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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MACERATA DIPARTIMENTO DI STUDI UMANISTICI CORSO DI DOTTORATO DI RICERCA IN STORIA DELLA FILOSOFIA CICLO XXIV TITOLO DELLA TESI Video meliora, proboque, deteriora sequor: la nozione di acrasia in Spinoza TUTOR DOTTORANDA Chiar.mo Prof. Filippo Mignini Dott.ssa Cristiana Lignini Zilioli ANNO 2013 Occorre persuadere molta gente che anche lo studio è un mestiere, e molto faticoso: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo, la noia e anche la sofferenza. Antonio Gramsci A Ugo, che domani sia ancora come oggi, e per sempre “Dunque tu chi sei?” “Una parte di quella forza che vuole costantemente il Male e opera costantemente il Bene” Goethe, Faust Indice Prefazione PARTE I: L’ACRASIA IN SPINOZA Introduzione. Prolegomeni: archeologia di un’idea 1) L’argomento: etimologia e traduzione latina del termine akrasia 2) Una breve cornice iniziale degli studi sull’acrasia 3) Spinoza come lettore degli Stoici e di Aristotele 4) La struttura della tesi Capitolo 1. Interpretazioni e problemi dell’acrasia in Spinoza 1) La recente interpretazione di Pinheiro 2) Gli studi di Lin e di Gagnon 3) L’interpretazione di Michael Della Rocca 4) Bennet sulla schiavitù Capitolo 2. La nozione di acrasia nei testi di Spinoza 1) La presenza dell’acrasia nei testi: la citazione di Ovidio 2) L’acrasia e la fortuna 3) L’acrasia e la teoria degli affetti 4) L’acrasia e l’immaginazione PARTE II: SPINOZA E I CLASSICI SULL’ACRASIA Capitolo 3. Spinoza e i classici 1. Spinoza e i classici: le ragioni di un confronto 2. L’acrasia e il desiderio: Aristotele 3. L’acrasia e il giudizio sbagliato: gli Stoici 4. Spinoza, Aristotele e gli Stoici sull’acrasia: novità e prospettive Capitolo 4. Tra desiderio ed ignoranza: l’originalità di Spinoza 1) L’acrasia nella storia del pensiero: modelli teorici a confronto 2) L’originalità di Spinoza sull’acrasia 3) La novità di Spinoza: l’acrasia, una debolezza dell’appetito 4) Tra impotenza e libertà: il fenomeno acratico Conclusioni Riferimenti bibliografici 1) Sull’acrasia in generale 2) Sull’acrasia in Spinoza: testi e studi 3) Sull’acrasia nei classici: testi e studi 4) Letteratura secondaria Prefazione “Se istruisci un bambino, avrai un uomo istruito. Se istruisci una donna avrai una donna, una famiglia e una società istruita” (Rita Levi Montalcini). E’ con questo pensiero di Rita Levi Montalcini (che qui ricordo e che proprio in questi giorni è venuta a mancare) che apro la mia prefazione alla tesi, proprio per sottolineare la fatica e l’impegno, le difficoltà e gli ostacoli che ogni donna, in generale nel lavoro e in particolare nello studio, è chiamata a vivere. Non ho mai avuto il piacere di conoscere Rita Levi Montalcini di persona, ma ho avuto l’onore di essere in contatto epistolare con lei, una volta, in occasione di una richiesta, da parte mia, di riflessione sulla situazione dell’istruzione delle donne africane, questione molto cara alla signora Levi Montalcini. Una signora la cui dignità, intelligenza, forza e umanità è d’esempio per ogni donna. Sebbene lei resti per chiunque un modello irraggiungibile, quasi di perfezione, prendo spunto dalle sue parole per ricordare qui che anche questa tesi è una storia di donna ed è stata per me, per certi aspetti, una storia di fatica, di difficoltà, ma di impegno e di forza al contempo. Sin dall’inizio di questa ricerca, sovente mi sono chiesta perché mai avessi voluto riprendere a studiare e avessi scelto proprio questa tematica per confrontare Spinoza con i classici, l’acrasia, così tanto dibattuta tra gli antichi e così negletta negli studi spinoziani 1 specialistici. Questi anni di dottorato, infatti, coincidono con il tempo della famiglia, un tempo dedicato per lo più ai nostri due figli ancora piccoli che stanno crescendo e che per di più sono home-schoolers, vale a dire istruiti in casa da mio marito e da me. Sono stati anni di spostamenti, di molti viaggi in Irlanda e nel Regno Unito, dove abbiamo vissuto per lavoro, con un punto fermo in Italia, in Emilia. Sono stati anni, in breve, dedicati, prioritariamente, ai bambini perché questo era il loro tempo, e, come mi ricorda Enzo Bianchi, “ogni cosa alla sua stagione”. Sono stati, dunque, anni molto belli, ma molto intensi e impegnativi. Al ritorno da questi viaggi; dopo notti insonni per le febbri alte di nostro figlio più piccolo; quando per i rumori della quotidianità, in particolare, non riuscivo a studiare con la continuità e la concentrazione necessarie; o quando, infine, mi sentivo combattuta tra il desiderio di studiare e il dispiacere di dover sottrarre del tempo ai nostri figli, ecco, in queste situazioni e molte altre ancora, spesso, mi veniva da pensare, in maniera quasi ricorrente: “chi me l’ha fatto fare!” Solo oggi, che sono oramai alla fine, ho trovato la risposta al mio ricorrente quesito ed è stato proprio Spinoza a suggerirmela. Dopo tanti anni, non più sopraffatta dall’entusiasmo e dalla curiosità, a tratti acritici, tipici della gioventù, rileggere l’Etica ha rappresentato per me un’esperienza non solo dell’intelletto, ma anche di vita. Un percorso di illuminazione e di libertà. Pochi filosofi riescono a segnare 2 anche un’esistenza, e Spinoza è tra questi. Al tempo d’oggi, un tempo vale a dire caratterizzato dalla fretta, dalla corsa a chi pubblica di più e dalle ambizioni accademiche, nonché dalla superficialità, pochi studiosi riescono a leggere e studiare per il solo piacere di farlo. Ecco io, grazie a Spinoza, ho scoperto la lettura filosofica per diletto e mi sono riappropriata del tempo del silenzio, un tempo disteso e di agio, che, unico, si affaccia su un orizzonte di pace. L’aver ripreso, inoltre, in mano l’Etica (dopo molto tempo), mi colpisce particolarmente anche per un’altra ragione, specie se ripenso oggi a quanto accaduto nella mia esperienza di studentessa universitaria. Durante l’esame sull’Etica di Spinoza, infatti, negli anni dell’Università, il professore alla fine del colloquio mi chiese che cosa mai volessi farne di quella conoscenza acquisita dell’etica di Spinoza, ma a quel tempo io avevo già iniziato la mia tesi di laurea in filosofia antica (incontrando così solo cronologicamente dopo, e per accidente, Spinoza e il suo pensiero, anche se ricordo ancora il sottile dispiacere che questo fatto, in verità, mi suscitò). Mi stupisce ancor di più, infine, se ripenso che in questi anni, senza mai sapere perché, in tutti e nei tanti spostamenti e traslochi che abbiamo avuto, ho sempre portato con me una copia dell’Etica di Spinoza, nella bellissima traduzione di Emilia Giancotti Boscherini. Sono felice, dunque, di essere riuscita a trovare una risposta a questi ‘piccoli’ avvenimenti (personali) che si 3 sono succeduti, anche se il significato che ha l’Etica di Spinoza per me è compendiato solo in minima parte in questa tesi. Come scrive Giorgio Colli, “L’Etica richiede lettori non pigri, discretamente dotati e soprattutto che abbiano molto tempo a loro disposizione. Se le si concede tutto questo, in cambio offre molto di più di quello che ci si può ragionevolmente attendere da un libro: svela l’enigma di questa nostra vita, e indica la via della felicità, due doni che nessuno può disprezzare”. Non penso di essere stata una lettrice pigra di Spinoza; penso di essere discretamente dotata e forse non ho avuto sempre a mia disposizione il tempo che avrei voluto, ma tutto quello che mi è stato dato è, in breve, troppo bello per essere riferito e, del resto, “tutte le cose eccellenti sono tanto difficili quanto rare”. “L’Etica ha la fermezza di un tempio, in un paesaggio disabitato: se sapremo contemplarlo, penetrare devoti nel suo interno, conosceremo il divino” (G. Colli). Con questa prefazione intendo così, in particolare, esprimere la mia gratitudine ad alcune persone, per essere riuscita, anche grazie a loro, a svolgere questo lavoro e scrivere la tesi. Accademicamente, ringrazio Filippo Mignini, in qualità di mio tutor, per avermi lasciata libera di proseguire una ricerca che, sin dall’inizio, poteva destare qualche perplessità, dato lo stato degli studi spinoziani sull’acrasia da parte di specialisti italiani. Non posso non ringraziare, inoltre, all’interno del Dipartimento di Studi Umanistici di 4 Macerata, Marcello La Matina, per essere stato l’unico a mostrarsi interessato ad un nuovo approccio a Spinoza, non diffuso in Italia, approccio che risente in maniera decisiva dei fiorenti studi spinoziani prodotti in ambito anglosassone da filosofi analitici (è bene qui precisare che intendo con analitico non una tradizione che si riconosce in alcuni principi filosofici, ma quell’ambito di pensiero che mira principalmente alla chiarezza espositiva e al dettaglio argomentativo). La sua curiosità per il mio lavoro mi ha molto colpita e resa felice. Filosoficamente parlando, ringrazio Chris Gill: i suoi studi, le sue idee e il suo stile, oggi come allora, sono per me punti di riferimento notevoli. Ringrazio anche Christopher Rowe, filosofo e amico, per i suggerimenti che mi ha dato. Ringrazio, infine, Terry Penner, un filosofo americano e una grande mente, per aver orientato meglio i miei argomenti sull’acrasia in Spinoza. A livello personale, ringrazio di cuore la Dott.ssa S&B, che mi ha insegnato quanto sia essenziale ed importante nell’etica della vita la chiarezza della mente, così come la chiarezza di parole e di atti. Un grazie va anche a Cristina e al Dott. M&M che, con tatto e delicatezza, mi hanno aiutata in un momento di difficoltà e di fatica che ho attraversato in questi anni. Grazie a loro ho ritrovato l’energia necessaria per superarlo. Tra le persone amiche, ringrazio Milena Marzialetti, mia amica da sempre, che mi ha aiutata nella traduzione dal francese di molti 5 articoli su Spinoza, specie all’inizio della mia ricerca, quando ero ancora nelle Marche. Un grazie va anche ai miei nuovi amici emiliani: a Margherita, sempre piena di vita, per aver illuminato con i suoi sorrisi contagiosi il mio primo tempo in questa terra. A Giovanni e sua moglie Vincenza: li ringrazio perché con la loro giovialità mi hanno accolta con calore, facendomi sentire subito a casa. Ringrazio, infine, Tina, la cui amicizia e saggezza sono per me sempre fonte di serenità, specie quando lo sconforto prendeva il sopravvento. Un grazie generico va invece all’Emilia, in quanto regione geografica, dove ho trascorso serenamente il periodo finale di dottorato: a questa terra di nebbie e di eccessi (freddo d’inverno e afa d’estate), ma anche terra di pianura e di libertà, in cui gli orizzonti si perdono lontano. Un grazie pieno d’amore e particolare va ai miei due figli, Zoe e Delio, con l’augurio che possano essere sempre liberi e felici come sono oggi. Grazie al loro amore e alla loro attenzione ho potuto sempre contare sulla loro comprensione, sia quando mia figlia, otto anni, mi diceva di fare una pausa perché ero stravolta, sia quando mio figlio più piccolo, sei anni, facendo sorridere tutti noi, e in maniera più commovente (iniziando da poco ad esercitare la sua calligrafia), mi scriveva: “Cara mamma, so che ti manca poco per finire la tesi di Spinoza, e comunque tu per me sei più importante di lui”. 6 Un grazie, finale, ma primo in sé, va a mio marito Ugo. La sua cura per me, la dedizione e l’attenzione nei miei confronti, mi commuovono ogni giorno. Lo ringrazio anche per il sostegno concreto che ha dato alla mia tesi: con lui ho discusso e confrontato tutte le idee centrali del lavoro, essendo egli un giudice severo; da lui ho imparato molto. Mi ha insegnato, in particolare, a guardare le cose della filosofia in maniera non conformista. Come egli ricorda nel suo ultimo libro, citando Lenin, per raddrizzare un ferro storto bisogna torcerlo completamente dalla parte opposta. Grazie a lui, ho imparato allora, nei fatti, quanto Spinoza mi ha rammentato, nell’intelletto, ho imparato cioè a far filosofia divertendomi. Per queste ragioni allora, e per molte altre ancora, a lui soltanto dedico questa tesi con molto amore, perché domani sia ancora come oggi, e per sempre. 7 PARTE I L’ACRASIA IN SPNOZA Sed omnia praeclara tam difficilia, quam rara sunt “Ma tutte le cose eccellenti sono tanto difficili quanto rare” Spinoza, Etica P 42 S 8 Introduzione Prolegomeni: archeologia di un’idea 1. L’argomento: etimologia e traduzione latina del termine ‘akrasia’ Ogni ricerca, in genere, muove da una domanda di fondo che l’avvia e che costituisce l’oggetto stesso dell’indagine. La ricerca delle risposte al quesito o interrogativi iniziali può rappresentare, in un certo qual modo, la traccia, lo schema che guida e orienta il lavoro. Per quello che concerne questa mia ricerca, in particolare, il quesito iniziale che mi sono posta riguarda la possibile definizione della nozione di acrasia in Spinoza. Che cosa s’intende per acrasia nella filosofia spinoziana? E’ possibile darne una definizione chiara? Come si caratterizza l’acrasia e quali sono i presupposti, le possibili cause del fenomeno acratico? Perché la necessità di confrontare Spinoza con i classici sull’acrasia? Infine, all’interno del dibattito che c’è stato e che è ancora in corso, per lo più in ambito anglosassone, dove e come s’inserisce il mio lavoro? Questi, in breve, sono gli interrogativi di fondo da cui sono partita. Prima, tuttavia, di introdurre l’argomento in Spinoza, precisando la struttura di questa ricerca, trovo utile soffermarmi 9 sull’acrasia in generale. Così facendo, cerco di chiarire, in primo luogo, l’etimologia e la possibile traduzione del termine ‘akrasia’. Secondariamente, intendo fornire il lettore di una cornice sintetica dei possibili modelli interpretativi che si sono succeduti nella storia del pensiero filosofico circa il fenomeno acratico, a partire dalla filosofia greca fino ai giorni nostri, cornice entro cui collocare la nozione spinoziana di acrasia, per mostrarne in particolare tutta la sua originalità. Con il termine ‘acrasia’ si può intendere, in genere, quella debolezza, disposizione o condizione dell’individuo secondo cui un uomo è portato ad agire contro il proprio miglior giudizio. Essa è una forma di mancanza di autocontrollo, caratterizzata da un forte conflitto tra un giudizio circa il meglio o il bene di un individuo e l’azione verso il peggio1. Il corso d’azione seguito si oppone al giudizio migliore che si è precedentemente formulato circa il da farsi. L’acratico così, incapace di dominarsi, non è in grado di orientare la propria azione verso il meglio e, pur vedendo ed approvando il meglio, egli seguirà tuttavia il peggio. L’acrasia presuppone un conflitto, in breve, tra giudizio, desiderio ed azione, strettamente intesa. 1 Si veda akrasia nel The Greek Philosophical Vocabulary, a cura di J.O. Urmson (1990), pp. 17-18. 10 Etimologicamente parlando, il termine akrasia ha una doppia e possibile derivazione. Nella lingua greca esistono, infatti, due termini di akrasia, uno con l’alfa breve e l’altro con l’alfa lunga: akrasia o akrâsia. Akrasia con l’alfa breve deriva dall’unione dell’alfa negativo con il termine kratos (da krateo) da cui l’aggettivo a-kratês, da akratos, mancanza di forza, potere, dominio, da cui si deduce il significato più noto di akrasia come debolezza, mancanza di autocontrollo, incontinenza o intemperanza. L’aggettivo enkratês, opposto ad akratês, viene riferito all’individuo appunto forte, padrone di sé e in quanto tale non acratico. Il termine, invece, akrâsia con l’alfa lunga può derivare anche dall’unione di alfa negativo e il verbo kerannumi (da cui krasis) che vuol dire mescolare, mescere vino, riferito alle bevande, da cui l’aggettivo akrâtos, cioè non mescolato o mal temperato. In riferimento alle persone questa seconda accezione di akrâsia significherebbe eccessivo, violento, non temperato, un po’ come il vino puro quando è troppo forte e non mescolato2. L’uso 2 Liddel & Scott (1996), circa l’uso di akratos con l’alfa lunga. Si veda anche il vocabolario della lingua greca, GI, di Franco Montanari circa il significato traslato dell’aggettivo akratos (con la lunga) inteso come eccessivo, violento. Circa, infine, la radice kra con l’alfa lunga, consultando il dizionario etimologico della lingua greca, Chantraine, vengono segnalati dei studi di approfondimento quali: Van Groningen (1965), Ermeneus; Den Dulk (1934), Krasis, Bijohage tot de Grieksche Lexicographia. 11 dell’aggettivo akrâtos con l’alfa lunga è attestato, ad esempio in Eschilo (Prometeo incatenato 678) e in Aristotele (Retorica III, 1406a10), mentre non è attestato il sostantivo akrâsia con la lunga. A partire da Aristotele si è così tecnicizzato l’uso di akrasia con l’alfa breve, con il significato che ancora oggi ha di acrasia come debolezza, mancanza di autocontrollo, incontinenza3. Nei testi spinoziani, ovviamente non ritroviamo il termine greco akrasia, dal momento che Spinoza scrive in latino (o comunque in una lingua altra dal Greco antico, che, pare, egli ammirasse per eleganza e capacità espositiva: TTP, X). Il lemma ‘akrasia’ e affini non compare mai all’interno del corpus spinoziano. Come ipotesi di lavoro, nata da un vaglio attento dei testi, ho assunto che in Spinoza il termine latino che può essere concettualmente più vicino al greco 3 Sarebbe interessante capire se le due etimologie di akrasia corrispondano ai due significati di akrasia presenti in Aristotele, per ‘debolezza del desiderio’ e ‘per precipitazione’ o ‘impetuosità’, ma alla luce di indicazioni ricevute in tal senso, non esistono attestazioni a partire dalle quali sia possibile sostenere questa corrispondenza. A tal proposito, ringrazio per i loro suggerimenti, Simonetta Nannini, professoressa all’università di Bologna di letteratura greca e Christopher Rowe, professore di Greco a Durham, e noto studioso del pensiero antico. 12 ‘akrasia’ sia quello di ‘impotentia’ (così come ‘akratês’ potrebbe essere reso con ‘impotens’)4. A partire dagli Stoici, infatti, non esiste più una distinzione concettuale e terminologica tra akrasia e akolasia, tra acrasia e intemperanza, così come essa è presente in Aristotele. Come spiegherò a fondo nel terzo capitolo, per gli Stoici tutti i tipi di pathos rinviano ad un certo tipo di acrasia, per cui coloro che provano delle emozioni sono tutti possibili e potenziali vittime di acrasia. Tutte le passioni, all’acrasia intemperanza stessa. compresa, Questo sono spiegherebbe riconducibili anche pertanto l’oscillazione ciceroniana dell’uso di intemperantia o impotentia indifferentemente per definire l’acrasia. Occorrerà poi stabilire se l’acrasia e l’impotentia, pur rimandando apparentemente a fenomeni diversi, non siano in realtà due concetti sovrapponibili, o addirittura isomorfi; oppure, se ci sia uno scarto concettuale tra le due idee, in modo tale che non tutti i casi di impotentia siano esempi di atti acratici. In 4 Sul termine ‘impotens’ (o la sua variante ‘inpotens’) come equivalente latino di akratês, si veda Cicerone, Le Tusculane; Seneca, De ira II.4.1, secondo i quali gli acratici sono impotenti. A tal proposito, si veda, Gill (2006). 13 quest’ultimo caso, l’acrasia risulterebbe essere solo un tipo di impotentia, ovvero un difetto della potentia5. 