «Il
feldmaresciallo Keitel ottenne la decisione del Führer che dispose che quei
5.000 italiani che avevano disertato “ancora in tempo” venissero trattati come
prigionieri di guerra.» La clemente decisione naturalmente non valeva per gli
ufficiali. Alla fine, di loro se ne salvarono solo 40, tutti gli altri furono uccisi.
Dopo la strage, coloro che si erano attribuiti il diritto di giudicare gli italiani
«franchi tiratori e traditori e ribelli perché avevano osato rivolgere le armi
contro i leali e fedeli alleati, i tedeschi che, nel corso di quella guerra, il diritto,
tutti i diritti, se lo erano messi sotto i piedi, dichiararono «l’isola bonificata.»
Il generale Lanz poteva dunque scrivere la sua macabra contabilità: «Circa
4.000 italiani caduti o fucilati, circa 5.000 italiani catturati, in quanto hanno
disertato disarmati interi reparti, in genere fuori dalla zona dei combattimenti.
Fucilati tutti gli ufficiali.» Tanto per avere un’idea dell’accaduto si consideri
che gli ufficiali presenti sull’isola erano 525. Solo 65 di loro, sembra accertato,
caddero durante i combattimenti (ma sarebbe il caso di sapere quanti furono
proditoriamente uccisi appena presi) e altri 155 fucilati subito dopo aver
deposto le armi; 40 furono i casuali sopravvissuti. Dunque totale dei morti
per ordine del fedele esecutore, generale Lanz, 420 ufficiali giustiziati. In
conclusione e in totale – scrive lo storico tedesco -: «i militari italiani trucidati
106 G. Rochat, Una ricerca impossibile. Le perdite italiane nella seconda guerra mondiale,
in Italia contemporanea, 1995, n. 201, pagg.687 – 700.
190
sull’isola sarebbero stati almeno 5.170. A questi vanno aggiunti i 1.315 caduti
ed almeno altri 1.264 militari morti durante il trasporto via mare. Ammesso
che questi dati siano esatti, le vittime sarebbero state complessivamente
7.749107.»
Proclama tedesco.
107 Schreiber cit. pag.208 – 209.
191
Corfù
L'isola di Corfù
L’isola di Corfù,108 fin quando gli anglo- americani non sbarcarono in
Sicilia e non occuparono l’Italia meridionale, non era ritenuta strategicamente
importante per i tedeschi. Essi la giudicavano «di modesta importanza militare.»
L’isola è prevalentemente montagnosa; le poche strade sono cattive e inadatte
per il transito di grandi convogli e proibitive per i carri armati; attrezzatura
portuale quasi insignificante. Tuttavia, per la sua relativa vicinanza all’Italia,
Corfù era un’ottima testa di ponte per un’eventuale sbarco degli alleati sulla
contigua Igoumenitsa, con litorali praticamente perfetti per un’operazione
di sbarco. Dopo l’8 settembre il presidio militare dell’isola aveva resistito
all’intimazione di cedere le armi proprio per i motivi suddetti. L’isola aveva
anche il vantaggio (solo teorico) di poter ricevere, in caso di bisogno, rinforzi
dall’Italia. Per questi motivi, dopo l’8 settembre, i tedeschi avevano dato priorità
assoluta alle operazioni contro Corfù. Il ritardo nel completamento del piano
fu dovuta all’imprevista resistenza di Cefalonia.109 L’isola, dopo l’armistizio,
come molte altre, era presidiata da formazioni miste italo-tedesche. Il grosso
del presidio italiano, composto da circa 4.000 soldati con 160 ufficiali, era
costituito dal 18° reggimento della divisione Acqui con il comando della
divisione a Cefalonia.110 La Marina, con il comando a Corfù, disponeva di un
a flottiglia di dragamine e qualche nave sussidiaria al comando del capitano
di corvetta Aristide Lagorio. L’aeronautica, un piccolo distaccamento, al
comando di un tenente per i servizi all’aeroporto di Goritza e all’idroscalo
di Gufino. Tutte le truppe del presidio erano al comando del colonnello Luigi
Lusignani comandante del 18° fanteria. Il contingente tedesco, al comando
del tenente colonnello Klotz, era costituito da 550 soldati e 15 ufficiali, in
gran parte specialisti dell’aeronautica e delle comunicazioni. Alcuni giorni
prima dell’armistizio, truppe tedesche erano impiegate all’istallazione di due
batterie da 150 e avevano predisposto il trasferimento di truppe della forza di
108 Per quanto riguarda gli avvenimenti bellici relativi a Corfù ho seguito, come testo di
riferimento: G. Giraudi, La Resistenza dei militari italiani all’estero – Grecia continentale e
isole dello Ionio, Commissione per lo studio della resistenza dei militari all’estero, Roma,
1995.
109 Nel diario storico del XXII corpo d’armata tedesco il 15 settembre si legge:«L’impresa
di Corfù è sospesa fino al totale chiarimento della situazione di Cefalonia.»
110 Oltre al 18° reggimento erano dislocati a Corfù: una compagnia del 110° battaglione
mitraglieri di C.A. il 33° battaglione mortai da 81, la 33ª compagnia cannoni da 47/32, una
sezione mista di Carabinieri, una compagnia della Guardia di Finanza, il 3° gruppo da 75/27
del 38° artiglieria, una compagnia contraerei, reparti del genio, della sussistenza e della sanità.
Corfù.
193
un battaglione, da Prevesa e Igoumenitza. «A differenza di quanto avvenne a
Cefalonia, – scrive Giraudi -– dove, solo dopo un sofferto travaglio si giunse
alla chiarificazione delle posizioni, specie fra tedeschi e italiani, a Corfù i
rapporti si delinearono subito, in modo chiaro e netto, sin dai primi giorni.»
Lusignani aveva ricevuto un messaggio radio dal comando dell’11ª armata
nella notte fra l’8 e il 9 settembre. L’ordine era di mantenere le posizioni fino
alle ore 10 del 9 e poi consegnare ai tedeschi le postazioni fisse e conservare
le armi individuali in attesa del certo rimpatrio. Al colonnello Lusignani
quell’ordine non piacque per nulla: lo giudicò subito in contrasto con l’onore
militare. Convocò immediatamente i comandanti dei tre battaglioni del 18°
(ten.col Randazzo, Bisozzi e magg. Carbonaro) e del gruppo di artiglieria
(ten.col.D’Agata), i quali la pensavano esattamente come lui e garantirono
per i loro soldati. Ciò fatto, Lusignani impartì l’ordine di tenersi pronti per
neutralizzare le forze tedesche sull’isola. Si legge nel volume sulla Resistenza
dei militari italiani citato:
Non è facile comprendere quale sia stato il fattore che influì maggiormente
sul deciso comportamento antitedesco: la difesa dell’onore militare; la
speranza di non essere lasciati soli data la vicinanza con l’Italia, la superiorità
numerica del presidio italiano dislocato su di un’isola e perciò non facilmente
attaccabile; fatto sta che, sin dalle prime battute, gli italiani dimostrarono
subito, fermezza e determinazione. I tedeschi, facendosi forti del radiogramma
del generale Vecchiarelli che ordinava di cedere loro «le armi collettive e
tutte le artiglierie con relativo munizionamento» chiesero […] la cessione dei
poteri sull’isola, di cui intendevano prendere pieno possesso. La risposta di
Lusignani, fu corretta ma risoluta. […] «Il comandante di Corfù – scrivono
i tedeschi - ha dichiarato che seguirà gli ordini impartiti dal maresciallo
Badoglio, e che non opporrà alcuna resistenza ad un eventuale sbarco angloamericano sull’isola. Il suo comportamento nei confronti dell’ufficiale di
collegamento tedesco è sempre stato estremamente corretto, non dando alcun
motivo di attriti di sorta. Si è dichiarato disposto a intavolare delle trattative;
tuttavia avrebbe ordinato di aprire il fuoco sulle truppe tedesche che avessero
tentato di sbarcare sull’isola.»111
Lusignani dunque non tenne in nessun conto l’ordine del suo comandante
d’armata: lo riteneva lesivo dell’onore militare e, semplicemente, non lo
eseguiva. A conforto della sua fermezza, il dispaccio giunto da Brindisi di
111 La comunicazione fu fatta dal comando della 1ª divisione tedesca da montagna al comando del XXII corpo d’armata.
194
Foto satellitare dell'isola di Corfù.
considerare i tedeschi come nemici. A Corfù c’era anche una cellula partigiana
comandata da Papas Spiru, conosciuto e ricercato dai tedeschi, ma non aveva
mai attaccato gli italiani. Ma non appena corse voce del dissidio fra gli ex
alleati, «la popolazione di Corfù dà segni manifesti di voler cooperare con
le autorità militari italiane contro i tedeschi, tanto che si rende necessario
comandare pattuglioni di vigilanza in città, per evitare che i tedeschi siano
offesi e malmenati.»112 La primula rossa Papas Spiru, la sera del 9 s’incontrò
con il ten. Col. Randazzo e chiese armi per poter combattere «il comune
nemico.» I tedeschi, nel frattempo, ligi agli ordini ricevuti, cominciarono a
scaricare sull’isola migliaia di volantini che invitavano «i camerati italiani»
ad arrendersi che a riportarli in Patria sani e salvi ci avrebbero pensato loro.113
Non mancarono di reiterare i tentativi per convincere Lusignani a cambiare
parere. «Alle 8,30 del 12 si presentò sul cielo di Corfù un aereo tedesco che
recava a bordo il maggiore von Hirschfeld, ufficiale decorato della croce di
ferro con foglie di quercia, incaricato di intimare al comandante dell’isola la
consegna delle armi», ma l’aereo non riuscì ad atterrare perché preso di mira
dai cannoncini della contraerea italiana. Il maggiore ci riprovò il pomeriggio
via mare e incontrò Lusignani. Il colonnello ribadì quanto già noto ossia lo
status quo di Corfù con relativo divieto agli aerei tedeschi di atterrare, ecco
perché l’eroe di guerra germanico era stato accolto così male dagli artiglieri
italiani. Il tedesco era ancora sulla via del ritorno in motoscafo, quando i
primi Stukas e Messerschmitt 110 cominciarono a ronzare sulla fortezza di
Corfù, sede del comando tattico italiano. La contraerea riservò loro lo stesso
trattamento dell’aereo che trasportava il pluridecorato parlamentare tedesco,
ossia cannonate. Tre aerei furono abbattuti, gli altri cominciarono a mitragliare
e a lanciare bombe dirompenti. Mentre l’azione era ancora in corso il maggiore
tedesco, questa volta accompagnato dal colonnello Rossi, già capo di S.M.
del XXII corpo italiano, presentò un ultimatum: resa entro le ore 11,30 dello
stesso giorno. Rossi consegnò al collega Lusignani un documento firmato dal
generale Della Bona il quale «per evitare effusione di sangue» chiedeva di
Due immagini riprese da diverse angolazioni della fortezza di Corfù, sede del comando italiano.
196
112 Riferito dal ten.col. D’Agata, in Commissione per lo studio, cit. pag. 571.
113 Il testo del volantino era il seguente: «Camerati italiani! Per chi combattete ancora? Il
governo Badoglio vi ha venduto all’Inghilterra, affinché voi nella vostra stessa Patria, non gli
mettiate il bastone fra le ruote. Ora vi si vorrebbe trasportare in prigionia britannica, separandovi dalle vostre famiglie,, dalle vostre mogli, dai vostri figli, e questo in premio della vostra
fedele guardia, fatta per lunghi anni nell’isola di Corfù, durante i quali non avete goduto delle
benché minima licenza. L’intendimento dell’esercito germanico è quello di prendere il vostro
posto e rimandarvi, sani e salvi, in Patria. […] Assumete il contegno dei vostri camerati in
Grecia ed altrove, i quali hanno immediatamente iniziato il loro viaggio di ritorno in Patria.»
Ivi.
197
arrendersi. Non ci fu verso di far cambiare idea al colonnello, anzi aveva già
impartito, fin dal primo mattino, gli ordini di aprire il fuoco contro ogni aereo
che tentasse di atterrare e contro ogni natante sospetto: insomma faceva sul
serio e senza tentennamenti. I parlamentari non fecero in tempo a rientrare
a Gianina, che un convoglio di 15 pescherecci, protetto dal cielo da un folto
nugolo di Stukas, carico di soldati tedeschi fu avvistato dall’isola. Non
appena a tiro, nei pressi di Benitza, le batterie del 33° reggimento artiglieria
e i pezzi anticarro della fanteria aprirono un intenso fuoco. Uno dei natanti
colpiti affondò, altri riportarono danni non lievi. I tedeschi capirono subito
che non era il caso di insistere e invertirono rapidamente la rotta per evitare
altre perdite. A terra l’offensiva italiana aveva avuto la meglio sui capisaldi
germanici. Alla fine finirono per essere catturati 12 ufficiali e 414 soldati. Gli
altri erano morti o feriti nel corso dei duri combattimenti. Proprio nel corso
di quegli avvenimenti erano sbarcati sull’isola, con i mezzi più disparati,
contingenti italiani sia dell’esercito che della milizia provenienti da Santi
Quaranta.114
Il colonnello Lusignani a forza di chiedere concorso aereonavale qualcosa
aveva ottenuto. La sera del 13 arrivarono dall’Italia due torpediniere, la Sirtori
e la Stocco. La notte stessa i tedeschi bombardarono pesantemente la città di
Corfù provocando incendi e devastazione al punto che l’intera popolazione
fuggì lasciando libero sfogo ai detenuti evasi dal carcere. La nave Sirtori,
appena arrivata, subì gravi danni tanto da non poter essere impiegata. Dalle
21.30 del 13 all’alba del mattino successivo i bombardamenti ininterrotti
causarono gravi perdite alla popolazione, ma anche alle truppe: 30 furono
i soldati morti di quella tragica notte. I pochi aerei italiani, nell’intento di
alleggerire l’offensiva tedesca, avevano fatto incursioni ad Igoumenitza,
causando qualche morto e danni alle infrastrutture tedesche. «In sostanza Corfù
non venne lasciata sola come Cefalonia», ma gli aiuti, pochi e occasionali non
bastavano certo a risolvere la situazione dell’isola. Lo sforzo bellico tedesco
contro l’isola non è fortissimo fino al 15, quando i germanici hanno da fare i
conti con Cefalonia. Contro Corfù solo bombardamenti aerei, contro il porto,
i nodi stradali, e le istallazioni delle artiglierie e i capisaldi della fanteria. Da
Brindisi, in mancanza di meglio, giunse a Lusignani la medaglia d’argento
al valore e gli alleati; dal Cairo non fecero mancare un elogio al colonnello
e una pioggia di volantini di incoraggiamento nei quali era scritto che: «[…]
114 Si trattava del comando del 49° fanteria Parma con un battaglione; un battaglione della
Brennero, reparti costieri e altri minori, in tutto non più di 500 uomini. Gli uomini erano in
stato di «profonda crisi», molti disarmati e finirono per creare più problemi che altro esasperando i rapporti con le truppe stanziali nell’isola. Solo una piccola aliquota fu impiegata per
la difesa costiera. Tutti gli altri, dopo la resa, furono «catturati senza difficoltà.»
198
Una formazione di «Stukas» come quelli che la mattina del 12 settembre 1943 attaccarono assieme a
«Messerschmitt 110» la fortezza di Corfù sede del comando tattico italiano. Tre velivoli furono abbattuti.
A sinistra il maggiore von Hirschfeld, al centro il
colonnello Lusignani e a destra il maggiore Klebe
199
L’ottava armata inglese continua la sua rapida avanzata oltre Bari, la Vostra
flotta [quella italiana] è arrivata felicemente a Malta e Gibilterra, i nostri
Spitfire proteggono la vostra flotta.»115 Il 20 gli inglesi avevano paracadutato
sull’isola il figlio del primo ministro, capitano Stanley Wilson Churchill116
con il compito di stabilire un contatto e comunicare, via radio, le richieste di
aiuti, ma purtroppo i collegamenti non furono possibili. Erano tutti segnali che
facevano bene ai difensori dell’isola e davano la sensazione di non essere stati
dimenticati. Fino alla sera del 20 avevano funzionato anche i collegamenti
con il comando della divisione a Cefalonia, assicurati dalla stazione R.T.
del comando della Marina. Dalla sera del 21 nessuna voce giunse più dal
comando della Acqui. Quel silenzio, e l’inasprirsi delle incursioni aeree
non era certo un buon segno: era l’imminenza dell’attacco finale da parte
dei germanici. I tedeschi battezzavano tutte le operazioni con un nome: era
un vecchio vezzo che si portavano dietro da quasi un secolo. L’operazione
contro Corfù fu battezzata «Vulcano» ed iniziò la sera del 23. Poco dopo la
mezzanotte truppe tedesche sbarcarono nella zona lagunosa di Korission a
Sud-Ovest dell’isola. Il gruppo tattico approntato per «attaccare e distruggere
il nemico e occuparla» era costituito da tre nuclei. Il colpo finale era basato,
come a Cefalonia, su un attacco a sorpresa. Lo sbarco avvenne nella zona meno
agevole e meno probabile per una operazione anfibia: era una zona lagunosa
e per procedere oltre sarebbe stato necessario camminare nell’acqua alta un
metro. La sorpresa riuscì in pieno e lo dimostrò «lo scarso fuoco difensivo»
degli italiani. Non ci volle molto tempo per costituire una robusta testa di ponte
e aspettare «il decisivo appoggio dell’arma aerea e il concorso di altre truppe
fresche. […] Verso mezzogiorno, i tedeschi s’impadronirono del caposaldo di
Argirades, mettendo in crisi tutto il nostro fronte sud.» Agli italiani non restò
che retrocedere e stabilire una forte linea di difesa sui passi posti a sud di
Corfù. Lusignani, vista la situazione invia un messaggio chiedendo adeguati
rinforzi, soprattutto aerei. Fu uno degli ultimi radiomessaggi captati dalla
Marina a Brindisi. Il colonnello diceva: «Se non intervenite immediatamente
con caccia e bombardamento per evitare ulteriore immediato sbarco, è difficile
sostenere la difesa dell’isola.» L’accorato appello ebbe un esito «negativo» come scrive Torsello. L’aeronautica quello che poteva fare l’aveva fatto nel
corso di quella drammatica giornata: di più non poteva. Infatti il giorno dopo,
il 25, sul cielo dell’isola apparvero solo tre bombardieri e due caccia con la
bandiera tricolore. I caposaldi apprestati caddero rapidamente. I superstiti si
ritirarono a nord dell’isola con la convinzione che ormai la resistenza era
alla fine. L’ultimo messaggio diretto a Brindisi è inviato alle 17,30 ed era
chiarissimo. In esso si diceva: «Abbiamo distrutto pubblicazioni segrete. Ci
apprestiamo a distruggere radio.»
I vincitori iniziarono subito la rappresaglia, non come a Cefalonia: a Corfù
se la presero solo con gli ufficiali. Il primo ad essere fucilato fu il capitano
Ernani Falcocchio del III gruppo del 33° reggimento artiglieria della Acqui,
poi toccò al capitano Gino Francato, comandante della 7ª batteria dello stesso
gruppo. Raggiunta Corfù, fucilarono sulla piazza il tenente Albano, comandante
dell’aeroporto, e il tenente medico Bringalli. I due erano rei di aver cercato di
sottrarsi alla cattura, come obbligo per ogni ufficiale che si rispetti. A Schiperò,
sede del comando tattico, i tedeschi catturarono il colonnello Lusignani, il suo
aiutante capitano Ferraro e il capitano Caggiano dei carabinieri. I tre furono
tradotti nella fortezza e fucilati dopo la grottesca parvenza di un interrogatorio.
Ufficiali e soldati fatti prigionieri furono ammassati nell’aeroporto. Dopo
sommari interrogatori «nella notte del 26, i tedeschi prelevarono i seguenti
ufficiali: il col. Elio Bettini, comandante del 49° Parma, giunto pochi giorni
prima da S. Quaranta; il suo aiutante di maggiore cap. Pietro Brera; il cap.
Bonali, comandante della batteria da 20 mm. che aveva sparato contro gli
aerei tedeschi il 12 settembre; il ten. Pugliese, il ten. Mantini, il ten. Quaglio,
il s.ten. De Leo e il s.ten. Augugliaro, che avevano aperto il fuoco contro
gli aerei tedeschi il 13 settembre; il ten. Martinelli dell’ufficio operazioni
del 18° fanteria; il ten. Zanoni, del genio radiotelegrafisti, e li condussero
nella fortezza della città, dove, dopo l’interrogatorio, furono fucilati, come
da ordine diramato dal Comando Supremo tedesco in data 15 settembre.»117
Ai corpi degli ufficiali fucilati toccò la sorte di quelli di Cefalonia secondo
gli ordini impartiti dal generale Lanz, secondo il quale nessuna sepoltura
si doveva fare sull’isola. I cadaveri si dovevano portare «al largo sul mare
ed affondarli in punti diversi dopo averli zavorrati.» Non sempre la zavorra
funzionò e talvolta i corpi straziati venivano rigettati dal mare sulla costa.
«Un cappellano militare ha raccontato del rinvenimento in mare di una salma
di un ufficiale, trasportata dalle onde, […] Aveva le mani legate dietro il
dorso e il segno di numerose ferite (oltre 23), che furono riconosciute inferte
da baionetta.»118 Anche a Corfù, nonostante non si sia arrivati alla barbarie di
115 Ivi, pag.576.
116 I due ufficiali, paracadutati su Corfù finirono nelle mani del capo dei partigiani Papas
Spiru che subito li consegnò «come un trofeo» al comando italiano.
117 Commissione per lo studio… cit. pag.581. Della batteria antiaerea da 20 mm. L’unico
ufficiale superstite fu il s.ten. Terreni che, con tutta la sua sezione, riuscì a non farsi prendere
dai tedeschi e raggiunse l’Italia con i suoi soldati a bordo di due barche dotate di vele di
fortuna.
118 Diario del maggiore Alfredo D’Agara, ripreso da Commissione… cit. pag,581.
200
201
Cefalonia, i tedeschi i diritti se li misero bravamente sotto i piedi. Il Torsello,
riprendendo un’osservazione di Gabrio Lombardi, ritiene che ciò fu dovuto
all’assenza sull’isola di quel maggiore von Hirschfeld, considerato il più
feroce assassino di Cefalonia, per aver concesso carta bianca per 24 ore ai
suoi uomini dopo la resa degli italiani.119
I sottufficiali e i soldati prigionieri furono trasferiti in campi d’internamento
e impiegati come manovalanza. Il 9 ottobre 1943, circa 5.500 prigionieri
italiani furono imbarcati, su una motonave da 10.000 ton. Che fu attaccata da
caccia inglesi che l’affondarono: morirono in 3.000.120
Nell'immagine il mercantile norvegese «Oria» affondato il 13 febbraio 1944 nel mar Egeo.
Era salpato da Rodi alla volta del Pireo con a bordo 4.200 prigionieri italiani che morirono
tutti. Identica sorte toccò a gran parte dei prigionieri di Corfù.
119 Tuttavia è da notare che per Cefalonia esisteva un ordine specifico di Hitler «di non fare
prigionieri.» A Corfù invece fu applicata la direttiva del 15 settembre che preveda la fucilazione degli ufficiali ritenuti responsabili di aver opposto resistenza alle truppe germaniche.
120 Un testimone ha raccontato che i prigionieri quando videro gli aerei inglesi si abbandonarono a manifestazioni di gioia, agitando le mani, credendo di essere liberati.
202
Forze tedesche a Salonicco.
Lero
Gli italiani avevano messo piede a Lero, isoletta delle Sporadi, nel 1912
a conclusione della guerra italo-turca. «L’isola è tutta colline, lunga quindici
chilometri, in qualche punto larga appena mille metri» - scrive l’ammiraglio
Virgilio Spigai, che quell’isola la conosceva bene. Proprio per la sua
configurazione Lero era adatta ad apprestamenti militari, in particolare per
la Marina con le due baie di Portolano e Parteni in grado di offrire alle navi
un appoggio di carattere permanente. Tuttavia gli apprestamenti difensivi
erano stati trascurati: cannoni e mitragliere vetusti, personale in numero
insufficiente. In tempo di pace, Lero aveva fama, per gli strateghi casalinghi,
di isola inattaccabile e imprendibile per qualsiasi nemico. Effettivamente la
sua configurazione rocciosa, le postazioni dei cannoni sui crinali difficili da
colpire sia dal cielo che dalle navi e la stretta imboccatura del porto, che
consentiva facilmente la posa in opera di reti antisom, la rendevano un
obbiettivo teoricamente poco remunerativo. Unico punto debole le navi alla
fonda in rada che potevano essere colpite da aerei in grado di volare basso e
però sotto il tiro della contraerea, e sganciare bombe con precisione. Se tutto
questo andava bene prima della guerra, nel 1943 l’evoluzione della tecnologia
marina e il radar cambiavano di molto lo scenario. Lero era e rimaneva
un’ottima posizione, a condizione che fosse protetta adeguatamente. Dunque,
al dilà delle bordate propagandistiche in puro stile littorio, l’isola era difesa
solamente da tredici batterie contraeree (9 da 76/40 costruite tra 1916 e 1917;
3 da 102/35 con scarsa dotazione di colpi e una sola batteria moderna da
90/53); 11 batterie antinave (4 da 102/35 e 6 da 76/40). Le poche mitragliere
erano delle vecchie Colt che s’inceppavano ai primi colpi sparati e comunque
assolutamente inadeguate contro gli aerei. I depositi munizioni era sistemati
all’aperto, visibili dall’alto e dunque vulnerabili. Le linee telefoniche su
palificazione, vennero messe fuori uso ai primi bombardamenti. Apparati radio
presenti in piccola quantità. Alle batterie di cannoni erano in servizio i marinai
agli ordini di pochi ufficiali d’artiglieria che l’esercito aveva assegnato. La
«forza antisbarco» era costituita da uno smilzo battaglione del 10° reggimento
della divisione Regina e qualche reparto di milizia. Il personale in servizio a
Lero era costituito da marinai che erano in Egeo da oltre 40 mesi, erano pochi
e alloggiati in apprestamenti scadenti. Comandante del comando Marina era i
contrammiraglio Luigi Mascherpa.
La crisi militare italiana che porterà prima al 25 luglio, poi all’8 settembre,
i 45 giorni, ha inizio sul finire dell’autunno del 1942, con l’attacco dissennato
e senza adeguata preparazione alla Grecia, al bombardamento inglese sul
Il colonnello Li Volsi comandante della guarnigione italiana a Lero.
Archivio Rocco Li Volsi.
205
porto di Taranto, e i rovesci i Africa Settentrionale. L’ipotesi che avanza
lo storico tedesco L. Klinkhammer è che da quel momento l’ipotesi di un
ritiro dell’Italia dal conflitto divennero sempre più consistenti, tanto che,
dal maggio 1943, indussero i vertici militari tedeschi «a riflettere sul loro
atteggiamento nei confronti dell’Italia» elaborando un piano di difesa per
l’area del mediterraneo. Altri invece hanno sostenuto che i rapporti tra alleati
cambiarono effettivamente con lo sbarco degli americani in Sicilia. Tuttavia
la velocità con cui i tedeschi intervennero dopo l’armistizio attuando il piano
Acse fa propendere per la tesi di Klinkhammer.