2. Una breve cornice iniziale degli studi sull’acrasia Ritornando al tema dell’acrasia più in generale, essa è una questione molto studiata da sempre, sin dai filosofi greci, e ancora oggi suscita molti dibattiti. Nel corso del lavoro spiegherò più analiticamente le diverse interpretazioni che sono state formulate sull’acrasia, specie in relazione a Spinoza. A livello introduttivo, mi limito qui a ricordare che nell’antica Grecia sono stati teorizzati due modelli interpretativi di acrasia, con delle varianti significative: il modello elaborato da Socrate e una seconda teoria formulata da Platone6. A partire da 5 Mi dilungo su questa affinità linguistica e concettuale tra i termini akrasia e impotentia nel capitolo conclusivo. 6 Per un’introduzione generale del dibattito antico sull’acrasia, si veda Bobonich-Destrée (2007), sulla nozione di akrasia nella filosofia greca da Socrate e Plotino. Interessanti sono gli studi di White (2002) sull’individuo e la natura del conflitto nell’etica greca; e di Price (1995) sul conflitto mentale e più di recente Price (2011) sull’acrasia nel mondo greco. Sempre fondamentali restano gli studi di Wiggins (1979). Per una panoramica ancora 14 queste due interpretazioni, al loro interno, possono essere inserite le posizioni filosofiche di Aristotele e degli Stoici sull’acrasia, che riprendono quella platonica il primo, quella socratica i secondi. Entrambi questi modelli sono stati un faro filosofico anche per i pensatori successivi che si sono occupati di acrasia7. Tra questi, Hare, che, mutuando da Socrate la spiegazione del fenomeno acratico, nega la possibilità stessa dell’acrasia. L’acrasia per Hare non esiste come caso di debolezza della volontà, ma solo come possibile caso di ignoranza, per cui lo studioso di fatto la nega: non è possibile che più ampia che parte dal mondo classico e giunge sino al presente, si veda Hoffmann (2008) sull’acrasia da Platone ai giorni nostri. 7 Per un’introduzione generale degli studi contemporanei sull’acrasia, si veda la voce ‘weakness of will’ nella Stanford Encyclopedia of Philosophy al seguente indirizzo: http://plato.stanford.edu/entries/weakness-will/. Si vedano, inoltre, in particolare gli studi di: Mortimore (1971) come sintesi delle posizioni classiche e contemporanee sull’acrasia. Si vedano inoltre: Buss (1997) e Charlton (1988). Utile a tal proposito, anche la panoramica molto approfondita degli studi contemporanei sul free will presente in Kane (2002), dove il free will viene trattato in relazione all’acrasia nella teologia, all’interno della metafisica determinista e indeterminista, in relazione all’etica e alle neuroscienze. 15 qualcuno faccia consapevolmente il male8. Davidson, al contrario, ammette l’acrasia ma come un possibile conflitto tra desideri più o meno razionali9. Tralasciando le soluzioni internaliste ed esternaliste dell’acrasia formulate in epoca contemporanea10, dopo Davidson il dibattito prosegue con filosofi del calibro di Bennett e McIntyre il quale, in particolare, ritiene l’acrasia come potenzialmente razionale e non un atto puramente irrazionale11. Holton, infine, introduce un nuovo elemento di riflessione nel dibattito contemporaneo, ritenendo l’acrasia come un possibile caso di azione non contro il proprio miglior giudizio, bensì contro le intenzioni12. A partire da questa cornice sommaria delle posizioni filosofiche sull’acrasia, la spiegazione di Spinoza, come chiarirò meglio nel prosieguo della tesi, emerge nuova e originale. Più in particolare, la questione dell’acrasia risulta poco nota tra gli spinozisti, o forse solo meno studiata rispetto invece al tema dell’impotentia o 8 R.M. Hare (2001) sulla debolezza della volontà e Hare (1963) sulla libertà e la ragione. 9 Davidson (1969) sulla debolezza della volontà e Davidson (1982) sui paradossi d’irrazionalità in Davidson (2006). 10 Bratman (1979); Tenenbaum (1999); Stroud (2003). Si veda anche Mele (1987) e (1991). 11 McIntyre (1990); Bennett (1974). Si veda anche Arpaly (2000). 12 Holton (1999). 16 schiavitù, che è invece più conosciuto tra gli studiosi, in particolare per la sua centralità nelle teorie etico-politiche di Spinoza13. Come risulterà dal prossimo e primo capitolo, solo a partire dal 1984 spinozisti del calibro di Bennet, Nadler e Della Rocca e, più recentemente, Gagnon, Lin e Pinheiro si sono dedicati specificatamente all’esame del problema dell’acrasia in Spinoza, con risvolti interessanti. Mai sino ad ora però si è cercato di approfondire la strada che conduce a collegare la nozione di schiavitù (impotentia) a quella di acrasia. Solo Pinheiro ha tentato di spingersi sino a qui, giungendo a parlare di una possibile identificazione (o quanto meno di una riduzione concettuale) del fenomeno di schiavitù-impotentia a quello dell’acrasia—anche se di recente ha in parte rivisto la sua posizione e mostrato più cautela. Nel suo primo studio sull’acrasia in Spinoza, Pinheiro riteneva infatti che tutte le forme di schiavitùimpotentia fossero riducibili all’acrasia. Più recentemente, in una comunicazione personale per posta elettronica egli ha rivisto le sue tesi, pur ribadendo che l’impotentia o la schiavitù eticamente rilevante per Spinoza sia pur sempre l’acrasia. 13 James (2009) in The Cambridge Companion to Spinoza’s Ethics a cura di Olli Koistinen. Susan James in particolare collega Spinoza a Platone circa la concezione politica della schiavitù. 17 Più in generale, tuttavia, esiste una sorta di “scetticismo” diffuso tra gli studiosi di Spinoza, almeno tra quelli di tradizione continentale, circa l’effettiva presenza dell’acrasia in un sistema filosofico come quello spinoziano, dove tutto ciò che esiste e agisce, esiste e agisce necessariamente. In natura per Spinoza non è ammessa nessuna forma d’ imperfezione in genere, nessun tipo di male. Così dicendo, come e perché un uomo giunge a seguire acraticamente un male che, in sé, sembra non esser neppure ammesso da Spinoza e dal suo razionalismo? Nell’Appendice alla I parte dell’Etica, egli ricorda che tutte le cose della natura procedono con necessità e con somma perfezione. Come sarà possibile allora asserire e spiegare l’acrasia in Spinoza? Questo interrogativo, che a prima vista può apparire come una difficoltà insormontabile, in verità viene raccolto in questa indagine come una sfida non solo possibile, ma filosoficamente fruttuosa. Come mostrerò nel prosieguo del lavoro, la possibilità per l’uomo spinoziano di agire acraticamente non si spiega solo alla luce del fatto che egli può essere in balìa della fortuna. Quasi costretto dall’esterno, dalla fortuna, egli si agita in molti modi fluttuando in direzioni opposte, inconsapevole del suo destino, come le onde del mare spinte da venti contrari (EIII P17 S; EIII P59 S). L’uomo spinoziano agisce acraticamente anche alla luce della teoria dell’affettività umana più in generale, che Spinoza elabora. Più in 18 particolare, l’uomo è acratico anche per la natura del proprio desiderio e della sua possibile debolezza; a causa del rapporto conflittuale tra appetiti opposti; per il rapporto, infine, problematico esistente tra credenza (o giudizio), emozioni (o desideri) ed azione, vale a dire per la conseguente e possibile determinazione del desiderio nei confronti del giudizio. Anticipo che la nozione spinoziana di acrasia risulterà nuova e originale, specie se vista in controluce con i classici. Confrontare, dunque, Spinoza con i classici sull’acrasia sarà inevitabile, così come chiarire ora, qui di seguito, la modalità e le ragioni del perché ritengo essenziale farlo. 3. Spinoza come lettore degli Stoici e di Aristotele Confrontare Spinoza con i classici sull’acrasia sarà essenziale non solo per far risaltare l’originalità della risposta di Spinoza al fenomeno acratico, ma il farlo è di per sé un tentativo originale, che non è stato ancora intrapreso, almeno in maniera così sistematica. I vari studiosi che si sono occupati di acrasia in Spinoza, per lo più, si sono concentrati sulla teoria morale o la teoria dell’azione, facendo qualche accenno ai pensatori classici. Nessuno, a mio giudizio, ha mai cercato 19 di esaminare in dettaglio i testi di Spinoza alla luce delle possibili analogie con i classici sull’acrasia. Mi preme, inoltre, sottolineare il fatto che Spinoza ha letto ed utilizzato i classici non per un mero intento storico o erudito, ma alla pari di un grande filosofo, quale lui è stato, per corroborare e rafforzare meglio le fondamenta del suo sistema. I classici, infine, prima di Spinoza, sono stati coloro che più di tutti hanno discusso ampiamente e costantemente nel tempo di acrasia, formulando i principali modelli teorici di riferimento ancora oggi. Circa l’acrasia, ritengo utile confrontare in particolare la nozione spinoziana con quella stoica (acrasia come giudizio sbagliato) e con quella aristotelica (acrasia come debolezza di volontà), per ragioni che risulteranno più chiare dopo. Mi limito qui a riferire alcune questioni metodologiche, vale a dire a spiegare come e quali testi classici possano essere utili in riferimento a Spinoza. Perché mi rivolgo agli Stoici e perché e ad Aristotele? Circa gli Stoici, è assodato che Spinoza li abbia letti e in qualche modo abbia potuto sentirne l’influenza14. Tuttavia, io preferisco parlare di affinità, più che di influenza circa l’acrasia. Non 14 Circa il rapporto di Spinoza con lo stoicismo, si vedano i contributi di: S. von Dunin-Borkowski (1933-1936), vol. III, pp. 45 ss.; A. Akkerman (1980); P.O. Kristeller (1984); R. Schottlaender (1986). Si veda infine J. Miller (2009). 20 intendo infatti dimostrare (né voglio farlo), che Spinoza abbia subito l’influenza dello stoicismo, né quanto di stoico (o anche di aristotelico) vi sia nel suo pensiero. Spinoza è e resta un pensatore, a mio avviso, troppo originale. Penso invece che sia più ragionevole procedere per polarità ed analogie concettuali, a partire dalle quali sarà possibile rileggere i testi spinoziani alla luce di possibili affinità con le teorie degli Stoici e di Aristotele sull’acrasia (che è poi un modo di rileggere gli stessi classici greci alla luce di Spinoza)15. Non intendo allora mostrare quanto di stoico o di aristotelico vi sia in Spinoza circa l’acrasia, bensì confrontarlo con i classici per far emergere l’originalità della posizione spinoziana in tutta la sua novità. Ritornando agli Stoici, nella biblioteca di Spinoza sono presenti l’edizione latina delle Lettere a Lucilio di Seneca a cura di Giusto Lipsio (1649); così come una versione olandese del De Brieven van Seneca. Troviamo pure una ristampa parziale dell’edizione di Basilea delle opere di Epitteto, curata da Wolf (1560). Spinoza conosceva anche lo stoicismo greco, mediante quegli autori che erano patrimonio intellettuale del suo tempo, come Cicerone, Epitteto, Plutarco (nei suoi scritti contro gli Stoici) e Seneca16. Egli dunque 15 Si veda, come esempio di tale approccio, mediante cioè analogie e polarità, il famosissimo studio di G.E.R. Lloyd (1966 la prima pubblicazione, molte volte ristampato). 16 Bodei (2003), p. 182 n. 3. 21 conosceva senza dubbio Cicerone e Seneca che, come vedremo, sono fonti importanti per ricostruire il problema stoico dell’acrasia, specie in Crisippo. A tal proposito, risulteranno essenziali in particolare sia il De ira di Seneca che Le Tusculane di Cicerone. Non esiste una discussione sistematica da parte degli studiosi contemporanei circa la nozione stoica di acrasia (così come invece accade per Aristotele); tuttavia, la critica recente ha riportato alla luce la questione, rivalutandola e apprezzandola filosoficamente. Il merito va senza dubbio agli studi sullo stoicismo di Christopher Gill e a Teun Tieleman che ha ricostruito, tradotto e commentato una parte fondamentale di un’opera di Crisippo, Sulle passioni, integrando notevolmente l’edizione che Hans von Arnim fece in appendice ai suoi Stoicorum Veterum Fragmenta (SVF). Tornerò, più chiaramente e lungamente, su questo nel terzo capitolo. Per quanto invece concerne la lettura di Aristotele da parte di Spinoza, la questione è ben più problematica, rispetto al fatto che Spinoza sia stato un lettore degli Stoici. In particolare, in questo lavoro, riguardo alle opere aristoteliche, mi riferisco all’edizione latina delle opere di Aristotele (Basilea 1548), presente nella biblioteca spinoziana e tradotta e annotata da Filippo Melantone, definito da Spinoza stesso “uomo accorto amante della verità” (Epistola n.69 Mignini = LIII G). Prima di elencare i testi di Aristotele utili al fine di definire la nozione aristotelica di acrasia (che tratterò 22 più analiticamente nel corso del lavoro), premetto alcune precisazioni importanti. All’inizio di questo mio dottorato, prima di scegliere il tema dell’acrasia in Spinoza come oggetto d’indagine specifica, ho speso molto tempo nella ricerca e nell’approfondimento della possibile presenza delle teorie di Aristotele nella filosofia spinoziana, specie alla luce dell’edizione di Melantone. Non posso dilungarmi su questo qui, oltremodo, perché mi allontanerei troppo dallo scopo introduttivo di questa trattazione, ma mi limito a riferire alcune riflessioni svolte e risultati conseguiti, utili ai fini della mia attuale ricerca17. Per quanto riguarda la possibilità che Spinoza sia stato un lettore di Aristotele, è bene precisare alcune questioni. La prima riguarda proprio la presenza “diretta” e “indiretta” di Aristotele “in Spinoza” o “a Spinoza”. Con “diretto” intendo, infatti, una lettura di 17 Rammento tuttavia, in nota, la fatica, e il piacere, per essere riuscita a consultare non tanto l’edizione di Melantone (che ho ovviamente in casa, riprodotta in maniera digitale), ma per aver potuto controllare anche le due edizioni precedenti quella di Melantone, nel tentativo di comprendere quale edizione dal greco Melantone avesse mai potuto tradurre: l’editio princeps aldina in 5 volumi del 1495-98 (presente alla Palatina di Parma) e l’edizione successiva, uscita a Basilea nel 1531 e curata da Erasmo da Rotterdam (presente al Centro Apice di Milano). 23 prima mano delle opere di Aristotele (EM, edizione di Melantone) da parte di Spinoza a partire dalla quale possiamo asserire che Aristotele sia presente “in Spinoza”. Con “indiretto”, invece, intendo una lettura di seconda mano, indiretta, che Spinoza ha potuto svolgere attraverso la tradizione scolastica, arrabo-giudaica e rinascimentale, a partire dalla quale Aristotele è presente “a Spinoza”. Terminologicamente parlando, vanno invece diversamente intesi i rinvii “diretti” e “indiretti” ad Aristotele, presenti nei testi spinoziani. Lo Stagirita infatti, dopo Cartesio, è senza alcun dubbio l’autore più citato da Spinoza: in 11 occorrenze del corpus spinoziano Aristotele viene esplicitamente nominato, in maniera dunque diretta; indirettamente inoltre Spinoza richiama spesso teorie aristoteliche, non fosse altro che per criticarle. Un rinvio, tuttavia, diretto non coincide necessariamente con una lettura “diretta”, di prima mano; così come un rinvio “indiretto” non la esclude18. Di qui deriva la seconda precisazione che intendo fare. Alla luce di quanto detto, riguardo la possibile lettura da parte di Spinoza di Aristotele, occorre distinguere, terminologicamente, l’uso di “Aristotele”, “aristotelismo”, “aristotelismi”. Con il termine “aristotelismo” intendo, in generale, una vasta conoscenza indiretta 18 Circa i rinvii diretti, le 11 occorrenze sono: BT I, 6; II, 3 n.2; II, 17; CM I, 1; II, 6; TTP Pref.; 1, 5, 7, 13; Epistola n.72. 24 che Spinoza aveva della tradizione aristotelica successiva, sia quella arabo-giudaica che quella scolastica. L’Aristotele, dunque, presente “a Spinoza”. Con il termine, invece, “aristotelismi” intendo distinguere quattro momenti storici differenti dell’aristotelismo stesso19. Con il nome “Aristotele” mi riferisco alla filosofia dello Stagirita che Spinoza ha potuto conoscere direttamente di prima mano tramite l’edizione di Melantone. L’Aristotele presente “in Spinoza”. Se uno dei problemi dello spinozismo sembrava, infatti, essere il fatto che Spinoza, pur conoscendo e utilizzando la filosofia aristotelica “con una certa larghezza”, richiami spesso l’Aristotele delle tradizioni arabo-giudaiche e quelle scolastiche, precisando qui l’uso che intendo fare del nome “Aristotele”, mi propongo proprio di chiarire e 19 I quattro momenti storici dell’aristotelismo sono: l’aristotelismo antico; quello arabo-ebraico; quello del Medioevo (edizione di Lohr); e infine l’aristotelismo del Rinascimento. Per “aristotelismi” intendo così una differenziazione solo temporale dell’aristotelismo stesso. Bisogna tuttavia osservare che l’aristotelismo rinascimentale è molto diverso da quello medievale, è antiplatonico e antiscolastico. A tal proposito, si vedano gli studi di Schmitt (1985), pp. 16-17; Franceschini (1957); Garin (1950). Più recentemente, Piro (2007). 25 distinguere le varie e diverse possibilità. Come suggerisce Koyré, l’aristotelismo del Medioevo non era quello di Aristotele20. A sostegno, infine, della possibile lettura di prima mano che Spinoza ha potuto svolgere, a mio avviso, di Aristotele nell’edizione latina (Melantone) che egli possedeva, mi pare importante far presente alcune questioni riguardanti la stessa edizione latina delle opere aristoteliche in esame. Un errore, oggi significativo, che Spinoza sembra aver commesso, ha condotto alcuni studiosi a ritenere con certezza che Spinoza ha utilizzato l’edizione di Melantone per leggere Aristotele. Non posso approfondire il significato di questo errore, né dilungarmi sulla storia dell’edizione in questione, ma ricordo che si tratterebbe di un errore di citazione. Nel capitolo 6 delle Riflessioni Metafisiche, citando due opere di Aristotele, il Sulla Respirazione e la Metafisica, Spinoza avrebbe citato Meth. XI, 7 al posto di Meth. XII, 7. Gli studiosi oggi sono concordi nel ritenere che non sia Spinoza a sbagliare, come fosse uno studente sprovveduto che copia male un riferimento (magari di seconda mano); al contrario Spinoza sta citando la pagina di riferimento che ha sotto gli occhi, vale a dire quella di Melantone21. 20 Koyré (2002). Si veda Semerari (1952), pp. 21-22 circa il problema dello spinozismo in relazione ad Aristotele. 21 La Metafisica nell’edizione di Melantone omette completamente il libro XII, non nel contenuto, solo nell’intestazione della pagina in alto. Dal libro 26 Questa pagina (467 del terzo tomo – volume 2 EM, Basilea, linee 1420) corrisponde al passo in questione di Meth. XII, 7, ma contiene l’errore nella citazione nel margine alto della pagina, in cui si legge Meth. XI, 7. Già Bruno Widmar, nel 1970, e Frédéric Manzini, in un suo noto studio recente su Aristotele e Spinoza (2009), hanno approfondito e argomentato a favore di quanto ho poc’anzi sostenuto circa Spinoza e l’Aristotele dell’edizione di Melantone22. Di recente, infatti, grazie agli studi di Manzini, è stata rivalutata quest’edizione di Melantone, altrimenti trascurata. Per un lungo periodo purtroppo si era erroneamente confusa l’opera in XI passa al libro XIII, così che l’intestazione del libro XI serve ad indicare sia il libro XI che il XII. Sfogliandola, inoltre, con attenzione ho individuato anche altri errori di intestazione. 