All’annuncio dell’armistizio la reazione a Lero non fu diversa dagli
altri posti del continente e delle isole greche: euforia all’inizio, senso di
insicurezza fino all’angoscia, poi. Gli ufficiali più accorti realizzarono subito
che i tedeschi mai avrebbero consentito che gli inglesi s’impadronissero
dell’isola. Difatti il 10 comparvero sul cielo aerei isolati con la croce uncinata
che volavano sulle batterie, minacciosamente a bassa quota, brandeggiando le
armi. Poi arrivarono anche i bombardieri veri e propri. «È doveroso mettere
in risalto che sia i marinai che i fanti del battaglione Regina, salvo rarissime
dichiarazioni di non voler combattere contro i tedeschi, risposero con spirito di
abnegazione e con risoluta determinazione che si trasformò poi in leggendario
coraggio, al richiamo dei loro ufficiali per una difesa accanita all’offensiva
del tedesco»121. Un gruppo di ufficiali si era anche precauzionalmente riunito
per resistere anche contro il parere del Comando militare dell’isola, ma non
ce ne fu bisogno perché il comando si dimostrò all’altezza della situazione:
agì in modo da anteporre prima di tutto «la difesa della dignità e dell’onore.»
Quello che invece mancò fu l’aiuto, promesso dalla missione inglese di
armare adeguatamente l’isola in modo da poter resistere al prevedibile attacco
tedesco e di inviare adeguate forze.
Nella notte tra l’11 e il 12 il Mas 522, al comando del s.ten. Beghi sbarcò
a Lero cinque ufficiali inglesi accompagnati dal capo di stato maggiore del
generale Soldarelli, comandante della divisione Cuneo, ten. col. Gaudioso. Gli
inglesi promisero che avrebbero fatto ogni sforzo per armare le fortificazioni
dell’isola portandovi mitragliere antiaeree cannoni catturati agli italiani in
Africa settentrionale e che avrebbero portato un contingente di truppe di
rinforzo togliendolo dalla guarnigione di Malta. Infatti L’11 sbarcarono un
migliaio di uomini al comando del generale Britterhous. L’impatto degli
inglesi sui nostri soldati, all’inizio, non fu dei migliori: troppe differenze tra
L'isola di Lero.
121 Leonetto Amadei, La «Battaglia di Lero» in Lotta armata e resistenza delle Forze
Armate italiane all’estero a cura di Biagio DRADI Maraldi e Romano Pieri, Milano 1990,
pagg. 408 – 415.
206
Portolago, 26 settembre 1943. Il MAS 534 affonda.
Sullo sfondo brucia il cacciatorpediniere greco «Principessa Olga».
i dure popoli. L’uno pragmatico, l’altro fin troppo fantasioso, insomma l’uno
nordico, l’altro mediterraneo. D’altronde non erano stati gli inglesi a dire che
l’Africa comincia a Roma? E allora i soldati di Lero, per la loro provenienza,
erano almeno la metà africani. E infatti gli inglesi - scrive un testimone - «si
presentarono a noi superbi, ma mai maleducati e ci riservarono la soddisfazione
di lasciare la bandiera italiana sventolare sul pennone issato sulla palazzina
del comando a Portolago»122. Si erano portati dietro anche un giornalista «di
un’invadenza incredibile», ricordo il comandante del battaglione Li Volsi.
E infatti, dopo pochi giorni l’alterigia e la superbia albionica si attenuò e
«a mano a mano che si intensificarono i combattimenti tanto da tramutarsi,
prima in rispetto e poi in ammirazione incondizionata verso gli italiani che a
Lero stavano compiendo prodigi di valore con uno spirito tale da non trovare
riscontro in altre azioni di guerra che, dopo l’8 settembre, si siano verificate
nelle piazzeforti italiane.»
La «guerra di Lero» durò ben 52 giorni. 52 giorni di battaglia continua,
senza soste, senza respiro, senza pause, né di giorno né di notte. Gli aerei
tedeschi (gli italiani erano senza aviazione) effettuarono almeno duecento
bombardamenti, in media quattro al giorno, come i pasti dei popoli ricchi, e
ogni incursione rimanevo sul cielo dell’Isola, quasi indisturbati, per almeno
un’ora. I primi si presentarono il 26 e piombarono «come falchi» su Portolago
La difesa antiaerea, da subito, si dimostrò inadeguata, come inadeguato era
il nostro esercito, la nostra marina, la nostra aviazione. Furono affondati due
cacciatorpediniere inglesi, danneggiato il bacino galleggiante, l’arsenale
e la base sommergibili. Insomma come inizio non c’era male. Gli Stukas
colpivano i bersagli in picchiata «col suono lacerante di una sirena.» Nella
prima giornata di combattimenti i morti, tra i difensori, erano stati oltre 300 e
decine i feriti gravi. Le bombe scendevano a grappoli esplodendo con fragore
infernale. Dal mare si accompagnava un cannoneggiamento altrettanto
tremendo e terrificante. I tedeschi avevano ripristinato i campi di aviazione
di Rodi, Creta, Atene, dunque per colpire Lero non dovevano fare neanche
tanta strada. Le squadriglie germaniche effettuarono 180 incursioni con 1.109
aerei contrastati dalle sole batterie di terra. «Il comando alleato dell’estremo
oriente non aveva aerei per noi di Lero»123. Non passò molto tempo che i
difensori italiani constatarono, prima con sorpresa, poi con amarezza, che il
loro compito era quello di logorare il più possibile il nemico e che gli inglesi
«sembrava facessero di tutto per perdere la nostra battaglia.»
L'ammiraglio Luigi Mascherpa.
122 Amadei cit. pag. 411. Sugli avvenimenti delle isole dell’Egeo si veda Giuseppe Corrado
Teatini, Diario dall’Egeo, Milano 1990 e Virgilio Spigai, Lero, Livorno 1969.
123 Giuseppe Li Volsi, Diario di Guerra. Inedito
208
209
Una foto storica. La bandiera della difesa venti volte caduta e venti volte rialzata. Da «Lero» di V. Spigai.
Quando Lero fu costretta a capitolare il certificato di valore – loro malgrado
- lo dettero gli stessi tedeschi quando ammisero che, per le operazioni
contro Lero avevano dovuto impiegare: un’armata aerea, una divisione di
fanteria124, due battaglioni paracadutisti e tutte le unità navali dell’Egeo
rinforzate da cinque cacciatorpediniere, una ventina di motozattere, sette
cacciasommergibili e unità minori. La presa di Lero, nonostante la grande
difesa, non fu difficile: erano cadute Rodi, Coo, Stampalia, Calino ecc. A quel
punto i tedeschi erano padroni di tutte le isole vicine. Ogni giorno i difensori
vedevano passare convogli con la croce uncinata, che navigavano di giorno,
allo scoperto, sicuri che nessuno li avrebbe disturbati dal cielo: dei cannoni
di terra sapevano benissimo la loro gittata, bastava passare un palmo oltre e
fare sberleffi. Lero era chiusa in una morsa di ferro: la sua caduta dipendeva
solo dal tempo, tempo che giocoforza, questa volta non era «primo ministro
di Dio»125, ma sembrava invece che, beffardamente Dio stesse dalla parte dei
vincitori.
All’alba del 12 novembre, «forze navali tedesche vengono avvistate al
largo. Provengono dalle acque di Coo – Calimi con rotta ad oriente dell’isola
di Lero. Sono protette da una cortina di nebbia artificiale. Manovrano al
largo per non essere intercettate dai tiri delle nostre batterie, quelle poche
rimastre efficienti: Le motozattere cariche di truppa sono costrette a
ritornare indietro.» Alla fine gli invasori, con gravi perdite, toccano terra e
guadagnano terreno. Una nuvola di aerei indisturbati, «si abbatté come falchi
sulle batterie mitragliando a bassa quota con l’ausilio di unità della marina
che cannoneggiavano da mare e proteggevano il corpo di sbarco tedesco.
Il giorno prima dello sbarco ebbero luogo due lanci di paracadutisti delle
S.S. «eseguiti con assoluto disprezzo della vita umana.» Le batterie navali
dell’isola, mitragliate, cannoneggiate, affondarono otto motozattere, un Mas,
un motoveliero, quattro caccia torpediniere subirono danni. Al momento dello
sbarco l’efficienza delle batterie era ridotta ad un quinto della loro potenza.
Erano da poco passate le 14 che nella zona sud dell’Isola il ten. Col. Li Volsi,
dal suo osservatorio, vede «grossi aerei da trasporto piombare in quell’angusto
settore e, nonostante la reazione della contraerea, eseguire lanci di uomini e
materiali.» Il soldato, l’uomo che aveva combattuto sul Piave, scrive: «Seguo
stupefatto ed ammirato quell’azione, così rischiosa.» E infatti molti di quegli
124 La divisione che sbarcò a Lero era comandata dal generale Mülller, quello che mesi
prima, aveva conquisto Creta, dopo una cruenta battaglia.
125 Frase pronunciata il 9 giugno 1848 dal generale Ferrari al giovane tenente comandante
dello squadrone dei dragoni pontifici prima di essere mandato a compiere una carica suicida
contro l’esercito austriaco nell’intendo di guadagnare tempo in attesa di rinforzi.
Portolago. Resti del palazzo comunale. Da «Lero» di V. Spigai.
211
Portolago. La nave «Legnano» colpita e posata sul fondale.. Da «Lero» di V. Spigai.
aerei si inabissarono con il loro carico di uomini e materiali. La resa di
Lero era ormai inevitabile, senza aviazione non c’era alcuna possibilità di
resistere allo strapotere delle forze combinate tedesche. I fanti del battaglione
Regina sono coinvolti in «attacchi, assalti e corpo a corpo» con una furia e
una rabbia che viene fuori quando in gioco c’è la vita. Eppure il comando
italiano, la sera del 15, ripetuta al mattino successivo, respinse la richiesta di
resa. I tedeschi avevano fatto prigioniero un capitano dell’aviazione italiana
e il generale Müller lo aveva inviato all’ammiraglio Maschera. Le condizioni
proposte erano «se il presidio italiano si arrende, tutti avranno salva la vita.»
L’ammiraglio «non esita un istante a dare una risposta categoricamente
negativa - scrive Li Volsi – aggiungendo “Chiudeteli dentro una stanza, la
risposta la daranno i cannoni.»126. I tedeschi non rividero più il parlamentare.»
Dunque resistenza ad oltranza. «Ma – prosegue il comandante del battaglione
di fanti – mentre stavamo organizzando un altro contrattacco, ebbimo la visita,
tutt’altro che attesa, di due ufficiali inglesi in accompagnamento di altri due
ufficiali tedeschi. Quello che non aveva voluto fare l’ammiraglio Mascherpa
lo fece il generale inglese.» La resa fu dichiarata dal generale Tilney, senza
condizioni, alle 18 del 16 novembre. Per il presidio italiano di Lero erano stati
«cinquantadue giorni di gloria, in una delle più fulgide pagine nella storia di
questa nostra sfortunata guerra.»
Lero poteva essere tenuta? È domanda retorica, nessuno può dirlo. Su
quell’isola si era discusso ai massimi livelli possibili. Il generale Eisenhower,
in quei giorni impegnato nel difficile sbarco di Salerno, non ritenne
remunerativo tenere Lero e il Dodecanneso ad ogni costo e si lasciò andare
anche uno sprezzante giudizio, dicendo che «la guarnigione italiana non era
in grado di combattere contro nessuno.» Stalin, per motivi opposti, non aveva
nessuna voglia di vedere la flotta inglese avvicinarsi ai Dardanelli. L’unico
che ci avrebbe provato era Churchill, perché lui a Lero aveva i suoi soldati.
La caduta di Lero «segnò la morte» per la resistenza in Egeo […] non
ricevemmo armi né ulteriori rinforzi e fummo lasciati al nostro destino.»127
La strenua resistenza dei difensori di Lero è dimostrata dalle perdite subite
dai tedeschi, il 41% delle forze impiegate, quasi 1.200 su 2.700 uomini
partecipanti all’occupazione.
Lero è una piccola isola, solo 53 kmq. In quello spazio c’erano 8.000
tra soldati e marinai addetti alle batterie costiere. Giuseppe Li Volsi, una
medaglia d’argento l’aveva presa sul Piave nel 1918, l’altra se la guadagnò
126 Più tardi quel gesto dell’ammiraglio Mascherpa, dopo un processo davanti al tribunale
di guerra di Verona della Repubblica di salò gli costò la vita..
127 Amadei cit. pa.415.
Portolago. Resti dell'abitato. Da «Lero» di V. Spigai.
213
col suo comportamento proprio nella difesa di Lero. Il colonnello ricordò
che «i marinai e la guarnigione, in quei giorni, sudarono sangue» e ricorda
il capitano d’artiglieria Cacciatori «che sparò gli ultimi colpi trafitto dalle
pallottole di un ufficiale tedesco che era arrivato fino al monte dove era la
sua batteria.» Lì, a Lero si combatté per l’Italia. Non c’erano differenze di
casta, di partiti, di niente, nessuna differenza. [..] Chi vuole conoscere il
personaggio che identifica oggi il valore della Resistenza di Lero, se capita
di andare a Livorno, vada alla locale Accademia: vedrà il busto di bronzo
dell’ammiraglio Mascherpa che seppe dire di no ai signori tedeschi.»
Dopo la resa il primo gruppo di prigionieri viene imbarcato il giorno 21. I
tedeschi sistemano in coperta gli inglesi, al piano di sotto le truppe di colore,
e ancora sotto gli italiani, ufficiali compresi. L’ammiraglio viaggiò con i suoi
fino ad Atene. Appena sceso a terra fu preso in consegna da un colonnello
tedesco e condotto via. Fu imprigionato in uno dei tanti Lager tedeschi fino a
quando un giorno fu avvertito che sarebbe stato estradato a Verona per essere
processato dal tribunale fascista. Durante il viaggio di traduzione il convoglio
fu bombardato dagli alleati, forse Mascherpa poteva fuggire: non lo fece.
Durante il dibattimento davanti a quel grottesco tribunale rimase sereno ed
imperturbabile. Aveva letto l’atto di accusa e dunque non si aspettava niente
di buono. Quell’atto d’imputazione scritto da italiani contro un soldato d’Italia
lo riportiamo:
L'ospedale colpito dalle incursioni aeree tedesche.. Da «Lero» di V. Spigai.
MASCHERPA, imputato del delitto previsto e punito dal art. 103 C.P.M.G.
in relazione all’art.41 capoverso C.P., perché quale comandante la base navale
di Lero appresa alle ore 20 del giorno 8 settembre 1943 dal giornale radio la
notizia dell’armistizio e successivamente alle ore 23 dello stesso giorno dopo
ricevuto dall’ammiraglio Campioni l’ordine di immediata cessazione delle
ostilità contro gli anglo-americani e di resistenza contro qualsiasi offesa
da qualsiasi parte provenisse, supinamente lo accettava ritrasmettendolo ai
reparti dipendenti: non si opponeva il giorno 12 stesso settembre, allo sbarco
degli inglesi che occupavano l’isola consentendo così che quel possedimento
venisse distaccato dalla madrepatria senza aver tentato una difesa qualsiasi e
fatto quanto gli era imposto dal dovere e dall’onore di marinaio e di soldato,
dimostrando in tale maniera la sua volontà piena e cosciente di essere solidale
con i traditori del comando supremo.
Mascherpa fu fucilato insieme al collega Campioni. Il verbale
dell’esecuzione riporta: «Hanno chiesto di stare in piedi e di non essere
bendati, il che è stato concesso. Il loro contegno è stato calmo e dignitoso.»
214
Rada di Portolago. 26 settembre: affondamento del cacciatorpediniere «Principessa Olga».
Da «Lero» di V. Spigai.
Le ultime parole di quel nobile soldato furono: «Il mio ultimo pensiero va alla
nostra Italia. Ricordatevi sempre dell’Italia.» Alla sua memoria fu concessa la
medaglia d’oro al Valor Militare.
Dopo la resa non mancarono le esecuzione sommarie di ufficiali italiani,
almeno sei furono barbaramente uccisi. Tra essi il comandante Meneghini,
comandante di un settore nel nord dell’isola. Egli non credette, o non volle
credere, alla resa e continuò a combattere fino a quando non fu sopraffatto.
I tedeschi lo cercarono, lo raggiunsero e lo finirono con un colpo di pistola
alla nuca insieme al capitano d’artiglieria Radici che era fuggito da Rodi per
continuare a combattere a Lero. Sorte anche peggiore toccò al centurione
della milizia, Carini, comandante di una compagnia di CC.NN. dislocata per
la difesa costiera. Il fascista Carini, quando si trattò di scegliere da che parte
stare, scelse di resistere, di combattere contro i tedeschi. Quando, dopo la
capitolazione, lo presero, con la sua camicia nera, lo portarono in una «vicina
casermetta sulla marina e lì fu ucciso con inesorabili raffiche di mitragliatrice
dagli inferociti S.S. tedeschi» che gli rimproveravano, di aver tradito la causa
fascista.
Ufficiali italiani furono anche impiegati dai tedeschi per il seppellimento dei
loro caduti: i morti italiani ed inglesi furono lasciati insepolti. Per i prigionieri
ebbe inizio il dramma della deportazione. Le partenze furono scaglionate dalla
metà di novembre al primo gennaio: I feriti, italiani ed inglesi furono caricati
sulla nave ospedale Gradisca e diretti a Trieste, ma fu intercettata e catturata
dagli inglesi che la spedirono a Brindisi.
Lo storico proclama di Robert Tinley
217
Il recupero delle salme dei caduti in Grecia
Tege: reparto alpino rende gli onori ai commilitoni caduti. Archivio Emilio Pisani.
La campagna di Grecia fu di breve durata, solo cinque mesi, ma ebbe un’incidenza altissima per le perdite subite dall’esercito italiano. 13.755 morti tra
i quali molti per malattia e congelamento causati da condizioni climatiche ed
ambientali proibitive, oltre che da un equipaggiamento del tutto inadeguato;
50.874 feriti e oltre 25.000 dispersi, in gran parte catturati dai greci, ma molti
morti sul campo. Considerati anche i decessi avvenuti negli ospedali, alla fine
le perdite totali possiamo sommarle ad oltre 154.000 uomini128. Da parte greca
furono dichiarati 14.420 morti, 61.600 feriti e 4.253 dispersi: un’ecatombe!
Nel marzo del 1941129 la Direzione di Sanità dell’Intendenza Generale
dell’esercito, aveva emanato le disposizioni per il risanamento del campo di
battaglia, ormai tutto in mano agli italiani, per il recupero, il riconoscimento
e l’inumazione dei caduti. L’operazione non si presentava semplice su quel
terreno montagnoso e privo di vie di comunicazione. La pietosa opera di recupero delle salme dei caduti, l’approntamento di cimiteri di guerra adeguati in
sostituzione di quelli provvisori allestiti guerra durante, furono affidati all’11ª
armata che impiegò circa 3.500 uomini, tra i quali 40 cappellani militari e
73 ufficiali medici. Il personale fu dotato di automezzi, muli, e tutto quanto
necessario per intervenire in quel delicato settore130. L’opera di bonifica riguardava il teatro d’operazioni dei corpi d’armata – VIII – XXV e «Speciale.» Le disposizioni impartite dalle autorità sanitarie militari prevedevano: la
bonifica di tutti i campi di battaglia, il riconoscimento e la tumulazione delle
salme, ove possibile, nei cimiteri esistenti oppure raggrupparle in cimiteri
provvisori allestiti nelle vicinanze di vie di comunicazione tenendo distinti i
caduti italiani dai greci; - la sistemazione dei cimiteri avanzati in modo tale
da poter facilmente individuare e riconoscere le singole fosse; - la predisposizione di documentazione precisa ed esauriente con tutte le indicazioni circa
l’ubicazione dei tumuli con i nomi dei caduti, unità di appartenenza, epoca
della morte.
Due cimiteri di guerra furono costruiti a Berat e Sinanaj e inaugurati solennemente nel giugno del 1941. Oltre ai cimiteri provvisori già esistenti ne
furono allestiti altri 89 che portarono ad un totale di 162. In breve tempo furono recuperate oltre 10.000 salme, oltre ad un migliaio di greci. In seguito i
128 I dati sulle perdite sono ripresi da Roberto Di Rosa, Il recupero delle salme dei caduti
italiani della campagna di Grecia, in Rivista Militare. 6/2009
129 L’armistizio fu firmato in aprile, ma i Greci, già a marzo si erano ritirati oltre il confine
albanese.
130 I nuclei di bonifica erano dotati di 32 automezzi, 250 muli, 200 quintali di calce viva,
200 quintali di disinfettanti, 3.500 casse da morto.
Tege: alpini si prendono cura della tomba di un commilitone caduto. Archivio Emilio Pisani.
219
La pietosa opera di recupero dei nostri caduti. Archivio Emilio Pisani.
cimiteri furono abbelliti con piccoli monumenti, steli etc. eretti dai compagni
d’arme. Dopo l’8 settembre, in particolare a Cefalonia, dopo la battaglia e la
rappresaglia, il recupero delle salme fu difficile perché i tedeschi posero il
divieto assoluto a chiunque di occuparsene. Il generale Lanz, comandante del
XXII corpo alpino tedesco, aveva prescritto che gli ufficiali della Acqui dopo
la fucilazione non dovevano essere seppelliti sull’isola ma zavorrati e affondati in mare privi della piastrina di riconoscimento. Il fatto è confermato dalla
testimonianza di un autiere, Alberto Sabattini, che, fu comandato al trasporto
di quei poveri corpi. Racconta il nostro che nella notte tra il 27 e 28 settembre,
dunque tre o quattro giorni dopo l’eccidio, «I tedeschi prelevarono dal campo di concentramento della ex caserma Mussolini , 17 marinai della batteria
Faraò, che era stata particolarmente attiva contro di loro, e tre autieri, e li
condussero davanti ad una delle fosse dove giacevano le salme degli ufficiali
e ordinarono di caricarle sugli autocarri. […] Quando uno degli autocarri era
stato caricato di almeno 30 salme, veniva avviato sotto scorta al porto, dove
i cadaveri venivano trasportati sui pontoni della marina tedesca ed affondati
al largo dell’isola di Vardiani, all’ingresso del porto di Argostoli.» Le salme,
perché non tornassero in superficie, erano state zavorrate. Quando tutto fu
finito, dopo tre notti di lavoro, anche i 17 marinai furono fucilati. I resti dei
marinai della batteria Faraò furono ritrovati, nel settembre 1944, dal cappellano della divisione Acqui don Luigi Ghilardini lungo il costone di Capo
S.Teodoro.
Alla pietosa opera di recupero delle salme partecipò, otre a Ghilardini, don
Romualdo Formato anch’egli cappellano della divisione131. Scrive in proposito don Ghilardini: «Solo nell’autunno del 1944 potei liberamente consacrarmi, anima e corpo, a questa missione. Già nell’ottobre 1943, avevo chiesto al
comando tedesco di concedermi uomini e mezzi per tale opera, ma […] mi
negarono l’autorizzazione, ingiungendomi di non curarmene. Naturalmente
non diedi retta a tali assurdi ordini.» Il buon cappellano, dopo vari richiami
da parte dell’ufficiale tedesco responsabile riuscì a far chiedere il permesso
per interessarsi dell’opera di recupero delle salme. La risposta del comando
tedesco fu allucinante: nessuno si doveva interessare alla scabrosa faccenda.
Quando i tedeschi, in seguito al corso della guerra, dovettero lasciare Cefalonia, si poté riprendere, almeno in parte, l’opera di sepoltura dei resti dei soldati della Acqui. Nel corso delle ricognizioni furono trovati centinaia di teschi
alle falde del Monte Lupo verso il Risiguzzolo. Scrive don Formato:
131 I proposito si veda R.Formato, L’eccidio di Cefalonia, Milano 1968; L. Ghilardini, I
martiri di Cefalonia.
Tege: sacrificati sull'altare della vanagloria fascista. Archivio Emilio Pisani.
221
Altre montagne di ossa umane furono trovate nelle vicinanze di Farsa.
Su questi cadaveri, gli abitanti del vicino paesello avevano potuto, appena
sommariamente gettare qualche zolla di terra e un po’ di pietre […] In varie
località furono scoperte alcune vaste cisterne, profonde circa 20 metri […]
Tutte queste cisterne erano state riempite di decine e decine di corpi umani
e le imboccature murate […] Sul Monte Lupo furono trovati una ventina di
scheletri. I cappelli alpini, sparsi qua e là rivelarono trattarsi di artiglieri
[…] Ove vi era stata l’accanitissima resistenza del 317° fanteria resti umani
erano sparsi dappertutto. […] Tutti in gruppo furono ritrovati i resti della
5ª batteria del 33° artiglieria, e - non molto lontano – fu indicata una fossa
dove erano stati sepolti i resti dell’eroico comandante della batteria stessa:
il tenente Abele Ambrosini. L’avevano seppellita i greci, dopo due mesi dalla
morte[…]132.
Solo nel dopoguerra ebbero inizio le operazioni di recupero vero e proprio
che ebbero termine nel 1953. Furono recuperati i corpi di circa 1.500 caduti,
ma solo poco più di 200 poterono essere identificati. Tra di essi il corpo del
generale Gherzi, comandante della fanteria divisionale, del suo aiutante, ten.
col. Sebastiani.
Dalla fine del 1952 la delegazione italiana del Commissariato Generale
per le Onoranze dei Caduti in Guerra (Onorcaduti) iniziò l’opera di recupero
delle salme dei nostri soldati tumulati in Grecia per l’inumazione nel grande
sacrario militare di Bari. I cimiteri di guerra, sparsi in tutta la Grecia, erano
stati allestiti dalle truppe italiane occupanti. In essi riposavano anche coloro
che erano deceduti nei campi di prigionia e negli scontri con la guerriglia
ellenica. In territorio greco, escluso il Dodecanneso, risultavano 38 cimiteri
con 1.085 salme. In generale i cimiteri erano ben tenuti e fu possibile il riconoscimento di gran parte delle salme. Un problema fu invece identificare i
corpi trucidati dai tedeschi dopo l’otto settembre 1943. Le salme giacevano
in fosse comuni, e anche insepolte. Le esumazioni iniziarono con Cefalonia
e interessarono Lero, Creta, Coo e la parte orientale della Grecia in zone particolarmente difficili da raggiungere. Più complicato si dimostrò stipulate un
accordo con il governo albanese. In Albania infatti erano stati sepolti quasi
tutti i caduti per la guerra contro la Grecia. Ciò fu possibile, dopo lunghe
ed estenuanti trattative, solo alla fine del 1958. Toccò al generale Domenico
Bandini, ottimo conoscitore dell’Albania in quanto ex capo ufficio informazioni dell’11ª armata, il compito del recupero delle salme dei nostri soldati.
Bandini che aveva un mandato per operare al massimo due anni, giunse a
Fasi del recupero del corpo del tenente Vittorino Zanibon. Archivio Emilio Pisani.
132 Ivi, pagg. 174 – 175.
222
I resti del tenente Zanibon vengono portati via. Archivio Emilio Pisani.
Tirana il 5 maggio 1959 e 10 giorni dopo iniziò la propria attività, sempre
affiancato da un rappresentante del governo albanese che non lo lasciava mai.
Le autorità albanesi avevano stimato la presenza di circa 27.000 salme, ma
per gli italiani non dovevano essere più di 20.000. Per i lavori di scavo si fece
ricorso a manodopera locale e dopo sei mesi 2.186 salme erano state esumate
e nel gennaio del 1960 trasportate a Bari. L’attività di recupero risultò problematica poiché molti cimiteri di guerra erano stati distrutti dagli albanesi dopo
l’8 settembre 1943. Scrive in proposito il generale Bandini:
Giorni fa, nel viaggio di ritorno da Sinanaj-Tepeleni, mi sono fermato
a lungo fra Ponte Dragoti e Klisura, a 10 chilometri da quest’ultima per
un’attenta ricognizione del cimitero militare di quella località. Purtroppo,
tutto distrutto, tutto raso al suolo e terreno ritornato a pascolo come un tempo;
esistono solo i ruderi dell’altare e dell’ampia scalinata di accesso alla stessa.
Il caratteristico abbassamento del terreno nei singoli punti, consentirà, per
circa 200 tombe, di poter iniziare lo scavo, alla ricerca delle salme con la
quasi sicurezza di trovarle senz’altro; per le rimanenti tombe, nessun segno
di sorta.
Nella capitale, Tirana, le circa 800 salme sepolte nel locale cimitero, erano
state sfrattate e ammassate in una fossa comune. A nulla valse lo sdegno del
generale per «quell’ammasso enorme ed informe di povere ossa.» La delegazione italiana, nel corso dei lavori, constatò che le difficoltà che avevano
trovato i nostri soldati su quelle montagne impervie e prive di vie di comunicazione, erano ancora le stesse: ricorso a muli e tende per dormire. Una Fiat
Campagnola gli fu inviata dall’Italia perché in quel paese non esistevano
mezzi di quel tipo.
In viaggio verso il luogo della sepoltura. Il tenente Emilio Pisani fu l'ultima persona a vedere Zanibon Archivio Emilio Pisani.
225
226
1941: due Junkers Ju 87 tedeschi detti «Stukas» in volo sulla Grecia.
L’Aviazione militare nella campagna di Grecia
«Bristol Blenheim I» con due motori da 840 hp, 455 kmh di velocità massima 3 uomini,
ed era armato con 2 mitragliatrici da 7,7. Archivio «Rivista Aeronautica» 1940-41.
Allo scoppio del conflitto l’aeronautica italiana viveva un momento di
stasi dopo gli anni delle grandi imprese, delle crociere e dei numerosi primati
conquistati da piloti e da personaggi come De Pinedo, Ferrarin, Agello e
Nobile ma soprattutto Italo Balbo. L'aviazione tricolore era stimata in tutto il
mondo e persino Roosevelt nel suo ufficio aveva appeso un ritratto di Gianni
Caproni a fianco di George Washington. Gli aerei del costruttore italiano
erano famosi fin dalla grande guerra ed erano venduti in tutto il mondo.
Una delle prime iniziative del regime fascista fu la costituzione della Regia
Aeronautica come arma autonoma nel 1923. Partendo dall'organizzazione
allestita durante la grande guerra, venne creata una poderosa organizzazione
militare, con alle spalle una struttura di ricerca al passo coi tempi e un'industria
aviatoria che non si sarebbe però rivelata all'altezza delle attese. Ciò fece sì
che negli anni Trenta l'Italia conseguisse molti primati in campo aeronautico,
alcuni dei quali ancora oggi imbattuti, ma che si lanciasse anche in una serie
di produzioni dispersive, che assorbivano inutilmente le energie disponibili.
Per questi motivi, dai prototipi italiani - che all'epoca erano tra i più moderni
- ancora verso la fine del decennio - non si riusciva a derivare una vera
produzione di serie. L’aeronautica militare italiana partecipò attivamente alla
Coppa Schneider dove trionfarono velocissimi monoplani provvisti di motori
con cilindri a V, ma i successi sportivi non servirono alla realizzazione di aerei
moderni. Era insomma un fervore di facciata poiché i piloti italiani dovettero,
all’inizio del conflitto, contare ancora sui caccia biplani con motori a stella,
manovrabili e robusti ma vecchi. Inoltre, dalla sua partecipazione alla guerra
di Spagna, dove si confrontò con altri paesi produttori di aerei militari, la
Regia Aeronautica non trasse alcun insegnamento.
Da queste premesse emerge una ben precisa realtà: l’aviazione militare
italiana era divisa in due. Da una parte quella sperimentale che continuava
costruire prototipi e a realizzare primati, dall’altra quella operativa che doveva
dipendere da una scarsa produzione di modelli superati con un apparato
elefantiaco e poco dinamico. Invidie, conflitti tra istituzioni, affarismi tra
industria e stato, minavano e confondevano anche le buone intenzioni di
alcuni. La campagna di Grecia fu la prova dello stato in cui si trovavano le
forze armate Italiane. L’offensiva venne preparata in soli 13 giorni con la
prospettiva di essere rapida e facile contro un esercito ritenuto inefficiente e
non combattivo. Inizialmente all’aviazione fu assegnato il compito di battere
gli obiettivi sensibili, bombardare le vie di comunicazione, i depositi e i centri
a forte impatto psicologico, oltre naturalmente mitragliare le truppe nemiche
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S 81: Trasporto materiali. Archivio «Rivista aeronautica» 1940-41
e tenere il cielo sotto controllo. Bastarono pochi giorni per capire come
sarebbero andate le cose. Le truppe si trovarono isolate, bloccate nel fango
e nella neve, senza rifornimenti e sotto un tempo inclemente. L’aviazione
divenne allora l’unica possibilità per recapitare ai soldati i viveri e i mezzi
necessari. L'urgenza di nuovi rimpiazzi e di rinforzi rese necessario allestire
un ponte aereo tra la Puglia e l’Albania per realizzare il quale furono usati tutti
i velivoli disponibili compresi i bombardieri più vecchi e gli aeromobili civili.
Le forze aeree italiane sul fronte Greco-Albanese costituirono il Comando
Aeronautica Albania dal quale dipendevano:
• il 38° Stormo Bombardamento (39°gr = 51a e 69a sq. , 40agr. = 202a e 203a
sq.) a Valona su «S81»;
• il 105° gruppo Bombardamento (254a e 255a sq.) a Tirana su «S79»;
• il 160° gruppo caccia (393a e 394a sq.) a Drenova su vecchi «Cr32»;
• il 72° gruppo Osservazione Aerea (25a sq. a Coritza, la 42a sq. a Valona, e
la 120a sq. a Argirocastro, tutte su «Ro37»).
Totale: 187 aerei; 31 «S79», 24 «S81», 47 «G50», 46 «Cr42», 14 «Cr32»,
25 «Ro37».
In Puglia con la IVa ZAT (poi IV Squadra Aerea) schierava:
Alpini sbarcano da un «Junkers Ju 52» Tedesco.
Archivio «Rivista Aeronautica» 1940-41.
• il 35° Stormo Bombardamento Marittimo (86°gr =190a e 191a sq. , 95° gr.
=230a e 231a sq.) a Brindisi su idrovolanti «Cz 506B»;
• il 37° st. Bomb. (116° gr. = 276a e 277a sq., 55°gr. = 220a e 221ª sq.) a Lecce
su «S81» e «Br20»;
• il 47° st. Bomb (106° gr. = 260ª e 261a sq., 107°gr. = 262ª e 263a sq.) a
Grottaglie su «Cz1007 bis»;
• il 50° gr. Bomb. (210a e 211a sq.) a Brindisi su «Cz1007 bis»;
• il 96° gr. Bombardamento a tuffo (236a e 237a sq.) a Lecce su «Ju87B»;
• il 2° gr. caccia (150a sq. a Grottaglie su G 50 e 152a sq. a Bari su «Cr32»).
Totale: 119 bombardieri (metà erano «Cz1007 bis»), 54 caccia (di cui 9
«Cr32»), 20 bombardieri a tuffo tedeschi «Junkers Ju 87».
Il comando Aeronautica di Albania fu dapprima posizionato ad Argirocastro
e dopo la ritirata a Tirana.133 Prima del conflitto vennero sperimentati vari aerei
nella speranza di realizzare un buon bombardiere in picchiata (secondo le teo133 Mach 1 , vol. 4 – Edipem Novara 1978, e Regia Aeronautica, Balcani e fronte orientale
- Intergest Milano 1974
Aeroporto Albanese.
Archivio «Rivista Aeronautica» 1940-41
230
231
Ponte di Dolianova
Archivio «Rivista Aeronautica» 1940-41.
Ponte Dolianova
Archivio «Rivista Aeronautica» 1940-41.
232
ria dell’aviazione d’assalto promossa da Amedeo Mecozzi), ma la ricerca non
aveva prodotto mezzi accettabili. Allo scoppio del conflitto quindi, divenne obbligatorio acquistare gli ottimi Junkers dall’alleato Tedesco. I primi 50 furono
consegnati dalla Germania nel luglio del 1940 quando la campagna di Grecia era
ormai terminata. Ovunque gli Ju 87 furono utilizzati con grande soddisfazione,
vista l’asperità delle montagne Greco-Albanesi, caratterizzate da gole strette e
profonde, dove il robusto aereo tedesco riusciva a infilarsi, colpire con precisione gli obiettivi e svincolarsi in piena sicurezza.
L’Aviazione Greca schierava tre squadroni da caccia detti Mira: il 21°, il
22° e il 23° tutti equipaggiati con i «PLZ P24» e schierati a difesa di Salonicco,
Kastoria, Kozane e Larisa. In totale gli ellenici disponevano di 36 «PZL» (di
cui 30 efficienti) a cui vanno aggiunti 2 «Gladiators Mk I» e 6 vecchi «Hawker
Horsley». L'aviazione da bombardamento era anch'essa organizzata su tre Mira,
il 31°, il 32° e il 33° e disponeva in tutto di 33 velivoli. Il 31° Mira era basato
a Vomvardismou e volava sui «Potez 633» (9 aerei). Il 32° era invece invece
equipaggiato con i «Bristol Blenheim I» (12 aerei). Il 33° Mira infine disponeva
dei «Fairey Battle» (12 aerei). Esisteva poi una squadriglia da ricognizione, il 3°
Mira forte di16 «Henschel Hs 126a», di qualche vecchio «Breguet 19a» e «Potez 25». Manteneva inoltre ancora in servizio alcuni «Avro 504» della grande
guerra. La componente aerea della Marina Greca era infine dotata di 10 «Avro
Anson», 10 idrovolanti «Dornier Do22k», e 9 vecchi biplani «Fairey III f».
In tutto la Grecia poteva schierare circa 200 aerei, la maggior parte dei quali ormai superati e assolutamente non in grado di rappresentare una minaccia.
Solo il successivo apporto inglese, anche se qualitativamente equivalente, rese
gli ellenici più pericolosi. I bombardieri greci furono usati subito per operazioni
contro i campi italiani di Argirocastro e Coritza, ma la mancanza di pezzi di ricambio mise fuori uso in pochi giorni i moderni «Potez 633».134
Ai primi di luglio del 1940, lo stato maggiore inglese britannico dichiarò che
«una minaccia sui Balcani avrebbe determinato l’intervento inglese». Il giorno
dopo l’attacco italiano, (il 29 ottobre 40) la Royal Navy si mosse da Alessandria
d’Egitto posizionando il 2 novembre un comando a Creta (Suda). All'operazione
fu assegnato il nome convenzionale di «Barbarity». In Grecia arrivarono 4300
uomini dell’esercito Inglese. La RAF inviò quattro squadrons che furono operativi dai primi di novembre. Gli inglesi schieravano mezzi equivalenti a quelli
italiani («Gloster Gladiators Mk I» e «II» e «Brisol Blenheim»). I piloti britannici erano però più addestrati dei nostri al volo notturno e a quello con scarsa
visibilità.135
134 Mach 1 , vol. 4 – Edipem Novara 1978
135 L’aviazione , vol. 3 – De Agostini Novara 1983.
233
S 81 , trasporto materiali
Archivio «Rivista Aeronautica» 1940-41.
«S79» 253a sq. 104° gr.
Archivio «Rivista Aeronautica» 1940-41.
234
Alle 6 del 28 ottobre 1940 ebbero inizio le operazioni italiane in Grecia. Durante quella giornata i nostri bombardieri colpirono i porti di Patrasso, Prevesa
e Salonicco. Attaccarono inoltre l’aeroporto di Atene (Tatoi) e i ponti sul canale
di Corinto. Le reazione degli ellenici fu scarsa e nei giorni seguenti il maltempo
impedì qualsiasi attività aerea. Sotto un tempo infernale le forze di terra dopo una
brevissima avanzata si arenarono nel fango e rimasero isolate. Il 31 ottobre il capo
di stato maggiore dell’aeronautica generale Valle, fu sostituito con il generale
Francesco Pricolo. Il primo provvedimento del nuovo comandante fu quello di
rinforzare i reparti al fronte facendo affluire nuove unità. Il 104° gruppo da bombardamento, formato dalle squadriglie 252a e 253a raggiunse Tirana con i suoi «S
79». Lo seguirono i gruppi caccia 24° (354a e 355a squadriglia) e 154° (361a e
395a squadriglia), entrambi equipaggiati con i «G50», che andarono a sistemarsi
a Berat. Il 150° gruppo caccia si divise invece tra Tirana, che divenne base della
363a squadriglia su Cr 42 e Valona che ospitò la 364a squadriglia, anch'essa su
«Cr 42». La 365a squadriglia sempre su «Cr 42» fu invece dislocata ad Argirocastro. Anche la IVa ZAT pugliese venne rinforzata con il 41° gruppo da bombardamento composto dalle squadriglie 204a e 205a dislocate a Brindisi su «Cz 1007
bis» e con la 372a squadriglia anch'essa a Brindisi con gli «Mc 200».136
In quei giorni arrivava da Ismailia ad Atene (Eleusi) il 30° squadron della
RAF, comandato dal maggiore U.Y. Shannon.137 Giunsero in zona d'operazioni
anche l'84° e il 211° squadron, dislocati ad Atene (Tatoi)138 e l'80° squadron caccia su «Gladiator» diviso tra Larissa e Trikala, al comando prima del maggiore
W.J.Hickey e poi, da dicembre, del maggiore E.G.Jones. Questi reparti provenivano tutti dal settore mediorientale.
Gli Squadrons vennero poi raggiunti a fine novembre dal 31° e 33° reparto
Logistico mentre il comando britannico fu dislocato ad Atene alle dipendenze di
J.H. D’Albiac. 139
Quando tra il 1 e il 2 novembre in tempo diede tregua, gli aerei italiani con
ben 200 missioni tornarono a colpire i centri di comunicazione Greci, tra i quali
ancora i porti di Salonicco, Patrasso, l’aeroporto di Larissa sede di reparti ellenici e di nuovo il canale di Corinto.140 Sempre il 2 novembre cinque «Ju 87» del
96° gruppo, e i «Cz1007» del 47° stormo, scortati dai «Cr42» della 365a squadriglia, attaccarono il campo di volo e la città di Gianina dove erano distaccati
alcuni «PLZ» del 21° Mira per la difesa della città. Questi intercettarono i bombardieri italiani e nel combattimento il capo-pattuglia greco Hiposminagos John
136
137
138
139
140
Mach 1 , vol. 4 – Edipem Novara 1978.
Era equipaggiato con i «Blenheim Mk1» e i «Gladiator».
Equipaggiato con i «Blenheim».
L’aviazione , vol. 3 – De Agostini Novara 1983.
Regia Aeronautica, Balcani e fronte orientale - Intergest Milano 1974.
235
Sakellariou fu abbattuto, riuscendo però a colpire prima almeno due italiani. La
vittoria sul pilota greco fu rivendicata da Giorgio Graffer che era il comandante
della 365a squadriglia che lo stesso 2 novembre reclamò anche altri due «PZL»
abbattuti.141
Dopo qualche giorno, il 6 novembre, apparirono i primi caccia inglesi. Nella
mattinata tre «Blenheim» del 30° squadron durante una ricognizione su Sarande, Tepeleni, Valona e Argirocastro lanciarono alcuni spezzoni sul campo
di Valona danneggiando l’area di atterraggio e tre «S 81» del 38° stormo. Tre
«Cr 42» della 364a squadriglia decollarono e attaccarono gli inglesi. Il capitano
Magaldi colpì il sergente John Merifield, mitragliere del bombardiere pilotato
dal sergente G.W. Ratlidge. Nonostante tutto i tre velivoli inglesi riuscirono a
rientrare ad Eleusisi.142
L’8 novembre l’avanzata italiana era ormai definitivamente bloccata e il 12
iniziò la ritirata, che si concluderà in dicembre in territorio albanese con l'arresto della controffensiva greca. A seguito di questi avvenimenti, reparti di volo
italiani furono in novembre arretrati in aeroporti ad una distanza adeguata dal
nuovo fronte.
L’11 novembre siluranti della RAF attaccarono la base navale di Taranto,
infliggendo alla marina italiana un grave smacco, con tre corazzate messe fuori
uso per vari mesi. La marina britannica poté così in quel periodo approfittare
dell’assenza italiana per rifornire in sicurezza il fronte greco.
Il 18 novembre era una giornata uggiosa con nubi basse e scarsa visibilità.
Alcuni «S79» del 105° gruppo rientravano da una azione a bassa quota nel corso della quale avevano tentato di bombardare alcune concentrazioni di truppe
avversarie tra le nebbie. Gli aerei erano molto distanziati a causa della visibilità
insufficiente e si trovavano ormai prossimi a Coritza quando ad un tratto la formazione venne attaccata da caccia greci. Ne seguì un combattimento nel corso
del quale due «PLZ» furono abbattuti ma un «S79» della 255a squadriglia con
al comando il tenente. Alessandro Castelli venne colpito. Nonostante il pilota
cercasse di sottrarsi al fuoco avversario, incuneandosi fra le strette gole della
zona ed ondeggiando per scansare il tiro greco, il velivolo prese fuoco. L'«S79»
aveva quasi raggiunto le nostre linee ma il fuoco avanzava. Castelli fece allora
lanciare l’equipaggio mantenendo il velivolo in linea di volo e poi a sua volta
tentò di lasciare l’aereo. Non riuscì a farlo in tempo: ormai avvolto dal fuoco
precipitò morendo. Fu la prima medaglia d’oro del 46° stormo di cui il 105a
gruppo faceva parte.143
141 Italian Aces – www.surfcity.kund.dalnet.se
142 Italian Aces – www.surfcity.kund.dalnet.se
143 Giulio Lazzati – Stormi d’Italia - Mursia Milano 1975
236
Il Fiat «G 50» era un monoplano con un motore da 840 hp, 470 kmh di velocità massima ed era
armato con 2 mitragliatrici da 12,7. Archivio «Rivista Aeronautica» 1940-41.
Una pattuglia di «Ju 87B», con un motore da 1200 hp, 380 kmh di velocità massima ed era armato
con 2 mitragliatrici da 7,92 e fino a 1000 kg. di bombe. Archivio «Rivista Aeronautica» 1940-41.
237
L’orografia del territorio greco era un’ostacolo naturale, non solo per l’esercito ma
anche per le operazioni aeree. Archivio «Rivista Aeronautica» 1940-41.
Effetti dei colpi presi sul rivestimento in tela di un «S79» della 257a sq. (non sul fronte greco).
Archivio «Rivista Aeronautica» 1940-41
A fine mese si registrarono altri due scontri: il 27 novembre 9 «Gladiators»
dell’80° squadron intercettarono 3 «S79» scortati da una dozzina di «Cr 42» del
150° gruppo nei pressi di Gianina. Nel combattimento che ne seguì il flight liutenant Edward «Tap» Jones (N5816) e il sergeant Donald Gregory (N5776) colpirono il capitano Magaldi capo-pattuglia e il sergente Giovanni Negri. Quest’ultimo rientrò gravemente danneggiato mentre Magaldi morì. Nicola Magaldi,
classq 1911, originario di Potenza, era il comandante della 364a squadriglia del
150° gruppo. Aveva partecipato alle operazioni contro la Francia e fu decorato
con la medaglia d’oro alla memoria. Il 28 novembre altri 6 «Gladiators» sempre
dell’80° squadron affrontavano 10 «Cr 42» della 365a squadriglia sul cielo di
Delvine. Tre dei nostri aerei furono abbattuti mentre i britannici ne persero 4.
Il comandante della formazione inglese, Edward «Tap» Jones rimase ferito al
collo e rientròa con l’aereo danneggiato. Il flying officer H.U. Sykes (N5812) e il
sergente Corrado Mignani si scontrarono in volo precipitando. Wanklyn Flowers
(N5854) cadde dopo aver probabilmente abbattuto un «Cr 42». Il capitano Graffer fu abbattuto assieme al sergente Achille Pacini. Guglielmo Bacci e Bruno
Zotti rientravano invece con gli aerei danneggiati. Anche due piloti inglesi W.B.
Price-Owen e F.W. Hosken ritornarono con i velivoli danneggiati. A seguito di
quell'azione, ben tre vittorie furono assegnate al sergente Gregory Donald.144
Giorgio Graffer era nato a Trento il 14 maggio 1912 e aveva frequentato il corso
Leone dell’accademia Aeronautica. Comandante della 365a squadriglia del 150°
gruppo, aveva partecipato alle operazioni contro la Francia. Divenuto asso con
il raggiungimento della quinta vittoria, fu decorato con la medaglia d’oro alla
memoria. Era un appassionato alpinista a cui sono legati alcuni percorsi dolomitici nel gruppo del Brenta. A lui è intitolata la scuola di scialpinismo della SAT
Trentina. Nel dicembre del 1943 l’aviazione repubblicana gli intitolò la 3° squadriglia del 2° gruppo caccia e nel dopoguerra l’Aeronautica Militare gli dedicava
il 50° stormo caccia di Piacenza.
Il confronto tra «Gladiator» e «Cr42» era equivalente, mentre il «G50» poteva avere la meglio sul biplano inglese nell’intercettazione, ma soccombeva in un
combattimento ravvicinato (dogfight).
A fine novembre gli aerei dell’asse adottarono la fascia bianca verticale di
riconoscimento e il 6 dicembre giunsero da Aviano 16 «Br 20» del 37° gruppo
formato dalle squadriglie 47a e 48a del 18° stormo.
L’impresa greca che doveva essere una guerra lampo, stava dimostrandosi
una fornace che consumava sempre più uomini e materiali. Per trasferire velocemente dalla Puglia le truppe di rincalzo e riportare i feriti, furono impiegati oltre
ai velivoli militari da trasporto, anche aerei civili militarizzati dell’Ala Littoria e
144 Italian Aces – www.surfcity.kund.dalnet.se
238
239
della LATI, che erano andati a costituire il S.A.S. (Servizi Aerei Speciali).
L’8 dicembre 1940 arrivarono a Foggia da Wiesendorf 53 «Junkers Ju 52»
della Luftwaffe, appartenenti al III/KGzb.v1. I tedeschi operarono sui cieli albanesi per 50 giorni senza subire perdite. Gli «Ju 52» compirono 4028 missioni
trasportando a Tirana 30.000 uomini e 4.700 tonnellate di materiali e riportando
in Italia 8346 feriti.145
Il 20 dicembre fu una giornata nera per la nostra aviazione. Una formazione
di «S79» del 104° gruppo priva di scorta, in azione su Golem ai confini con la
Macedonia, venne assalita da una pattuglia di «Gladiators». Un bombardiere
italiano cadde e un altro ritornò a Valona con un mezzo cimitero a bordo. La
stessa sorte toccò a una pattuglia di «S81» del 38° stormo sopra Piskali. Attaccati
tutti i velivoli rientrarono alla base anche se malconci.146 La regia aeronautica
si rifece però il giorno dopo, quando 15 «Cr 42» intercettarono 20 «Gladiator»
impegnati in una incursione sulle linee italiane. 9 inglesi furono abbattuti contro
due perdite italiane.147
A causa della penuria di mezzi di trasporto vecchi bombardieri «S81» del
38°stormo vennero convertiti in aerei da carico andando a costituire una «Squadriglia trasporti» alle dipendenze del Comando aeronautica d’Albania.148
A Natale i campi di atterraggio si ricoprirono di uno strato consistente di neve
ghiacciata e le operazioni di volo ne risultarono limitate. Per i primi dell’anno si
stava preparando una nuova offensiva in direzione di Klisura che doveva svilupparsi con il contributo di due nuove divisioni trasportate in Albania: Legnano e
Lupi di Toscana. La resistenza greca però, arrestò ben presto l’azione costringendo l’esercito italiano ad abbandonare le posizioni conquistate. Visto l'anadmento
delle cose la nostra componente aerea venne rinforzata arrivando a mettere in
linea 160 velivoli pesanti tra «S79», «S81» e «Cz1007bis» e circa 200 caccia
tra «G50» e «Cr42». Si riuscì così a mantenere la superiorità aerea. Anche la
RAF però aumentò verso la fine di gennaio il proprio organico inviando in zona
d'operazioni gli squadrons da caccia 33° e 112° e l’11° da bombardamento. Oltre
ai «Wellington del 37°, fecero la loro comparsa anche i primi 6 «Hurricane».
Alcuni «Gladiator» furono passati alla Grecia ormai a corto di velivoli. In due
mesi i britannici effettuarono 235 sortite e 76 dovettero interromperle a causa
delle avverse condizioni atmosferiche. A fine dicembre la RAF rivendicò 42 abbattimenti certi e 12 probabili. 149
145
146
147
148
149
Regia Aeronautica, Balcani e fronte orientale - Intergest Milano 1974
ibidem
Ali Italiane , vol. 3 – Rizzoli Milano 1978
Regia Aeronautica, Balcani e fronte orientale - Intergest Milano 1974
L’aviazione , vol. 3 – De Agostini Novara 1983
240
Nel 1940 i biplani Italiani «Cr 42» rappresentavano ancora le colonne portanti della caccia.
Archivio rivista «Cronache della guerra».
Alpini in un «S 82» da trasporto raggiungono l’Albania. Archivio «Rivista Aeronautica» 1940-41.
A sinistra: un grosso «S 82» da trasporto ha sbarcato in Albania i rincalzi. A destra: schieramento di «Macchi Mc200», della 362a sq. 22° gr. giunti in Albania il 6 marzo del ’41. Con un motore da 870 hp, e 500 kmh
di velocità era armato con 2 mitragliatrici da 12,7 e 300 kg di bombe. Foto «Rivista Aeronautica» 1940-41.
In alto: un «CRDA Cantz»
o «Cz 1007bis» della 210a
sq. 50° gr. con tre motori
da 1000 hp e 456 kmh di
velocità. Poteva trasportare 2.100 kg di bombe. Al
centro a sinistra: «Fiat G
50» sul pantano dei campi
albanesi. Archivio A destra
un «IMAM Ro 37» della 39a
sq. Archivio «Rivista Aeronautica» 1940-41. In basso
a a sinistra: carico bomba
da 500 kg. su uno «Ju 87 B»
italiano Foto: www.finn.it.
In febbraio, scomparsa ormai l'aviazione greca, i combattimenti continuarono
praticamente solo tra i piloti della RAF e quelli italiani. Il 1 del mese venne bloccato un attacco britannico sulle nostre linee e il 10, durante un bombardamento
italiano, gli «Hurricane» abbatterono 4 nostri aerei. Die giorni più tardi 6 «Wellington» inglesi bombardarono Tirana e Durazzo.
L'«Hawker Hurricane» portò la RAF a un netto predominio nei cieli ellenici.
Questo moderno monoplano, anche se con una struttura antiquata, montava un
potente motore Rolls Royce Merlin ed era armato con 8 mitragliatrici da 7,7 mm.
portate poi a 12 i da 7,7. Ne fu realizzata anche una versione con 4 cannoncini
da 20 mm. Poteva trasportare addirittura 450 kg. di bombe. Fu usato prima come
velivolo da cacciatore e poi per l'attacco al suolo.