22 Manzini (2009) ha controllato altre edizioni di Melantone in cui questo errore è presente: una copia in Francia; la copia presso la Bodleiana di Oxford; la copia a Basilea; e, grazie ad un controllo svolto da P. Steenbakkers, anche la copia posseduta a Utrecht. Da parte mia, aggiungerei le due copie che ho controllato in Italia, vale a dire quella presso la Planettiana di Jesi e la copia posseduta dalla Palatina di Parma. Manzini, inoltre, approfondisce anche il riferimento al passo del De Respiratione (Sulla Respirazione), mostrando come Spinoza si riferisca ad esso, passo contenuto proprio nell’edizione di Melantone. Per altri studi più generali su Spinoza ed Aristotele, si vedano: Guttmann (1912); Hamelin (1900). 27 questione con l’Ars Retorica di Pietro Vettori. Solo nel 1899 Freudenthal segnalò l’edizione di Melantone, e più tardi Dunin Borkowski aggiunse che si trattava di un’edizione che circolava al tempo di Spinoza destinata per lo più agli studenti, cosa che io stessa ho potuto verificare dal momento che molti testi aristotelici non vengono tradotti dal greco da Melantone alla lettera, ma vengono spesso solo riassunti23. Alla luce, infine, di un articolo di Filippo Mignini sulla distinzione del metodo speculativo da quello storico-critico, è possibile stabilire dei criteri oggettivi per l’identificazione di una possibile fonte dello spinozismo24. Rebus sic stantibus, posso ragionevolmente asserire che l’edizione latina delle opere aristoteliche di Melantone è una possibile fonte del pensiero spinoziano. Le opere di Aristotele sono contenute infatti nell’elenco dei testi facenti parte della biblioteca spinoziana e sono scritte in latino. Come è stato precisato già, Spinoza segnala e richiama spesso, in maniera diretta ed 23 Nell’inventario redatto da Servaas van Rooijen (1888), p. 127, troviamo al n. 12 l’edizione di Melantone con la seguente citazione: Aristoteles 1548 vol. 2 (in folio). Si veda a tal proposito, Freudenthal (1899), p. 160; Di Vona (1960-1969), p. 207 nota 99 del tomo n. 1; Dunin Borkowski (1936), vol. IV, p. 255. Si veda infine Cranz (1984), pp. 38-49 e Lohr (1988) sulla circolazione delle opere aristoteliche tra il 1501 e il 1600. 24 Mignini (2007), pp. 211-270. 28 indiretta, i testi aristotelici. Aristotele dopo Cartesio è l’autore più citato da Spinoza; studiosi dello spinozismo come Freudenthal, Dunin Borkowski e Di Vona confermano la presenza di Aristotele E.M. tra le letture di Spinoza. Esistono, infine, molte prove interne, testuali, derivanti dall’esame critico e filologico dei testi e dal confronto tra alcuni passi spinoziani con riferimenti impliciti ed espliciti a teorie aristoteliche25. Qualcuno potrebbe obiettarmi che non ho fornito argomenti sufficienti a sostegno della possibile lettura diretta degli scritti aristotelici da parte di Spinoza, ma anche se così fosse, rimane comunque legittimo il confronto tra i due, specie alla luce dell’approccio di cui ho detto sopra, vale a dire di un possibile confronto per analogie e differenze. Questo approccio valorizza le affinità o le differenze, piuttosto che una possibile influenza, tra Spinoza e Aristotele sull’acrasia. Spinoza è un pensatore troppo originale e Aristotele forse è stato troppo intriso di aristotelismo negli scritti spinoziani, e confuso in essi dalla tradizione successiva. Ridare “originarietà” ad Aristotele e mantenere la “peculiarità” di Spinoza potrebbe dunque essere un modo per rileggere Spinoza alla luce di possibili analogie con il pensiero di Aristotele, in particolare per quanto riguarda la nozione di acrasia. 25 Manzini (2009); Morfino (2007); Piro (2007); Chiereghin (1987). 29 I testi aristotelici a cui mi riferirò nel prosieguo del lavoro sono il libro VII dell’Etica Nicomachea, interamente dedicato all’acrasia; il De Anima, specie il libro III, in cui si riprende un’accezione di acrasia come conflitto tra desideri; e passi della Retorica, sul rapporto tra desiderio e giudizio. Va da sé, infine, che questi testi di Aristotele esaminati sono stati tutti controllati nell’edizione latina di Melantone, rilevando, laddove era necessario, eventuali discrepanze con l’edizione greca. 4. La struttura della tesi La tesi strutturalmente è divisa in due parti: una prima parte riguardante la nozione di acrasia in Spinoza; una seconda invece finalizzata a confrontare Spinoza e i classici, Aristotele e gli Stoici, in particolare, sull’acrasia. Dopo aver presentato, a livello introduttivo qui, l’argomento in Spinoza, facendo cenno al dibattito contemporaneo e antico sull’acrasia; ho precisato in che senso si possa ritenere Spinoza un lettore degli Stoici e di Aristotele. Così facendo, ho chiarito il significato del confronto che farò in seguito (introduzione). Nel primo capitolo ricostruisco uno status quaestionis, delineo cioè una cornice di riferimento iniziale degli studi sull’acrasia in 30 Spinoza entro cui collocare le singole interpretazioni allo scopo, in particolare, di confrontarle tra loro. Così facendo, evidenzio subito i primi problemi emersi e formulo i primi interrogativi. Che cosa si può intendere con acrasia in Spinoza? Come definirla? E’ effettivamente presente concettualmente nei suoi scritti? Perché poi nasce la necessità di confrontare la nozione spinoziana di acrasia con quella stoica ed aristotelica? I primi risultati conseguiti, a partire da questo quadro iniziale e problematico, sono essenzialmente tre: in primo luogo mostro la presenza dell’acrasia in Spinoza come fonte di perplessità filosofica. Secondariamente, sostengo che questa non è una tematica periferica né inspiegabile all’interno del sistema di Spinoza. L’acrasia rappresenta un fenomeno carsico, in parte sotterraneo, che va dunque fatto riemergere e rintracciato. In quanto tale, essa non è geometricamente esposta (come vedremo), ma è comunque un fenomeno rilevante in quanto rinvia a temi centrali dell’etica spinoziana quali la fortuna, il desiderio, l’affettività e l’impotenza. La mia ricerca così s’inserisce all’interno del dibattito che è ancora in corso sull’acrasia, specie nei paesi di lingua anglosassone, mostrandosi a mio avviso originale e nuova, così come nuova e originale sarà la risposta all’acrasia che attribuisco a Spinoza. La mia ricerca si rivelerà allora nuova, nella misura in cui con essa cerco di definire l’acrasia spinoziana a partire dai testi in un’ottica più 31 sistematica; originale, invece, perché cerco di confrontare Spinoza con i classici in maniera più approfondita di quanto sia stato fatto sul tema dell’acrasia. Nel secondo capitolo, il mio lavoro s’impernia sull’analisi della nozione di acrasia in Spinoza, a partire da una disamina attenta dei testi. In particolare, mi concentro sulla citazione della frase di Ovidio, video meliora, proboque, deteriora sequor, presente per ben quattro volte all’interno dei testi spinoziani (EIV, Pref.; EIII, P2 S; EIV, P17 S; Lettera a Schuller n. 74 Mignini = 58 G). La frase di Ovidio è la cifra dell’atteggiamento tipico di chi agisce acraticamente, vale a dire di colui che vede ed approva il bene, ma segue poi il male. A partire da alcune riflessioni sulla traduzione dal latino della frase stessa, la analizzo, in via preliminare, alla luce della dottrina epistemologica degli Stoici, in particolare del nesso impressioneassenso (video meliora, proboque) e giudizio-azione, propriamente detta (deteriora sequor). L’azione, come mostrerò, può essere infatti difforme o conforme al giudizio. Così dicendo, possiamo delineare una sorta di quadripartizione (casi 1 e 2: atto conforme o difforme dal giudizio vero; casi 3 e 4 atto conforme o difforme dal giudizio falso), all’interno della quale il caso 2 esprime l’acrasia: un’azione difforme dal giudizio vero. Dopo un esame più generale della frase di Ovidio, mi soffermo sui quattro luoghi in cui questa è presente nei testi di Spinoza, cercando di ricostruire la cornice filosofica e concettuale 32 entro cui è collocata. Da questo esame, emerge non solo che l’uomo per Spinoza può agire acraticamente per le cause esterne, vale a dire perché egli non è padrone di sé, ma in balìa della fortuna sotto il potere della quale è così tanto sottoposto che spesso, sebbene veda il meglio e lo approvi, tuttavia egli segue il peggio (EIV, Pref.). L’uomo è acratico anche per gli affetti contrari che lo agitano e che lo indeboliscono (EIII, P2 S; Lettera a Schuller). Il conflitto interno è dunque un ulteriore causa dell’acrasia. Come ricorda Nadler, la vita dell’individuo spinoziano è una continua lotta tra le forze fuori sé stesso e al proprio interno. Il vero contrasto così non è tra intelletto e passioni, ma tra affetti in competizione tra loro. Mignini sottolinea come l’affettività umana sia una continua interazione tra affetti attivi e affetti passivi, tra azioni e passioni. Combattuto da affetti contrari e in quanto subisce l’azione delle cause esterne, l’uomo, debole nel suo appetito, agirà acraticamente, vale a dire sperimenterà un conflitto tra ciò che giudica buono e il male invece verso cui è condotto. Spinoza, tuttavia, chiarisce in EIV, P17 S che gli uomini che agiscono acraticamente sono mossi dall’immaginazione o dall’opinione, mai da vera ragione. Il giudizio pertanto circa il meglio si rivela essere una falsa idea di bene, e, in quanto tale confuso, parziale e inadeguato. Questo giudizio è inadeguato e formulato con l’immaginazione perché derivante da un appetito debole: ognuno infatti giudica secondo il proprio appetito ciò 33 che è buono e ciò che è cattivo, ciò che è meglio e ciò che è peggio (EIII, P39 S). Il desiderio-appetito precede dunque ogni attività conoscitiva, anche il giudizio: bene è ciò che io desidero, e non desidero qualcosa perché è bene (EIII, P9 S). Concludendo, il giudizio circa il meglio dell’acratico è confuso perché determinato da un appetito altrettanto debole. La prospettiva temporale, infine, è un ulteriore elemento di obnubilamento del giudizio: la cupidità derivante dall’esperienza di cose sentite, nel presente, con piacere, è più potente e forte di quella sentita rispetto al futuro (EIV, PP16-18). In definitiva, per Spinoza, se la conoscenza del bene e del male altro non è che l’affetto di gioia e tristezza con la sua consapevolezza, nell’acrasia, un affetto debole rinvia ad una conoscenza del bene e del male di tipo immaginativo. Rimane fondamentale il momento di elaborazione del giudizio, pur annebbiato che sia, per l’acratico. Non tutti i casi, infatti, in cui un affetto è debole sono casi di acrasia, ma perché ci sia acrasia bisogna giungere a formulare un giudizio. Nel capitolo terzo, dopo aver chiarito la nozione di acrasia in Spinoza e dopo averla definita una debolezza dell’appetito, la confronto con la nozione aristotelica e stoica, motivando, e approfondendo, nuovamente le ragioni stesse di un tale confronto. Alla luce di questo, emergerà più chiaramente l’originalità e la novità della risposta spinoziana all’acrasia. Nuova è la definizione, originale la spiegazione, più esaustiva. Rispetto agli Stoici, secondo cui 34 l’acrasia è un giudizio sbagliato o un puro caso di ignoranza come era per Socrate; e rispetto ad Aristotele, secondo cui l’acrasia è una debolezza di volontà o comunque un conflitto tra ragione e passioni, per Spinoza l’acrasia è, tra ignoranza e desiderio, una debolezza dell’appetito. É tra ignoranza e desiderio perché Spinoza riprende alcuni dei concetti tipici della tradizione greca riempiendoli tuttavia dei suoi contenuti. In particolare, egli riprende la nozione aristotelica di desiderio, con le dovute differenze, e la possibilità che sia il desiderio a condizionare un giudizio nell’atto acratico; egli riprende pure il concetto stoico-socratico di ignoranza acratica (o giudizio sbagliato). Nel capitolo quarto, quello finale, dopo un breve quadro dei modelli teorici classici di acrasia, mi soffermo sull’originalità e la novità della soluzione spinoziana all’acrasia, approfondendone le motivazioni filosofiche. Chiarisco, infine, in che senso asserisco che l’acrasia si manifesta come un possibile caso di impotenza, pur non coincidendo con essa. Di qui deriva il legame dell’acrasia con la nozione di libertà, nella misura in cui l’acratico è un uomo impotente, dunque servo e non libero. A partire da questa analisi, cerco di rintracciare una possibile via d’uscita dall’impasse acratica, o comunque un modo di evitarla. Anche in questo Spinoza si mostrerà essere un pensatore particolarmente originale. 35 Capitolo 1 Interpretazioni e problemi dell’acrasia in Spinoza 1. La recente interpretazione di Pinheiro26 Lo scopo di questo capitolo è ricostruire lo status quaestionis e riferire le singole interpretazioni dei diversi studiosi che si sono occupati del tema dell’acrasia in Spinoza sino ad ora, per confrontarle poi tra loro. Così facendo, sarà possibile evidenziare i primi problemi emersi da quest’analisi e fornire al lettore una cornice iniziale di riferimento, entro cui collocare la nozione di acrasia in Spinoza, che sarà trattata più specificatamente nel capitolo seguente. Da questi primi studi, nonostante le differenze di stile e di impostazione fra i vari studiosi, emerge con chiarezza non solo la presenza dell’acrasia in Spinoza 26 Ulysses Pinheiro è professore all’Università Federale di Rio de Janeiro. La sua esperienza filosofica spazia dalla storia della filosofia alla metafisica. In particolare, i temi e gli autori di cui si occupa sono la teoria dell’azione; libertà e determinismo; identità personale; teoria della conoscenza in Spinoza, Locke, Hume, Cartesio e Leibniz. Sono stata sin dall’inizio di questa ricerca in contatto con il Prof. Pinheiro che qui ringrazio per il suo prezioso aiuto e per i suoi suggerimenti. 36 come eventuale fonte di perplessità filosofica, ma anche che questa rinvii a tematiche cruciali dell’etica spinoziana, quali la fortuna, la nozione di desiderio, la teoria dell’affettività, l’impotentia e il rapporto problematico tra ragione e passioni. Queste tematiche sono trattate sovente nell’Etica ma in modo non sistematico, vale a dire che Spinoza stesso pare non evidenziare nessi concettuali diretti tra quei temi e l’acrasia. Considerato il carattere non geometrico del collegamento concettuale nell’Etica tra acrasia e possibili fenomeni contigui come la fortuna e il conflitto affettivo, lo studioso si trova nella condizione di dedurre possibili nessi filosofici, soffermandosi di più su alcuni aspetti dell’intricata questione piuttosto che altri. Ad esempio, Pinheiro si sofferma sul possibile rapporto tra schiavitù e acrasia; Lin, da parte sua, predilige indagare come il tempo influenzi l’intensità o il potere di idee e passioni. Nadler e Della Rocca individuano altri nessi all’interno della teoria dell’affettività e, più in generale, dell’azione. Da parte mia—e in questo risiede una possibile originalità di questo lavoro—mi propongo, in primo luogo, di fornire una chiara definizione dell’acrasia, a partire da un’attenta analisi dei passi dell’Etica in cui vengono descritti o allusi atti acratici. In secondo luogo, mi prefiggo di spiegare come la soluzione originalissima che Spinoza dà del fenomeno acratico all’interno del suo complesso sistema filosofico risenta in parte dell’influenza degli antichi. Altri, tra 37 gli studiosi citati, hanno semplicemente ricordato possibili affinità tra Spinoza e gli Stoici, Socrate e Aristotele circa la problematica acratica. Nessuno, tuttavia, ha confrontato in maniera sistematica e approfondita la soluzione classica a quella spinoziana. Questo non si dimostrerà un mero esercizio di paragone concettuale tra autori di diverse epoche fine a sé stesso ma—è questa la scommessa—si paleserà come il modo principe per mostrare l’originalità della soluzione spinoziana ad una problematica spesso negletta tra gli stessi spinozisti. È giunto ora il momento di passare in rassegna le varie, seppur esigue, interpretazioni degli studiosi succitati a proposito dell’acrasia in Spinoza. Ulysses Pinheiro dedica due lunghi articoli alla trattazione del problema dell’acrasia in Spinoza. Nel 2007 pubblica in portoghese brasiliano Servidão e acrasia segundo Espinoza e nel 2009 approfondisce e rivede questo primo studio, in Acrasia, metamorfoses e o suicìdio de Seneca na Etica de Espinosa, collegando la nozione di acrasia alla questione del suicidio, ritenendo quest’ultimo un modello estremo di conflitto interno. Dedico uno spazio maggiore a questa interpretazione rispetto alle altre non solo perché l’ho potuta approfondire e discutere direttamente con l’autore, ma anche perché apre orizzonti nuovi e provoca riflessioni più stimolanti. Con la sua interpretazione dell’acrasia in Spinoza, Pinheiro cerca di dimostrare (a mio avviso con successo) che, in primo luogo, 38 l’acrasia è presente nei testi spinoziani e che essa non si risolve con l’ipotesi di un mero paradosso di autocontraddizione. Secondariamente, Pinheiro delinea due possibili soluzioni del problema acratico, sostenendo che Spinoza in modo del tutto originale oscillerebbe tra le due possibili spiegazioni. In terzo luogo, egli approfondisce il concetto di conflitto interno come possibile presupposto dell’acrasia, anticipando il nesso con la filosofia aristotelica. Da ultimo, con qualche esitazione egli tenta di collegare la nozione di acrasia a quella di schiavitù o impotentia. Riguardo al primo punto, alla luce dell’interpretazione di Pinheiro, Spinoza presenta il fenomeno dell’acrasia nelle prime diciotto proposizioni della parte IV dell’Etica che trattano, in particolare, del problema della schiavitù. In queste proposizioni, per Pinheiro si nasconderebbe in realtà una teoria spinoziana molto originale che mette in evidenza non solo che cosa sia l’acrasia, ma anche il suo collegamento con la schiavitù e le conseguenze di ciò per la teoria morale stessa. Come illustrato nell’introduzione, per acrasia s’intende quella disposizione dell’agente a compiere atti contro il suo miglior giudizio. In particolare, nella formulazione classica riferita da Pinheiro, l’acrasia è quella simultanea apparenza di giudizi opposti. Chiamo A e B due diversi giudizi. Io giudico che A sia meglio di B e allo stesso tempo decido di fare B. Per qualcuno ciò è contraddittorio o, addirittura, autocontraddittorio perché è come se simultaneamente un 39 individuo affermasse che A sia meglio di B e B sia meglio di A. Se ciò dovesse accadere, ci troveremmo di fronte ad un paradosso insolubile in quanto autocontraddittorio a partire dal quale l’acrasia verrebbe eliminata d’amblais27. Come mostrerò nel capitolo seguente, tuttavia, l’atto di scegliere B e di seguire il peggio non è un atto contraddittorio, ma in un certo senso intenzionale28. L’uomo segue B (il peggio) perché preferisce fare B anche se sarebbe meglio fare A (il meglio). Scegliere (o tendere verso) B significa dare corso a un’azione irrazionale. Se così fosse, come sarebbe possibile spiegare, dal punto di vista della ragione, la possibilità dell’irrazionale in un sistema come quello 27 A meno che uno non intenda non adottare il principio di non- contraddizione, “il più sicuro di tutti i principi”, come ci dice Aristotele in Metafisica IV, 3. Almeno su questo punto, siamo oggigiorno molto lontani da Aristotele: le logiche non-classiche, vale a dire che rifiutano il principio di non-contraddizione, sono usate in filosofia oggi tanto quanto quelle classiche: si veda Priest (2001). 