L’Aeronautica italiana si adeguò alla presenza del nuovo aereo inglese ritirando i «Cr 42». Sostituì quindi il 150° gruppo con il 22° formato dalle squadriglie
362a e 369a che vennero dislocate a Tirana. La 371a avrebbe invece fatto base a
Valona. Questi reparti erano dotati del «Macchi Mc200» un velivolo almeno in
parte in grado di contrastare la supremazia dell'«Hurricane».
Sul campo di Berat il 20 febbraio 1941 operava il 154° gruppo con le squadriglie 361a e 395a su «Fiat G 50». Quel mattino una pattuglia del gruppo intercettò
una grossa formazione inglese e ne nacque un furioso combattimento. Il tenente.
A. Fusco abbatté 10 aerei e ne colpì altri otto ma rimase ferito ad un orecchio
e con l’aereo ridotto male fu costretto ad atterrare. Nel pomeriggio mentre era
a riposo, il campo fu attaccato da un gruppo di «Bleheim» scortati dai caccia
dell’80° squadron al comando del capitano John Pattle. In tutto i britannici avevano in aria circa quaranta aerei. Fusco decollò per primo e per qualche minuto
si trovò ad affrontare da solo gli avversari. Ad un tratto fu colpito e sembrò precipitare. Riuscì però a riprendere quota e a rigettarsi nella mischia ma non fu fortunato come nella mattinata. Attaccato da 5 o 6 caccia, e sottoposto ad un fuoco
combinato il suo aereo esplose in volo disseminando i pezzi nell’area sottostante. Durante il combattimento aveva abbattuto un «Bleheim». Un suo compagno,
il tenente Livio Bassi, fu ferito e, nonostante il ricovero in ospedale morì due
mesi dopo per le conseguenze delle ustioni. A Fusco e Bassi furono concesse
le medaglie d’oro alla memoria. Alfredo Fusco era nato nel 1915 su una nave in
rotta per Tripoli dove i genitori stavano trasferendosi. Aveva frequentato il corso
Rex dell’Accademia. L’Aeronautica Militare Italiana nel dopoguerra gli ha intitolato il 6° Stormo di Ghedi.150
Alla data del 3 marzo 1941 la RAF rivendicò l’abbattimento di ben 62 aerei
italiani che i suoi velivoli avrebbero colpito a partire dal 20 febbraio. I giornali
greci del 28 febbraio però riportavano a soli 27 il numero degli aerei italiani
150 Italian Aces – www.surfcity.kund.dalnet.se
243
abbattuti nel mese trascorso. Nello stesso periodo di tempo la Regia Aeronautica
dichiarava di aver atterrato 10 aerei avversari.
Fra il 9 e il 14 marzo un altra ripresa offensiva italiana fu di nuovo arrestata
dalle truppe greche. Il 4 aprile però enne inizio l’attacco dei tedeschi che attraverso la Bulgaria e la Macedonia penetrarono in territorio ellenico.
Il 10 marzo giunse in zona di operazioni il 101° gruppo bombardamento a
tuffo. Era formato dalla 238a squadriglia comandata da Bertuzzi, con base a
Tirana, e dalla 208a agli ordini di Sciaudone che operava da Lecce. Si trattava
in tutto di 14 aerei.151
Il 6 aprile 1941 ebbero inizio le operazioni contro la Yugoslavia. I campi
Albanesi vennero ad essere ancora una volta in prima linea e i reparti italiani si
divisero operando sui due fronti.
Il 10 aprile la 208a squadriglia con i propri «Ju 87» (Picchiatelli) fu impegnata anche in azioni contro convogli inglesi al largo di Corfù. Il bombardiere a tuffo tedesco si prestava particolarmente alle azioni mirate su obiettivi puntiformi,
come quella del 14 aprile, quando i Picchiatelli colpirono i ponti di Dolianova
e Perati che avevano superato indenni gli attacchi con i bombardieri pesanti.
Due giorni dopo, proprio nel corso di un'azione sul ponte di Perati, andava perso
uno «Ju 87». Sui Picchiatelli della regia aeronautica prestava servizio anche
il veneziano Carlo Seganti. La specialità del bombardamento a tuffo aveva un
suo fascino tutto particolare per le vertiginose picchiate seguite da violente richiamate e per la possibilità di centrare obiettivi limitati con una sola bomba.
Il praticarla per un pilota era quindi una dimostrazione di precisione e prestanza fisica, indispensabili per chiunque volesse condurre tale tipo di volo. Forse
per questo Seganti chiese di passare dai caccia del 6° stormo alla specialità del
bombardamento in picchiata. Carlo Seganti era figlio di un ufficiale di marina
e si arruolò come pilota di complemento nel 1938. In Grecia appartenne al 97°
gruppo Bombardamento Tuffo e al 101° gruppo della stessa specialità. Partecipò
a 47 missioni e con i Picchiatelli si guadagnò una medaglia di bronzo per aver
affondato una grossa nave da carico. Lasciò il teatro ellenico il 1 aprile per tornare poco dopo sui caccia con i quali trovò la morte cadendo il 12 luglio del 1942
al largo di Comiso.152
Il 24 aprile venne firmato l’armistizio a Salonicco. Da maggio del '41 in Grecia si accese la guerriglia che ostacolò l’occupazione italo-tedesca fino all’armistizio del 1943. Dopo la cessazione delle ostilità il territorio ellenico continuò a
fare da base per i velivoli dell'Asse. Vi furono infatti stanziati altri reparti. Tra
l'11 dicembre 1941 e il 25 aprile del 1942 fu presente anche il 18° gruppo a cui
«Ro 37» 39a della sq. 5° gr. a Scutari. Si trattava di un ricognitore con un motore da 560 hp, e 314 kmh
di velocità massima ed era armato con 2 mitragliatrici da 7,7 e 180 kg. bombe. Foto: www.finn.it
«Ro 37» della 39a sq. 5° gr. a Scutari. Foto: www.finn.it.
151 Giulio Lazzati – Stormi d’Italia, (5°stormo) - Mursia Milano 1975
152 Ali Tricolori, supplemento di Aerei nella storia, 23/2002
244
«PZL P 24» Greco con un motore da 970 hp, circa 400 kmh di velocità massima ed era armato con 2
mitragliatrici da 7,7 e 50 kg. di bombe. Foto: www.odkrywca.pl.
apparteneva Luigi Gorrini, uno dei massimi assi italiani del secondo conflitto. Il
suo reparto da Araxos doveva scortare i convogli tra l’Italia e l’Africa. Tra il 28
ottobre 1940 e il 22 aprile 1941 la Regia Aeronautica ha dichiarato 213 vittorie
certe e 55 probabili. Ad esse si aggiungerebbe un certo numero di altri aerei avversari distrutti al suolo. I reparti italiani effettuarono 2.306 sortite per un totale
di 40.081 ore di volo. Le perdite: 65 aerei distrutti in combattimento o a causa
della contraerea, 14 distrutti al suolo, 371 danneggiati durante i combattimenti e
61 danneggiati al suolo. Gli uomini deceduti o dispersi furono 229. 65 i feriti.
In alto: «S79» 253a sq. 104° gr. a Scutari nel Natale 1940. Foto: www.finn.it. Al centro a sinistra: «Hawker
Hurricane» con un motore da 1043 hp e 519 kmh di velocità massima. Era armato con 8 mitragliatrici da
7,7. Foto: www.Raf.mod.uk. A destra: «Gloster gladiator Mk I» con un motore da 830 hp e 407 kmh di velocità massima. Sopra: idrovolante trimotore «CRDA Cantz» o «Cz 506B». Foto: www.finn.it.
In alto a sinistra un «Gloster Gladiator». A destra: «Cr 42» della 73a sq. 9° gr. Foto: www.finn.it.. Fiat
cr 42 della 73a sq. 9° gr. che fu sul fronte greco ma con i Mc200, Biplano con un motore da 740 hp, 438
kmh di velocità massima ed era armato con 2 mitragliatrici da 12,7. Foto: www.finn.it.
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Sulle orme del padre
Giandomenico Pagnacco e la moglie Carla in pellegrinaggio sul fronte
greco-albanese, in Montenegro e in Serbia sulle orme del padre Bruno ufficiale del 7° Reggimento Alpini, Battaglione Belluno.
Bruno Pagnacco, fresco di laurea in Economia e Commercio, appena arrivato
al Btg. Belluno dopo il corso AUC svolto a Bassano del Grappa. Archivio Pagnacco.
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Quando mio padre ci lasciò nell'ormai lontano '79, i miei fratelli mi diedero
da custodire una vecchia valigetta di cartone pressato in cui erano contenute,
in assoluto disordine, circa 250 fotografie che non riportavano alcuna indicazione di luoghi o date, ma solo, e non per tutte, una numerazione progressiva
nell'ambito di ogni rullino sviluppato. Erano i suoi ricordi del servizio militare prestato dal 1938 all'8 settembre 1943 come ufficiale degli alpini.
Con il ricordo dei suoi racconti ed una pazienza certosina, sono riuscito
qualche anno fa a mettere un po' di ordine, cercando di dare alle foto una sequenza che avesse qualcosa di logico e razionale, aiutandomi con quel poco
che c'era scritto sul retro, con la sequenza di qualche negativo e con le caratteristiche con le quali erano state stampate. Man mano che procedevo nell'opera, mi rendevo però conto della incompletezza del lavoro che stavo facendo,
in quanto non ero in grado di attribuire a quelle immagini né una collocazione
temporale né una collocazione geografica.
Mi venivano spontanee due domande: quelle foto quando erano state scattate e quali luoghi documentavano? Sentivo il bisogno di dare una risposta a
questi interrogativi.
Ho interpellato allora un grande amico di mio padre e della nostra famiglia, il dr. Oscar Bonotto. Gli ho portato le foto e ho passato con lui un intero
pomeriggio, ma con scarso successo. Mi spiegò che pur essendo entrambi del
btg. Belluno, mentre in Francia erano stati assieme, appena arrivati in Albania
le loro sorti si erano divise, lui in prima linea con il Belluno sul fronte della
val Zagorias, del Bregianit e Mali Trebeshines e mio padre con la compagnia
reggimentale verso Cerevoda e Tomori. Si erano ricongiunti solo dopo qualche mese, all'inizio di marzo, quando il btg. Belluno fu ritirato dal fronte di
Tepeleni per essere riunito al suo reggimento nella valle dell'Osum; non era
quindi in grado di riconoscere quelle foto se non genericamente.
Se volevo perseguire l'obiettivo che mi ero prefisso dovevo dunque effettuare una seria ricerca e documentarmi approfonditamente sui luoghi e sugli
avvenimenti accaduti al suo Reggimento, il 7° alpini e ai relativi battaglioni,
il Feltre, il Belluno e il Cadore.
Inizialmente mi è stato di grande aiuto un libro edito nell'immediato dopoguerra, «Storia del 7° Reggimento Alpini» di Manlio Barilli. Documentava la
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storia del reggimento fin dalla sua costituzione e il testo conteneva, in modo
succinto ma significativo, con la tipica retorica militare, gli avvenimenti della
seconda guerra mondiale, il fronte francese, il fronte greco-albanese, l'occupazione del Montenegro e della Serbia e infine il ritorno in terra francese in
cui il reggimento si trovò l'8 settembre del 1943 quando si sciolse. Mio padre
lo conservava con cura e lo trovava molto attendibile, anche perché gli avvenimenti erano descritti con il contributo diretto dei protagonisti.
Oltre a questo testo, ho arricchito le mie conoscenze con altri libri e documenti, e un aiuto del tutto insperato sono riuscito a riceverlo dalla testimonianza diretta di uno dei pochi sopravvissuti di quel periodo, il dr. Emilio
Pisani di Padova allora tenente del Feltre. Temevo che anche al Pisani, come
a tanti altri, i ricordi di quel periodo si fossero comprensibilmente sbiaditi e
confusi, ma con mia grande sorpresa la sua mente lucida e i suoi precisi ricordi hanno fatto riemergere dalla mia memoria molti degli avvenimenti ed
episodi che mio padre narrava a me, giovanissimo, e ai miei fratelli, ancor più
giovani, nei pochi momenti di relax che si concedeva.
Ho cercato, nelle carte geografiche in commercio, di individuare gli itinerari percorsi ed i luoghi dove si erano svolte le diverse operazioni belliche sul
fronte greco-albanese e sul successivo periodo di occupazione del Montenegro e della parte sud-occidentale della Serbia.
Le comuni carte geografiche in commercio non riuscivano però a dare
risposta alla documentazione in mio possesso, perché molti dei luoghi citati nella documentazione corrispondono ancor oggi a villaggi di poche case,
alcuni non serviti da strade ma solo da mulattiere, monti o passi montani di
nessuna rilevanza a livello geografico stradale.
Mi sono allora recato all'Istituto Geografico Militare di Firenze. Con mia
grande soddisfazione ho potuto avere copia delle carte geografiche militari
dell'epoca, attraverso le quali ho potuto finalmente individuare i luoghi citati
da mio padre, dai suoi amici alpini, dal ten. Pisani e dalla documentazione
raccolta.
Ero quindi riuscito a ricostruire con una sufficiente approssimazione i percorsi fatti dal reggimento dal suo sbarco a Valona nel novembre del 1940
(la guerra era cominciata il 28 ottobre e dopo due sole settimane i Greci in
contrattacco avevano respinto i nostri ben entro i confini dell'Albania) e con
la documentazione raccolta, arricchita da copia delle fotografie più significative, confortato da informazioni abbastanza tranquillizzanti sulla situazione
sociale di quella nazione, potevo accingermi a ripercorrere i luoghi descritti
ed individuati.
Valona, dove i tre battaglioni del reggimento provenienti da Brindisi erano
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Piastrina personale di riconoscimento. «1914 - 38329(51)0 - Pagnacco Bruno di
Domenico e Loredan Emma - PADOVA» - Altra parola non leggibile. Archivio Pagnacco.
Bargullas: 1941, Santa Messa. Archivio Emilio Bosi.
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sbarcati dalla nave il 23-24-25 novembre 1940, Tepeleni sul fiume Vojussa
dove erano arrivati di notte trasportati da autocarri della divisione Centauro,
la val Zagorias, il monte Golico con il costone occidentale di Pesclani, il mali
Breschanit e il mali Trebescines (Mali = Monte) luoghi dove i combattimenti
si erano protratti per ben quattro mesi in condizioni estremamente aspre con
centinaia di morti, migliaia di feriti, congelati, dispersi, la città di Kelcyre
(Klisura) importante nodo viario caduta in mano greca dopo aspri combattimenti. Da qui il reggimento era stato posto sotto il comando del VIII Corpo
d'Armata e si era smembrato: il comando di reggimento con i battaglioni Feltre e Cadore era stato fatto proseguire a piedi lasciando il fiume Vojussa per
raggiungere il fiume Osum oltrepassando il mali Taronine e il mali Topoianit,
mentre per dar manforte alla Julia e alla divisione Bari, e alle altre divisioni
del XXV Corpo d'Armata, il battaglione Belluno era stato fatto proseguire
fino a Permeti e da li mandato in prima linea per sbarrare l'avanzata dei Greci
nell'alta val Zagorias, inquadrato nel Gruppo alpino «Valli.»
Mio padre era in organico alla compagnia comando di reggimento e quindi, lasciato il btg. Belluno, aveva proseguito con i btg. Feltre e Cadore. Arrivati all'Osum, il Feltre e il Cadore venivano immediatamente fatti proseguire
per il settore di Ceredova per cercare di contenere l'avanzata dei Greci. Mio
padre partecipava ai combattimenti con la compagnia comando schierata alla
sinistra della linea. Durante quei combattimenti, precisamente l'8 dicembre
1940, moriva sul Ciafa Gallina il comandante di reggimento col. Psaro colpito da una pallottola mentre ispezionava la prima linea. Per quanto decisi e
determinati i nostri alpini non riuscivano a contenere gli assalti dei Greci e
progressivamente erano costretti a ripiegare fino alle pendici del Tomori dove
viene allestita la linea difensiva che non sarà più arretrata.
Furono sei mesi di combattimenti frenetici, l'estensione della prima linea
era amplissima e non consentiva una valida concentrazione delle truppe, i
reparti insufficienti di numero e mal equipaggiati, la scarsità di rifornimenti
era drammatica, le condizioni climatiche costantemente pessime, i giorni di
riposo per recuperare le energie e reintegrare le perdite subite dopo i combattimenti erano ridottissimi o inesistenti, le nostre unità dovevano continuamente spostarsi nelle varie zone del fronte dove maggiore era la pressione del
nemico, i combattimenti erano furiosi, i Greci erano determinati, volevano
arrivare velocemente a Valona per rispedirci da dove eravamo arrivati.
Sotto la sella di Bargullas: ci si difende dal freddo anche così. Archivio Pagnacco.
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Il viaggio inizia
Accompagnato da mia moglie, che si era appassionata alle mie ricerche,
a bordo di una quanto mai indicata Panda 4X4 messa a disposizione da mio
figlio, ufficiale alpino in congedo, mi sono messo in viaggio.
Nel mio programma di viaggio, avevo deciso di visitare per prima la zona
del monte Tomori e mi sono quindi recato a Berat dove ho costituito la mia
base: albergo dignitoso, ristorante accettabile.
Le mie mete erano la sella del villaggio di Bargullas, dove mio padre, una
volta ritiratosi il reggimento sulla linea sul Tomori, era stato incaricato dal comando di organizzare la base dei rifornimenti, il villaggio di Novanj sede del
comando, la prima linea che scendeva dalla vetta orientale del Tomori (mt.
2397) fino alla confluenza del torrente Perroj i Bronecit con l'Osum, il passo
Sirakut, il passo Kulmakes e Tege, difeso quest'ultimo dal battaglione val
Pescara, tutti luoghi dove si sono svolti durissimi scontri con grandi perdite
umane da ambo le parti.
Lasciata la carrozzabile asfaltata Berat-Ceredova, mi accingo a percorre con
una certa emozione una tortuosa strada bianca costruita di recente, una pista più
che una strada, che si inerpica per le pendice del Tomori. La difficoltà non è tanto quella di evitare con attenzione buche, percorrere curve a gomito, salire per
tornanti e pendenze incredibili il tutto ovviamente senza la minima protezione
a valle, ma riuscire a scambiarsi in quelle condizioni con le rare autovetture
polverose e soprattutto con i meno rari autocarri che scendevano ondeggiando
paurosamente stracarichi fino all'inverosimile di piatte lastre di sasso.
Dopo aver percorso 6/7 chilometri, lungo la strada incontro un edificio
basso che potrebbe essere una scuola. Mi fermo e intravedo nel pendio declinante alla mia sinistra e alcune case basse, seminascoste dalla vegetazione:
nessun cartello stradale, ma devo essere arrivato a Bargullas. Volgendo lo
sguardo intorno appare un costone del Tomori che scendendo ripido dalla
cima forma una sella sul fianco del villaggio e risale unendosi al colle sul lato
opposto. Lascio il percorso principale e mi dirigo senza indugio in quella direzione, per una strada che dopo poco si trasforma in mulattiera interamente
lastricata di sassi: vado avanti con difficoltà ma ad un certo punto non posso
più proseguire per non mettere a rischio sospensioni e pneumatici.
Mi accingo a far retromarcia quando mi viene incontro un giovane sui
trent'anni con atteggiamento sospettoso e nello stesso tempo incuriosito: se
ne vedono pochi di stranieri da quelle parti. E' vestito in modo dignitoso,
calza leggerissime ciabatte infradito di plastica e cammina con passo sicuro
sul viottolo sassoso. Chiedo se sono a Bargullas, mi risponde affermativamente. Mostro alcune delle foto del luogo scattate da mio padre settant'anni
fa. Guarda le foto diffidente ma sempre più sorpreso e mi fa cenno di parcheggiare l'auto nel cortile di una casa, li vicino. Lascio la mulattiera e percorro il
viottolo, con una certa perplessità. Certamente maggiore è la perplessità che
devo aver suscitato negli abitanti della casa alla vista di un'auto sconosciuta,
per giunta straniera, che entrava nel loro cortile con due estranei a bordo.
Inizialmente la casa pare deserta, solo due galline razzolano nel cortile. Dopo
un po' esce un uomo con fare sospetto e si avvicina chiedendo spiegazione.
Nel frattempo, per fortuna, sopraggiunge il giovane che spiega essere stato
lui ad invitarci ad entrare. Ne approfitto per uscire dall'auto. Mostro le foto
scattate da mio padre e cerco di spiegare che sono Italiano e sono alla ricerca
di quei luoghi; osservano le foto con diffidenza, ma comincia a subentrare
anche in loro una certa curiosità. Vedendo i loro luoghi, i militari italiani, le
foto degli alpini, l'uomo, sulla sessantina, comincia a rivangare i suoi ricordi
e i racconti che aveva sentito nella sua gioventù. Chiama qualcuno dentro la
casa e pian piano escono la moglie, un altro figlio sui vent'anni, una ragazza,
una bambina ed altri due adulti. Apro i fogli delle fotografie, tutti le vogliono
vedere. Sono tutti sorpresi e meravigliati dell'avvenimento improvviso, ma
anche compiaciuti.
Ad ogni foto c'è una esclamazione di sorpresa, riconoscono i luoghi. Mi
spiegano e riesco a capire che gli alpini sono stati buoni con loro, contrariamente alle brigate nere fasciste e ai tedeschi che avevano occupato quelle
zone dopo gli italiani. Mi vogliono offrire un «cofa» ma rifiuto deciso pensando ai possibili effetti di un'acqua non garantita. Cerco di spiegare a cenni
quelle che sono le mie intenzioni, voglio andare a vedere i luoghi rappresentati dalle foto e mi fanno cenno che mi accompagneranno loro. Nel frattempo
la moglie si avvicina a noi con un vassoio con una tovaglietta pulita, due
bicchieri riempiti di bevanda che pareva latte e con una ciotola di caramelle.
Dalla padella alla brace, ma come rifiutare questa volta? Guardo mia moglie
che è senza parole e perplessa sul da farsi. Le dico: questa volta non possiamo
rifiutare, potrebbero offendersi, accettiamo e sarà quel che sarà (in un attimo
ho pensato: mal che vada domani resteremo tutto il giorno in albergo). Così
facciamo, dimostrandoci compiaciuti per il gesto di cortesia e, ringraziando,
sorseggiamo quel liquido; non era latte ma jogurt molto liquido, non tanto
acidulo, gradevole.
Decidiamo di lasciare l'automobile e di recarci alla sella. L'auto, ci fanno capire, la possiamo lasciare aperta, è in un posto sicuro, è sotto la loro
sorveglianza. Ci mettiamo le pedule da montagna, guardo le loro calzature,
tutti con sandali di plastica o scalzi. Chiudo l'auto, non si sa mai, dobbiamo
fare ancora tanta strada per tornare a Padova, salutiamo, percorriamo ulteriori
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trecento-quattrocento metri della mulattiera che avevamo percorso in precedenza e arriviamo alla sella. Mi volgo intorno e vedo che praticamente in
settant'anni si è sviluppata pochissima vegetazione, ci sono solo rari arbusti,
il paesaggio intorno e il profilo dei monti è quello delle fotografie che mi sono
portato. Il profilo dei monti non può cambiare e rimane sempre come riferimento ai posteri, ma posso ritenermi fortunato, molto fortunato, perché tutto
l'ambiente intorno era rimasto sostanzialmente immutato.
Mi guardo intorno, riconosco con emozione che sono sul pianoro dove veniva celebrata la messa, ecco dove il sacerdote (forse don Boccuccia?) aveva
piazzato l'altare da campo, estraggo la foto scattata da mio padre, tutti guardano compiaciuti. Guardo giù dalla sella ed ecco un ampio anfiteatro scosceso si
apre, nascosto alla vista dei Greci.
Ancor oggi arrivano alla sella due o tre mulattiere e sono praticate. Mi
dicono che quelle mulattiere, come la precedente che avevamo percorso, è
stata fatta a suo tempo dagli italiani; è esattamente quello che mi aveva detto
anche Pisani.
Il «villaggio Pagnacco»
Scendo per una mulattiera, percorro non più di centocinquanta metri, ed
ecco mi appare il luogo tante volte nominato da mio padre, profondamente
permeato dai suoi ricordi, dove aveva vissuto quasi quattro mesi, in un certo
senso da privilegiato rispetto a tanti suoi commilitoni, perché lontano dal fuoco nemico; aveva 27 anni e non conosceva ancora mia madre.
Mi appaiono i sassi a gradoni assolutamente particolari presenti nelle fotografie, le piazzole dove aveva allestito le tende, costruito le baracche con le
tavolette ricavate dalle casse di munizioni, dove giorno e notte venivano scaricati i muli provenienti da Vertop e da Cepanj e ricaricati quelli che dovevano
andare in linea a portare munizioni, viveri e teli da tenda per ripararsi, il luogo
dove ai conducenti esausti veniva data una gavetta di bevanda calda.
Le rocce a losanga ritratte nelle foto di 70 anni orsono sono ancora li in
bella mostra anche grazie al terreno arido che non permette alla vegetazione
di attecchire. Il posto è veramente ben riparato dai mortai e dai cannoncini
greci.
C'è ancora la sorgente d'acqua, quel masso con la forma strana ripreso fra
due soldati, la piazzola in cui mio padre si era fatto fotografare con il suo
gruppo di alpini e dove era stato esposto il presuntuoso cartello con disegnato
il suo profilo barbuto di alpino e la scritta «Villaggio Pagnacco.»
Bargullas: Costruzione di una mulattiera. Archivio Emilio Bosi.
Bargullas: 17 gennaio 1941. Archivio Emilio Bosi.
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Albania, distretto di Berati. Al riparo dal tiro nemico sotto la sella di Bargullas – Il «Villaggio Pagnacco», posto di concentrazione dei rifornimenti ai reparti del 7° Reggimento Alpini.
Sotto la sella di Bargullas; si inizia l’approntamento con le prime tende.
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Sotto la sella di Bargullas; l’approntamento si estende con alcune baracche fatte con le casse delle
munizioni. A sinistra dell'immagine sottostante Giandomenico Pagnacco.
Sotto la sella di Bargullas; un po’ di riposo. E’ da notare il sasso su cui è seduto il ragazzo e quello
un po’ oltre l’alpino di sinistra: è il medesimo. Archivio Pagnacco
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Sotto la sella di Bargullas; un po’ di riposo. E’ da notare il sasso su cui è seduto il ragazzo e quello
un po’ oltre l’alpino di sinistra: è il medesimo. Archivio Pagnacco
Sotto la sella di Bargullas: panorama d’inverno e d’estate. Archivio Pagnacco
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Sopra: la sella di Bargullas nel gennaio 1941 con la neve. L’allestimento del sito cresce ed è molto frequentato. Sotto: gennaio 1941. La neve se ne è momentaneamente andata, la baracca in alto a sinistra
è stata completata. Archivio Pagnacco.
Sopra: sella di Bargullas: la fonte d’acqua, attiva solo d’inverno. Sotto: sella di Bargullas: foto di
gruppo con botti di cognac. Archivio Pagnacco.
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Sopra: al lavoro sotto la sella di Bargullas. Sotto: Sella di Bargullas: la buca delle lettere. Si legge:
«Regie Poste - levata 15 minuti prima della partenza del treno» (sic!). Archivio Pagnacco
Sotto la sella di Bargullas: si prepara la verdura e si divide il formaggio.
Archivio Pagnacco
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Sotto la sella di Bargullas: si taglia la carne (sopra) e si distribuisce la farina (sotto).
Archivio Pagnacco
Alla sella di Bargullas: accampamento conducenti e stallo dei muli. Sullo sfondo le pendici
del Tomori (sopra). Santa Messa alla sella di Bargullas (sotto). Archivio Pagnacco.
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Bargullas: il cimitero di guerra alle pendici del Tomori. In primo piano con la croce scura
la sepoltura di Vittorino Zanibon (foto scattata dopo l’armistizio). Archivio Pagnacco.
Bargullas: cimitero di guerra alle pendici del Tomori.
La sepoltura del tenente Vittorino Zanibon. Archivio Pagnacco.
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Sella di Bargullas: il maggiore Scaramuzza, comandante il Btg. «Feltre» fra un ufficiale del comando e
il s.ten. Pagnacco. Sotto a sinistra: tenente del comando di reggimento con il s.ten. Pagnacco. A destra
il tenente Emilio Pisani che fu l'ultimo a vedere in vita Vittorino Zanibon. All'alba, prima di partire per
la sua missione, Zanibon gli disse allacciandosi l'elmetto: ''Pisani, se non torno di che sono andato
volontario''. Archivio Pagnacco.
Sella di Bargullas: arresto di un intruso (notare il vestiario:
si tratta di spia, di fame, di sopravvivenza ?). Archivio Pagnacco.
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Sopra: dal versante sud-est del Tomori, il passo Sirakut visto dall’alto con il Mali Kulmake in lontananza. Sotto: l'ampia conca dopo il passo Sirakut. Archivio Pagnacco.
Sopra: il vecchio convento di Tege e sotto la zona come appare oggi. Archivio Pagnacco
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Sopra: parte delle fondamenta del vecchio convento di Tege (ora la zona è luogo sacro islamico). Sotto:
la prima vetta del Tomori (a destra) con il tempietto a Bektashi Shrine sulla cima. Archivio Pagnacco.
Sopra: i roccioni di Selanj visti da Novanj, pendici del Tomori. A Novanj era insediato il comando del 7°
Rgt. Alpini. Sotto : i roccioni di Selanj visti dalla strada che porta a Cerevoda.
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Sopra: Kukes; con i sassi del fiume gli alpini hanno riprodotto l'emblema del 7° reggimento.
Sotto: la fanfara suona. Archivio Pagnacco.
Sopra: il fianco est del Tomori visto dai roccioni di Selanj. Su questo fianco del monte Tomori si sviluppava la linea italiana di difesa, che partiva dalla cima e arrivava fino alla confluenza del torrente Perroj
i Bronecit con il fiume Osum. (Archivio Pisani). Sotto: la zona com'è ora; si noti lo scempio provocato
dalle cave di sasso piatto utilizzato per lastricare (n.b.: Il Tomori è considerato parco nazionale).
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Sopra: i roccioni di Selanj ove avvennero le gesta del plotone arditi del Btg. «Feltre» comandato dal ten.
Vittorino Zanibon di Padova (foto Emilio Pisani, scattata dopo il ritiro dei Greci). Sotto: i roccioni di
Selanj come appaiono oggi in un'immagine ripresa da Giandomenico Pagnacco.
La zona dei roccioni di Selanj oggi. Archivio Pagnacco.
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Sopra: il Golico ieri e oggi. Archivio Lenzi.
Sopra: la val Zagorias e sotto il mali Bregianit. Archivio Pagnacco.
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Sopra: il Golico visto alla confluenza della val Zagorias nella Vojussa e il costone occidendale di Pesdani.
Sotto: il mali Shindeli e la val Mezgoranit che divide lo Shindeli dal mali Trebeshines.Archivio Pagnacco.
Sopra: «Dolomiti Albanesi» dopo Permet. sotto: da Permet verso il confine greco-albanese:
i famosi bunker. Archivio Pagnacco
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Il ponte di Perati sulla Vojussa con la targa commemorativa dell'ANA di Verona. Archivio Pagnacco.
A sinistra il ponte di Perati con il moncone sul lato greco della Vojussa. Nell'immagine a destra si nota
la bandiera ellenica. Archivio Pagnacco.
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Il lago Ocrida. Archivio Pagnacco.
Sono attratto dal luogo, mi ricorda i tanti episodi raccontati e in particolare
i giorni tragici di Natale del 40 ed il gennaio 41, quando sembrava che i Greci
stessero per far crollare i nostri. Arrivò quei giorni dal comando l'ordine di
portarsi tutti immediatamente in prima linea, compresi gli addetti al rancio e
i conducenti dei muli; bisognava contenere la rabbia del nemico a cui poche
settimane prima avevamo invaso il territorio patrio.
Sono anche un po' frastornato per l'emozione e mi guardo tutto intorno per
assimilare, imprimere nei miei occhi, nella mia memoria, far mio tutto ciò che
mi circonda, fin nei minimi particolari. Una strana sensazione mi pervade:
sembra quasi che uomini, tende e baracche siano andate via da poco o che
possano ricomparire improvvisamente, da un momento all'altro.
Estraggo la macchina fotografica e riprendo i luoghi in modo sistematico,
rifaccio le foto con le stesse prospettive, gli stessi profili delle montagne, gli
stessi particolari, gli stessi massi che compaiono nelle foto di mio padre. I ragazzi che mi accompagnano mi fanno capire che con il disgelo fra certi sassi
nasce una sorgente e fra le mie foto c'é proprio quella della sorgente.
Mia moglie osserva, si tiene in disparte, mi lascia girovagare, inebriato in
quel posto a casa nostra tante volte nominato e altrettante immaginato.
Mi è difficile staccarmi dal quel luogo, ma il tempo passa, ormai si avvicina l'imbrunire, bisogna ritornare: recito una preghiera a Dio per chi oggi non
c'è più, anche per conto di chi oggi non può essere presente in quel luogo.
Sarebbe meraviglioso se ci fosse il «Barba»! Chissà quante altre cose
avrebbe da raccontare, ma forse da qualche parte c'è a farci compagnia!
Ritorno al pianoro sulla sella dove il sacerdote celebrava la messa. I miei
accompagnatori mi indicano il posto dove era piazzata la nostra artiglieria,
ma non ho il tempo per farmi accompagnare.
Poco più su ecco il prato dove erano radunati i muli; deve essere stato un
impegno massacrante anche per quelle povere bestie e ancor più per i loro
sconosciuti conducenti, il cui silenzioso impegno e la costante abnegazione
non sono mai stati sufficientemente ricordati e riconosciuti.
A tal proposito mi fa piacere citare un protagonista di allora, il conducente Angelo Gollin di Sant’Eulalia di Borso del Grappa, che ho recentemente
incontrato e che, in ottima forma fisica, con mente lucida e fiero dei suoi
95 anni, mi ha raccontato le sue avventure e le sue fatiche di allora. Era un
conducente del Val Natisone e il fronte albanese l'aveva dovuto percorrere
in lungo e in largo, di giorno e di notte, facendo per un periodo la spola fra
Berati e Vertop con Bargullas e la prima linea, percorrendo con i rifornimenti
le mulattiere già menzionate.
Volgo lo sguardo verso il pendio scosceso che sale alla cima del Tomori.
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La Vojussa dal ponte di Perati. Archivio Pagnacco.
I ragazzi mi indicano una valletta con un pendio ghiaioso sulla sinistra, che
appare sullo sfondo di una foto in mio possesso: ecco dov'era il cimitero!
Ecco dove erano stati sepolti i nostri caduti, sopra il villaggio di Bargullas,
proprio sotto la cima est del Tomori, è lì che era stato sepolto anche Vittorino
Zanibon medaglia d'oro padovana. Il recupero del suo corpo e di tutti i caduti
sui roccioni di Selanj era stato possibile solo dopo che i Greci si erano ritirati
e mio padre aveva documentato il recupero con alcune foto molto macabre e
drammatiche. La cura riservata alla loro sepoltura dimostra quanto Zanibon
ed i suoi arditi fossero amati da tutti gli alpini.
La notizia della nostra presenza ha fatto il giro del villaggio e troviamo
lungo il sentiero una decina di ragazzi che vengono nella nostra direzione.
Troviamo anche due adulti di una certa età che fermano i nostri accompagnatori e ci fanno cenno che vogliono parlarci. Uno dei due ragazzi che ci
accompagna, che all'inizio conosceva solo poche parole di italiano imparato
dalla televisione, dopo solo due ore di vicinanza si fa già intendere con una
certa disinvoltura e ci fa da interprete. Ci raccontano che gli alpini avevano
dato da mangiare alla gente del posto, farina e formaggio, e che erano stati
bravi, che avevano fatto anche le strade. Ma anche loro erano stati bravi con
gli italiani, perché dopo l'8 settembre 1943 quando l'esercito si era sciolto e
i soldati italiani presenti non sapevano cosa fare, li avevano protetti, nutriti
e vestiti con i loro abiti. In particolare si ricordavano di due soldati, Mario
e Carmelo, che ricambiavano il favore ricevuto con i mestieri che facevano
al loro paese, uno il barbiere, tutti nel villaggio avevano i capelli ben rasati,
l'altro il muratore. Quando poi i tedeschi arrivarono da quelle parti, erano stati
aiutati a nascondersi, ma non sapevano se nella confusione erano riusciti a
salvarsi o se erano stati catturati.
Ritorniamo alla casa, si sta facendo buio e dobbiamo lasciare i luoghi.
Ci invitano a condividere con loro la cena, li ringrazio, insistono, il ragazzo
mi dice che sarebbe stato per loro un grande onore se avessimo accettato. A
malincuore faccio loro capire che mi fermerei volentieri, ma la strada che
dobbiamo percorrere è piuttosto impegnativa e non mi arrischio di percorrerla con il buio, li ringrazio infinitamente per la loro gentilezza e li salutiamo
calorosamente.
Tege
Il giorno dopo risalgo per la stessa strada, perché devo completare la visita
a quei luoghi. Supero Bargullas ed ecco un gruppetto di alcune case adagiate
in una piccola conca: è Novanj, la sede del comando del reggimento. Fotografo: di fronte a me il pendio scende fino all'Osum che intravedo lontano.
A sinistra: dopo l’armistizio con la Grecia, sosta a Kukes per un periodo di riposo
(maggio-giugno 1941). A destra la zona come appare oggi. Archivio Pagnacco.
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Kukes. Archivio Pagnacco.
Kukes: 100 metri più avanti. Archivio Pagnacco.
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Risalendo il pendio opposto, sulla sinistra, c'è un costone di rocce strane, illuminate dal sole. Guardo le carte, sono loro, i roccioni di Selanj, una mulattiera
si inerpica alla loro destra; interessante, mi sarà utile.
Prima di proseguire lascio passare l'ennesimo autocarro che scende. Mi
inerpico per la pista che percorre tutto il lato est del Tomori. Ecco di fronte
a me, sulla mia destra ancor più vicini i roccioni di Selanj, alla mia sinistra
il ripido ma non impervio pendio che porta alla famosa quota 1508 dove era
stato costituito dai nostri un importante caposaldo, per la conquista del quale
i Greci avevano speso molte energie senza però riuscire nell'intento.
Più avanti c'è il passo Sirakut, da dove si estende una vasta conca. La pista
ci fa scendere nella conca, per proseguire in leggera salita per un paio di chilometri proprio ai piedi del pendio che porta alla prima vetta del Tomori. Dobbiamo fare molta attenzione ai grossi massi gettati con assoluta noncuranza
dalla pala meccanica che sta sventrando il fianco della montagna per fare una
strada, massi che arrivano rotolando sulla pista dove stiamo transitando. Risaliamo ed ecco il passo Kulmakes e poco più sopra Tege, luoghi tutti di feroci
scontri. Che emozione rivedere il luogo fotografato 70 anni fa, dove il btg.
Val Pescara aveva strenuamente combattuto per impedire ai Greci di sfondare
la linea risalendo dalla val Tomorezza verso quota 2019.
Dell'edificio allora presente, un monastero ortodosso di cui mi aveva parlato lungamente il Pisani ma di cui parlano anche gli alpini Matteo Cesa ed
Ettore Folgheraiter nel recente libro di Claudio Botteon «Grecia: la Campagna del fango», si intravedono solo le tracce delle fondamenta. Al suo posto
sta sorgendo un centro religioso e cerimoniale islamico, un luogo per sacrifici
di animali e anche di sepoltura per personalità di rango (la presenza dell'Islam
in Albania è in notevole incremento e molte sono le moschee costruite recentemente).
Da Tege, volgendo lo sguardo all'insù verso la prima vetta del Tomori, si
intravede in cresta il mausoleo circolare dedicato a sepoltura o alla memoria
di un famoso mussulmano, vissuto da eremita in quei luoghi (Bektashi Shrine). Era il tempietto di cui mi parlava mio padre e mi sarebbe tanto piaciuto
salire percorrendo il sentiero che intravedevo, ma il tempo a disposizione non
mi consentiva di intraprendere gli 800 metri di dislivello con il relativo ritorno; pazienza, mi son detto, sarà per un'altra volta.
I roccioni di Selanj.
La meta del giorno dopo sono i roccioni di Selanj che si trovano a circa
730 metri di quota al di là del torrente Perroj i Bronecit e guardano il versante
est del monte Tomori. Da questo costone roccioso era possibile controllare e
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battere con i mortai tutta la linea di difesa italiana e con i cannoncini a tiro
teso i Greci riuscivano a raggiungere anche la sella di Bargullas. Era perciò
una posizione strategica tanto che i Greci avevano speso molte energie per
conquistarli ed i nostri altrettante per difenderle, purtroppo senza successo.
Toccava quindi agli arditi svolgere un ruolo assolutamente impegnativo per
cercare di riconquistarle e il successo sarebbe stato di estremo beneficio per
tutti i reparti schierati in linea.
I nostri arditi partivano dal torrente Perroj i Bronecit e dovevano risalire
fino alla base dei roccioni percorrendo un dislivello di circa 500 metri. Già
la risalita non si presentava agevole dato che i Greci avevano la possibilità di controllarli dall'alto. Tutta l'artiglieria italiana supportava l'azione degli
arditi, facendo in modo che i Greci indietreggiassero dalle loro posizioni.
Dal caposaldo 10, che si trovava alla confluenza del torrente con l'Osum, il
tenente Pisani con i suoi faceva del suo meglio battendo con la mitragliatrice
i roccioni.
Fermo l'auto prima del ponte che attraversa il torrente e guardo su. E' una
bella giornata di sole. Nel corso di 70 anni, contrariamente al Tomori, qui si è
formata una certa vegetazione ma le rocce sono ancora ben visibili anche dal
basso e sovrastano la valle sottostante. Innanzitutto perlustro la confluenza
del torrente con l'Osum, il luogo del caposaldo 10; il Pisani me l'aveva tanto
raccomandato, pregandomi anche di riportargli delle fotografie. Successivamente devo trovare l'imbocco della mulattiera che porta in alto, ai roccioni.
Chiedo ad un passante come poter arrivare al villaggio di Selanj, mi guarda,
guarda mia moglie, guarda l'auto, mi indica una direzione, fa una smorfia con
la bocca, scuote la testa perplesso.
Nella direzione indicata trovo un viottolo fra alcune case, lo imbocco, gira
in direzione opposta, un tornantino, si comincia a salire, procedo con cautela,
il viottolo si stringe, diventa mulattiera, la Panda passa appena, ci inerpichiamo, si fanno altri tornanti, due vipere attraversano la strada, incontriamo una
persona che conduce un mulo con il basto carico di chissà cosa, si sposta
sulla destra, riusciamo a superarlo. L'auto si comporta egregiamente, con disinvoltura. Percorriamo due, tre chilometri, non so come mai ma sembrano
lunghissimi, mia moglie è tranquilla, si fida della mia guida, altre mogli sarebbero senz'altro scese e ti avrebbero salutato. La mulattiera ci porta a fianco
dei roccioni. Sono quelli più bassi e non sono quelli impressi nella foto di
Pisani. Saliamo ulteriormente, eccoli, sono loro, si riconoscono benissimo, il
profilo coincide con quello della foto in tutti i particolari; ecco il posto dov'è
caduto Zanibon, quello più in la dov'è caduto il sergente Riccobon, il possibile percorso sul quale i nostri si arrampicavano per salire in cresta, forse anche
Kukes: i panni sporchi si lavano... al fiume. Archivio Pagnacco.
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il posto dove erano riusciti a nascondersi quella tragica notte. Di fronte a noi
l'ampio versante orientale del Tomori con i suoi canaloni, naturali trincee; più
a sinistra, prima di altre montagne, si snoda il greto dell'Osum. Il calore del
sole, il silenzio assoluto e una calma irreale avvolgono il luogo, colpisce il
paesaggio da cui siamo circondati e la maestosità del Tomori. Noi siamo in
quel posto per uno scopo preciso, rivedere il luogo in cui si sono sacrificate
tante giovani vite, dopo mio padre, Pisani ed altri generosi alpini erano stati
mandati per recuperare i loro corpi e sembra quasi ci venga chiesto di rispettare quel silenzio per onorarne la memoria.
Scatto molte fotografie, lasciamo l'auto e risaliamo ulteriormente a piedi
lungo la mulattiera, vediamo una casa proprio dove finiscono i roccioni, più
lontano ne vediamo un'altra, sembrano disabitate ma svolazzano intorno gli
animali da cortile. Più avanti ci viene incontro una donna con due bambini;
tiene al collo un falcetto in modo strano e pericoloso, ci parla con fare gentile,
chissà cosa ci vuol dire, ci saluta, la salutiamo, si allontana per il sentiero e
sparisce dietro una propaggine. Mi sarebbe piaciuto percorre tutto il crinale,
perché ho una documentazione fotografica importante che riguarda il recupero dei caduti su quelle creste. Infatti, appena i greci si erano ritirati da quei
luoghi, il comando del reggimento aveva ordinato il recupero dei loro corpi.
E' così che il Pisani poté documentare con assoluta precisione i posti dove
erano caduti quei valorosi e mio padre documentare a suo volta i macabri
ritrovamenti e il loro difficile recupero fra le rocce.
Sarebbe interessante ripercorrere quel crinale, ma l'imbrunire avanza e la
prudenza consiglia di intraprendere la strada del ritorno.
Il Golico e la Val Zagorias
La successiva zona da visitare è quella di Tepeleni, il Golico, Kelcyre (per
gli Italiani Klisura), Permet e il ponte di Perati.
Lascio quindi Berat e il fiume Osum di buon mattino e mi accingo a percorrere la vecchia strada non asfaltata che porta a Kelcyre attraverso il passo
Chiciocut.
Il passo Chiciocut, alle pendici del mali Trebeshines verso sud e il Bregu
Scialesit e lo Spadarit verso nord, aveva avuto una grande importanza ai tempi
del conflitto perchè, come per il Tomori, l'avanzata dei Greci in quella zona,
dopo la conquista di Kelcyre, era stata arrestata sul quel passo e la nostra
prima linea non era più arretrata. Grande era il numero di uomini impegnati
ed aspri e continui furono gli scontri, tanto che era impossibile recuperare dal
terreno i morti e dare soccorso ai feriti.
Molto incisiva è la testimonianza di quegli avvenimenti che ne fa Rinaldo
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Ieri - Kukes: si arava così da sempre. Archivio Pagnacco.
Oggi - Kukes: dove si arava. Archivio Pagnacco.
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Kukes: ci si diverte alla grande. Lo «schiaffo del soldat». Archivio Pagnacco.
Kukes: le pulci sono insetti antipatici: la vendetta.. Archivio Pagnacco.
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Panetta nel libro «Il Ponte di Klisura» ed. Mursia, libro che recentemente ho
avuto l'occasione di leggere. Nella sua veste di comandante di carro armato
ben descrive la situazione militare, lo schieramento dei vari battaglioni, e le
diverse azioni di attacco e difesa che si era svolte, compresa la sua partecipazione in un contesto non certamente adatto all'impiego di mezzi di quel tipo.
Non esistendo segnali stradali, all'uscita di Berat chiedo conferma della
corretta direzione a un passante che mi guarda perplesso, entra in una specie
di bar ed esce con altre persone tra cui un tassista che mi fa capire non è il
caso di percorre quella strada. Ringrazio del consiglio, ma avendo una versatile Panda problemi non ne dovrei avere. Proseguo quindi sicuro e mi inerpico
per la strada sempre più malconcia che sale lungo i fianchi della montagna.
Ma mano che proseguo, la massicciata emerge sempre più dal fondo stradale.
Incrocio un paio di auto sgangherate che, immerse nella polvere, con una certa spavalderia fanno il percorso contrario ad una velocità incredibile. Il fatto
mi rincuora e percorro ancora alcuni chilometri quasi a passo d'uomo. Ad un
certo punto però, preoccupato dal tempo di percorrenza, dal fondo stradale e
dalla distanza che ancora devo percorrere, desisto dal mio obiettivo e ritorno
lentamente a Berat.
Impolverati anche noi oltre ogni immaginazione prendo la strada precedentemente consigliatami dal tassista e, percorrendo un ampio semicerchio,
dopo una sessantina di chilometri arrivo al fiume Vojussa. Trovo e supero
il bivio per Valona (da dove erano venuti i nostri alpini una volta sbarcati),
arrivo a Tepeleni e mi si presenta, al di la dell'ampia pianura sassosa formata
dalla confluenza della Vojussa con la Drina, un monte svettante. L'avevo già
visto in diverse fotografie, per conferma guardo la carta geografica: è il Golico. L'avevo sentito tante volte nominare, in occasione dei raduni del battaglione «Belluno» e del 7° Alpini, e anche a casa quando ci venivano a trovare
gli amici alpini di mio padre. A ripensarci, quando ascoltavo i loro racconti
non erano trascorsi molti anni da quando gli avvenimenti erano accaduti; il
monte Golico era un nome che nella mia fantasia di ragazzo assimilavo a
quello di «Golgota» per i racconti di morte e di immani sofferenze che venivano narrate.
Ora me lo trovavo davanti con la sua maestosità, la cima un po' strana con
quella sella inclinata verso la valle della Vojussa che tante sofferenze aveva
causato ai nostri.
Lascio Tepeleni e la sua larga conca dove la Drina che viene da Argirocastro confluisce nella Vojussa, attraverso il ponte (Luzati), volto a sinistra,
lascio alla mia destra Kodra, la strada volta verso destra con un'amplissima
curva, percorro un altro ponte (Dragoti) che mi porta nella sponda destra del
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fiume e imbocco con sicurezza la valle che porta a Kelcyre. Mi fa un certo
effetto vedere i nomi ed i luoghi tante volte riportati nelle cronache e nei racconti di quel periodo.
Il Golico si erge alla mia destra e la Vojussa scorre con poca acqua a breve
distanza dalla strada.
Dopo pochi chilometri, dopo un'ampia curva e controcurva, mi trovo alla
confluenza di un'ampia valle che viene da oriente. Dai riferimenti suggeriti
dalle carte in mio possesso dovrei essere alla confluenza della val Zagorias,
avere alla mia destra il costone occidentale del Golico che scende verso il villaggio di Pesclani e alla mia sinistra il mali (monte) Trebescines, altro monte
tristemente famoso per i furiosi combattimenti che si erano succeduti quando
i Greci erano riusciti a sfondare il fronte, superare la Vojussa, occupare Klisura (Kelcyre) e risalire nell'altro versante.
Di cartelli stradali, come al solito, neanche l'ombra. Vedo lungo la strada
una casa circondata da un muro di sasso che lascia intravedere la testa di alcune persone che si godono il fresco sedute sotto le fronde di un albero.
Fermo rapidamente l'auto e scendo con le foto e le carte della zona. Mi avvicino al cortile della casa con l'intento di chiedere conferma della posizione
in cui mi trovo.
Mi affaccio all'ingresso del cortile e mi viene incontro una giovane donna
accompagnata dai due bambini. Saluto, naturalmente in italiano, e con sorpresa mi risponde in italiano e mi invita a entrare. Mostro le carte e chiedo
se quella di fronte a noi é la val Zagorias. E' sorpresa della mia domanda
(in effetti non sono tanti gli italiani interessati a quella valle) e mi risponde
affermativamente. Con fare gentile ma anche un po' curioso, mi fa cenno di
accomodarmi ai tavolinetti sotto l'albero. Guardo in quella direzione e osservo le altre persone sedute: due militari in divisa, uno con vistosi «baffi» dorati
sul petto (probabilmente un ufficiale), l'altro senza gradi e un ragazzo, quasi
sicuramente anche lui militare ma in borghese.
Alla vista delle carte militari italiane, l'ufficiale raddrizza la schiena con
un'espressione severa ma composta, rimanendo seduto. In cuor mio ho il presentimento che la faccenda si stia complicando, ma poi penso che non ho
nulla di cui rimproverarmi e poso letteralmente le carte sul tavolo. L'ufficiale
avvicina un po' la sedia e guarda le carte comunque da lontano, in apparenza
con fare distaccato. Spiego alla signora il motivo per cui sono da quelle parti
e, a riprova delle mie intenzioni, faccio vedere un gruppo di foto scattate da
mio padre. Con fare molto gentile e pacato traduce al militare le mie parole,
ma costui rimane sempre abbastanza distaccato.
Nel frattempo mi raggiunge mia moglie che era rimasta in auto pensando
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Kukes: schierati per il passaggio del Re Vittorio Emanuele III. Archivio Pagnacco.
Montenegro: strada Podgorica-Rijeka Crnojevica, bivio Sindon. Il fiume che passa per Rijeka Crnojevica
e sfocia nel lago di Scutari. Prosegue il viaggio di Giandomenico Pagnacco sulle orme del padre Bruno.
In alto i luoghi ripresi dal genitore nel 1941 e sotto l'identica località ripresa oggi da Giandomenico.
si trattasse di una breve sosta, invece le cose avevano preso una piega più
interessante.
Comincio a leggere ad alta voce i nomi delle località di mio interesse,
Golico, Trebescines, Pesclani, Zagorias, mali Breschanit, Maleshove, Sheck
i Mal, Hoshteva, mali Strakavec, mali Hormova, Hormova e la signora mi dà
precisa conferma della direzione, indicandole una ad una.
Hoshteva, Strakavec, Il mali Hormova e il villaggio di Hormova, mi dice,
non sono vicini e dalla val Zagorias bisogna camminare parecchio per arrivarci. Interviene il militare che comincia a sciogliersi e racconta, sempre tramite
la signora, che Hormova è il suo paese natale e che vi abita ancora suo padre.
Afferma che la val Zagorias ha ancor oggi una grande importanza strategica
e nel caso ci fosse una guerra (forse una reminiscenza del periodo comunista
e delle ossessioni di Hoxa, tra l'altro sono ancor'oggi migliaia i bunker sparsi
in ogni dove) quel luogo sarebbe ancora in grado di richiedere il sacrificio di
migliaia di soldati. Nel fargli presente che in Europa una ipotesi di guerra fra
nazioni appare ormai fortunatamente lontana, mi fa presente che non tanti
anni fa è stata attaccata la Serbia e che esiste ancora irrisolta dalla fine della
seconda guerra mondiale una controversia di confine fra Albania e Grecia
nella zona di Argirocastro.
Nel frattempo la signora, forse anche per sviare il discorso, ci chiede se
gradiamo un «cofa» oppure una bibita e propendiamo per la seconda.
Chiedo se c'è ancora qualcuno che si ricorda della guerra e dei nostri soldati ed entrambi mi riferiscono i racconti dei loro genitori che erano ragazzi
quando la guerra dilagò da quelle parti. Mi danno conferma delle feroci battaglie che si erano svolte in quei monti, su quelle cime, della presenza anche
di carri armati italiani lungo quelle strade (in merito «Il ponte di Klisura» di
Rinaldo Panetta ed. Mursia), del gran numero di caduti sia Italiani che Greci.