28 Uso ‘intenzionale’ e ‘intenzionalità’ nel senso classico elaborato originariamente da Franz Brentano e poi in voga in tutta la filosofia della mente contemporanea (soprattutto di matrice analitica), per indicare il carattere essenziale di tutti gli atti mentali come credere, percepire e giudicare: la direzionalità psichica verso un oggetto, che, in quanto tale, potrebbe pure essere non esistente. 40 spinoziano, in cui la realtà è pienamente intellegibile, in cui l’ordine e la connessione delle cose non sono altro che l’ordine e la connessione delle idee?29 Pinheiro cerca di uscire da questa impasse proponendo due soluzioni diverse al problema dell’acrasia nel contesto del sistema spinoziano, una di tipo socratico e l’altra di tipo scettico. E con questo veniamo al secondo punto. La prima soluzione suggerita da Pinheiro, quella socratica, postula una momentanea ignoranza dell’agente circa il vero bene: chi agisce scegliendo il male lo fa perché in realtà non sa di fare il male, ma pensa di star facendo il bene. È noto, infatti, l’intellettualismo etico di Socrate, almeno come questo è stato ricostruito all’interno dei dialoghi cosiddetti giovanili di Platone: per il Socrate del Protagora, ad esempio, l’acrasia è un semplice caso di ignoranza. Lontana la tripartizione platonica dell’anima, per Socrate l’acratico è colui che non sa, cioè ignora, che quello che sta facendo sia effettivamente male. L’acrasia non è, in questo caso, una prevaricazione della parte appetitiva dell’anima sulla razionale, come pare sia il caso della necrofilia di Leonzio in Repubblica IV, ma, più essenzialmente e forse paradossalmente, un 29 Confronta anche Bennett (1984), p. 303, circa il razionalismo esplicativo di Spinoza. 41 caso di schietta ignoranza. Come ci viene ricordato anche nel Gorgia, nessuno pecca sua sponte.30 Se la posizione socratica è ragionevole, se so che A è meglio di B, non posso non fare A. Al contrario, se invece scelgo B, ciò accade perché in quel momento penso che B sia effettivamente meglio di A. Solo dopo aver eliminato l’ignoranza e acquisito la conoscenza, sono in grado di comprendere l’errore che mi ha portato all’azione acratica. Pinheiro interpreta la spiegazione socratica dell’acrasia come caso di ignoranza come un esempio di auto-illusione, mentre, strettamente parlando, per Socrate l’acrasia rimane un caso di deficienza conoscitiva, non di auto-illusione. Stando alla seconda soluzione al problema acratico, quella definita da Pinheiro scettica, l’atto di scegliere il peggio non deriva da un caso d’ignoranza dell’agente, bensì dall’attribuzione all’agente stesso di una forma di coazione irresistibile causata da forze esterne, fuori dal suo controllo. L’agente non sceglie B perché non sa che A è meglio di B, ma solo perché una compulsione che proviene dall’esterno lo costringe a farlo, in una specie di meccanismo causale 30 Sull’intellettualismo socratico come posizione più coerente e filosoficamente interessante dell’etica della scelta platonica, si vedano i famosi studi di T. Penner, soprattutto Penner (1990). Questo aspetto della questione sarà approfondito nel terzo capitolo (§4) e nel quarto capitolo (§§1-2). 42 quasi brutalmente cieco. Da qui consegue l’interpretazione originale di Pinheiro del fenomeno acratico nel sistema spinoziano, secondo cui Spinoza oscillerebbe tra una spiegazione socratica e una scettica circa l’acrasia. Alla luce di questa interpretazione, l’agente potrebbe sapere che A è meglio di B ma sceglie di seguire B per una passione presente. L’acrasia in Spinoza si fonderebbe allora su un forte conflitto tra ragione ed emozioni: la conoscenza è una condizione necessaria ma non sufficiente della virtù. Il vizio spiega solo in parte l’ignoranza. Veniamo al terzo punto. In che senso l’acrasia può essere per Pinheiro un conflitto tra ragione ed emozioni? Lo studioso sottolinea che nei confronti di una passione presente siamo portati ad agire più a causa di quella che a causa di quanto la ragione prescrive o che immaginiamo essere un futuro contingente (EIV, PP16-17). Si agisce allora in nome della passione e non razionalmente. Nella misura in cui i dati dell’immaginazione contaminano le informazioni che derivano dalla ragione, questo tipo di contaminazione spiegherebbe la possibilità stessa dell’acrasia. In tal modo, per Pinheiro una ragione può mostrare il meglio, mediante il suo contenuto cognitivo, ma motivati da una passione presente, possiamo seguire il peggio. Com’è noto, per Spinoza, infatti, solo un affetto può contrastare la vera conoscenza del bene e del male. Un bene presente è certamente più desiderabile di un bene futuro. 43 La spiegazione che Pinheiro fornisce del fenomeno acratico in Spinoza può risultare convincente nella misura in cui le deliberazioni razionali hanno per Spinoza un contenuto affettivo, non solo cognitivo. E nel caso in cui una deliberazione razionale venga applicata ai dati dell’immaginazione, ne seguirebbe che dati razionali e immaginativi sarebbero combinati insieme con gli affetti di ciascuno. Le idee, in quanto hanno un aspetto affettivo, e non solo un contenuto cognitivo, sono motivi per agire. L’agente in definitiva sceglie ciò che sembra presentemente (ed erroneamente) il meglio (vale a dire un affetto di gioia più intenso) e non agisce contro quello che nel presente è il suo desiderio più forte. Il desiderio e il possibile conflitto tra desideri o appetiti opposti sono alla base dell’acrasia per Pinheiro, secondo cui in ultima analisi questo rinvierebbe pure a un conflitto tra ragione ed emozioni. La ragione può essere vinta, infatti, dal desiderio. L’acrasia è possibile nella misura in cui l’agente acratico può sapere (razionalmente) ciò che è meglio e, tuttavia, può fare (passionalmente) il peggio. Resta, tuttavia, problematica a mio vedere questa “scelta di fare” il peggio anche all’interno dell’interpretazione dell’acrasia che Pinheiro fornisce, secondo cui quando un uomo sceglie il peggio ciò che ha scelto non appare il peggio ma, momentaneamente, come il meglio. “Essere il meglio” s’identificherebbe, dunque, con “l’essere il desiderio più forte”. 44 Veniamo all’ultimo punto, forse il più filosoficamente significativo dell’intera interpretazione di Pinheiro. Egli tenta di identificare o ridurre il fenomeno della schiavitù a quello dell’acrasia, cercando di chiarire quali siano le conseguenze di questa riduzione sia per la teoria morale che per la teoria dell’azione di Spinoza. Per Pinheiro, tutte le volte che Spinoza spiega le varie forme di schiavitù o impotentia, ad esempio nelle prime diciotto proposizioni della parte IV dell’Etica, alluderebbe a fenomeni acratici, tanto che Pinheiro identifica i due concetti di acrasia e schiavitù. Benché una tale identificazione possa essere non solo legittima ma anche foriera di una nuova luce ermeneutica, bisogna tuttavia essere cauti nel distinguere due possibilità che si danno: a) la prima possibilità si basa sull’ipotesi secondo cui la schiavitù sia equivalente all’acrasia, per cui, come ritiene Pinheiro, la schiavitù si riduce ad acrasia: (S=A, ove per S si intende ovviamente schiavitù e per A acrasia). b) In alternativa, esiste la possibilità che l’acrasia sia solo un tipo, una forma di schiavitù, anche se, come pensa Pinheiro, il tipo di schiavitù eticamente rilevante e importante da esaminare è pur sempre e solo l’acrasia: (A= St, un tipo di S, ove per St si intende un tipo specifico di schiavitù). 45 Il nesso o il collegamento concettuale tra schiavitù e acrasia, ancorché molto interessante, abbisogna di un’analisi filosofica più approfondita. È più ragionevole definire, prima, la nozione di acrasia in Spinoza e analizzare, poi, le occorrenze significative del termine impotentia all’interno dell’Etica (e, più in generale, dell’intero corpus spinoziano), per giungere, solo alla fine, a ipotizzare una relazione concettuale tra i due termini. Il nesso tra schiavitù e acrasia risulta problematico anche per il fatto che la schiavitù (impotentia) in Spinoza non può essere assimilata né alla coazione in generale, né all’intemperanza in particolare. La schiavitù in Spinoza non è un semplice caso di coazione o costrizione a causa delle quali l’uomo è schiacciato dalle cause esterne, come potrebbe apparire ad una lettura superficiale del testo. La schiavitù non è solo “quell’impotenza umana nel frenare e dominare gli affetti” (EIV, Pref.). Essa però non è neppure un caso simile all’intemperanza in cui l’agente sceglie il male in quanto tale (ipotesi questa che rinvierebbe concettualmente a un’ipotetica responsabilità dell’agente o a una libera volontà, da escludersi decisamente nel sistema di Spinoza). L’intemperanza, a prima vista, è un caso paradigmatico di errore morale perché l’agente fa il male sapendolo tale e volendolo fare. L’acrasia, invece, non si caratterizza propriamente come un errore morale, al più come un errore cognitivo, in quanto l’agente sa ciò che è bene e vorrebbe seguirlo, ma è vinto da forze più potenti. 46 Approfondirò adeguatamente questo punto nei capitoli seguenti, in particolare in relazione alle cause esterne quali, ad esempio, la fortuna, ma anche in relazione a conflitti interni dell’individuo, che— come chiarirò nel prosieguo del lavoro—sono alla base del fenomeno acratico in Spinoza. Per ora mi limito a precisare che Pinheiro ritiene impossibile per Spinoza il darsi del caso di un agente che vede il male e lo vuole in quanto tale. Nessuno fa il male volontariamente, non perché, com’era per Socrate, la conoscenza è alla base di ogni atto pratico e non può essere sconfitta, ma perché il significato del bene per l’individuo spinoziano è ridotto al conatus e allo sforzo di ciascuno di perseverare nel suo essere, e, aggiungerei anche, a quel desiderio che è fondamento dell’uomo stesso. Nel suo secondo articolo (2009) Pinheiro approfondisce il tema dell’acrasia in Spinoza utilizzando il suicidio come modello estremo di conflitto interno. Nel fare ciò, egli chiarisce meglio la natura di un possibile conflitto nell’etica spinoziana, illuminando così la nozione stessa di acrasia e liberandoci di un possibile fraintendimento. L’acrasia deve essere tenuta concettualmente ben distinta dall’idea di conflitto interno: una situazione di acrasia non è una situazione semplicemente conflittuale, ma il conflitto è solo una delle possibili condizioni o presupposti dell’agire acratico. In tal senso l’interpretazione di Pinheiro è interessante, perché egli distingue due tipi di conflitto, un primo conflitto “più debole” che si dà nell’agente 47 tra due alternative opposte, come ad esempio il caso di colui che tende al bene o al male, agitato da affetti contrari. Esiste tuttavia anche un conflitto “più forte” dell’agente con sè stesso, in relazione alle cause esterne: si pensi al caso di colui che, in balìa della fortuna, costretto dall’esterno, si agita in molti modi fluttuando in direzione opposte, come le onde del mare spinte da venti contrari. L’acrasia sussiste quando l’agente si sente incline a compiere atti, motivato da forti desideri tra loro opposti. In nome di questa credenza contraddittoria, l’individuo sceglie un bene, in rapporto all’immaginazione e non alla vera conoscenza adeguata del proprio bene. A livello dell’opinione, intesa come credenza immaginativa, allora esiste una situazione di conflitto che induce un individuo, per ignoranza del vero bene, a fluttuare tra ciò che sa essere il meglio e le inclinazioni del suo stesso desiderio, contro cui non può andare. In tal senso, il suicida è un caso paradigmatico di divisone mentale interna ed estrema e, nell’essere tale, potrebbe rappresentare per Pinheiro un caso paradigmatico di acrasia (anche se il conflitto alla base dell’agire acratico non implica necessariamente la distruzione fisica dell’individuo). L’agente acratico è come se fosse in conflitto con sé stesso e in opposizione con il suo sé a causa di una falsa credenza: egli crede di essere causa della diminuzione della sua potenza di agire, mentre la causa effettiva e reale è un oggetto esterno alla sua natura, su cui non 48 è possibile esercitare nessun controllo. Immaginare però un’impotenza causa inevitabilmente una tristezza reale: una credenza pertanto immaginativa falsa causa una reale diminuzione della potenza di agire. L’immaginazione falsa di sé, che genera conflitti reali in chi pensa, sembra un elemento importante per spiegare l’acrasia, al pari del conflitto in quanto tale. L’acratico vive, in definitiva, dei conflitti e con sé stesso e in rapporto al mondo esterno. Del resto, come ricorda Spinoza, sotto il dominio di affetti contrari, gli uomini non sanno ciò che vogliono. 2. Gli studi di Lin e di Gagnon Martin Lin è Assistant Professor all’Università di Toronto. Egli dedica un articolo al tema dell’acrasia in Spinoza dal titolo: Spinoza’s account of akrasia, “Journal of the History of Philosophy” 2006. Lin riprende poi alcune questioni, in particolare il rapporto tra passioni e ragione in Spinoza, in un saggio contenuto nel The Cambridge Companion to Spinoza’s Ethics (2009), edito da Olli Koistinen. Secondo l’interpretazione di Lin, Spinoza collegherebbe la tematica dell’acrasia alle passioni e, più in particolare, al rapporto conflittuale tra ragione e passioni. L’acratico è colui che agisce contro il suo miglior giudizio; quando ciò accade, la sua ragione è vinta dalle 49 passioni, anche se non tutti i casi di ragione che soccombono alle passioni sono necessariamente casi di acrasia. L’acrasia, infatti, implica sempre una formulazione di un giudizio, che induce l’agente ad agire in modo acratico. I casi di ragione che soccombono alle passioni e che non sono definibili acraticamente sono pertanto casi in cui la passione impedisce all’agente di arrivare a un giudizio. Più in dettaglio, la tesi principale sostenuta da Lin circa l’acrasia consiste nel fatto che questa può essere spiegata come un fenomeno pervasivo e pernicioso nella filosofia morale di Spinoza. Se la chiave della felicità per Spinoza secondo Lin risiede nel dominio della ragione sulle passioni, il conflitto di queste ultime con il potere della ratio inevitabilmente rappresenta un problema. In tal senso, l’acrasia si presenta come un caso specifico in cui ragione e passioni agiscono simultaneamente e anche conflittualmente; alla luce di ciò, l’acrasia è un fenomeno negativo da rimuovere o contenere. Analizzando le prime diciotto proposizioni della parte IV dell’Etica, Lin si sofferma in particolare sulla nozione di desiderio, sul potere motivazionale dei desideri razionali circa i beni futuri, nonché sull’intensità stessa dei nostri desideri circa le cose future. Per Spinoza, un affetto verso qualcosa che pensiamo futuro è meno intenso che verso qualcosa che pensiamo essere presente (EIV, P9). L’argomentazione di Lin è la seguente: 50 a) supponiamo che un’ agente abbia un’idea vera del bene e del male; in base a ciò compie R (=azione razionale; si chiami R anche l’idea razionale che sottende a R come azione, essendoci una perfetta corrispondenza tra idea e azione in Spinoza). b) Al contempo, egli è mosso da una passione irrazionale che lo spinge all’azione I (passione irrazionale). c) R ed I sono ovviamente incompatibili. d) L’agente darà corso a I e non a R. La passione I restringerebbe, o comunque potrebbe in qualche modo contenere, il potere dell’idea che spinge l’agente a fare R. Spinozianamente parlando, alla luce dell’interpretazione di Lin, una passione può avere un vantaggio sull’idea razionale se e, solo se, il bene a cui mirerebbe R è più lontano, nel tempo futuro, rispetto al bene a cui invece tende I. L’agente così agisce irrazionalmente o acraticamente contro il suo miglior giudizio facendo I perché egli possiede un’idea R che lo induce a fare I. I nuclei concettuali su cui fa perno l’interpretazione di Lin che ho testé ricostruito sono i seguenti: 1) la nozione di idea razionale e passione irrazionale con i loro relativi poteri; 2) il loro conflitto, alla base dell’atto acratico stesso; 3) la teoria della percezione del tempo, che ora mi accingo a spiegare più in dettaglio. Una tale teoria è molto cara a Lin perché grazie a essa è possibile dimostrare come la nostra 51 percezione del tempo possa influenzare l’intensità o il potere di un’idea, la novità ermeneutica più rilevante della sua analisi. Lin inizia il suo ragionamento ricordando la nota concezione spinoziana secondo cui se un individuo non è causa adeguata di un’affezione, egli è passivo e subisce l’azione delle cause esterne o, più semplicemente, subisce una passione. Un individuo può avere idee inadeguate e, a causa di queste, egli può giungere ad avere un giudizio annebbiato. Le passioni sarebbero, per la mente, delle idee inadeguate e funzioni dell’impatto del mondo esterno su di noi. E’ chiaro che, se l’individuo è causa inadeguata, le rappresentazioni che egli ha sono mutilate e confuse, anche se non tutte le idee inadeguate sono ovviamente delle passioni. Dopo aver confrontato la teoria del giudizio cartesiana con quella spinoziana, Lin chiarisce e puntualizza nuovamente l’importanza del fattore del tempo e dell’intensità con cui si compiono determinate azioni nelle situazioni di acrasia. I beni presenti sono più desiderabili di quelli futuri e il potere motivazionale del desiderio è più debole se si aspetta più a lungo nel tempo. Di qui la sua definizione di acrasia non-impulsiva (non-impulsive akrasia): l’acratico è colui che è vinto dal desiderio più intenso che vive nel 52 presente, a dispetto di qualsiasi giudizio più razionale su un bene futuro.31 Stando alla definizione II, in EIII, noi siamo attivi quando in noi o fuori di noi avviene qualcosa di cui noi siamo causa adeguata. Parimenti, siamo passivi quando in noi accade qualcosa—o dalla nostra natura segue qualcosa—di cui noi siamo solo una causa parziale. Per Lin l’acratico agirebbe ‘genuinamente’, secondo la sua stessa caratterizzazione. In che senso, tuttavia, è possibile agire genuinamente, data la distinzione che Spinoza stesso fa in EIII, Def. II di attivo e passivo? L’agire dell’acratico potrebbe essere influenzato da una certa gradualità dell’azione stessa, o almeno ciò è quanto ritiene Lin. Secondo la sua interpretazione, esiste un senso forte del 31 Mi pare importante rilevare che quest’idea di acrasia non-impulsiva pare avere analogie non secondarie con l’arte della misurazione (dei piaceri e, per esteso, anche dei desideri) che Socrate illustra alla fine del Protagora (356d). Secondo Socrate, infatti, e secondo la sua concezione intellettualistica dell’etica che abbiamo prima citato, chi sa, sa anche misurare in maniera precisa e oggettiva il piacere nel tempo e quindi non sceglie mai un piacere immediato perché più vicino nel tempo, rispetto a un piacere futuro più forte e benefico. Di converso, l’acratico è colui che non sa affatto misurare oggettivamente il piacere nel tempo ma cede al ‘potere delle apparenze’, come Socrate pensa faccia chi aderisce al relativismo di Protagora. 