Che non solo gli Italiani, ma anche i Greci erano malconci e con scarsi rifornimenti e che per dar coraggio alle truppe negli assalti anche i Greci, come gli
Italiani, facevano ricorso a forti dosi di alcolici. Mi raccontano dei morti italiani che dopo una prima sepoltura sono stati tutti portati via, mentre i Greci
sono ancora sepolti negli stessi luoghi, nei vari cimiteri di guerra disseminati
lungo il territorio.
Le tracce delle aspre battaglie combattute, sono ancora oggi visibili, aggiunge il militare. Specie nella parte più alta delle montagne si trovano tuttora scarpe, proiettili inesplosi, cartucce e molte persone sono rimaste ferite
spostando i proiettili ritrovati. Mi raccontano anche che dopo la fine dei combattimenti i soldati italiani hanno aiutato molto la popolazione tornata nei
villaggi, condividendo con loro viveri, farina per il pane, costruendo strade e
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mulattiere. Ancor oggi le strade esistenti sono quelle fatte dagli italiani e tali
ancora vengono chiamate. Per renderci conto di persona della veridicità delle
sue affermazioni, l'ufficiale si dichiara disponibile, fra qualche giorno, allo
scadere del suo turno, di accompagnarci nella zona e, se vogliamo, anche sul
Golico, ma a malincuore non siamo in condizione di accettare la sua offerta.
L'ufficiale infine nota la foto della sepoltura del tenente Merlino, foto
dell'archivio Tiburzio di Venezia (il dr. Giuseppe Tiburzio era un altro grande
amico di mio padre) riportata sia nel volume del 7 Reggimento Alpini che
nel recente volume pubblicato dal Mattino di Padova. Con molta sicurezza e
mia grande meraviglia, mi indica il luogo della sepoltura, in linea d'aria circa
700-800 metri, a metà circa del costone che scende dal Golico e declivia da un
lato verso il villaggio di Pesclani e dall'altro scende ripido verso il fondovalle
della Vojussa.
Dopo avere osservato a lungo la foto mi fa un'altra considerazione che qui
testualmente riporto così come mi è stata tradotta dalla signora: «deve essere
stato tanto amato dai suoi soldati per avere una sepoltura così curata!.»
Mi sarei dilungato ancora per molto ma lunga era ancora la strada che dovevamo percorrere e molti i luoghi ancora da visitare.
Chiedo alla signora il conto della consumazione, si schernisce, insisto, mi
sembra doveroso insistere, mi fa cenno di no e mi dice con molto garbo che «è
un onore per Lei e la sua famiglia se ci siamo fermati alla sua casa.» Guardo
mia moglie, la mia insistenza è rimasta disarmata da quelle parole, mi sento
solo di ringraziare, saluto tutti uno per uno, stringo loro la mano, un altro episodio è stato profondamente inciso nei nostri ricordi.
La strada prosegue sempre seguendo il corso della Vojussa e la valle è in alcuni
punti molto stretta. Si susseguono curve e brevi rettilinei fino ad arrivare alla città
di Kelcyre, in un'ansa del fiume. La città non presenta particolari pregi.
artistici se non i resti del vecchio castello fortificato posto in posizione
sopraelevata. Evidentemente, dal punto di vista militare, la zona aveva anche
in passato una grande importanza strategica ed in effetti il corso della Vojussa
arriva quasi rettilineo dalla frontiera greca ed é quindi un accesso molto comodo in caso di invasione.
Lo avevano capito molto bene anche i nostri Italiani quando, dopo essersi attestati al confine, il 28 ottobre 1940 avevano invaso la Grecia. Ma lo
avevano compreso ancor meglio quando, dopo solo due settimane, una volta
arrestata l'avanzata avevano dovuto ritirarsi tallonati dai Greci.
La strada a Kelcyre si divide: a sinistra si va al passo Chiciocut (circa 20 chilomentri) e poi a Berat; é la strada che avevo tentato di percorrere al mattino.
A destra, seguendo il corso della Vojussa, si estende un'ampia pianura che
Montenegro: bivio Sindon: Cetinje km. 15, Meterizi km. 3, Crnojevica km. 3. Archivio Pagnacco.
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poi stringendosi arriva a Permet. Questa cittadina allora poco più di un villaggio, era stata l'ultima tappa del trasferimento del battaglione Belluno da
Valona. Lì infatti era stato fatto scendere velocemente dagli autocarri perché
già sotto il tiro dei cannoni greci e fatto proseguire a piedi risalendo i monti
che sovrastano la sponda sinistra della Vojussa.
Il nostro ricordo di Permet é quello di una cittadina tranquilla, piuttosto
ordinata e pulita, in un certo senso ridente. Si trova lungo il fiume che è attraversato da più ponti, ha del verde ben tenuto ed é piuttosto diversa dalle altre
cittadine albanesi.
La strada oltre Permet verso la frontiera con la Grecia attraversa un paesaggio molto bello, merito sia del fiume che delle montagne che vediamo alla
nostra destra. Man mano che proseguiamo, queste diventano sempre più elevate e con pareti sempre più ripide e scoscese, tanto che in alcuni ampi tratti
possono assomigliare alle pareti delle nostre Dolomiti.
Montenegro: bivio Sindon: Cetinje km. 15, Meterizi km. 3, Crnojevica km. 3. Archivio Pagnacco.
In alto l'immagine ripresa dal tenente Bruno Pagnacco negli anni '40, sotto quella scattata dal figlio.
Il ponte di Perati
La nostra prossima meta é il ponte di Perati, così caro alla memoria degli
alpini della Julia, che gli hanno consacrato una delle loro struggenti canzoni.
Si trova a mezzo chilometro a nord del nuovo posto di frontiera fra Albania
e Grecia. Percorriamo qualche centinaio di metri della vecchia strada non
asfaltata che porta verso il ponte e poi proseguiva per Leskovic, Erseke e
Korca, località tutte drammaticamente note ai nostri soldati. Ora questa strada
è stata da tempo abbandonata; il suo tracciato corre a non molta distanza dalla
frontiera greca ed evidentemente questo fatto non era a suo tempo gradito
alle autorità comuniste albanesi. La nostra iniziativa di intraprendere quella
via suscita l'interesse delle guardie di frontiera, che ci seguono con il binocolo; prevedo che fra non molto ci sarà qualche incontro di chiarimento ma
non dico niente a mia moglie. Lasciamo l'auto in un piccolo spiazzo erboso e
proseguiamo a piedi con una certa emozione. Ecco dopo pochi minuti il ponte
«Bandiera nera» o per meglio dire quello che resta del ponte, un moncone dal
lato albanese e un altro dal lato greco. Su quest'ultimo sventola con orgoglio
la bandiera greca, dal lato albanese nessuna bandiera ma una targa del gruppo
ANA di Verona, posta nel 2005, che ricorda il sacrificio di tanti dei nostri.
Quante emozioni sono transitate per quelle sponde! Era stato costruito dai
turchi, erano passati i nostri soldati speranzosi in una veloce conquista, era
stato fatto saltare proprio dagli alpini della Julia nella speranza di ritardare la
controffensiva dei Greci, ricostruito velocemente da questi ultimi per consentire i rifornimenti ai loro reggimenti, aveva rivisto i nostri soldati inseguire i
Greci in ritirata poco prima dell'armistizio avvenuto il 23 aprile 1941.
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Utile per tanti secoli, le sue antiche e bellissime arcate di sassi squadrati
non hanno resistito alla dabbenaggine umana.
E' un bel fine pomeriggio di sole, la Vojussa scorre sonnolenta con poca acqua, tutt'intorno c'è silenzio, nessuna voce, solo il canto di qualche uccellino;
una condizione ben diversa da quella di allora.
Faccio alcune foto da posizioni diverse; i resti di quel ponte così significativo per la memoria collettiva alpina, silenziosamente lo chiedono.
Ritorniamo dove abbiamo lasciato l'auto, senza incontrare nessuno, ma
osservo che siamo sempre seguiti con i binocoli dalle guardie albanesi; il fatto
mi pare anche legittimo, ma evidentemente non suscitiamo molto interesse e
forse è meglio così.
Leskovik, Erseke, Korca
La meta successiva del nostro pellegrinaggio é Leskovik. Non potendo
proseguire per la vecchia strada come speravamo, dobbiamo ripercorrere per
una decina di chilometri la strada da dove eravamo arrivati. La strada é ampia e ben asfaltata ed i prati che attraversa sono costellati dai famosi bunker
di cemento che in Albania si trovano in ogni luogo che abbia un minimo di
interesse militare.
La giornata volge al tramonto e al bivio del primo paese che incontriamo,
Carshove, prendiamo a destra per Leskovic. Si tratta di una strada costruita proprio per essere alternativa a quella abbandonata e corre lungo il pendio ripido
di una valle a tratti molto bella, a volte piuttosto stretta; il fiume, che scorre nel
fondovalle, gli conferisce caratteristiche particolari alla luce del tramonto.
Percorriamo una trentina di chilometri senza praticamente incontrare anima viva. Arriviamo a Leskovic all'imbrunire e ci portiamo nella piazza principale e con una certa meraviglia notiamo parecchio movimento di persone.
Nei pressi di quel paese, in base alla documentazione in mio possesso,
doveva esserci un altro ponte, sempre costruito all'epoca del dominio turco,
simile a quello di Perati, ma ancor più bello perchè molto più slanciato e ardito. Chiedo informazioni ad un passante, si forma un capannello di persone,
neppure a Leskovic sono abituati a vedere molti forestieri. Mostro la foto
del ponte, il mio interlocutore non lo riconosce, mostra la foto a chi gli sta
intorno, neanche loro sanno dirmi qualcosa, chiama allora una persona più
avanti negli anni, che si trova dalla parte opposta della strada. Questi la osserva, nessuno parla italiano, ma riusciamo a capire che il ponte non era molto
lontano ma non esiste più in quanto è stato distrutto molti anni fa; peccato,
pazienza, ringraziamo tutti ci salutano cordialmente, risaliamo in macchina e
proseguiamo per Erseke per passarvi la notte.
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In alto: Rijeka Crnojevica: monumento ai caduti Montenegrini
sul quale sono presenti oltre 450
nomi. A sinistra: Montenegro:
lapide commemorativa al bivio
Sindon. Sotto: Rijeka Crnojevica:
il ponte al centro del paese. Archivio Pagnacco.
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Arriviamo ad Erseke verso le 10 di sera e cerchiamo un albergo. Troviamo
un ristorante dove si svolge una festa di matrimonio, proseguiamo verso il
centro della città ma non riusciamo a trovarne alcuno. Percorriamo tutta la
città finché troviamo un assembramento di poliziotti ai quali ci rivolgiamo e
che gentilmente ci fanno cenno di seguirli in macchina. Nonostante tale collaborazione la ricerca non ha esito felice e alla fine convengo con loro che non
ci sono altre alternative che proseguire per Korca. Sono molto rammaricato
di questa necessità, perchè Erseke era stata la sede del comando di una delle
due armate italiane durante la prima avanzata verso la Grecia e successivamente aveva svolto un ruolo molto importante nella ritirata poi terminata al
Tomori; con la luce del giorno mi sarebbe piaciuto rendermi conto dei motivi
di questa importanza, vederne i dintorni, rendermi conto delle valli percorse
dai nostri.
Montenegro: il fiume Moraca prima di sfociare nel lago di Scutari. Sopra l'immagine scattata negli anni
Quaranta da Bruno Pagnacco, sotto quella ripresa ai giorni nostri dal figlio Giandomenico.
Korca: un incontro fortunato
Proseguiamo quindi per Korca con la nostra fidata Panda, in una notte buia
senza luna, percorrendo una strada tortuosa senza trovare anima viva.
Verso mezzanotte arriviamo piuttosto stanchi e attraversando la città incontriamo un albergo recente, dignitoso. Ci fermiamo senza indugio, ci sono
camere libere, la signorina della reception ci guarda un po' sorpresa, ma gentile. Il ristorante è aperto, ottima opportunità per calmare i succhi gastrici
alquanto irritati.
Il menu è scritto in albanese, ma il problema viene risolto in modo molto
efficiente dal cameriere, che chiama il cuoco. Costui arriva solerte e, parlando un ottimo italiano, ci racconta che ha lavorato in Italia, a Bologna. Siamo
salvi e anche i succhi gastrici sono felici nel ritenere che di lì a poco sarebbe
stata data loro soddisfazione. Il cuoco ha voglia di parlarci e ci racconta che è
stato otto anni in Italia, che è tornato in Albania con l'intenzione di aprire un
ristorante, ma che dopo diversi mesi di tentativi, gli ostacoli frapposti alla sua
iniziativa dai connazionali e le continue richieste economiche grandi e piccole, lo hanno convinto della impossibilità di realizzare il suo sogno. In attesa
di ritornare in Italia, fa il cuoco in quel ristorante, guadagna trecento euro al
mese, naturalmente in nero senza che nessuno paghi tasse e contributi.
L'ora è tarda ma si offre di prepararci una bella grigliata di carne con patate,
proposta che accettiamo più che volentieri. Sarà stata la bravura, la conoscenza
dei gusti italiani, l'appetito che avevamo, effettivamente il consiglio del cuoco
ebbe da parte nostra un grande apprezzamento. Pensavamo di rivederlo per
ringraziarlo, ma ci è rimasto solo il ricordo piacevole del suo consiglio e quello
meno piacevole di una persona profondamente delusa nelle sue speranze.
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Kukes: il riposo dopo l'armistizio.
La meta del giorno dopo era innanzitutto quella di recarci a Kukes, che
allora, nel 1941, era un villaggio di poche case. Tutto il reggimento, probabilmente tutta la divisione Pusteria, si era attendata e aveva sostato in quel luogo
quasi due mesi.
Percorriamo la bella strada che corre lungo la sponda del lago di Ocrida.
Un bel paesaggio, il lago è grandissimo, non si vede la sponda opposta, si
perde verso l'infinito, la superficie è un po' ondosa a causa del vento, non forte
ma costante. Mi vengono in mente le frittate di uova di tartaruga di cui mio
padre mi raccontava e che per loro erano una leccornia.
Attraversiamo la città di Pogradec, di puro stampo socialista con un traffico abbastanza caotico.
Kukes è lontana solo pochi chilometri ed in effetti dopo poco ci siamo. In
questa località tutto il reggimento era rimasto quasi due mesi a riposo dopo
l'armistizio per ritemprarsi dalle fatiche e dagli incubi della guerra, per riorganizzare i reparti, per ritornare ad un aspetto che avesse un minimo di dignità,
lavarsi, togliersi i pidocchi, lavare e disinfettare i vestiti, dedicandosi anche a
qualche cameratesco passatempo. E infatti ecco le foto che documentano gli
alpini che lavano i loro indumenti al fiume, gli alpini nudi che li disinfettano
nelle caldaie «Gianoli» in attività, il gioco della «sciafeta», la fanfara, l'emblema e il motto del reggimento fatto con i sassi lungo il declivio del colle, il
Re Vittorio Emanuele che sfila in auto con il reggimento schierato; di tutto ho
un'ampia documentazione fotografica.
Oltre il paese percorriamo un paio di volte avanti e indietro la strada che
corre poco più alta del fiume, per prendere dimestichezza con la zona; estraggo le foto, il pendio che porta al monte oltre il fiume assomiglia proprio a
quello delle foto. Ci fermiamo nel posto che mi sembra più indicato per osservare il paesaggio, proprio dove una pattuglia di polizia controlla il traffico. Ci
mettiamo ad osservare le affinità con la montagna che ci sta di fronte; un poliziotto si avvicina incuriosito, mostro le foto e spiego che si tratta di foto della
seconda guerra mondiale. Guarda con interesse, ci indica che la cima della
montagna davanti a noi è proprio quella delle foto. Vede le foto degli alpini
che lavano i loro indumenti sul fiume e riusciamo a capire il suo commento:
con tutte le donne che c'erano in paese potevano farsi lavare la biancheria
da una di loro! Era un'idea che era venuta anche a qualche alpino, ed infatti
in una delle foto vediamo proprio una ragazza che si accinge a lavare degli
indumenti! Scendiamo al fiume, sono cresciuti molti alberi lungo le sponde,
ma il luogo è proprio quello. Faccio delle foto cercando di riprendere le prospettive che più si avvicinano a quelle di allora e con soddisfazione mi par di
Montenegro: Virpazar, il porto fluviale. Dove negli anni Quaranta c'era l'acqua (foto sopra) ora è presente
una distesa d'erba (foto sotto). Sull'argine sono state costruite nuove abitazioni. Archivio Pagnacco.
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raggiungere un buon risultato. Ci rechiamo anche in un prato poco lontano
e mi par proprio quello della foto in cui la piccola famiglia albanese lo stava
dissodando con l'aratro trainato da due mucche; la strada corre lì vicino e si
vede chiaramente anche nella foto di allora, e anche il profilo del monte sullo
sfondo è assolutamente identico.
La prospettiva per i nostri, dopo il periodo di riposo, era quella di rientrare
in Italia per cui guardavano con una certa tranquillità al loro futuro. Infatti
così non fu, tanto è vero che verso metà giugno furono trasferiti a Petrella,
10 chilometri da Tirana, e mandati successivamente a Scutari e poi in Montenegro a presidiare il territorio e a scontrarsi con i cosiddetti «ribelli», i partigiani.
Ed anche noi riprendiamo il nostro viaggio, ci rimettiamo in marcia con
la nostra fedele Panda, prendendo la direzione di Elbasan con meta Petrella.
Attraversiamo Elbasan e all'altezza del grande complesso industriale che si
trova alla sua periferia, prendiamo la strada che sale verso Tirana. Arriviamo
a Petrella sul far della sera e prendiamo alloggio in un albergo situato lungo
la strada principale.
Edificio recente, moderno, due piscine, club, ristorante, ampie camere con
pretese da suite e drappeggi alle finestre, ma piuttosto disorganizzato tanto
che al mattino abbiamo dovuto aspettare due ore prima che arrivasse qualcuno alla reception per pagare il conto.
Visitiamo Petrella e il suo castello ben conservato abbarbicato in cima alla
collina, ma non riusciamo ad identificare nessuna fotografia che ci possa ricordare quei luoghi. Forse il reggimento era rimasto pochi giorni prima della
partenza per il Montenegro.
Proseguiamo quindi il nostro viaggio con meta Scutari, attraversando la
caotica Tirana, città che mette a dura prova l'abilità nella guida per qualsiasi
automobilista; penso che Napoli non abbia nulla da insegnare a Tirana.
Percorriamo la strada in via di allargamento che da Tirana porta a Scutari,
passando per Lezhe con il suo imponente castello.
Montenegro: Virpazar, il porto fluviale. Le nuove costruzioni sull'argine (foto sopra) dove
durante la guerra passavano i soldati (foto sotto). Archivio Pagnacco.
In Montenegro
Tutta la divisione Pusteria era stata mandata a Scutari e da lì era iniziata
l'avventura in Montenegro, che aveva proclamato l'indipendenza nel luglio
del 1941 passando sotto il protettorato italiano. L'azione a cui le nostre truppe
erano state chiamate era quella di sedare le rivolte dei nazionalisti e dei partigiani di Tito, tramite un capillare presidio del territorio.
Da Scutari il 7° Reggimento era stato incaricato di occupare la piana dello
Zeta, cioè Podgoriza, che era praticamente in mano ai cosiddetti «ribelli» e
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svolgere azioni di rastrellamento intorno a Cetinje (la capitale) e tutto il territorio verso il mare, Budva, Antivari (ora Bar) e Virpazar. Successivamente
erano stati inviati fra il Montenegro e la Serbia meridionale, con il comando
della Pusteria insediato a PlevljIe, il comando del 7° Rgt. a Prijepolje con il
Btg. Cadore, il Btg. Feltre a Nova Varos e il Btg. Belluno inizialmente a Sjenica. Alcune compagnie erano state dislocate anche in altri luoghi come Bielo
Polie, Ponte Bistrica. Da notare la distanza fra queste località, che se da un
lato sulla carta dava la sensazione di una grande presenza delle nostre truppe
nel territorio, dall'altro le esponeva a grandi difficoltà in caso di attacco delle
formazioni partigiane, non potendo contare su celeri rinforzi. Dovevano perciò contare solo su se stessi, e avevano di fronte gruppi di partigiani numerosi
e molto agguerriti, con una conoscenza eccellente del territorio, appoggio
dalla maggioranza della popolazione, decisi, determinati, crudeli e spietati
nelle loro azioni. Mio padre mi raccontava di episodi di vera barbarie per i poveri soldati caduti prigionieri nelle loro mani. Particolarmente crudeli erano
nei confronti delle brigate nere e degli ufficiali, ma anche semplici alpini erano stati stuprati, evirati, in qualche caso erano stati strappati gli occhi prima
di essere uccisi. Era buona norma, mi raccontava, avere almeno una cartuccia
in tasca da usarsi nella eventualità si fosse caduti nelle loro mani. I partigiani
erano particolarmente feroci anche perché prima dell'arrivo degli alpini erano accaduti fatti gravi da parte dei contingenti che li avevano preceduti. Nei
villaggi c'erano solo anziani, donne e bambini, tutti terrorizzati e c'era voluto
diverso tempo per far capire che gli alpini non ce l'avevano con loro.
Lascio quindi Scutari e proseguo in direzione di Podgorica, percorrendo
una strada che, pur asfaltata, è così irregolare e massacrante da non averne
mai incontrato in vita mia una di così malconcia.
Tutta la zona attorno a Koplik era stata oggetto di aspri combattimenti contro le truppe jugoslave con pesanti perdite umane e ai combattimenti aveva
partecipato anche il battaglione di carri armati che aveva operato nel settore
di Tepeleni, come ci aveva detto l'ufficiale albanese che avevamo incontrato
alla confluenza della val Zagorias con la Vojussa.
La giornata é soleggiata ed é piacevole intravedere ogni tanto dalla strada
il grande lago. La parte nord, al confine con il Montenegro, si sta impaludando ed anzi una buona parte si è già interrata. Nel corso degli anni il livello
dell'acqua si è abbassato e si nota chiaramente, confermato anche dalla diversità attuale rispetto alle carte geografiche dell'epoca.
Prendo alloggio a Podgoriza, la moneta ufficiale del Montenegro è l'euro,
i prezzi allineati se non più alti di quelli italiani.
E' una città con palazzi moderni e bei viali; la zona centrale è molto fre316
Montenegro: Virpazar, il porto fluviale affollato di Alpini in uno scatto di Bruno Pagnacco (foto sopra).
Nella foto ripresa dal figlio Giandomenico (sotto) si notino la garitta e la gru sul molo tuttora presenti.
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quentato dai giovani nelle ore serali.
La meta del giorno dopo è Cetinje, l'antica capitale del Regno, quella che oggi
é la capitale di rappresentanza dello stato, dove sono presenti il Palazzo Presidenziale e tutte le ambasciate, mentre Podgorica è la capitale amministrativa.
Cetinje é una piccola cittadina di 15.000 abitanti e si trova in un'ampia
conca circondata dagli alti monti del Lovcen, ora parco nazionale. La parte
più interessante è quella antica con le residenze del Re Nicola la cui figlia
Elena, sposando Vittorio Emanuele III di Savoia, divenne nostra Regina.
Il modesto ma ben conservato Palazzo Reale Bilijarda, l'antica dimora circondata da mura con i torrioni agli angoli, il Palazzo Blu residenza del principe ereditario, la piazza, la chiesetta sulle rovine di un tempio romano, l'antico ed importante Monastero Ortodosso, si trovano stranamente in una zona
periferica della cittadina e meritano una visita perché danno ancor oggi una
significativa immagine di quella che fu una piccola monarchia dei balcani.
Mi ricordo che mio padre raccontava che si erano tenuti prudentemente
ad una certa distanza dal centro della città e che la loro principale occupazione consisteva nel perlustrare la zona circostante alla ricerca degli introvabili
partigiani.
Dall'altopiano su cui sorge Cetinje i nostri erano stati infatti incaricati di
svolgere azioni di rastrellamento in un ampio ed impervio territorio montagnoso che va verso la costa adriatica e quindi ci accingiamo a percorrere
la zona seguendo il più possibile le strade corrispondenti ai vecchi tracciati
riportati nelle carte militari dell'epoca.
Ritorniamo verso Podgorica e ad una quindicina di chilometri dalla città troviamo una indicazione a destra per Rijeka Crnojevica. Istintivamente
prendo quella direzione anche se quel nome non si riferisce ad alcuna località
degna di nota militare. Nel libro «Storia del 7° Reggimento Alpini» avevo
trovato solamente una breve citazione in cui si riportava che quel paese era
stato la base della divisione di fanteria Messina e che il Btg. Cadore era rimasto in appoggio a quella divisione per qualche giorno. Si tratta di una strada
secondaria, ed è proprio questo il motivo che suscita il mio interesse, che poi
prosegue per Virpazar, località molto più conosciuta dove voglio arrivare.
La strada inizia in discesa, è stretta, attraversa vallette e boschi recenti in
cui ogni tanto compaiono radure coltivate a granturco, in alcuni tratti la vegetazione occupa parte della carreggiata e occorre fare attenzione alle pecore e
alle capre che pascolano liberamente ai lati della strada.
Montenegro: forte turco e vista di Bar. Sopra l'immagine scattata dal tenente Pagnacco negli anni Quaranta, sotto quella ripresa dal figlio Giandomenico nel suo viaggio sulle orme del padre. Archivio Pagnacco.
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Rijeka Crnojevica
Dopo alcuni chilometri, la strada percorre in discesa il fianco della montagna con un'ampia valle sottostante, il paesaggio si apre e la vista spazia fra
verdi colline, più alte montagne in lontananza, e verso sud ancor più lontano
il lago di Scutari. Sono vicino ad un incrocio con una strada di ancor minore
importanza che si inerpica alla mia destra: il bivio Sindon. Un cartello mi indica Cetinje km. 15, Meterizi km. 3, Crnojevica km. 3 e c'é anche una lapide
che ricorda un evento accaduto il 13 giugno 1941, ma non sono in grado di interpretarla perché scritta in caratteri serbi. Volgendo lo sguardo a sinistra per
ammirare il paesaggio, noto un placido fiume che scorre nel fondo valle. Con
grande sorpresa quel fiume lo riconosco, l'ho già visto nelle foto di mio padre; blocco l'auto sul ciglio della strada. La mia meraviglia è grande, estraggo
le foto e le faccio vedere a mia moglie. Il paesaggio è proprio quello delle
vecchie foto e il fiume, con le sue anse molto particolari, non é cambiato. Le
differenze sono il livello delle acque, che si sono abbassate parallelamente
all'abbassamento del lago di Scutari in cui sfocia, e la vegetazione verso le
sponde e nei pendii delle montagne circostanti. Fra le mie vecchie foto c'é
anche quella che riprendeva un ufficiale con la carta topografica in mano e
che riflette sulla strada da seguire. Ci spostiamo di qualche metro e con una
certa emozione riprendo il fiume e il paesaggio circostante praticamente nella
stessa posizione dove le aveva scattate mio padre.
Sono molto soddisfatto, era per me un mistero l'ubicazione di quel fiume,
mai avrei pensato di ritrovarlo; rimaniamo ancora per un po' ad ammirare il
paesaggio.
Una domanda comunque rimaneva senza risposta: i nostri salivano o scendevano quella strada, andavano cioè verso Podgorica o Cetinje oppure scendevano verso Rijeka Crnojevica? Forse proseguendo il viaggio troverò la risposta, mi sono detto.