53 termine actio e un senso debole: nel senso forte l’agente è causa adeguata e dunque attivo. In un senso debole, l’agente è causa parziale, è passivo. Anche quando siamo passivi, tuttavia, noi agiamo, facciamo molte cose, anzi, le nostre passioni determinano molte delle azioni umane che sovente compiamo: il desiderio è infatti per Spinoza l’essenza stessa dell’uomo.32 Il nodo centrale dell’interpretazione di Lin consiste, in ultima analisi, nel rapporto problematico tra il potere della ragione e le passioni dell’individuo. Nel caso dell’acrasia e degli atti acratici non si verifica solo il caso di una passione che sconfigge la ragione, ma, più essenzialmente, accade che le cause esterne distorcano i contorni del desiderio dell’agente. Gli studi di Lin non approfondiscono quest’ultimo aspetto con la dovizia analitica che esso meriterebbe e si concentrano invece sul rapporto tra ragione e passioni, ritenendo questo un punto focale per dimostrare la presenza del fenomeno dell’acrasia in Spinoza. Certamente, il rapporto tra il potere della 32 L’analisi di Lin termina collegando i possibili atti acratici ai comportamenti non-intenzionali e a quelli compulsivi. Egli ricorda la psicologia meccanicistica di Spinoza e le ragioni, a noi note, del perché essa prenda le distanze dalla tripartizione classica dell’anima. La nozione spinoziana di acrasia si concilierebbe perfettamente con questa concezione meccanicistica della natura umana. 54 ragione e le passioni risulta significativo, e va esaminato, specie allo scopo di indagare come sia possibile evitare atteggiamenti acratici. Come mostrerò, tuttavia, nel corso della mia ricerca, non è questo rapporto centrale nella definizione dell’acrasia stessa e, soprattutto, non aiuta a comprendere la natura stessa del fenomeno acratico in Spinoza. La questione principale che illustrerò con dettaglio nella prosecuzione di questa ricerca verte in realtà sul conflitto affettivo interno dell’individuo, il quale è meglio qualificato come conflitto tra affetti opposti, e non tra ragione e passioni. Mosso dall’ambivalenza affettiva che lo spinge da un affetto all’altro, l’individuo acratico è in grado di produrre solo un giudizio annebbiato, lontano dalla ragione e assai più vicino alla mera opinione o immaginazione. Per comodità del lettore, sintetizzo l’interpretazione di Lin, dopo averla esaminata: 1) la nozione di acrasia è ben presente nell’etica di Spinoza, anzi per Lin si tratta di una presenza pervasiva e perniciosa per l’individuo; 2) focalizzandosi sul rapporto conflittuale tra ragione e passioni, Lin ritiene che l’acrasia sia un caso specifico in cui la ragione e le passioni agiscono insieme, o meglio, interagiscono; ciò è importante anche per comprendere come l’acrasia stessa lavori e come si possa superare; 3) agire pertanto acraticamente per Lin vuol dire agire irrazionalmente spinti da una passione irrazionale; 4) il 55 desiderio è collegato e collegabile alla percezione che di esso si avverte nel tempo. Prima di Pinheiro e Lin, in ambito non-analitico ma continentale, in Francia Gagnon aveva rilevato la presenza dell’acrasia in Spinoza in un articolo del 2002, Spinoza et le problème de l’akrasia: un aspect négligé de l’ordo geometricus, analizzando la parte IV dell’Etica, in particolare le proposizioni di EIV, PP14-17. La faiblesse de la volonté, o debolezza della volontà, come egli la definisce, è una questione centrale dell’etica spinoziana. L’intento principale dell’articolo di Gagnon è quello di mostrare come sia possibile risolvere il problema acratico nei fatti e non solo nelle analisi. In breve, i concetti chiave su cui Gagnon si concentra sono i seguenti: 1) l’uomo è parte della natura e, in quanto tale, può essere sottomesso agli affetti; 2) bisogna fornire all’uomo gli strumenti adeguati per raggiungere fattivamente il sommo bene, non semplicemente indicarglielo, definendolo concettualmente; 3) se l’uomo avesse una conoscenza vera del bene e del male e non immaginativa, potrebbe agire meglio; 4) l’acrasia richiama la questione dell’agire umano e del fatto che questo è determinato dal desiderio stesso. Gagnon cerca di trovare delle indicazioni nei testi spinoziani perché si possa pensare che l’individuo sia in grado di contenere o reprimere gli affetti contrari e tra loro confliggenti, al fine di evitare di 56 agire seguendo il peggio. Ciò che alla fine Gagnon propone consiste nell’ipotizzare che il metodo geometrico utilizzato da Spinoza sia la soluzione stessa dell’acrasia. Egli insiste che il metodo geometrico è un buon viatico alla soluzione dell’acrasia: leggere l’Etica di Spinoza è un vero e proprio esercizio di ragione. Di dimostrazione in dimostrazione, il lettore attento esercita assiduamente la propria ragione. Questo esercizio nel tempo conduce il lettore a evitare atti acratici nella misura in cui egli affina costantemente le armi del raziocinio nell’analisi della realtà e nell’agire pratico. Ogni dimostrazione è per Gagnon un vero esercizio spirituale. La liceità della soluzione al problema acratico che Gagnon suggerisce è rafforzata dal paragone che s’impone con due altri tipi di esercizio filosofico: il primo è quello che suggerisce Wittgenstein nel Tractatus Logico-philosophicus, il secondo sono gli esercizi spirituali che Pierre Hadot vede connaturati all’idea stessa di filosofia nel mondo antico. Nel primo caso, Wittgenstein nel Tractatus si occupa solo di alcuni tipi di questioni, quelle riguardanti i fatti atomici, la loro logica, il significato, relegando l’etica al regno dell’ineffabile: “su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”33. Tuttavia, il Tractatus è un’opera profondamente etica. Il lettore impara quest’etica e l’etica della vita, semplicemente leggendo le proposizioni del Tractatus, 33 Wittgenstein (1961), 7. 57 anch’esse in parte geometriche come quelle dell’Etica di Spinoza. Una volta saliti sulla scala che ci ha fatto vedere i contorni morali del mondo, senza dirceli, il lettore la getta via: “Le mie proposizioni illustrano così: colui che mi comprende, infine le riconosce insensate, se è salito per esse – su esse – oltre esse. (Egli deve, per così dire, gettar via la scala dopo che v’è salito)34. Dall’altro canto, in Esercizi spirituali e filosofia antica, Pierre Hadot ha mostrato in maniera magistrale come non solo le dottrine ellenistiche ma anche le filosofie del periodo classico possano e debbano essere interpretate come un esercizio di ragione volto alla purificazione dell’anima e al conseguimento della felicità35. Questi due paragoni che si impongono allo studioso recano con sé un ulteriore punto importante. Non si può certo dire che Wittgenstein abbia influenzato Spinoza, per ovvie ragioni cronologiche—anzi sarebbe interessante cercare di capire se il contrario sia avvenuto. Ma, se l’interpretazione di Gagnon è corretta, e se quindi Spinoza suggerisce veramente di uscire dall’acrasia con un esercizio spirituale di lettura e purificazione, nulla esclude che Spinoza stesso sia stato in questo potenzialmente influenzato dal mondo classico che, come sì è 34 Wittgenstein (1961), 6.54. 35 P. Hadot (1988) ed. italiana (Einaudi). 58 visto, interpreta l’esercizio filosofico come un esercizio dello spirito da tradurre in concreti atti pratici. In linea generale, l’interpretazione di Gagnon circa l’acrasia in Spinoza deve, a mio parere, essere valorizzata nella misura in cui, oltre alla sua originalità, essa mette in luce il possibile retroterra classico da cui Spinoza trae parte della sua risposta al problema acratico. In particolare, Gagnon precisa il collegamento tra l’etica di Spinoza e quella di Aristotele. Più criticamente, la comprensione del fenomeno acratico che emerge dall’analisi di Gagnon rinvia ad una deficienza di ragione (seppur intrinsecamente connessa a una volontà debole), quando—come s’evincerà meglio in seguito—io ritengo che l’acrasia ha posto nell’Etica di Spinoza come evidenza di una debolezza affettiva dell’individuo, non come debolezza volitiva. 3. L’interpretazione di Michael Della Rocca Molto utili e interessanti sono gli studi di Della Rocca su Spinoza e la questione dell’acrasia. Dopo il suo celebre e dibattuto libro del 1996 sul rapporto problematico mente-corpo in Spinoza e nella sua filosofia della mente (Representation and the mind-problem in Spinoza, Oxford and New York: OUP), nel più recente libro su Spinoza (London and 59 New York: Routledge, 2008), in particolare in una parte del quarto capitolo, egli riprende le sue riflessioni sull’acrasia. Della Rocca discute di acrasia in Spinoza inserendola all’interno della teoria degli affetti, delle emozioni e del conatus. Nel fare ciò, egli mette in luce come sia possibile—anche in un sistema filosofico che vuole essere compiutamente razionalistico come quello spinoziano—ammettere fenomeni irrazionali quali l’acrasia o emozioni conflittuali, come la gelosia e l’amore che si può tramutare in odio. Della Rocca ritiene sia possibile dare una spiegazione razionale del fenomeno acratico in Spinoza, pur pensando egli che l’acrasia sia espressione d’irrazionalità. Le azioni irrazionali sono atti compiuti contro il proprio miglior giudizio. Se, ad esempio, un uomo tira un pugno in faccia ad un altro uomo, pur sapendo che ciò sia male per colui che compie l’azione di sferrare il pugno (specie alla luce delle conseguenze che possono verificarsi), perché—si chiede Della Rocca—ciò accade? La risposta va ricercata nell’ipotetica forza dell’emozione che sembra essere la causa di questi atti irrazionali. Della Rocca indaga poi alcune caratteristiche della mente, indipendenti da quelle rappresentazionali, per spiegare meglio questi atti contro ragione. Nel fare ciò, egli approfondisce anche la questione del tempo tanto cara a Lin, per mostrare come in Spinoza un piacere A, benché più debole di un dolore B (in quanto più vicino nel futuro rispetto a B) possa essere alla fine più forte di B proprio alla luce della 60 disparità temporale tra i due affetti confliggenti e dell’intensità dell’affetto più prossimo nel tempo (EIV, Def. 9 e P10). Di qui la disparità temporale tra i due affetti e la possibilità di agire in nome dell’affetto sentito più vicino nel tempo. Quando un individuo agisce irrazionalmente, egli è vinto da un affetto presente più forte che egli prova intensamente. Questo equivarrebbe a pensare che egli sia soggetto a una distorsione affettiva, che risulta meglio spiegata come indotta da una disparità temporale tra gli oggetti causanti gli affetti e i due affetti anticipati che confliggono tra loro. Alla luce di questa spiegazione, l’acrasia nel sistema di Spinoza si spiegherebbe come caso emblematico di fenomeno irrazionale, in cui il tempo distorce la prospettiva adeguata con cui è necessario valutare le cose e gli affetti che da esse sorgono in noi. Questa spiegazione—se legittima—non può non rinviare, come lo stesso Della Rocca sottolinea36—alla soluzione socratica che si dà alla fine del Protagora e di cui prima abbiamo detto in nota. Come per il Socrate del Protagora allora, anche per Spinoza gli uomini sono soggetti al ‘potere delle apparenze’ e incapaci di esercitare quella che Socrate chiama ‘l’arte della misurazione’, che per Spinoza equivarrebbe alla conoscenza derivante dalla ragione. Il potere (irrazionale) delle apparenze, di cui parla Socrate, spinge gli 36 Della Rocca (2008), p. 171, nota 17. 61 uomini ad agire solo in base a ciò che appare nel presente (senza alcuna considerazione circa il meglio nel futuro) e ha pertanto molte somiglianze con l’analisi che Della Rocca fa dell’acrasia in Spinoza, intesa come fenomeno irrazionale generato da una prospettiva temporale viziata. Il valore della prospettiva temporale nel fenomeno acratico è, quindi, un elemento che collega l’analisi di Lin con quella di Della Rocca. Il valore aggiunto dell’interpretazione di quest’ultimo sta nell’aver inserito il problema dell’acrasia all’interno della teoria spinoziana degli affetti e del conatus. Se è vero—come è vero—che gli affetti e il conatus sono due elementi essenziali del sistema spinoziano; se, come ci dice Della Rocca, l’acrasia è strettamente connessa a quegli elementi, tutto ciò rende l’acrasia un problema non transitorio o meramente secondario nell’Etica di Spinoza. 4. Bennett sulla schiavitù. Jonathan Bennett è, notoriamente, un filosofo analitico che si è occupato a lungo di storia della filosofia moderna, lavorando su Cartesio, Spinoza, Locke, Hume, Leibniz e Berkeley e producendo molti studi notevoli su questi pensatori: basti citare l’ultimo, densissimo, Learning from Six Philosophers, Oxford 2001. Per questo 62 mio lavoro, tuttavia, Bennett rimane l’autore di A Study of Spinoza’s Ethics, Cambridge 1984. Lo studio di Bennett è un lavoro originale e ambizioso che mira a fornire un’interpretazione dell’Etica attraverso una delucidazione delle dottrine principali—etiche, epistemologiche e metafisiche—su cui Spinoza fonda il suo sistema. Su Bennett e sulla sua lettura dell’Etica si sono riversate molte critiche, soprattutto da parte di coloro che sono avversi all’approccio analitico in filosofia. Nelle sue disamine concettuali, infatti, Bennett ricorre ad argomenti che egli mutua dall’immenso bagaglio teoretico tipico della filosofia analitica; nel fare ciò, egli muove critiche—spesso anche importanti— alle posizioni di Spinoza. Di qui, facilmente, segue l’accusa di anacronismo: non si può valutare un’opera con un metro concettuale che non sia, per così dire, interno all’epoca in cui quell’opera è stata scritta. L’accusa a Bennett, tuttavia, pare pretestuosa: gli argomenti dei filosofi mirano alla solidità logica e filosofi di altre epoche sono in grado di valutarli proprio nelle misura in cui una tale solidità logica sia veramente effettiva e efficace. Questo non significa non riconoscere la storicità degli argomenti, quanto piuttosto metterla sullo stesso piano del rigore concettuale e dell’analisi teoretica. Valutare argomenti con altri argomenti, infatti, aiuta spesso a capire più approfonditamente i punti di vista e le dottrine del filosofo in 63 questione, illustrando in tal modo nessi e relazioni tra idee a volte taciute o che sfuggono ad analisi più tradizionali. Per tornare al libro di Bennett su Spinoza: esemplare mi pare la commistione tra consapevolezza storica e analisi filosofica che egli mostra nell’affrontare il tema della turbolenza dell’animo nel complesso sistema di Spinoza. Bennett sostiene che le proposizioni 8 e 14, 15, 16 e 17 della parte IV dell’Etica, esattamente quelle in cui Spinoza affronta la relazione tra affetti, cupidità e conoscenza di bene e male, sono scritte avendo Cartesio in mente. Più precisamente, Bennett cita un passo di Cartesio dalle Passioni dell’Anima in cui quest’ultimo difende l’idea che il desiderio debba essere contrastato dai giudizi: Alcuni […] non permettono mai che il loro desiderio combatta con le sue stesse armi, ma solo con armi che le stesse passioni mettono a disposizione come difesa da altre passioni. Quelle che chiamo ‘le sue stesse armi’ sono giudizi saldi e determinati circa il bene e il male, con cui il desiderio si è risolto a regolare le azioni della sua vita (§ 48). Secondo Bennett, Spinoza giudica questa opposizione tra desiderio (più in generale, tra vita emotiva) e conoscenza del bene e del male (più in generale, vita della mente) una falsa antitesi, nella misura in cui la conoscenza del bene e del male non sta al di sopra della nostra 64 vita emotiva, ma ne è parte integrante. Come noi concepiamo il bene e il male è una parte non secondaria della vita dei nostri appetiti. Infatti, continua Bennett, la conoscenza del bene e del male di cui Spinoza parla nelle proposizioni dell’Etica sopra citate è sempre una conoscenza soggettiva, relativa al punto di vista del soggetto che è affetto in un qualche modo. Come Spinoza ci ricorda in EIII, P9 S e in EIII, P39 S, noi chiamiamo qualcosa bene perché lo desideriamo (e non viceversa); desiderando diversamente, avremo differenti idee circa il bene e il male. La conoscenza del bene e del male non può essere regolativa sugli affetti, come vorrebbe Cartesio37. Considerato questo quadro concettuale, Bennett afferma che per Spinoza la maggioranza degli esseri umani rimane prigioniera di affetti che si contrastano e che creano una turbolenza dell’animo che è di difficile eliminazione. Alla luce di quest’analisi, la maggioranza degli uomini sono potenzialmente—se non addirittura concretamente—acratici. L’uomo non-acratico sarà colui che, capace di mirare ad una conoscenza non relativa di bene e male, diverrà un uomo finalmente libero, nella misura in cui sarà in grado di esercitare una psicoterapia cognitiva sui suo affetti. Nell’analisi di Bennett, pertanto, l’acrasia in Spinoza, ben lungi dall’essere un fenomeno 37 Bennett sviluppa quest’analisi a pp. 284-8 di Bennett (1984). 65 secondario o trascurabile, diventa il fulcro della vita emotiva dell’uomo non libero38. 38 Si veda Bennett (1984), cap. 13, per la psicoterapia cognitiva. 66 Capitolo 2 La nozione di acrasia nei testi di Spinoza 1. La presenza dell’acrasia nei testi: la citazione di Ovidio Quello che intendo fare in questo capitolo—a partire da un solido esame testuale—è mostrare non solo che l’acrasia è presente in Spinoza ma anche spiegare che cosa essa sia, i suoi presupposti, la sua natura e le sue caratteristiche concettuali. Parte dell’incompletezza che riconosco negli altri tentativi di comprensione dell’acrasia in Spinoza nasce da una certa leggerezza nell’analisi puntuale delle fonti. La maggioranza degli studiosi che si sono occupati dell’acrasia in Spinoza fino ad ora, infatti, si sono focalizzati per lo più su alcuni aspetti particolari del fenomeno acratico, trascurando sia un esame accurato dei testi sia il confronto con la tradizione classica. Mio compito principale allora sarà l’analisi dei seguenti passi: (a) Prefazione alla parte IV dell’Etica, in cui si parla di fortuna e di cause esterne; (b) parte III dell’Etica, P2 S e (c) lettera a Schuller n. 74 (nella numerazione Mignini = Gebhart 58), in cui viene trattato il conflitto tra appetiti opposti; (d) lo scolio della P17 della parte IV 67 dell’Etica, infine, in cui l’acrasia è collegata alla possibilità di conoscere mediante l’opinione o l’immaginazione. Nel fare ciò, emergerà l’originalità della posizione di Spinoza a riguardo dell’acrasia, sia in sé, sia rispetto all’altra grande tradizione di pensiero che, unicamente prima di Spinoza, s’è occupata di debolezza della volontà: quella classica. Considerati questi fattori, il confronto con i classici greci s’impone quasi da sé, non solo come elemento d’influenza o di debito che Spinoza potrebbe aver egli stesso contratto con i filosofi antichi a tal riguardo, ma anche come elemento sullo sfondo del quale è teoreticamente utile valutare la posizione spinoziana circa l’acrasia. In particolare, l’analisi dei passi si articolerà in prima istanza in una disamina puntuale dei quattro luoghi in cui compare la citazione di Ovidio (“video meliora, proboque, deteriora sequor”), cercando di illuminare al contempo il contesto filosofico in cui essa è inserita. Gli studiosi, a partire già da Gentile e da Akkerman (come rilevato da Emilia Giancotti Boscherini)39 sono concordi nell’attribuire questa citazione al libro VII delle Metamorfosi di Ovidio, versi 20-1. In questo libro l’autore, narrando delle avventure degli argonauti e di Medea, ricorda di come la donna, trascinata da un impulso inaudito, divisa tra ciò che la passione sente e la mente 39 Giancotti Boscherini (1993), p. 399 nota 17. 