Lasciamo il bivio e raggiungiamo Rijeka Crnojevica dopo pochi chilometri. Di fronte a noi si presenta un vecchio ponte di sassi ben squadrati che con
quattro massicce arcate attraversa il fiume e un monumento alle vittime della
guerra: una grande raffigurazione centrale di bronzo e numerose lapidi da
ambo i lati in cui sono incisi i nomi di almeno 450 caduti; la lotta, da queste
parti, deve essere stata veramente dura.
Il fiume scorre placido, quasi senza corrente, ci sono alcuni barchini ormeggiati lungo la sponda e due mucche che tranquille si abbeverano proprio
sotto il ponte. Verso il centro del paese notiamo l'arco di un altro ponte che ci
incuriosisce. Riprendiamo l'auto, ci portiamo al centro del paese e troviamo
un ponte antico a due arcate dalle fattezze incredibilmente belle e slanciate.
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Montenegro: galleria della
vecchia ferrovia a scartamento ridotto Bar-Podgorica- Belgrado. Alpini in uscita dalla galleria e ingresso
attuale; è lunga 1.100 metri
ed è interrotta per crollo. Archivio Pagnacco.
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Consente il passaggio solo alle persone e forse anche agli animali, da un lato
é ridossato ad una vecchia casa ben restaurata, mentre dall'altra parte dà direttamente in un prato. Tutto intorno é valorizzato con gusto, pulito, un luogo
ameno, rilassante, riposante che lascia al visitatore una piacevole sensazione
per averlo incontrato.
Proseguiamo la nostra strada per Virpazar e arriviamo dopo una ventina di
chilometri ad incrociare la strada che da Podgorica va a Budva.
Sono molto curioso di scoprire questo paese situato alla foce di un piccolo
fiume che sfocia nel lago di Scutari.
Nella documentazione militare è indicato come luogo dove i nostri avevano intensamente combattuto perché la sua conquista aveva una rilevante
valenza strategica. Il paese si trova lungo la riva nord-occidentale del lago ed
io ho alcune foto che riprendono un lago, documentano alpini che si stanno
per imbarcare su battelli, in marcia nelle vicinanze di un lago, un canale molto
largo forse un fiume verso la foce, per cui decido, prima di entrare in paese
di percorrere un tratto di strada che porta a Podgorica e che attraversa un'insenatura che si trova poco più a nord. Costeggio la linea ferroviaria, l'unica
del Montenegro che da Bar va a Podgorica e successivamente prosegue per la
Serbia fino ad arrivare a Belgrado. Esisteva già allora ed i nostri alpini, stando
alla mia documentazione fotografica, ne aveva usufruito quando erano stati
mandati in Serbia a Prijepolje.
Dopo pochi chilometri la strada e la ferrovia attraversano con un imponente terrapieno, quasi una diga, la grande ansa del lago di Scutari e costeggia
una imponente costruzione militare, un forte, antico di secoli, costruito originariamente su un'isola e che meriterebbe ben diversa valorizzazione.
Proseguendo troviamo l'indicazione dell'importante monastero di Sv. Nicola e proseguendo ancora attraversiamo il fiume Moraca che sfocia nel lago,
li vicino. Il corso del fiume assomiglia molto a quello di una foto di mio
padre, ma ho dei dubbi che sia proprio lo stesso luogo anche perché in lontananza non si vedono le montagne.
Serbia: Prijepolje, la chiesetta lungo il fiume com'era allora e com'è oggi. Archivio Pagnacco.
Virpazar
A quel punto la strada si allontana dal lago e quindi non è di mio interesse
e decido di tornare indietro e di entrare nel paese di Virpazar. Per entrare nel
centro del paese devo lasciare la strada principale e attraversare la ferrovia.
Il paese è animato, c'è qualche ristorante, qualche casa antica e nella piazza
centrale é collocata una bella fontana e un bel giardino. Lasciamo l'auto e ci
inoltriamo a piedi verso il lato opposto dal quale eravamo arrivati. Troviamo
un bel ponte antico a tre arcate che attraversiamo, un imponente monumento
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che svetta sopra uno sperone roccioso e due lapidi in bronzo delle quali una
ricorda avvenimenti patriottici del 1702 , mentre l'altra si riferisce proprio
agli anni 1941-1945.
Ci portiamo a sinistra dove sorge un albergo di recente costruzione, mi
guardo intorno e il paesaggio mi sembra familiare. Andiamo ulteriormente
avanti verso il limite del piazzale antistante l'albergo. C'è un battello ormeggiato lungo l'argine, al limite di un prato giù dal piazzale. Scendo nel prato,
cammino con cautela perché il terreno sembra acquitrinoso dove ora mi trovo
una volta poteva arrivare il lago, mi volgo intorno e guardo verso il ponte.
Tutto questo l'ho già visto, estraggo le vecchie foto, eccole qui, ci siamo, mio
padre era passato di qui, non si potrebbe perché é piuttosto malconcio ma
salgo sul barcone ormeggiato, mia moglie rimane nel prato e osservo bene.
Sembra quasi la fotocopia della realtà attuale, il muro di sostegno del piazzale
é in realtà il muro di sostegno della banchina del porto fluviale ed è quello di
allora, all'angolo verso il fiume c'é ancora la stessa garitta a pianta esagonale,
c'é la gru certamente sostituita ma si trova nello stesso posto, il ponte antico
con la stessa prospettiva, sulla banchina mancano i vagoncini ferroviari perché hanno tolto i binari, sull'altra riva hanno demolito l'edificio che si affacciava sul fiume.
Le acque del lago allora lambivano il molo, ma ancor oggi vengono svolte
le stesse attività di oltre 70 anni orsono: la gru ne è la riprova.
Volgendo lo sguardo a sinistra si vedono sulla cresta del colle i ruderi del
castello, in lontananza ancor più a sinistra le due case che c'erano allora.
Il bel paesino di Virpazar mi ha dato una ulteriore indimenticabile soddisfazione.
Bar (Antivari)
Proprio dal ponte di Virpazar la strada si biforca, a sinistra si percorre
quella che costeggia il lago fin quasi a Scutari, mentre proseguendo diritti si
imbocca la strada che, inoltrandosi per monti e valli, arriva fino a Bar. Prendo
quest'ultima perché spero di trovare un altro luogo interessante. Ho infatti
una foto che ritrae sullo sfondo un golfo che a me sembra tanto il golfo di Bar
(allora Antivari) ed in primo piano una collina sulla cui cima c'é un castello o
un forte antico. E' una foto ben fatta, molto nitida (evidentemente la Leica di
mio padre aveva un'ottima ottica) e mi sarebbe veramente piaciuto scoprire la
zona da cui era stata fatta. Una vaga idea ce l'ho ma chissà se avrò la fortuna
di arrivarci: loro andavano a piedi per quelle valli e cercavano prudentemente
di evitare strade importanti e ponti per non incorrere in qualche agguato.
La strada non é molto larga e tortuosa, in alcuni tratti è priva di asfalto,
324
Serbia: Prijepolje, sfilata degli alpini attraverso il centro del paese (sopra).
Sotto: il corso principale oggi. Archivio Pagnacco.
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Serbia: Prijepolje, sfilata degli Ustascia. Archivio Pagnacco.
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in altri con evidenti segni di cedimento, in altri ancora è addirittura crollata a valle portandosi dietro metà carreggiata; bisogna fare molta attenzione
quando si affrontano le curve perché é difficoltoso scambiarsi con le rare
autovetture che si incrociano e che procedono spedite forti della conoscenza
del tracciato.
Si sale con una pendenza regolare (che fosse il vecchio tracciato della
ferrovia?) ed arriviamo ad un valico, dopo il quale la strada scende facendo
anche un paio di tornanti. Fra gli alberi che costeggiano la strada si scorge in
lontananza il mare. Penso sia un buon segno, si scorge un golfo, in lontananza
la città, riconosco che è Bar. La cosa si fa interessante, dico a mia moglie, che
fra poco ci saremmo fermati. Proseguo ancora per un chilometro l'orizzonte
si fa sempre più familiare. Troviamo una «kafana», un posto di ristoro, un
bar alla buona, situata lungo la strada in un ampio spiazzo alberato. Fermo la
macchina una trentina di metri oltre il locale, scendo rapidamente lasciando la
portiera dell'auto aperta, e portando con me le foto. Vado rapidamente, quasi
di corsa verso il limite del boschetto che ero certo potesse essere un ottimo
punto di osservazione. Mi trovo davanti alcuni massi che mi impediscono di
proseguire, per cui mi sposto un po' più in basso ed osservo la pianura. Come
mi affaccio, appare davanti a me con mia somma sorpresa, poco lontano, quasi alla mia altezza, la collina e il castello che cercavo.
Evviva! Un altro grande successo, il terzo di un giorno memorabile.
Ritorno verso l'auto per rendere partecipe mia moglie della scoperta, quando mi viene incontro torvo, accigliato, con fare minaccioso il gestore del locale. Aveva evidentemente seguito il mio comportamento e qualcosa non gli
andava a genio. Chissà, forse riteneva che mi fossi appartato e in quel luogo
mi fossi lasciato andare a necessità strettamente personali; fatto sta che gesticolava e pronunciava espressioni sconosciute, irrepetibili e per quanto cercassi di spiegarmi non c'era verso di calmarlo. Cercava di intervenire anche mia
moglie, ma niente da fare. Ho chiesto se parlava italiano, inglese, francese,
niente da fare, mi manda al diavolo. Lo lascio sfogare e poi gli dico di avvicinarsi all'auto, appoggiando sopra il cofano il pacco di fotografie. Cauto si
avvicina, e mostro innanzitutto la foto della collina con il castello, poi altre
foto con alpini. Si calma, comincia a guardarle, alternando lo sguardo verso
di noi per osservare il nostro comportamento. Spiego in inglese che siamo Italiani, ma questo l'aveva già capito vedendo l'auto, il motivo per cui siamo da
quelle parti e che si tratta di foto della seconda guerra mondiale. Finalmente si
rasserena e comprende di aver preso un granchio. Le foto cominciano ad interessare anche lui, ci invita ad accomodarci ad uno dei tavoli di legno davanti
la «kafana» e capiamo che ci dice che c'é una persona che conosce l'inglese.
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In effetti si avvicina un giovane con un amico e si presenta in modo civile.
Ci racconta che abbiamo parlato con suo padre, che lui vive in Australia ed è
tornato a casa in ferie, a Bar, ed è salito lassù in bicicletta. Spiego che siamo
Italiani e che ho delle foto di quei luoghi che si riferiscono alla seconda guerra
mondiale.
Stendo le foto sul tavolo e ci mettiamo a guardarle. Via via sono sempre
più meravigliati e contenti della novità che abbiamo loro portato. Mi chiedono se gradiamo qualcosa, una bibita, un caffé, una birra, accettiamo volentieri
una coca-cola. Ci offrono da bere, il figlio spiega che suo padre vuole una
copia delle foto, non solo quella del castello che in realtà è un forte costruito
dai turchi alcuni secoli fa, ma vuole anche le foto di Virpazar fra cui c'é anche
quella della scuola che lui aveva a suo tempo frequentato. Ci dice che suo
nonno, il padre di suo padre, era stato fatto prigioniero dagli italiani durante il
periodo a cui si riferivano quelle foto, che era stato mandato in Italia, a Bari,
forse a Brindisi, che era stato trattato bene e finita la guerra era tornato sano,
salvo e ingrassato.
Quando vedono le foto degli alpini che stanno uscendo da una galleria,
afferma, con nostra grande sorpresa, che la galleria é lì vicino, un paio di
chilometri da dove siamo venuti e ci dà le indicazioni come ritrovarla. Ci dice
anche che é una galleria della vecchia ferrovia a scartamento ridotto, lunga
1.100 metri, che attraversa tutta la montagna, che evitava al treno di salire
ancora più in alto, che era stata costruita all'epoca dagli austriaci, che ora purtroppo é franata verso l'altro versante e che é pericoloso entrare perché dentro
ci sono alcuni animali. In effetti osservando una delle foto che ritraggono
un gruppo di alpini in marcia che escono dalla galleria, si vedono proprio i
binari e, siccome nella sequenza delle foto é stata fatta dopo quella del forte
in cima alla collina, ne deduco che gli alpini e mio padre, stavano effettuando
il percorso contrario al mio e quelle foto si riferiscono all'uscita della galleria
verso l'altro versante.
Ci dice ancora che, non ricordo se a Bar o a Podgorica, è stato fatto un
piccolo museo, con foto storiche del trenino, una locomotiva ed alcuni vagoni
proprio come quelli documentati dalle mie foto.
Chiedo di pagare la consumazione, ma con fare deciso e perentorio l'uomo, il padre, rifiuta categoricamente, mi scrive compiaciuto il suo indirizzo di
casa e mi raccomanda caldamente di inviargli una copia delle foto, cosa che,
lo rassicuro, farò senz'altro.
Mi faccio ulteriormente spiegare dove si trova la galleria e ci salutiamo
cordialmente; ormai le incomprensioni iniziali sono del tutto cancellate.
Riprendo la strada da cui ero arrivato e ritorno indietro un paio di chilo328
Serbia: Prijepolje, truppe Ustascia schierate: notare l’ufficiale alpino
fra l’ufficiale Tedesco e l’ufficiale Ustascia. Archivio Pagnacco.
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metri. All'altezza di un tornante, proseguo diritto imboccando un viottolo con
una leggera e costante pendenza: il percorso della vecchia ferrovia. Proseguiamo, curviamo verso sinistra, troviamo un ampio piazzale pieno di rovi ed
ecco davanti a noi l'imbocco della galleria. Ad onor del vero, il luogo mi dà
una strana sensazione, l'ambiente tutt'intorno, non so come mai, mi incute uno
strano timore. Una donna raccoglie more rovistando fra i rovi e non ci degna
di uno sguardo. Raccogliamo anche noi delle more, sono dolcissime, ma dopo
poco desistiamo, non vogliamo far concorrenza alla donna e non vogliamo
darle pretesti per risentirsi. L'imboccatura della galleria é ben conservata, i
sassi con cui é rivestita erano stati posati con cura, ha una forma ogivale,
proprio come altre vecchie gallerie ferroviarie che si possono vedere anche
in Italia. Mi avvicino, la imbocco e percorro qualche decina di metri evitando
l'abbondante sterco di mucca presente. L'ambiente è molto più fresco e umido
rispetto all'esterno; dopo poco mi fermo perché non riesco più a distinguere la
natura del terreno molliccio su cui cammino. Guardo con attenzione davanti
a me, l'occhio si è abituato alla poca luce ed in effetti intravedo delle mucche
che ruminano beatamente distese. Mi sarebbe piaciuto percorrere la galleria
fino alla interruzione con un abbigliamento adatto e con una lampada adeguata, ma non ho né l'uno né l'altra, per cui non mi resta altro che ritornare sui
miei passi. All'uscita della galleria vedo al limite del piazzale un uomo che ci
osserva; avrà sentito l'auto arrivare ed é venuto a controllare la situazione, mi
dico. Una casa è in effetti poco lontana, potrebbe essere il proprietario delle
mucche, forse il marito della donna che sta raccogliendo le more, ma non
sono molto interessato alla sua conoscenza, anzi sono contento che rimanga
ad una certa distanza, con la sua falce; il suo viso ed il suo atteggiamento
non mi sono simpatici, potrebbe anche essere l'uomo più buono che esiste in
Montenegro, ma mi incute un certo disagio, il luogo è molto isolato e la prudenza ci consiglia di stare vicino all'auto pronti a partire. Scattiamo qualche
foto perché, a parte ogni altra considerazione e preoccupazione, mi trovo in
un luogo che per me riveste una particolare importanza, dato che certamente di qui é passato mio padre. Dopo poco lasciamo la galleria, la donna, il
piazzale, il contadino che ci controlla e riprendiamo la nostra strada per Stari
Bar, magnifico e antico paese medioevale abbandonato e disabitato, con molti
edifici purtroppo crollati a causa del terremoto che ha colpito la zona alcuni
decenni fa.
Passiamo davanti alla «kafana» e vediamo che l'uomo é vicino alla strada,
in piedi, ad aspettarci; suoniamo il clacson, ci sbracciamo, anche lui ci saluta
calorosamente, dappertutto si salutano così i vecchi amici.
Serbia: Prijepolje, popolazione locale. Archivio Pagnacco.
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Da Podgorica a Prije Polje.
La nostra prossima tappa é Podgorica-Prije Polje, località quest'ultima che
si trova in Serbia, una trentina di chilometri oltre la frontiera con il Montenegro. Partiamo al mattino presto, i chilometri da percorrere non sono molti,
ma il paesaggio ha fama di essere interessante, il corso della Moraca caratteristico per i canyons formati nel corso dei secoli. Oltre ad arrivare a Prije
Polje dove mio padre aveva fatto base con il comando del 7° reggimento per
diversi mesi, il mio interesse durante il percorso é anche un altro. Ho diverse
fotografie che ritraggono alpini in viaggio su un treno e il percorso si snoda
lungo una linea ferroviaria a scartamento ridotto, arditissima, ricca di curve e
gallerie, che passa a breve distanza dal greto di un fiume importante incuneato
fra alte pareti che viene attraversato in più punti.
Lasciamo Podgorica ed entriamo nella valle della Moraca. Troviamo una
pattuglia della polizia a cui chiediamo se la linea ferroviaria fa ancora il percorso tortuoso documentato dalle vecchie foto in nostro possesso. Guardano
la foto e capiamo che il tratto fotografato dovrebbe essere più avanti ma non
ci danno una risposta convincente. Continuiamo la strada e dopo qualche chilometro deviamo sulla destra all'altezza di Bioce, imboccando la vecchia strada che porta a Kolasin. Attraversiamo la strada ferrata con un sottopasso; a
sinistra la ferrovia é in leggera salita ed entra in galleria. Proseguiamo e dopo
un paio di chilometri, a destra, un po' più in basso, osserviamo un arditissimo
e lungo ponte che attraversa a una notevole altezza la valle del fiume Tara. La
linea ferroviaria corre dall'altra parte della valle in direzione di Podgorica con
molte gallerie; la osservo anche con il binocolo, ma non è il tratto di ferrovia
che cerchiamo.
Proseguiamo ancora per una decina di chilometri senza successo e decidiamo
di tornare sui nostri passi sconfitti; la ricerca, questa volta, non è andata a buon
fine. Forse era meglio chiede informazioni alla stazione ferroviaria di Podgorica, che però non avevamo incontrato nel giro che avevamo fatto in città.
Riprendiamo la via che avevamo precedentemente lasciato e proseguiamo
per Kolasin. La strada è bella, recente ed offre un bel panorama del canyon
formato dalla Moraca. Notiamo la linea ferroviaria che corre in alto alla nostra destra, molto al di sopra del tracciato stradale; ha un tracciato ardito, ma
non è quella da noi cercata che ci ha beffato.
Lasciamo alla nostra destra Kolasin, arriviamo all'incrocio per Zabliak
dove il fiume Tara prosegue a sinistra, ma noi voltiamo a destra per Bijelo
Polje. Entriamo quindi nel territorio che all'epoca era controllato dalla divisione Pusteria e arriviamo alla frontiera con la Serbia correndo in certi tratti
paralleli alla ferrovia e seguendo il corso del fiume Lim.
332
Sopra a sinistra: una moschea ripresa durante il viaggio tra Prijepolje a Sjenica. A destra: L’altopiano
intorno a Sjenica. Sotto: Ponte Bistrica. In basso a sinistra: l'abitato
di Nova Varos. Archivio Pagnacco.
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Serbia: dopo Rikavce verso il passo Jabuka. Il luogo dell’agguato e dell’annientamento della 77° compagnia del Btg. «Belluno» (36 morti, 4 ufficiali prigionieri successivamente uccisi, 48 dispersi). Archivio
Pagnacco.
In Serbia
Attraversiamo la frontiera senza problemi e ci portiamo a Brodarevo, ma
anche qui non troviamo alcuna foto che possa assomigliare al paesaggio che
ci circonda. Proseguiamo e finalmente incontriamo il cartello stradale di Prijepolie. Sono veramente curioso di vedere il paese tante volte nominato da
mio padre. Aveva infatti trascorso diversi mesi qui a Prijepolje, compreso un
inverno molto rigido. Mi raccontava che erano sempre sotto il rischio di attacchi partigiani e dovevano tenere i collegamenti con gli altri reparti dislocati
in una zona molto vasta. Era un villaggio, povero, formato da poche case in
muratura tutte le altre in legno con il tetto di paglia e canne, c'era poca terra da
coltivare e gli abitanti vivevano in condizioni molto precarie. Mi raccontava
di quella notte che erano usciti di pattuglia per ripristinare la linea telefonica (o telegrafica che fosse) interrotta. Pessimo sintomo, mi diceva, perché
voleva dire che i partigiani intendevano attaccare oppure era probabile che
fosse stato predisposto un agguato. L'utilizzo di quella linea era indispensabile, dovevano assolutamente ripristinare l'interruzione e per far ciò dovevano
controllare tutto il percorso. Partirono in quattro, senza dare nell'occhio, c'era
la luna che li aiutava e cercavano di avanzare senza neanche parlarsi per non
far rumore.
Ad un certo punto scorsero una figura ferma immobile con un fucile in
spalla che si stagliava proprio vicino alla linea. Si sdraiarono immediatamente a pancia in giù, in silenzio, ad aspettare gli eventi. Non potevano sparare
per non dare l'allarme che avrebbe messo in subbuglio tutto il reggimento,
non potevano avanzare per non destare sospetti, la luna ogni tanto scompariva coperta dalle nuvole, la figura rimaneva immobile; il tempo passava e la
tensione aumentava. Ad un certo punto uno del drappello, stanco dell'attesa
e della situazione di stallo che si era venuta a creare, chiese il consenso di
avanzare carponi per cercare di cogliere il partigiano di sorpresa, ritenendo
probabile che si fosse addormentato con il fucile sulle spalle. Così avvenne e
dopo alcuni minuti di trepida attesa, sentirono la voce sommessa del coraggioso che diceva: «sior tenente, xe un albero morto con un ramo in su!.»
E' facile immaginare la reazione.
Entriamo nel paese che si estende principalmente alla nostra sinistra lungo
un pendio, case recenti, molte senza intonaco esterno, lungo la strada qualche
capannone, qualche attività artigianale, una realtà completamente diversa da
quella del villaggio che mi ero immaginato e mi domandavo quale reazione
avrebbe avuto mio padre per la profonda trasformazione del paese.
Proseguiamo incuriositi, il paese termina, la valle si restringe e il fiume
Lim scorre con una buona corrente a poca distanza dalla strada. Poco oltre
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la valle torna ad allargarsi e ci appare il vecchio paese di Prijepolje sulla riva
destra del fiume, a cui si accede con un ponte di recente costruzione; ora sì
che mi ritrovo con l'idea che mi ero fatto.
Proseguo ulteriormente per qualche centinaia di metri per rendermi conto
ancor meglio del paese ed improvvisamente mi appare alla mia destra, proprio
al limite della strada, sull'argine sinistro del fiume una graziosissima chiesetta. Fermo l'auto, io ho la foto di questa chiesetta; è stata scattata in un giorno
d'inverno con il paesaggio tutto ricoperto di neve. La estraggo e verifico che
è proprio la chiesetta davanti a noi, anche allora ben tenuta, ripresa dall'altra
sponda del fiume. Non mi resta che recarmi nel paese attraversando il ponte
ed infatti riesco a godermi la stessa vista e la stessa prospettiva di allora, in
una situazione ambientale certamente migliore.
Per avere ulteriori notizie, cerco persone di una certa età a cui presentarmi
e rendere partecipi della mia ricerca, ma riesco a trovare solo una persona che,
in attesa dell'autobus, mi fa capire che in paese si conosce la presenza italiana
nel periodo della seconda guerra mondiale e che dalla parte del fiume, indicandomi la posizione, c'era anche un cimitero di militari italiani. Purtroppo
l'autobus arriva e rimango senza interlocutore. Facciamo un giro a piedi per il
paese. Le case si affacciano ancora lungo la vecchia strada che lo attraversa,
non sono più di legno e non hanno più il tetto di paglia e canne, ma certamente ricorda il paese di allora.
Da Prijepolje il mio programma prevede di renderci conto dove erano dislocati i vari battaglioni; il «Cadore» aveva base a Prijepolie, il «Belluno» a
Sjenica, il «Feltre» a Nova Varos, e quindi la prima meta è quella di recarci
nell'altopiano di Sjenica. La strada che mi accingo a fare è quella percorsa dai
nostri alpini che da Prjiepolje va direttamente a Sjenica. Non è certamente da
consigliare, perchè oltre a non essere asfaltata, é comunque abbastanza lunga
e non consente una velocità accettabile. Attraversa luoghi gradevoli con bei
paesaggi, ma in alcuni tratti è molto ripida e così sconnessa che pensavamo di
aver sbagliato percorso ed esserci infilati in una mulattiera. Non incontravamo
anima viva a cui chiedere informazioni ed allora abbiamo deciso di lasciare il
nostro percorso per avvicinarci ad una delle rare case. Un bel prato circonda la
casa, mi avvicino, scendo dall'auto, mi guardo intorno, non vedo nessuno. In
quel mentre esce dal retro della casa un uomo seguito da una donna e da una
certa distanza chiedo: Sjenica? indicando con il braccio la direzione. Costui per
tutta risposta mi risponde «Kofa» e mi fa cenno di avvicinarmi e entrare. Noto
anche che barcolla leggermente, si aggrappa alla porta, gesticola pronunciando ad alta voce frasi che, come si può facilmente immaginare non capisco. A
ragione o torto, l'uomo non mi dà per niente fiducia e neppure la donna, anche
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Serbia: Prijepolje, funerale dei 36 alpini della 77° compagnia, vittime dell’agguato a Rikavce.
Archivio Pagnacco
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lei in appoggio all'uomo nell'invito. Ringrazio molto e sbracciandomi anch'io
mi sottraggo con decisione all'invito, risalgo in auto e velocemente mi allontano. Riprendiamo la strada che avevamo lasciato, facciamo alcuni chilometri,
superiamo un uomo ben vestito che a cavallo fa il nostro stesso percorso e dopo
poco ci troviamo in cima ad una selletta, un piccolo passo, su cui si erge in posizione panoramica una moschea con il suo slanciato minareto.
La vista improvvisa di simile luogo di culto ci lascia un po' meravigliati e ci
chiediamo cosa ci stesse a fare una moschea in un luogo così isolato. In realtà,
appena attraversato il passo, troviamo un piccolo villaggio da cui si gode una
bella vista di tutto l'altopiano di Sjenica. Proseguiamo in discesa ancora per
qualche centinaio di metri e, lasciando alla nostra destra dei grandi capannoni
abbandonati, ci portiamo sulla strada principale che collega Nova Varos con
Sjenica. Purtroppo per arrivare a quel punto abbiamo impiegato molto più tempo del previsto e quindi rinunciamo a Sjenica per dirigerci a Nova Varos. Una
strada bella, molto larga, ci sembrava di sognare confrontandola con quella che
avevamo percorso da poco, con ampi tratti in forte discesa che attraversano dei
bei boschi di abeti.
Arriviamo a Nova Varos, un bel paese situato in una valle soleggiata, con
molte abitazioni recenti e una bella chiesa vicino alla strada.