68 consiglia, tra cupido e mens, veda il bene, l’approvi ma segua poi il male. Questa citazione ovidiana è certamente significativa in sé stessa, ma ciò che trovo più interessante è il fatto che per ben quattro volte Spinoza la ripeta, utilizzandola tre volte nell’Etica e una volta nelle Epistole (nei passi sopra indicati), sempre collegata alla spiegazione di atti acratici e a situazioni di impotentia. Nulla vieta di pensare che la citazione di Ovidio abbia nel testo originale, quello del poeta latino, un significato non necessariamente identico a quello che assume nel testo di Spinoza. Ogni grande filosofo—e che Spinoza lo sia non v’è alcun lecito dubito—si appropria di autori del passato che gli paiono significativi senza alcun interesse erudito ma per illustrare meglio alcune idee filosofiche proprie della sua speculazione. Basti pensare a come Schopenhauer utilizza i classi greci nei suoi Parerga e Paralipomena: Platone dice spesso cose che forse non si sarebbe mai sognato di dire veramente. Infatti—anticipando una questione che emergerà poi in tutta la sua valenza—nella citazione di Ovidio il conflitto è tra la passione che sceglie il male e la mente che vede il bene, mentre l’uso che Spinoza farà della citazione di Ovidio sarà molto più articolato e denso di connotazioni filosofiche. Prima di passare all’analisi filosofica dei testi, vorrei premettere alcune osservazioni riguardanti la traduzione del testo latino della citazione ovidiana in esame: “video meliora, proboque, 69 deteriora sequor”. Con il verbo ‘video’, che in generale significa ‘vedere’ nel senso di ‘osservare’, ‘scorgere’, ‘percepire’, si può intendere anche un tipo di percezione sensoriale, intesa come un percepire l’affezione ricevuta ma in maniera esclusivamente passiva. ‘Probo’ viene tradotto con ‘approvo’, intendendo con un tale verbo l’approvazione cosciente del soggetto, la possibilità cioè che colui che approva riconosca qualcosa come tale e ne accetta l’affezione. In breve, ‘probo’ indica l’assenso che in un certo qual modo viene dato dal soggetto all’alterazione o affezione percepita. Da ultimo, ‘sequor’, che significa generalmente ‘seguo’, può essere inteso anche nel senso di ‘inseguire’, ‘incalzare’ quasi sino a cedere40. ‘Video’ allora è inteso come un avvertire l’affezione subita che poi il soggetto senziente ‘probat’, conosce cioè mediante l’esperienza, in quanto ne è cosciente con gli organi di senso. L’approvazione sembra così una presa di coscienza da parte del soggetto dell’alterazione subita, un’idea di quell’affezione. Queste osservazioni sulle diverse fasi dell’affezione, vale a dire impressione iniziale passiva e successivo assenso cosciente da parte del soggetto, non possono non rinviare nel lettore attento alla teoria della conoscenza degli Stoici, che fu di gran lunga la dottrina 40 Si veda Lewis and Short, Latin Dictionary, ss. vv. ‘video’, ‘probo’ e ‘sequor’. 70 epistemologica più famosa dell’intera epoca ellenistica e che ebbe poi notevoli ammodernamenti in epoca rinascimentale e illuministica. Stando ad un livello generale, senza dilungarci troppo, per gli Stoici la conoscenza inevitabilmente procedeva secondo quattro fasi. Secondo Diogene Laerzio VII, 42-51, l’impressione sensibile che colpisce il soggetto passivamente si chiama ‘phantasia’ (prima fase). Il secondo momento è costituito dall’assenso attivo del soggetto percipiente che accetta il contenuto dell’impressione (sunkatathesis). A queste due fasi iniziali, seguono la cognizione vera e propria (katalepsis) e infine il pensiero (epistêmê). Si badi che le impressioni vengono ulteriormente distinte in impressioni adeguate (o catalettiche) o false: le prime sono adeguate nella misura in cui esprimono l’accordo con ciò che esiste. In quanto tali, esse sono vere e criterio di verità. Un’impressione adeguata che riceve l’atto di assenso del soggetto conoscente diventa cognizione (katalepsis). Non s’intendano, tuttavia, tali impressioni adeguate come semplice espressione di un criterio puramente mentale, come potrebbero essere intese le idee “chiare e distinte” di Cartesio. Le impressioni adeguate degli Stoici sono esempi di cognizione empirica, traducibili in proposizioni come le seguenti: “C’è un albero qui di 71 fronte a me”; “oggi piove”.41 Per gli Stoici gli esseri umani possono esperire molte impressioni adeguate e, pertanto, raggiungere spesso la cognizione; solo al saggio stoico, è riservata l’epistêmê che è simile ad un’idea di conoscenza sistematica, uno sguardo vero sull’interezza del mondo, sia fisico, che interiore. A tal proposito, un’immagine molto famosa, riportata da Cicerone in Academica 2, 1.45, ritrae Zenone che spiega l’epistemologia stoica con il seguente esempio: una mano aperta e stesa nell’aria, con le dita allungate, indica la phantasia, la semplice impressione. La stessa mano con le dita chiuse ma non serrate sul palmo rappresenta l’assenso all’impressione iniziale. La mano con le dita serrate a pugno stretto indica invece la cognizione; la mano ben chiusa a pugno, ricoperta delicatamente dall’altra mano, rappresenta la scienza, prerogativa del saggio. Al nostro scopo, interessano in particolare le prime due fasi del processo conoscitivo degli Stoici (e, in maniera indiretta, la cognizione che è la sintesi dei primi due momenti). Infatti, il nesso impressione-assenso richiama fedelmente il nesso video-probo della 41 Gli Stoici intendono le impressioni come principalmente generate dall’incontro del soggetto conoscente con il mondo esterno; essi, tuttavia, chiamano ‘impressioni’ anche le elaborazioni che la mente opera sulle proposizioni prodotte da impressioni empiriche. Su questo punto, si veda Sellars (2006), pp. 64 sgg. 72 citazione ovidiana utilizzata da Spinoza. Come ci informa Cicerone, per gli Stoici l’assenso dato nel processo conoscitivo non deriva necessariamente da una scelta deliberata e consapevole, ma esso è pur sempre imputabile al soggetto che in ultima analisi fornisce l’assenso42. Dare o rifiutare l’assenso, pertanto, è una responsabilità lasciata interamente al soggetto conoscente. Secondo gli Stoici, non possiamo scegliere le impressioni che ci colpiscono: se vedo un albero di fronte a me, quest’impressione non può essermi negata. Possiamo tuttavia decidere se dare o rifiutare l’assenso all’impressione. Se sono convinto che un demone mi stia ingannando, posso non dare l’assenso all’impressione di avere un albero di fronte a me. Altrimenti, sono liberissimo di dare l’assenso all’impressione dell’albero di fronte a me. Alla luce di questa teoria epistemologica, l’assenso che diamo alle impressioni si traduce prima in una credenza o giudizio (corretto o adeguato oppure falso e infondato) e poi in un’azione (anche questa conforme al giudizio o difforme)43. Si noti che per gli Stoici, l’assenso 42 Cicerone, Accademica 1, 1.40: “Come stavo dicendo, Zenone unì questi, cioè a dire le impressioni ricevute dai sensi, con l’assenso della nostra mente che egli pensava essere volontario e avere la sua causa in noi”. Si veda anche Zeno fr. 1.61 (SVF); Cicerone, Accademica 2, 37-39. 43 Per riflettere sulla dimensione morale della teoria della conoscenza stoica, si veda Brunschwig (2007), secondo cui le cose non sono causa di qualità 73 che conduce ad una cognizione può avere anche un giudizio di valore. Un famoso esempio riportato da Aulo Gellio illustra il punto con molta chiarezza. Aulo Gellio (Notti Attiche 19.1.1-21) riferisce di un suo viaggio in barca in compagnia di un filosofo stoico. Coinvolti in una tempesta di mare, Aulo Gellio si stupisce di vedere il filosofo stoico spaventato quanto tutti gli altri passeggeri. Aulo interroga il filosofo chiedendogli lumi sulla famosa apatheia di cui gli Stoici andavano fieri. Il filosofo stoico replica dicendo che egli non ha potuto nulla sulle impressioni ricevute, cioè dal vedere che c’erano grandi onde, altissime, sulla sua testa. Questo ha creato in lui un disagio iniziale. Quello che il filosofo stoico non ha fatto, a suo dire, è di avere dato l’assenso cognitivo all’impressione adeguata dell’onda altissima su di lui, ma di non avere conferito nessun giudizio di valore a un tale assenso. Il filosofo stoico non ha dato l’assenso alla seguente proposizione: “C’è un’onda altissima sopra di me (impressione cognitiva) e questo è male (assenso non conferito dal filosofo)”. Al primo movimento dell’impressione, non è seguita per il filosofo— che risultano in affezioni conoscitive (bianchezza, calore, etc), ma anche oggetti che spingono ad una scelta etica, vale a dire, qualcosa da accettare o rigettare. 74 diversamente da tutti gli altri passeggeri—l’attribuzione di un giudizio di valore come parte integrante dell’assenso. Quest’ulteriore informazione su impressione e assenso ci permette di arrivare ai casi d’azione, che sono quelli che più ci interessano e che ci riportano al ‘sequor’ della citazione di Ovidio, dopo il “video meliora, proboque”. Spieghiamoci ora il ‘deteriora sequor’. Data la caratterizzazione anche etica dell’assenso e della cognizione, ricordando che l’impressione può essere adeguata o no, ora l’attenzione si sposta sull’azione, o meglio, sul nesso tra giudizio (o credenza) circa il meglio e l’azione seguente circa il peggio. In generale, almeno dal punto di vista schiettamente teorico, si possono dare quattro casi: un’azione può essere conforme o difforme rispetto ad un’impressione. L’impressione a sua volta può essere adeguata (o vera=giudizio vero) o non adeguata (o falsa=giudizio falso). Questo crea una possibile quadri-partizione: a) l’azione è conforme ad un giudizio vero; b) l’azione è difforme da un giudizio vero; c) l’azione è conforme ad un giudizio falso; d) l’azione è difforme da un giudizio falso. L’acrasia rientra a pieno titolo nel caso b): l’individuo compie un’azione difforme rispetto al suo miglior giudizio, che come tale è un esempio d’impressione adeguata, cioè vera. Per fare un esempio: l’individuo sa che è bene fare p, ma egli compie non-p. Per ragioni di completezza, il caso c) rappresenta l’acrasia socraticamente intesa. L’individuo acratico è ignorante circa 75 il vero (per usare il nostro lessico, egli ha un giudizio falso), e pertanto compie un’azione conforme a tale giudizio, cioè in linea con la sua ignoranza. Dopo aver analizzato in generale la citazione di Ovidio, mi accingo ora ad esaminare in dettaglio i luoghi in cui questa compare in Spinoza44. 2. L’acrasia e la fortuna. Video meliora, proboque, deteriora sequor: percepisco, allora, approvo e sono cosciente di quell’affezione percepita, del meglio per me (giudizio), ma poi seguo il male (azione). Perché? Una prima spiegazione del perché l’uomo possa seguire il peggio, benché egli veda ciò che è meglio, emerge dalle parole stesse di Spinoza nella prefazione alla parte IV dell’Etica. Il passo indicato così recita: “homo enim affectibus obnoxius suis juris non est, sed 44 Per un ulteriore approfondimento, più filosofico e teoretico, dell’uso della citazione di Ovidio in connessione al fenomeno acratico, si veda un recente articolo di Glauser su Locke e il problema dell’acrasia. Glauser, in particolare, mette in risalto il nesso che intercorre tra il giudizio e il desiderio (piuttosto che tra il giudizio e la volontà), come elemento centrale dell’acrasia. 76 fortunae, in cujus potestate ita est, ut saepe coäctus sit, quamquam meliora sibi videat deteriora tamen sequi” (“l’uomo che è soggetto agli affetti, infatti, non è padrone di sé, ma in balìa della fortuna, nel cui potere è a tal punto che spesso è costretto, sebbene veda il meglio, a seguire tuttavia il peggio”). Spinoza precisa qui che un individuo soggetto (coäctus) alle passioni (o affetti passivi), da cui non può sottrarsi, resta completamente nelle mani della fortuna, cioè in balìa della serie di cause esterne che lo spingono a forza, e che quasi costringendolo, lo conducono a fare il peggio. Lo stesso verbo sequor, qui utilizzato, che significa “seguire” nel senso di “inseguire”, quasi cioè fino a incalzare e cedere, come detto poc’anzi, insieme al termine coäctus, suggeriscono una sorta di meccanismo di costrizione quasi causale proveniente dall’esterno nei confronti del quale l’uomo non può fare nulla. Analizzando più in dettaglio questa prima citazione ovidiana e il testo spinoziano dove è inserita emergono interrogativi interessanti, come i seguenti: in primo luogo, anche ammesso che un individuo sia costretto a seguire il peggio da qualcosa di esterno e di più potente e forte di lui, chi stabilisce e definisce, che cosa sia quel peggio verso cui si è diretti e a cui si cede? In secondo luogo, che cosa è bene e il meglio per l’uomo, e che cosa male e il peggio? Esistono cioè un bene e un male in sé o c’è qualcosa che è bene per me e male per un altro? 77 Definire le nozioni di bene-meglio e male-peggio può essere pertanto un modo per chiarire le ragioni spinoziane del perché in molti casi un uomo può essere indotto a scegliere qualcosa che gli nuoce. In terzo luogo, la scelta di seguire il peggio è effettivamente una scelta? Sappiamo, infatti, che ogni atto di libero arbitrio è puramente illusorio in un sistema filosofico come quello spinoziano: non esiste nessuna scelta deliberata, nessuna volontà ma singole volizioni concrete. Allora di che natura può essere l’atto di seguire il peggio se non è intenzionale?45 45 Riguardo la presunta intenzionalità o meno di un atto acratico, trovo piuttosto interessante la proposta di Pinheiro, secondo cui se per intenzionale s’intende l’esercizio della reale deliberazione e quest’ultima implica l’esistenza di stati di cose contingenti, è ovvio che non c’è spazio alcuno nel sistema filosofico spinoziano per l’intenzionalità convenzionalmente intesa. Ma se pensiamo (in un senso minimo) all’intenzionale inteso come un atto che risulti da una deliberazione non reale, e non da una forma di pensiero proposizionale, allora sì che possiamo ipotizzare nella filosofia della mente di Spinoza uno spazio di intenzionalità, Pinheiro (2007). Si veda anche la nota su Brentano (nota n.4 cap.1)). A tal proposito, inoltre, ritengo utili gli studi di Davidson sui paradossi di irrazionalità (1982) in Davidson (2006), pp.143-146; in particolare, Davidson distingue il Principio di Medea, secondo cui un individuo agisce irrazionalmente contro il suo miglior giudizio perché una forza aliena (alien force) lo soverchia, dal Principio di 78 Infine, c’è uno spazio, seppur piccolo, d’irrazionalità nell’universo spinoziano, se è vero che l’uomo per Spinoza comunque non può prescindere dagli affetti passivi? Ammettere una forma d’irrazionalità, come potrebbe essere la condizione in cui versa l’uomo che agisce acraticamente, non vuol dire ammettere il mondo del non-razionale, opzione in sé stessa inconciliabile con il razionalismo spinoziano. L’irrazionale per definizione è ben distinto dal non-razionale. Donald Davidson, che conosce la filosofia spinoziana e le dedica un lungo studio in particolare riguardante la teoria causale degli affetti, occupandosi nello specifico dei vari tipi di paradossi di irrazionalità, descrive a mio avviso chiaramente come e in che senso sia bene tenere distinti in filosofia i termini di irrazionale, non-razionale e razionale.46 Ricordando Hobbes, secondo cui solo l’uomo ha il privilegio dell’assurdo, Davidson suggerisce che solo l’essere umano in quanto creatura razionale può essere irrazionale. Il non-razionale è fuori dall’ambito della razionalità in assoluto, mentre l’irrazionale indica una mancanza “nella casa della ragione”. Platone, secondo cui invece è impossibile che un individuo agisca intenzionalmente contro il suo giudizio migliore, in quanto forma di conoscenza e in quanto creatura razionale (preciso che in verità il principio che Davidson attribuisce a Platone è la posizione di Socrate). Davidson (1993) su Spinoza e la teoria causale degli affetti, in Davidson (2005). 46 Davidson (2006), p.136. 79 L’irrazionale è pertanto un processo o stato mentale, così come lo è il razionale, solo che è un processo che è “sbagliato, andato male”47. Seguendo le indicazioni terminologiche di Davidson, mostrerò pertanto come e in che senso l’acrasia può essere intesa come un fenomeno irrazionale o come una condizione irrazionale in cui versa l’individuo, entrambi i casi perfettamente compatibili e conciliabili con il razionalismo spinoziano. Cercherò inoltre di chiarire perché l’acrasia, in quanto difetto della ragione, non sia mai un fenomeno che può essere coerentemente definito contro ragione, al pari di un paradosso autocontradditorio. Alla luce di questa spiegazione, l’acrasia non è mai una condizione non-razionale, ma solo irrazionale, o, come voleva David Pears, una “irrazionalità motivata”48. Ripartiamo allora dal passo—riferito poc’anzi—della Prefazione alla parte IV dell’Etica, in cui compare la citazione di Ovidio, riferita e utilizzata da Spinoza più volte, al fine di chiarire i seguenti punti: 1) che cosa è bene e dunque meglio per un individuo? 47 “Gone wrong”, come dice Davidson stesso: Davidson (2006), pp. 138- 152. 48 Pears (1984), pp. 22-26, dedica un’intera monografia, dal titolo molto esplicativo Motivated Irrationality, alla questione dell’acrasia, esaminandola in relazione al problema dell’autoinganno, di una possibile percezione errata, e di un ragionamento dell’individuo mai compiutamente non-razionale. 80 2) che cosa invece è male-peggio? 3) perché seguiamo il peggio se vediamo il meglio? 4) perché in definitiva agiamo acraticamente? Spinoza nella Prefazione alla parte IV dell’Etica definisce la schiavitù umana nel seguente modo: “Humanam impotentiam in moderandis, et coërcendis affectibus servitute voco” (“chiamo ‘schiavitù’ l’impotenza dell’uomo a moderare e reprimere gli affetti”). Nel fare ciò, egli descrive un caso di azione acratica, fornendocene una prima formulazione. Egli inoltre dice di voler dimostrare la causa del perché accadono fenomeni acratici, intendendo spiegare “che cosa gli affetti abbiano di buono o di cattivo“ e precisando terminologicamente, nel prosieguo della prefazione, le nozioni di bene e male, oltre che di perfetto e imperfetto49. 49 Trovo qui interessante anche il collegamento tra questa prefazione alla parte IV dell’Etica e il libro IX (Theta) della Metafisica (1044 b33-35) di Aristotele, circa la nozione di potentia ed impotentia. Sia Spinoza che Aristotele usano lo stesso esempio del costruttore e dell’arte di costruire case, per chiarire la nozione di potenza. Questo stesso nesso è stato già rilevato ed esplicitamente asserito da Macherey, il quale sostiene che Spinoza riprende proprio da Aristotele l’esempio in questione per spiegare la produzione di opere artificiali e l’azione dell’uomo sulla natura (insieme alle nozioni di perfetto e imperfetto): Macherey (1997), pp. 15-16. 81 Per rispondere ai primi due quesiti che ci siamo posti nella pagina precedente, bene e male sono concetti relativi per Spinoza 50. Essi non esistono in sé, ma solo in relazione a qualcosa, sono cioè modi del pensare: significativo a tal proposito l’esempio della musica che può risultare buona per l’uomo malinconico; cattiva per quello addolorato e indifferente per il sordo che non può ascoltarla.51 Rebus sic stantibus, bene e male non sono fenomeni reali ma sono solo modi di pensare; parimenti, le nozioni di “meglio” e di “peggio” saranno altrettanto relative, soggettive e non oggettivamente date. Si possono comprendere anche le ragioni per cui ciò che conta veramente per un individuo non sia l’oggetto in sé, la cosa in sé stessa, verso cui o da cui l’individuo è mosso, ma il modo in cui egli è affetto dalle cose, come cioè le cose lo colpiscono52. Quella cosa che è bene allora per X può essere male per Y. Ciò che risulta essere il meglio viene stabilito 50 Più avanti Spinoza, in EIV, P68, dirà anche che bene e male sono correlativi, nella misura in cui si definiscono reciprocamente. Si noti che la correlatività è un esempio particolare di relatività, così come Aristotele la definisce in Metafisica IV, 6, circa la percezione. 51 Si veda la Prefazione di EIV. 52 In tal senso, Pinheiro pensa di poter asserire che le cause esterne sono delle affezioni nella mente dell’agente, dei suoi stati mentali, in Pinheiro (2007). 82 in relazione a qualcosa e relativamente a qualcuno; così come ciò che è peggio è tale per qualcuno e in relazione a qualcosa. Per quanto riguarda il terzo e il quarto quesito: è noto che per Spinoza ognuno giudica e stima secondo il proprio affetto. Ciò che è bene è tale perché qualcuno lo desidera e il desiderio è fondativo, precede cioè ogni forma di attività conoscitiva in genere. Che cosa allora fa sì che l’individuo, pur giudicando che un’azione A sia meglio di B, per lui, tuttavia sceglie B? Stando a questa prima lettura del testo spinoziano, un individuo segue il peggio (B), pur vedendo il meglio (A), solo perché, sottoposto agli affetti passivi, non è padrone di sé stesso ma nelle mani della fortuna, della serie cioè di cause o eventi che lo costringono dall’esterno. Quale ruolo può svolgere la fortuna nell’agire acratico? Secondo la definizione di Spinoza, per fortuna s’intende “la direzione divina delle cose umane mediante le cause esterne”53. L’individuo risulta passivo o coatto perché subisce l’azione delle cause esterne da cui non può prescindere in quanto egli è parte della natura. Mi accingo ora a chiarire l’ineluttabilità della fortuna nella vita degli esseri umani, approfondendo meglio il collegamento tra fortuna e acrasia. 53 Spinoza, TTP3, 3; TTP Pref. 1. Spinoza parla anche di forte fortuna, intendendo con ciò “il mero caso” (TP11, 2). 83 Come Spinoza spiega nelle primissime proposizioni della parte IV dell’Etica, l’individuo è soggetto alla natura e al suo ordine; e in ciò risiede la radice ontologica delle passioni. Così facendo, egli è sottoposto a una serie di modificazioni, di mutamenti dei quali per lo più è causa inadeguata e che egli subisce. Dal momento che l’individuo è soggetto alle passioni, inevitabilmente egli subirà molti mutamenti e sentirà molte affezioni derivanti sia dalla natura che dalle cause esterne. La natura non è altro che una serie infinita di relazioni reciproche; l’individuo stesso, che agisce ed esiste come determinazione particolare (modo finito) dell’essenza e della potenza della natura di cui è parte, si modificherà in relazione ad altri corpi e altre menti. Emerge così chiaramente l’idea di un vero e proprio campo dinamico di forze, di modificazioni, di corpi e menti che modificano altri corpi e altre menti e che a loro volta ne sono modificati, al variare delle relazioni stesse. L’individuo non può esistere e agire senza le altre parti; tuttavia egli persevera con una forza limitata e superata dalle cause esterne (EIV, P3). Non è possibile in alcun modo evitare le cause esterne (anche se più avanti, nella sezione finale della parte IV e in particolare nella parte V Spinoza darà delle indicazioni su come sopportare gli avvenimenti contrari e contenere in un certo senso le cause esterne). Per ora si rammenti che l’individuo non può evitare le cause esterne, in quanto è parte integrante di questa natura (EIV, App.32). 84 L’affettività dell’individuo appare come una continua interazione tra affetti attivi e passioni che interagiscono tra loro.54 Da ciò si evince con una certa evidenza l’idea che l’esistenza stessa dell’individuo sia una sorta di lotta perpetua. In natura non esiste per Spinoza nessuna cosa singolare di cui non esista una cosa più forte e più potente da cui quella può essere distrutta (EIV, Ax.1). Qualunque cosa data pertanto ne implicherà sempre una più forte e potente: esiste un numero infinito di conatus ciascuno dei quali lotta per la sua individuale sopravvivenza, sino a giungere a un vero e proprio scontro reciproco. Come ricorda Nadler, nella vita dell’essere umano questa lotta si verifica sia tra l’individuo e le forze dentro sé stesso che tra l’individuo e le forze fuori, esterne a lui55. Il corpo lotta con i propri conatus contro le cose che potrebbero indebolirlo; la mente lavora per incrementare il proprio potere di azione. Qui s’insinua e trova spazio concettuale l’acrasia come fenomeno intrinseco alla filosofia spinoziana. Come si legge in Etica IV, P3, il potere delle cause esterne è infinitamente più forte della forza dell’individuo, del proprio individuale conatus. L’individuo è parte della natura, dunque passivo e mai svincolato del tutto dalle cause esterne. Si può dare il caso allora che un individuo si veda 54 Mignini (1995), pp.142-144. 55 Nadler (2006), pp.221-225. 85 costretto a agire contro il proprio miglior giudizio—quindi acraticamente—proprio perché vinto dalle cause esterne, dal potere della fortuna. La fortuna con il proprio potere soverchia il conatus dell’individuo, sempre perdente di fronte all’irrompere inevitabile delle cause esterne su di lui. È quindi inevitabile—naturalmente inevitabile—che l’individuo spinoziano soggiaccia alle forze esterne, agendo contro il proprio miglior giudizio, che lo spingerebbe ad azioni altre rispetto a quelle che si vede costretto a compiere. Se così fosse, l’acrasia diventa un fenomeno che fa capolino dietro ogni riga dell’Etica, almeno delle parti IV e V, nella misura in cui la potenza delle cause esterne e della fortuna rinvia sempre ad un individuo perdente, che può agire contro il proprio miglior giudizio. Alla luce di quanto detto, l’acrasia si presenta in Spinoza come un fenomeno carsico, una presenza fattiva ma di difficile identificazione, visto il terreno accidentato che attraversa. Nell’Etica Spinoza mira a costruire un gigantesco sistema razionale che ci abbacini con la sua chiarezza, ma dietro a cotanta razionalità scorrono fiumiciattoli nascosti, dove si cela l’irrazionale, l’atto acratico. Alla luce di questa analisi, la fortuna (con il predominare delle cause esterne a lei connesse) risulta una delle cause della presenza dell’acrasia nella filosofia di Spinoza. Ad esempio, io posso ritenere che non sia bene mandare mia figlia Zoe a scuola al compimento dei 86 sei anni d’età e per un tempo così lungo in un giorno, e trovarmi tuttavia costretta a farlo perché in Italia vige l’obbligo d’istruzione. Io mi formo un giudizio relativo circa il bene di mia figlia Zoe. Il mio giudizio può essere sbagliato ma è legittimo da un punto di vista epistemologico e, soprattutto, io posso agire adeguandomi a quel giudizio. Per tornare al lessico ovidiano preferito da Spinoza, vedo ciò che è bene e meglio per Zoe (secondo il mio punto di vista), ma scelgo ciò che è peggio per lei (dalla mia prospettiva) in questo momento. Nel mandare a scuola Zoe contro il mio giudizio migliore, posso apparire non sottoposta a nessuna passione interna (anzi l’amore per mia figlia mi porterebbe a fare l’esatto contrario), ma sono costretta a fare ciò da una forma di coazione a me esterna (la legge vigente), che funziona in parte come un dato di fortuna, una causa esterna su cui nulla posso. Quindi, la mia azione acratica sembra essere tale alla luce della coazione a me imposta dalle cause esterne. Stando a quanto detto sul ruolo della fortuna nel sistema spinoziano, l’esempio sopra riferito di Zoe che va a scuola contro il miglior giudizio di sua madre è un caso lampante di acrasia e del nesso di questa con la fortuna. È questa, tuttavia, l’unica spiegazione possibile dell’esempio riferito? Sono io costretta solo dalle cause esterne ad agire nel modo in cui agisco, oppure c’è qualche altro elemento significativo nel quadro? È il mio appetito a desiderare debolmente? Tutte le cose, del resto, sono determinate a esistere e 87 agire per Spinoza in un certo modo dalle cause esterne: tutto ciò che non esiste o agisce per sua natura, richiede una causa esterna. L’atto di mandare Zoe a scuola costretta dalla legge (di seguire, quindi, quello che a me appare come il peggio per lei, agendo contro il mio miglior giudizio) potrebbe essere condizionato dal mio appetito-amore per lei che mi impedisce di accettare serenamente quanto le cause esterne (la legge vigente) mi obbligano a fare. Se così fosse, questo mio appetito—il desiderare che lei resti a casa e si educhi alla scrittura e alla lettura in un modo più consono ai suoi bisogni—potrebbe essere un’altra ragione del mio agire acratico (nel corso dell’indagine questo punto risulterà più chiaro, specie alla luce di quanto mostrerò in merito agli affetti contrari e all’appetito debole). Rebus sic stantibus, la mia azione acratica, vale a dire mandare a scuola mia figlia contro il mio (soggettivo) giudizio migliore a riguardo, potrebbe essere meglio descritta come il risultato di due fattori che interagiscono tra di loro in modo massiccio ma che rimangono comunque fattori distinti l’uno dall’altro: la coazione a me imposta dalle cause esterne che cozza contro il mio miglior giudizio, e gli appetiti che mi spingono all’azione e che si traducono nel mio giudizio soggettivo di non mandare a scuola mia figlia. Anche in Spinoza—e questa è la mia tesi—i due fattori ora descritti e distinti sono in realtà fusi nell’azione acratica. Come rammenta Spinoza nella Prefazione alla parte IV dell’Etica (citata in apertura a questo 88 paragrafo 2), l’individuo acratico è sia soggetto agli affetti (egli desidera debolmente e può naturalmente essere in conflitto con sé stesso) sia in balìa della fortuna. L’esempio di Zoe ci ha permesso di individuare le due cause dell’agire acratico che penso possano spiegare tale fenomeno all’interno del sistema di Spinoza: la fortuna come causa esterna (su cui ci siamo dilungati in questo paragrafo) e il conflitto appetitivo come causa interna (che mi accingo a chiarire nel seguente paragrafo). 3. L’acrasia e la teoria degli affetti In modo preliminare, ritengo utile chiarire il termine ‘interno’ che utilizzo spesso per riferire, in particolare, sia il conflitto che si dà tra due affetti nell’individuo che il conflitto dell’individuo con sé stesso. E’ noto che nella filosofia spinoziana ‘interno’ non è sinonimo d’interiorità, la quale pare essere un concetto sconosciuto a Spinoza. ‘Interno’ non indica per Spinoza un luogo ontologico, tanto meno una sostanza in senso agostiniano o cartesiano di soggettività. L’uomo per Spinoza è solo un modo finito e nulla in lui o fuori di lui rinvia alla sostanza. L’interno al più indica semplicemente un ‘modo’ (non un luogo ontologico), una modalità di relazione dell’individuo con sé stesso. 89 L’idea di ‘interno’ come modo di relazione dell’individuo con sé stesso e non come luogo ontologico è filosoficamente legittima, almeno sin dal pensiero antico. In un mio precedente lavoro sul dialogo interiore nel pensiero classico (in particolare in Omero, Platone e Aristotele), ho rilevato come la filosofia greca non avesse elaborato alcuna idea di soggetto e di una dimensione interiore come luogo d’eccellenza per la vita ontologica di un tale soggetto.56 Anche le filosofie più soggettiviste del mondo antico, come il relativismo di Protagora e l’infallibilismo dei Cirenaici, non hanno mai elaborato l’idea che il soggetto abbia uno spazio ontologico proprio. Ciò non ha impedito alla filosofia greca di pensare il soggetto come modo particolare di relazione dell’individuo con sé stesso. Egualmente legittimo, dal punto di vista filosofico, è l’uso di ‘interno’ in Spinoza per qualificare il conflitto che l’individuo vive con sé stesso ed in sé stesso, senza per questo presumere una sostanza interna che indichi un luogo ontologico. Un secondo luogo spinoziano utile alla ricostruzione e definizione della nozione di acrasia è EIII, P2 S, ove è presente per la seconda volta la citazione di Ovidio. Nel lungo e noto scolio alla 56 Sull’idea che la filosofia greca non abbia elaborato il concetto di soggetto, si veda il famosissimo articolo di Myles Burnyeat (1982), dal titolo molto significativo: Idealism and Greek Philosophy: what Descartes saw and Berkeley missed. 90 proposizione 2 della parte III dell’Etica, dopo aver dimostrato l’unicità e l’identità della sostanza (EII, P12), pur nella pluralità dei suoi attributi, e dopo aver stabilito che la mente non determina il corpo ad agire né il corpo la mente a pensare, Spinoza dice che le cose umane andrebbero certamente meglio se fosse in potere dell’uomo tanto parlare quanto tacere. L’esperienza però insegna che gli uomini non possono controllare la loro lingua, e meno che mai moderare i loro appetiti. I più pensano che si possa agire liberamente nei confronti di quelle cose “verso cui tendiamo con moderazione”, gli appetiti deboli, in quanto questi, a differenza di quelli forti, possono essere frenati. In realtà Spinoza sottolinea che non facciamo nulla liberamente. Anzi, spesso facciamo molte cose di cui poi ci pentiamo, e quando siamo agitati da affetti contrari (contrariis affectibus conflictamur), vediamo il meglio e seguiamo il peggio. Così il bambino crede di appetire liberamente il latte, il fanciullo adirato la vendetta; parimenti l’ubriaco crede di dire per libero decreto della sua mente ciò che da sobrio preferirebbe tacere57. Ciascuno per Spinoza 57 Nell’Etica Nicomachea VII dell’edizione E.M., Aristotele utilizza la stessa figura dell’ebbro o ubriaco per parlare di acrasia. Come in Spinoza, l’ebbro viene utilizzato da Aristotele come esempio di non moderazione o debolezza dell’appetito. 91 regola tutte le cose secondo il proprio affetto; se agitato da affetti contrari, l’individuo non sa esattamente quello che vuole. Spinoza utilizza ancora una volta la citazione di Ovidio, ripetendo quasi testualmente quanto detto nello scolio alla P2 della parte III dell’Etica. Nella lettera a Schuller (lettera 74 nella numerazione Mignini=Gebhardt 58), ottobre 1674, Spinoza ribadisce e ripete sostanzialmente l’argomento della debolezza dell’appetito. Egli sta cercando di mostrare in questa lettera che il libero arbitrio sia solo un pregiudizio innato in tutti gli uomini. L’esperienza insegna a sufficienza che gli uomini non sono capaci di controllare nulla, meno che mai i loro appetiti. Spesso essi, combattuti da affetti contrari, vedono le cose migliori ma seguono le peggiori, continuando a credere di essere liberi. Ciò accade perché essi “appetiscono certe cose debolmente”, hanno cioè degli appetiti deboli, che, in quanto tali, possono essere diminuiti con facilità dalla memoria di un’altra cosa della quale ci si ricorda più frequentemente. Ecco le parole di Spinoza: Questa è quell’umana libertà che tutti si vantano di avere e che consiste soltanto nell’essere gli uomini consapevoli dei loro appetiti e ignari delle cause dalle quali sono determinati. Così il bambino crede di volere liberamente il latte; il fanciullo irato di volere la vendetta e il timido la fuga. L’ubriaco crede di dire per libera decisione della mente quelle cose che poi, 92 da sobrio, vorrebbe aver taciuto. Così, colui che delira, il ciarlatano e molti di questa razza credono di agire per libero decreto della mente, non di essere trasportati dall’impulso. E poiché questo pregiudizio è innato in tutti gli uomini, non si liberano di esso molto facilmente. Infatti, benché l’esperienza insegni più che a sufficienza che gli uomini nulla possono controllare meno che mai i loro appetiti e che spesso, combattuti da affetti contrari, vedono le cose migliori e seguono le peggiori, credono tuttavia di essere liberi e questo avviene perché appetiscono certe cose debolmente ( leviter appetant) e tale appetito può essere diminuito con facilità dalla memoria di un’altra cosa della quale ci ricordiamo più spesso. I due passi di Spinoza qui riportati contengono la stessa citazione di Ovidio e la spiegano allo stesso modo, vale a dire, riferendosi al conflitto affettivo. I termini concettuali essenziali che Spinoza utilizza riferendosi alla citazione di Ovidio nei passi testé indicati sono i seguenti: gli affetti contrari, la fluttuazione dell’animo, l’appetito debole e, non ultima, la questione più complessa della libertà. Spinoza definisce l’affetto nel seguente modo: “Per affetto intendo le affezioni del corpo con le quali la potenza di agire dello stesso corpo è aumentata o diminuita, favorita o ostacolata e, simultaneamente, le idee di queste affezioni. Se dunque possiamo essere causa adeguata di qualcuna di queste affezioni, per affetto intendo un’azione, altrimenti una passione” (EIII, Def.III). 93 Spinoza poi definisce gli affetti contrari nel seguente modo: “Per affetti contrari intenderò d’ora in poi quegli affetti che trascinano l’uomo in direzioni opposte, sebbene siano dello stesso genere, come la lussuria e l’avarizia, che sono specie dell’amore; né sono contrari per natura, ma per accidente” (EIV, Def.V). Preciso inoltre che per Spinoza l’affetto, essenza stessa dell’uomo, è potentia agendi, dunque conatus, sforzo, vale a dire, di autoconservazione, quella forza o potenza con cui ogni ente è determinato a conservare la propria esistenza e a compiere tutto ciò che è utile a perfezionarsi (EIII, PP4-8). Questo sforzo (o conatus) in quanto spinta, impulso ad agire si esprime attraverso il desiderio, la cupidità o l’appetizione in genere. Da ciò segue che quando questo sforzo si riferisce alla sola mente, per Spinoza si tratta di volontà; quando invece si riferisce simultaneamente alla mente e al corpo si chiama appetito. L’appetito si distingue poi dalla cupidità nella misura in cui quest’ultima è consapevole dello sforzo di cui stiamo trattando. Nel noto scolio alla proposizione 9 della parte III dell’Etica, Spinoza afferma: “Questo sforzo si chiama volontà quando si riferisce alla sola Mente; ma quando si riferisce simultaneamente alla Mente e al Corpo si chiama Appetito, che perciò non è altro che la stessa essenza dell’uomo, dalla cui natura seguono necessariamente le cose che servono alla sua conservazione […]; la Cupidità è l’appetito con la sua 94 consapevolezza” (EIII, P9 S). L’appetito è pertanto distinto da Spinoza dalla cupiditas: quest’ultima è l’essenza stessa dell’uomo ed è forma fondamentale dell’affetto. Più rigorosamente, la cupiditas è l’appetito con la sua consapevolezza (“cupiditas est appetitus cum ejusdem conscientia”, EIII, P9 S) 58. L’appetito è allora quello sforzo, quella pulsione propria di un soggetto sensibile non consapevole; la cupiditas invece è la pulsione umana di un soggetto consapevole di averla. Ora, date queste definizioni, passiamo alla ricostruzione dell’argomento mediante cui Spinoza presenta e discute il conflitto affettivo, alla base dell’acrasia, accanto alle cause esterne. A tal fine, per approfondire ciò, penso sia utile chiarire e definire prima quella 58 In particolare, come sottolinea Emilia Giancotti Boscherini (1993), p.399 nota n.16, Spinoza di volta in volta userebbe i termini desiderium-appetituscupiditas in maniera distinta, così che sembrerebbe più corretto mantenere tale distinzione. Alle definizioni date in EIII, P9 S di appetito e cupiditas, si aggiunge quella di desiderio, che non è altro che una forma di cupidità o appetito di disporre di una certa cosa, di possederla (EIII, Aff.Def.32). La studiosa ricorda infine che il termine appetitus ricorre ben 47 volte, a cui vanno aggiunte le 47 volte del verbo appetere; desiderium invece ricorre solo 8 volte; la frequenza più alta è quella di cupiditas che ricorre 157 volte. (Si veda pure, EIII, AD1 Ex). 