Il ricordo di questo paese era rimasto ben impresso nella memoria dei reduci
del btg. Feltre, soprattutto per il modo con cui l'avevano lasciato. Il comandante
del battaglione, il col. Guindani, avuto sentore di un imminente attacco in massa da parte dei partigiani, con decisione improvvisa ed avveduta aveva ordinato
lo sgombero immediato e il trasferimento a Prjiepolje. In piena notte, sotto una
fitta nevicata, il battaglione aveva provveduto a smontare tutto l'accampamento,
a caricare sugli autocarri tutto quanto avevano in dotazione, tende, viveri, munizioni, e con gli alpini schierati a ventaglio lungo i fianchi dei monti circostanti,
con scontri violenti con i partigiani già pronti per l'azione, con l'aiuto anche di
una compagnia di alpini proveniente da Prjiepolje e di alcuni carri armati che
venivano loro incontro, dopo 18 ore di combattimenti erano riusciti ad arrivare
a ponte Bistrica prima e a Prjiepolie poi con perdite contenute.
Ponte Bistrica era una posizione strategica in quanto consentiva di controllare tutto il traffico stradale lungo l'unica via di comunicazione verso l'interno
della Serbia e molto reparti si erano avvicendati per il suo presidio.
Dopo aver raggiunto anche noi Ponte Bristica, anche oggi importante nodo
stradale e noto anche per la centrale idroelettrica ivi costruita, voltiamo a sinistra per ritornare a Prjiepolje. La nostra prossima meta é il passo Jabuka e
successivamente Pljevlje e Zabljak.
La tumulazione delle salme dei 36 alpini della 77° compagnia caduti nell'agguato. Archivio Pagnacco.
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L'agguato di Rikavce
Il villaggio di Rikavce e il passo Jabuka situato poco dopo proprio lungo
il confine fra Serbia e Montenegro, rivestivano per me un grande interesse e
curiosità. Il 1° dicembre 1941, in un'imboscata tesa subito dopo Rikavce alla
77° compagnia di alpini del battaglione Belluno in trasferimento da Prjiepolje a Plevlje, sede del comando di divisione, erano stati uccisi ben 36 alpini,
quasi tutti i sopravvissuti fatti prigionieri, tranne pochissimi che erano riusciti
a sottrarsi miracolosamente alla cattura fingendosi morti e ritornare dopo diverse ore alla base per dare l'allarme. Fra i prigionieri catturati faceva parte il
comandante della compagnia, il tenente Giacomo Gioia, nonché il ten. Medico Renato Tomaselli e due s.tenenti, Mario Berti e Gino Eger. Tranne il ten
Medico, furono tutti massacrati dalla «Proleterski Brigada» il 23 dicembre
assieme ad altri 50 alpini. L'agguato aveva avuto una grande risonanza e mio
padre aveva ripreso alcuni immagini del funerale svoltosi a Prjiepolje.
Il mio desiderio di visitare il luogo dell'agguato era particolarmente sentito
sia per il grave fatto avvenuto sia perché con il nipote del s.ten. Eger, mio coetaneo e che porta il nome dello zio, ho trascorso molti mesi di vacanze estive
e a lui mi legano molti ricordi della mia prima gioventù.
Lasciamo Prjiepolje e ci dirigiamo al Passo Jabuka, non per la strada recentemente costruita, ma per quella vecchia, ben evidenziata nelle carte militari.
Non é facile oggi trovarla, ma grazie alla documentazione in nostro possesso e con la conferma di un paio di persone, la imbocchiamo e saliamo rapidamente dal fondovalle. La strada é asfaltata a tratti, stretta, sale rapidamente
i ripidi fianchi della valle, le cime delle montagne incombono e si avvicinano
man mano che saliamo. Dopo alcuni tornanti si prosegue in leggera salita
per un paio di chilometri e si arriva ad un villaggio di poche case; dovrebbe
essere Rikavce. Per aver conferma fermo l'automobile e dal finestrino pronuncio Rikavce ad un uomo appena uscito da una casa. Costui si avvicina ed
abbassandosi verso il finestrino ci conferma che siamo proprio nel paese di
Rikavce. Faccio vedere alcune foto di alpini e, imitando anche il gesto dello
sparo, faccio intendere all'uomo che sto cercando il posto dell'agguato. Al
vedere le foto e il gesto, l'uomo capisce al volo il mio quesito e mi indica che
devo proseguire per poco. Sorpreso positivamente dall'incontro e facendomi
cenno con la mano, l'uomo mi invita ad uscire dall'auto. Guardando le foto mi
dice: «Galina, Galina, grappa, vino, italiani buoni, buoni italiani, no tedeschi,
no partizan.» Chiama da dentro casa la figlia, il nipotino, fa vedere le foto, e
ripete la frase di prima. La figlia comincia ad agitarsi, ci chiede ripetutamente
se vogliamo un caffè, ci invita ad entrare in casa, insiste con fare gentile, il
padre continua a ripetermi «buoni italiani, buoni», battendomi più volte la
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Serbia: dopo Rikavce verso il passo Jabuka. Sul luogo dell’agguato, lapidi in bronzo di
parte Serba, commemorative dell’evento. Archivio Pagnacco.
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mano sulla spalla. Come italiano mi sento onorato da questa manifestazione
di simpatia, ma purtroppo non abbiamo il tempo di accettare il loro invito e
ringraziando altrettanto calorosamente, stringendo loro ripetutamente le mani
siamo costretti a malincuore a salutarli.
Mi rimaneva però un po' indigesto quel misterioso termine «galina», accompagnato dal gesto della mano portata sul cappello dove l'Alpino tiene la
penna nera. Inizialmente avevamo pensato che gli alpini facessero razzie di
galline e ne fossero particolarmente ghiotti; vedendo quei sani polli ruspanti ruzzolare nei cortili e nei prati, un certo desiderio gastronomico potrebbe
essere umanamente molto comprensibile, ma la faccenda sinceramente non
avrebbe fatto onore ai nostri. Il mistero mi è stato svelato tempo dopo, quando
un mio interlocutore Montenegrino guardando le foto, ripetendomi la parola
«Galina» e indicandomi con la mano dove la penna nera infilata nel cappello,
mi aveva spiegato che così venivano chiamati gli Alpini da quelle parti.
Riprendiamo la nostra strada, le creste delle montagne si abbassano, incombono sempre più sopra la strada e dopo sette-ottocento metri, forse un
chilometro, dopo alcune curve sono proprio sopra di noi a non più di quaranta, cinquanta metri, proprio come indicato nel libro «Storia del 7° Reggimento Alpini.»
Ecco il luogo dell'agguato, mio padre me ne aveva parlato in termini tragici omettendo i particolari, me ne aveva parlato Pisani, forse qualche errore
tattico anche da parte dei nostri; un'azione preparata dai partigiani con molta
cura, con informazioni precise e tempestive.
Fermo l'auto, scendiamo con il testo che narra l'episodio, lo leggiamo, siamo proprio in quel luogo; 36 morti, 12 feriti, 48 dispersi (cioé fatti prigionieri), 4 ufficiali catturati, per 6 ore gli alpini cercarono di resistere sperando
arrivassero rinforzi.
Due lapidi di bronzo incastonate nella roccia ricordano quell'episodio
come una grande azione vittoriosa nei confronti del nemico occupante; come
sempre le vicende belliche hanno per lo meno due punti di vista.
Il silenzio è assoluto, il luogo ci induce spontaneamente al rispetto, alla
riflessione, a parlare a voce bassa, a chiederci se qualcuno è mai venuto da
queste parti a commemorare quei morti.
Il pendio, oltre il ciglio della strada, scende rapidamente verso il fondo
della valle. Guardiamo intensamente le rocce che ci sovrastano quasi a strapiombo e da cui i partigiani ben protetti e riparati sparavano sui nostri in loro
balia impossibilitati a difendersi, una specie di tiro al bersaglio; un luogo
veramente ideale per un agguato.
In silenzio passeggiamo su e giù per quel tratto di duecento metri, ci viene
spontaneo parlare a bassa voce, la sensazione che proviamo è strana, sembra
quasi che l'episodio sia avvenuto da poco, che il tempo si sia fermato.
La giornata si avvia a finire, il sole comincia a tramontare, le ombre delle
rocce sovrastanti si allungano sulla strada, dobbiamo lasciare quel luogo, il
luogo senza scampo. La strada gira a destra con una curva a novanta gradi, la
cresta di rocce è alla nostra destra, perfetta per un agguato.
Proseguiamo silenziosamente, la strada affronta un falso piano, il paesaggio si apre, arriviamo dopo poco al passo Jabuka, attraversiamo la frontiera e
rientriamo in Montenegro. Si sta facendo buio e la giovane guardia di frontiera, alto e prestante, dopo i controlli di rito si trasforma in guida turistica
chiedendoci se cerchiamo un albergo; rispondiamo affermativamente e che
a Plevljie cercheremo un Hotel. Ci sconsiglia di fermarci a Plevljie, non c'è
niente da vedere a Plevljie dice, solo polvere, come quello strato che abbiamo
sopra la nostra auto. Ci consiglia di andare a Zabljiak, dove c'è un albergo
caratteristico che offre un ottimo servizio a prezzi contenuti; se ci va bene, aggiunge telefona lui per prenotare. Accettiamo, telefona, prenota, avverte che
arriveremo a tarda notte perchè siamo ancora in frontiera, ci dà le indicazioni
dove trovare l'albergo, il numero di telefono; un servizio perfetto, gratuito,
veramente gentili le guardie di frontiera montenegrine. Ringraziamo, salutiamo, ci risponde cortesemente, soddisfatto.
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Plevljie
Proseguiamo, arriviamo a Plevljie, attraversiamo la città, non ci dà una
gran bella impressione, palazzoni, strade polverose, poco illuminate, alberghi
non ne vediamo lungo il nostro percorso.
Mi sarebbe piaciuto visitare la città di giorno. Era il paese dove si era insediato il comando della divisione Pusteria e dove il 1 dicembre 1941 c'era stato
un attacco notturno in forze da parte dei partigiani, con aspri combattimenti.
E' proprio a seguito di questo avvenimento che era stata chiamata in soccorso
la 77° compagnia del battaglione Belluno di stanza a Prjiepolje, poi annientata a Rikavce.Le cronache raccontano che gli attaccanti, respinti alle prime
luci dell'alba lasciarono sul terreno un migliaio di morti, a fronte di perdite
piuttosto contenute da parte nostra.
A Plevljie è stato edificato un monumento alle truppe alpine che dopo l'8
settembre 1943 si sono trovate in quella zona isolate e nella impossibilità
di rientrare in Italia. Tali nostre truppe, appartenenti alla Divisione di fanteria da montagna «Venezia» ed alla divisione alpina «Taurinense», invece di
sbandarsi rimasero inquadrate con i loro ufficiali dando vita alla «Divisione
Italiana Partigiana Garibaldi.» Fedeli al giuramento fatto al Re rifugiatosi a
Brindisi, si misero alle dipendenze del Governo Badoglio come unità regolari
dell'esercito italiano e si allearono, superata una naturale diffidenza iniziale,
con i partigiani di Tito. La divisione, inserita nell'»Esercito Popolare Liberatore Jugoslavo – EPLY», combattè con esso contro il comune nemico nazifascista, mettendo fine al conflitto che li aveva opposti gli uni agli altri.
L'epopea di questa nostra divisione, poco nota ai più, che combatté in
condizioni drammatiche e con rifornimenti dall'Italia scarsissimi (dei 20.000
iniziali, rientrarono in armi a fine guerra in Italia solo 4.000 uomini), viene
tenuta viva dalla «Associazione Nazionale Veterani e Reduci Garibaldini –
A.N.V.R.G.» che accoglie i reduci della «Garibaldi» tuttora in vita e molti
altri soci cultori della tradizione garibaldina.
Zabliak
E' notte fonda quando arriviamo a Zabljak dopo aver attraversato il fiume Tara percorrendo un ponte molto ardito. Troviamo con facilità l'albergo
seguendo le indicazioni ricevute dalla guardia di frontiera e veniamo accolti
alla reception da una splendida ragazza con i capelli corvini, alta come solo
le ragazze montenegrine sanno esserlo e ci sono allora apparsi chiari i motivi
delle premure ricevute alla frontiera.
A Zabljiak, durante la guerra, vi era la base della «Proletarski Brigada» che
aveva competenza in quella zona e che, comandata da Moise Piade e Koka
Jovanovic agli ordini del comandante supremo Josip Broz Tito, agiva in tutto
il territorio dove era dislocata la nostra divisione Pusteria. Si trattava di un
territorio molto vasto, Plevlje dista km 54, Prjiepolje km. 78, Mojkovac km.
60, Bjielo Polje km. 75.
Il 23 dicembre 1941, nelle vicinanze del paese, dopo essere stati sottoposti
ad ogni sorta di privazione e sevizie da parte dei partigiani, per rappresaglia a
presunte uccisioni di prigionieri da parte dei nostri, erano stati trucidati e gettati in una caverna (detta di Omar) ben 55 nostri soldati, fra cui Gioia, Berti e
Eger catturati a Rikavce.
Zabljiak è un bel paese che si trova su un ameno altopiano, ai margini del
parco nazionale del Durmitor a 1450 metri di altitudine.
E' luogo di villeggiatura estiva e invernale, caratteristico, esistono ancora
le tipiche case di legno con tetto spiovente, ci sono alcuni alberghi di un certo
pregio, nei mesi invernali nevica parecchio e fa piuttosto freddo. Intorno ci
sono bei prati e i punti turistici più interessanti sono il vicino lago Nero (Crno
Jezero) e il parco del Durmitor molto visitato perché ricco di scenari di tipo
alpino, boschi, laghi, fiumi, tra cui il Tara che nel suo corso percorre un canyon profondo oltre 900 metri.
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Ci portiamo al lago Nero e con una tranquilla passeggiata di un paio d'ore
percorriamo tutte le sponde.
Troviamo una lapide in marmo che indica qualche evento del 1943 ed una
in bronzo che ricorda il luogo dove aveva sede la «Proletarski Brigada.»
Provo a chiedere a qualche anziano se conosce la caverna di Omar, ma
tutti mi rispondono negativamente.
Con Zabljiak il nostro viaggio volge al termine e dopo tanto peregrinare
non ci resta che intraprendere la strada del rientro, non prima però di aver
visitato Niksic e il celebre monastero di Ostrog.
Conclusione
Un viaggio interessante, quasi un pellegrinaggio, che ci ha dato più emozioni e sorprese di quante ne avessimo potute immaginare.
Quello passato sotto i nostri occhi era solo una parte dello scenario della
seconda guerra mondiale in cui erano impegnati nostri reparti. Come non
pensare anche a quelli che avevano dovuto combattere su altri fronti, nel
deserto sotto il sole cocente e le tempeste di sabbia, sulle navi con l'incubo
continuo del naufragio, nei sommergibili e nei carri armati che spesso si trasformavano in bare di acciaio, sugli aeroplani ….
Il solo vedere con i nostri occhi i fiumi, le valli, i pendii, i paesaggi ancor
oggi di difficile accesso, le cime delle montagne dove i nostri soldati erano
stati mandati a combattere, a morire, a subire menomazioni e ferite, nei casi
migliori soffrire il freddo, la fame, i pidocchi, dormire per mesi vestiti, al
freddo, sotto la neve, sotto la pioggia senza ripari, coperti solo da un telo
da tenda, mangiare cibo freddo (quando c'era, quando arrivava quello caldo
era una festa), pensando che dopo quei sei mesi frenetici del fronte grecoalbanese divisioni come la Julia erano state mandate al massacro nella steppa russa, da queste semplici riflessioni non può non emergere dall'animo di
ognuno con amarezza la considerazione sull'enorme assurdità della guerra, la
responsabilità di chi quelle decisioni aveva preso e la arrogante follia di cui
erano impregnati i nostri governanti.
Come è sempre avvenuto, si è cercato di attenuare e confondere tutto questo
con lo spirito patrio, con l'orgoglio, con le gesta di eroismo, con gli encomi,
con le medaglie, ma i fortunati reduci, ora rimasti in pochi, portatori di ricordi
e di emozioni, hanno potuto gioire solo al termine dell'amara avventura.
Molti hanno voluto tramandare ai posteri le loro intense testimonianze,
altrettanti hanno cercato di dimenticare.
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Tirando le somme: italiani brava gente?
Civili rastrellati dai fascisti.
L’andamento della guerra nell’ottobre del 1940 ha ormai evidenziato tutti
i limiti della macchina militare italiana. In Africa settentrionale siamo fermi
a Sidi el Barrani. Non abbiamo né i mezzi né l’organizzazione logistica necessaria a proseguire l’avanzata verso il Cairo e verso il canale. In mare, le
flotte avversarie si sono dimostrate molto più potenti della nostra. Perché in
tale, manifesta, situazione di inferiorità, le gerarchie fasciste si imbarcano in
quella che resta forse la più incomprensibile delle campagne militari italiane?
Lo facciamo forse per collegare i due sistemi marittimi della nostra strategia
nel Mediterraneo, unendo l’Egeo con il triangolo Taranto-Tripoli-Tobruck?
Puntiamo a prevenire gli inglesi, assicurando nuove basi alla nostra marina e
alla nostra aviazione al fine di bloccare i britannici fra Cipro e Alessandria?
Per quanto potenzialmente valide possano apparire le giustificazioni di natura
strategica avanzate da alcuni storici, esse non reggono la prova dei fatti. Quella greca si rivela per ciò che è: una semplice avventura iniziata per le futili
ragioni evidenziate all’inizio di questo volume. La scommessa ellenica ha un
solo vero obiettivo, quello di regalare al fascismo un facile successo da gettare sulla bilancia della storia. Il progetto nasce dall’avventatezza di Galeazzo
Ciano e cresce sostenuto dalla corte di mediocri che lo circonda, siano essi
politici come il vicerè d’Albania conte Jacomoni o mediocri generali come
l’ambizioso Visconti Prasca. L’idea di ghermire una preda facile sale verso
l’alto e arriva alle orecchie di Mussolini e dei suoi gerarchi, ansiosi di rifarsi
dopo la pietosa figura della campagna contro la Francia e annichiliti di fronte
allo strapotere dell’alleato nazista. Va così in scena un tragicomico psicodramma all’interno del quale i vertici del potere politico e militare italiano si
autoconvincono che la Grecia è un frutto pronto per essere colto. Basta stendere la mano per afferrarlo. L’Italia non è forse una grande potenza? Se ciò è
vero ne discende che la conquista della penisola ellenica non potrà essere che
una passeggiata. Mussolini, come abbiamo visto, si dichiara pronto «a dare le
dimissioni da italiano» se il successo non sarà conseguito in tempi brevi. Tutti ne sono convinti e tutti si aspettano la loro parte di onori e prebende. Anche
Badoglio che a posteriori si dipingerà quale inascoltato profeta, nell’ottobre
del ’40 si limita a formulare solo alcune riserve di carattere tecnico, chiedendo qualche giorno di rinvio, ma è subito pronto a sostenere le tesi di Soddu.
La sola persona che è davvero contraria al nostro intervento in Grecia è Adolf
Hitler. Il dittatore tedesco trattiene a stento la rabbia quando Mussolini, a cose
fatte, gli comunica che le forze del Regio Esercito hanno iniziato le operazioni. Per Hitler l’aggressione italiana alla Grecia resterà sempre un «deplorevo-
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Domenikon: un'immagine della rappresaglia italiana.
le sbaglio». Il führer è visceralmente contrario a questa impresa per una serie
di semplici ragioni. La guerra in corso impone campagne rapide e dunque se
si vuole occupare la penisola ellenica si deve possedere una forza d’urto tale
da ridurre all’impotenza l’avversario in pochi giorni. Diversamente da ciò si
corre il concreto rischio di rimanere impantanati in un lungo conflitto che
assumerà i tratti di quello combattuto nel 1914-18. Se l’Italia fascista possiede una tale forza militare, sostenuta da un apparato logistico all’altezza del
compito, perché non rivolge le proprie attenzioni all’Africa Settentrionale
con l’obiettivo di espellerne gli inglesi? Poiché però i fatti stanno dimostrando che essa è ben lungi dal disporre uno strumento bellico di tal fatta, a quale
scopo cacciarsi in un’avventura che produrrà quale unico risultato quello di
far accorrere i britannico nel Peloponneso? Da lì essi potranno disporre di
basi da cui far decollare gli aerei che bombarderanno i pozzi petroliferi romeni dai quali le forze dall’Asse si approvvigionano di carburante. Mussolini e
le sue gerarchie non vengono però nemmeno sfiorati da queste considerazioni
e preparano l’attacco alla Grecia con criminale leggerezza Quel che accade
sul campo è noto. Dopo tre giorni il generale Papagos, comandante supremo
delle forze elleniche, ha un chiaro quadro della situazione. Le forze italiane
sono del tutto inadeguate e nessuna minaccia gli viene dalla frontiera bulgara
e turca. Dunque il grosso delle truppe possono essere impiegate contro gli
invasori. Solo la tenace resistenza della Julia ci salva dal disastro e alla fine
l’intervento tedesco ci toglierà le castagne dal fuoco. Sulla permanenza degli
italiani in Grecia dopo la resa delle forze elleniche resta da fare un’ultima
considerazione relativa al comportamento dei nostri militari nei confronti della popolazione civile quando si trovarono ad operare come forza occupante.
In un contesto difficile come quello bellico le coordinate morali che guidano
il comportamento dei popoli subiscono un drastico cambiamento. Dal sonno
della ragione insomma, per dirla come Goya, nascono sempre mostri. La Grecia del 1941-1942 è un paese ridotto alla fame dove centinaia di migliaia di
persone si ammalano di scorbuto ed altrettante muoiono di inedia. Difficile
poter pensare che i greci sopportino senza reagire le angherie degli invasori…
I tedeschi non si fanno scrupolo di sfruttare il paese senza curarsi di sospingerlo sull’orlo della bancarotta. I civili dispongono di una media di 204 calorie al giorno quando il minimo necessario a sostenere un essere umano in
buona salute è di 1.000. Gli italiani non partecipano alla persecuzione razzista
ma restano comunque una forza occupante che come tale si comporta. La resistenza esplode anche nelle zone da noi controllate. Gli italiani in Grecia
insomma non sono esattamente tutti come quelli descritti in Mediterraneo o
ne Il mandolino del capitano Corelli. La resistenza uccide e per rappresaglia
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uccidiamo anche noi. Va detto preliminarmente che il codice militare del nostro Paese era a quell’epoca fra i più avanzati al mondo prevedendo tutele
assolute per prigionieri e civili. Lasciava però un ampio spazio di manovra ai
comandanti delle forze occupanti che, tramite il «diritto di bando» ad essi
riconosciuto, poneva questi ultimi in condizione di operare come una sorta di
viceré. Nella primavera del 1943 il generale Carlo Geloso, valendosi di tale
diritto, emanò una circolare tesa a dettare le linee guida che le nostre forze
avrebbero dovuto seguire nella lotta contro la resistenza. In tale documento si
esponeva il principio della «responsabilità collettiva» in base al quale le conseguenze delle azioni svolte dai partigiani potevano essere fatte ricadere sulla
popolazione civile. Si istitutiva così in pratica un diritto di rappresaglia da
esercitarsi sugli abitanti delle località più vicine ai luoghi nei quali erano state compiute azioni partigiane. Le violenze perpetrate dalle forze militari nei
confronti di civili o prigionieri sono purtroppo una tragica costante nella storia. Il triste uso che di queste di morti viene poi fatto con gli scopi più diversi
dipende sempre da chi la storia la maneggia. Gli esempi non mancano.
Nell’aprile del 1945, presso la cittadina brandeburghese di Treuenbrietzen le
SS fucilano 127 prigionieri italiani compiendo una strage che per molto tempo resterà ignorata. Pochi giorni più tardi però i russi, nella stessa città non
esitano a fucilare circa mille civili tedeschi per vendicare l’uccisione di un
loro ufficiale. Gli stessi russi trucidano 20.000 polacchi nella foresta di Katyn. Tutti hanno sentito parlare di Marzabotto ma pochi conoscono i nomi di
località come Piano Stella o Biascari in Sicilia dove gli americani avrebbero
passato per le armi numerosi civili italiani nel corso di una serie di esecuzioni sommarie ingiustificate. Gli uomini del generale Patton avrebbero anche
fucilato senza un motivo apparente 73 prigionieri di guerra italiani.1 In anni
recenti proprio per far luce su tali episodi, la procura militare di Padova aprì
un’inchiesta passata del tutto inosservata. Ma torniamo in Grecia. Febbraio
1943: un convoglio italiano è in movimento nei pressi del villaggio di Domenikon. Da un’altura che si trova nelle vicinanze alcuni uomini che fanno parte della resistenza ellenica aprono il fuoco uccidendo nove dei nostri soldati.
In applicazione della circolare Geloso i greci vanno dunque puniti. Essendo
stato naturalmente impossibile catturare gli autori materiali dell’uccisione dei
militari italiani, viene deciso che a pagare per la loro morte saranno gli abitanti del villaggio più vicino al luogo dell’imboscata: Domenikon. La picco1 Si vedano in proposito: Carlo D'Este, Lo sbarco in Sicilia, Milano, Mondadori, 1990, Ezio
Costanze, Sicilia 1943, Le Nove Muse, 2003, Gianfranco Ciriacono, in: Arrivano..., Vittoria,
Comune di Vittoria, 2003, Le stragi dimenticate, Provincia regionale di Catania, 2003 e Alfio
Caruso, Arrivano i nostri, Longanesi, aprile 2004.
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la località; del tutto ignara della sorte che l’attende, dovrà essere distrutta. E’
il 16 febbraio 1943 quando scatta la feroce rappresaglia. Sarà solo la prima.
Fino ad allora gli italiani erano stati soprattutto dei simpatici Dongiovanni
interessati a flirtare con le donne, ma le cose erano destinate a cambiare. Nelle prime ore del pomeriggio gli uomini della divisione «Pinerolo» circondarono il villaggio e concentrarono la popolazione nella piazza centrale del paese. Completato il rastrellamento gli abitanti sono costretti ad osservare gli
aerei italiani sganciare bombe incendiarie sulle case di Domenikon. Il paese
va rapidamente a fuoco. La popolazione vien poi costretta a marciare fino al
luogo nel quale i partigiani avevano attaccato il nostro convoglio. Là gli uomini vennero separati dalle donne e a tutti i maschi di età superiore ai 14 anni
fu comunicato che sarebbero stati trasferiti a Larisa per essere interrogati. Era
una menzogna. All’una di notte del 17 febbraio vennero tutti passati per le
armi. Ai superstiti non restò altro da fare che provvedere al pietoso compito
della sepoltura che venne realizzata in una fossa comune. Sembra inoltre –
particolare raccapricciante - che nel corso della notte e del giorno successivo,
i soldati della Pinerolo, abbiano continuato ad uccidere contadini e abitanti di
Domenikon che si erano nascosti nei campi. Alla fine le vittime della strage
furono 150. Il massacro di Domenikon, che è stato definito «la piccola Marzabotto di Tessaglia» fu il primo messo in atto ai danni di civili durante l’occupazione della Grecia. Non sarebbe purtroppo stato l’ultimo. La tragica vicenda è stata di recente ricostruita da Stathis Psomiadis, insegnante e figlio di
una delle vittime i cui discendenti si sono impegnati – senza successo – affinché i responsabili della strage rispondessero di fronte a un tribunale del loro
operato.2 Ciò che è accaduto a Domenikon e in altre località elleniche rappresenta senza dubbio una pagina tragica e oscura dell’Italia fascista su cui andrebbero compiuti studi ulteriori evitando letture di tipo ideologico.
2 Si veda il documentario La guerra sporca di Mussolini, di Giovanni Donfrancesco, produzione: Ga&A Productions e Ert, in associazione con Fox Channels Italy, Rti e Histoire e in
collaborazione con la Radiotelevisione Svizzera Italiana
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ottobre 2010
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