95 fluttuazione dell’animo che Spinoza stesso collega ai conflitti affettivi in genere. In Etica III, P17 S, fluctuatio animi o fluttuazione dell’animo è per Spinoza quello stato della mente che nasce da affetti contrari: “Questa costituzione della mente che nasce da due affetti contrari, si chiama fluttuazione dell’animo, che perciò è nei confronti dell’affetto quel che il dubbio è nei confronti dell’immaginazione”. Spinoza precisa che deduce queste fluttuazioni dalle cause che, per sé, sono cause di un affetto e, per accidente, sono cause di un altro affetto, senza per questo negare che le fluttuazioni dell’animo traggono origine dall’oggetto che è causa efficiente di entrambi gli affetti opposti. Il corpo umano per Spinoza è composto da moltissimi individui di natura diversa: uno stesso e solo corpo può essere affetto in moltissimi e diversi modi; al contrario, quello stesso corpo potrà a sua volta affettare in molti e diversi modi una sola e stessa parte del corpo59. Un solo e stesso oggetto può essere allora causa di molti affetti contrari. Si comprende ora meglio in che senso nel sistema 59 Mantengo come traduzione del verbo latino ‘afficere’ l’italiano, forse un po’ desueto, di ‘affettare’, così come proposto da Emilia Giancotti Boscherini (1993), p.363 nota 121, perché a mio parere rende in maniera più adeguata il significato delle possibili modificazioni dell’affettività nel sistema filosofico di Spinoza. Si vedano anche EIV, PP38-39; EIV, Cap. XXVII. 96 filosofico spinoziano sono presenti forze, energie, corpi che vengono modificati e che a loro volta possono modificare altri corpi, interagendo tutti in una serie infinita di combinazioni sino al delinearsi di una sorta di vero e proprio campo dinamico di forze. Come Spinoza ricorda anche nello scolio di EIII, P59 S, le fluttuazioni dell’animo nascono dalla composizione dei tre affetti primitivi (vale a dire, cupidità, gioia e tristezza). Da ciò appare che noi siamo per Spinoza agitati dalle cause esterne in molti modi e, come onde del mare agitate da venti contrari, fluttuiamo in direzioni opposte, inconsapevoli del nostro destino e della nostra sorte60. Spinoza inoltre sottolinea che ha illustrato solo le passioni più importanti, non tutti i possibili conflitti dell’animo. Tanti e indefiniti possono allora essere i conflitti affettivi alla base delle infinite combinazioni affettive. Interessante, infine, a tal proposito anche quanto si legge in EIII, P51: se uomini diversi possono essere affetti dallo stesso oggetto in modo diverso, così pure uno stesso uomo potrà essere affetto dallo stesso oggetto in modi diversi, in 60 Approfondire quanto segue mi porterebbe troppo lontana, ma trovo interessante quanto leggo nella Medea di Seneca circa la fluttuazione dell’animo: “Cuore, perché vacilli? Perché lacrime mi bagnano la faccia e sono divisa tra ira ed amore? Fluttuo in balìa di una doppia corrente: come quando i venti rapaci si scontrano in guerre selvagge e il mare ribelle è sconvolto dalla discordia dei flutti, così ondeggia il mio cuore”. 97 tempi però diversi. Così dicendo, potrebbe accadere che lo stesso uomo approvi il bene e segua ‘poi’ il male in tempi però diversi? Se così fosse quel ‘poi’ indicherebbe uno spostamento cronologico nel tempo delle due azioni, seppur piccolo che sia61. Il nesso appena evidenziato tra acrasia e fluttuazione dell’animo appare ora chiaro, così come il significato del conflitto affettivo che deduciamo a partire da questi fenomeni. In primo luogo, l’acrasia non è una semplice fluttuazione dell’animo né è un semplice stato della mente, ma essa si riferisce simultaneamente alla mente e al corpo. L’acrasia non è inoltre un mero conflitto affettivo che conduce l’uomo ad oscillare, ma il conflitto affettivo è una delle cause—una causa interna—dell’acrasia stessa. La fluttuazione dell’animo nasce così da affetti opposti che tuttavia agiscono e si agitano l’uno accanto all’altro, come nel caso della speranza e della paura, affetti contrari che permangono sempre insieme (EIII, P50): un individuo non spera mai senza aver paura, né ha paura senza sperare. L’acrasia, invece, è un fenomeno ben più complesso e articolato della fluttuazione dell’animo, essendo quella non un semplice conflitto tra affetti contrari che esistono nello stesso tempo, bensì il prodotto di un 61 In particolare, fra breve, approfondirò il significato del ‘poi’, così come questo si deduce a partire dal nesso acratico tra un giudizio circa il meglio e l’atto di cedere invece al peggio. Su ciò vedi anche EIV, PP15-17. 98 possibile conflitto affettivo. L’acrasia potrebbe, in un certo senso, presupporre uno stato di fluttuazione dell’individuo, nella misura in cui l’acratico vive al proprio interno dei conflitti affettivi, ma essa resta un fenomeno distinto dalla fluttuazione dell’animo. Il bene e il male per l’acratico non sono semplicemente due affetti contrari, ma elementi che conducono l’individuo ad oscillare, ad essere combattuto a causa loro, arrivando a vedere il bene per poi cedere al male. Il conflitto affettivo alla base dell’acrasia si risolve in un atto acratico, contrario al migliore giudizio dell’agente. Il conflitto tra affetti opposti invece—tipico di chi fluttua—permane senza venir risolto in un’azione concreta, continuando ad agitare l’animo del fluttuante. Vedo il bene e seguo il male: questa è un’azione acratica. Spero e temo qualcosa, in quanto qualunque cosa può essere causa di speranza e di paura: questa invece è una fluttuazione dell’animo. A partire da queste definizioni appena fornite (di ‘affetto’, di ‘contrario’, di ‘appetito e di ‘fluttuazione dell’animo’), sulla base dei due testi riferiti (la lettera a Schuller e EIII, P2 S), si può ipotizzare che un individuo possa vedere il bene e seguire tuttavia il male perché “appetisce debolmente certe cose”. Quando ciò accade, vale a dire quando l’appetito risulta debole, nell’individuo si verifica un conflitto tra affetti contrari, opposti, a causa dei quali egli è agitato e “combattuto da affetti contrari”. Egli è indotto dall’interno ad agire acraticamente. L’azione acratica—la decisione di seguire il peggio, 99 dopo aver approvato il meglio—pone fine al conflitto affettivo che agitava prima l’individuo, anche se in modo dannoso per l’individuo stesso. Egli pertanto si comporta acraticamente in primo luogo perché, debole nel suo appetito, subisce l’azione delle cause esterne, della fortuna. Appetendo debolmente, in secondo luogo egli vive all’interno un conflitto vero e proprio tra affetti contrari che lo conducono ad oscillare, trascinandolo in direzioni opposte (EIV, Def.V). Così facendo, gli affetti contrari lo portano a non sapere ciò che egli vuole, a pentirsi di ciò che ha fatto e, in ultima analisi, lo portano a diminuire la propria potentia agendi. Egli vive in questo modo un conflitto forte tra il bene che giudica e il male che segue, tra un giudizio apparentemente benefico e un’azione sicuramente dannosa. Da qui si evince la natura problematica del giudizio annebbiato (o parziale e confuso) derivante dall’immaginazione dell’uomo in relazione al suo comportamento acratico (problema questo che tratto fra breve, nel prossimo paragrafo). Questi due testi esaminati hanno dunque mostrato con chiarezza che cosa Spinoza intenda per conflitto affettivo e il nesso che intercorre sia con lo stato di fluttuazione dell’animo che con l’acrasia. Così facendo, ho spiegato in che senso il conflitto affettivo è un’ulteriore causa dell’acrasia, vale a dire la sua possibile causa interna. Come ho già mostrato in precedenza, l’acrasia ha anche una causa esterna per Spinoza, la fortuna. Mi occuperò, più 100 analiticamente, del rapporto sussistente tra cause esterne e causa interna del fenomeno acratico nel capitolo finale, in cui illustrerò la mia interpretazione sinottica e conclusiva dell’acrasia in Spinoza, intesa come debolezza dell’appetito o debolezza affettiva. Da questo quadro concettuale emerge allora con chiarezza il significato dell’acrasia come debolezza dell’appetito (o, più in generale, affettiva): l’appetito è infatti lo sforzo di conservazione di sé, riferito alla mente e al corpo, che esprime l’essenza stessa di ogni ente. Ma anche l’affetto, in quanto antropologicamente primario e fondativo, regola lo stesso agire dell’individuo ed è essenza stessa di ogni ente, come l’appetito. Affetto e appetito sono termini concettualmente sovrapponibili in Spinoza, almeno parzialmente, nella misura in cui entrambi esprimono l’essenza stessa di ogni ente e, pertanto, di ogni individuo. (Senza dimenticare quanto detto poc’anzi sulla cupiditas e l’appetito che sono differenti solo nella misura in cui la cupidità è l’appettito con la sua consapevolezza, EIII, P9 S). 4. L’acrasia e l’immaginazione Per la quarta volta Spinoza cita esplicitamente il verso di Ovidio nello scolio alla proposizione 17 della parte IV dell’Etica, dove collega la possibilità di seguire il peggio—pur vedendo il meglio—all’opinione 101 e all’impotentia, descrivendo ancora una volta una situazione acratica. Lo scolio così recita: Credo così di aver spiegato la ragione per cui gli uomini sono mossi più dall’opinione che dalla vera ragione e per cui la vera conoscenza del bene e del male eccita i moti dell’animo e spesso cede ad ogni genere di libidine; onde ha avuto origine quel detto del Poeta: Vedo il meglio, e lo approvo, ma seguo il peggio. Il che sembra aver avuto in mente anche l’Ecclesiaste, quando ha detto: Chi aumenta la scienza, aumenta il dolore (EIV, P17 S). In questo scolio Spinoza dice di aver spiegato la causa per cui gli uomini sono mossi più dall’opinione che dalla vera ratio, per cui la vera conoscenza del bene e del male eccita (o emoziona62) i moti 62 His me causam ostendisse credo, cur homines opinione magis, quam vera ratione commoveantur, et cur vera boni, et mali cognitio animi commotiones excitet, et saepe omni libidinis generi cedat […]: il verbo qui utilizzato è commoveo che significa ‘muovere’, ‘spingere’, anche nel senso di ‘far muovere’, ‘scuotere’, vale a dire ‘agitare’, ‘turbare’ sino a ‘far decidere’. Potrebbe risultare interessante il senso del movimento implicito nel significato del verbo ‘commoveo’: un movimento, dunque, che scuote o qualcuno, condizionandolo, o induce qualcosa in qualcuno, un movimento vale a dire che provoca o suscita qualcosa, quasi sino a commuovere o impressionare, muovendo appunto dall’esterno. 102 dell’animo e spesso cede a ogni genere di libidine; donde è nato quel detto del poeta : vedo il meglio e l’approvo, ma seguo il peggio. La stessa cosa sembra aver avuto in mente l’Ecclesiaste dicendo che chi accresce la scienza, accresce il dolore63. Nella seconda parte dello scolio, Spinoza precisa che quanto appena detto non significhi che l’ignoranza sia preferibile alla scienza, come invece sembra alludere il riferimento al passo dell’Ecclesiaste. Lo stolto è altro da colui che intende nel governare e moderare gli affetti. Spinoza ricorda questa differenza tra lo stolto e colui che intende perché è necessario conoscere tanto la potenza che l’impotenza della natura umana, per determinare che cosa la ragione possa o non possa fare nel dominio degli affetti. In questa parte, infine, egli precisa che tratterà solo dell’impotentia umana64. Alla luce di questo scolio, si possono dedurre almeno due considerazioni importanti. In primo luogo, e per la prima volta, Spinoza collega esplicitamente il detto di Ovidio al fenomeno 63 Manzini (2009), pp. 53-55, collega questa conoscenza vera del bene e del male alla phronesis aristotelica (o prudentia), distinguendola dall’episteme. Su questo si veda pure Matheron (1988), p. 523. 64 Secondo gli studiosi che si occupano di acrasia in Spinoza (come Gagnon, Pinheiro, e Della Rocca), egli, nel trattare nelle prime diciotto proposizioni della parte IV dell’Etica dell’impotentia, in realtà descriverebbe il fenomeno acratico. 103 dell’acrasia, vale a dire alla formulazione di un ipotetico giudizio circa il meglio, precedente l’atto di seguire tuttavia il peggio. L’acrasia, più in particolare, nello scolio in questione, è collegata al fatto che gli uomini sono mossi dall’opinione e alla possibilità che la conoscenza del bene e del male derivi da questa stessa opinione piuttosto che dalla vera ragione. Conoscenza del bene e del male altro non è che l’affetto di gioia e tristezza con la consapevolezza di ciò: “La conoscenza del bene e del male altro non è che l’affetto della Gioia o della Tristezza in quanto ne siamo consapevoli”(EIV, P8). Come ricorda nel prosieguo della stessa proposizione, conoscere il bene o il male significa avere l’idea della gioia o della tristezza che necessariamente segue dallo stesso affetto di gioia o tristezza. L’affetto non si può distinguere realmente dall’idea dell’affezione del corpo; l’affetto di gioia o tristezza, pertanto, in quanto idea e in quanto se ne ha coscienza, coincide con la conoscenza del bene e del male65. Nella dimostrazione che segue alla proposizione in questione Spinoza aggiunge: “chiamo bene o male ciò che giova o è d’ostacolo alla conservazione del nostro essere, cioè che aumenta o diminuisce, favorisce o ostacola la nostra potenza di agire. In quanto dunque, percepiamo che una certa cosa produca in noi un affetto di Gioia o Tristezza, la chiamiamo buona o cattiva; e perciò la conoscenza del 65 Bennett (1984), pp. 281 sgg. 104 bene e del male non è altro che l’idea della Gioia o della Tristezza che segue necessariamente dallo stesso affetto della Gioia o della Tristezza”(EIV, P8). Questa idea è però unita per Spinoza all’affetto nello stesso modo in cui la mente è unita al corpo, vale e dire questa idea non si distingue in realtà dallo stesso affetto, ossia dall’idea dell’affezione del corpo, se non nel concetto. Da tutto ciò si deduce allora che la conoscenza del bene e del male non è altro che lo stesso affetto, in quanto ne siamo consapevoli. Così dicendo, risulta evidente che la possibilità stessa di agire acraticamente per l’individuo risiede anche nel fatto che egli ha una coscienza del bene e del male basata sull’opinione, una conoscenza potremmo dire di tipo immaginativo o, spinozianamente parlando, un primo genere di conoscenza inadeguata, altra dalla ragione e dall’intelletto, generi adeguati di conoscenza. Vedo così il bene e l’approvo, ma seguo poi il male perché il mio giudizio circa il bene e il male è parziale, confuso e annebbiato. Questo genere di conoscenza coincide con una conoscenza di tipo affettivo, o meglio non razionale, vale a dire con l’opinione o l’immaginazione. Da ciò, si evince con chiarezza che il video meliora, proboque, della citazione di Ovidio, il giudizio cioè precedente un’azione acratica, viene formulato in maniera inadeguata, mediante l’immaginazione o opinione e, in quanto tale, esso è annebbiato. Perché ciò accade? L’acratico formula il suo giudizio circa il meglio (o il possibile bene da seguire) in modo 105 confuso e parziale perché egli, così facendo, è condizionato da un appetito debole66. Se è vero, come è vero, che per Spinoza la conoscenza del bene (e del male) non è nient’altro che l’affetto di gioia (o di tristezza) con la consapevolezza di ciò (EIV, P8); se è inoltre chiarito in EIII, P9 S che l’appetito, il desiderio e l’affetto, in genere, sono essenza stessa di ogni individuo, in quanto noi non cerchiamo, vogliamo, appetiamo né desideriamo qualcosa perché riteniamo che sia buona, ma al contrario, noi giudichiamo buona qualcosa perché la cerchiamo, la vogliamo, la appetiamo e la desideriamo; rebus sic stantibus, il giudizio è annebbiato perché è l’appetito dell’acratico che appetisce debolmente. L’affetto precede ogni attività conoscitiva in genere e ogni giudizio, dal momento che ognuno regola e stima secondo il proprio affetto. Essendo quest’ultimo costitutivo dell’individuo stesso, l’affetto regola e determina il suo agire. “Ognuno, secondo le leggi della propria natura, necessariamente ricerca o respinge ciò che giudica buono o cattivo”(EIV, P19), in quanto l’atto di conoscenza è subordinato all’affetto provato; questo appetito non è altro che la stessa essenza o natura dell’individuo. In EIII, P39 S si legge:”Qui per bene intendo ogni genere di Gioia e qualunque cosa, inoltre, conduce 66 Per un approfondimento del rapporto tra cupiditas e immaginazione, si veda Mignini (1981), pp. 151 sgg. 106 ad essa, e soprattutto ciò che soddisfa un desiderio, qualunque questo sia. Per male, invece, intendo ogni genere di Tristezza e soprattutto ciò che frustra il desiderio. Sopra, infatti, (nello Scolio della Prop.9 di questa parte) abbiamo mostrato che noi non desideriamo qualcosa perché riteniamo che sia buona, ma al contrario chiamiamo bene quel che desideriamo; e conseguentemente chiamiamo male ciò a cui siamo contrari; per cui ognuno giudica o stima, secondo il proprio affetto, quel che è bene e quel che è male, quel che è meglio e quel che è peggio e, infine, quel che è ottimo e quel che è pessimo. […]; e così ognuno giudica una certa cosa buona o cattiva, utile o inutile secondo il suo affetto”. In Spinoza l’individuo è così in primis desiderante e, in quanto tale, è l’appetito a muoverlo: se quest’ultimo è debole, necessariamente il giudizio sarà altrettanto debole e confuso. Se, in via ipotetica, un qualsiasi individuo non fosse invece mosso da un appetito debole, la sua ratio risulterebbe vera e la sua conoscenza del bene e del male non cederebbe a ogni genere di libido67, per cui non avrebbe neppure origine quel detto del poeta di cui stiamo discutendo. Questi non cederebbe a ogni genere di passione, di desiderio (e più in 67 Il termine libido potrebbe a mio avviso, ed è solo un’ipotesi, essere tradotto con desiderio, brama, passione oltre che avere anche il significato di piacere. 107 generale si potrebbe anche dire di affetto), perché se così fosse, eviterebbe di seguire il male, dopo aver visto e approvato il bene. L’acratico, al contrario, mosso da un appetito debole e dall’opinione, ha una coscienza offuscata e parziale del bene e del male. Essendo in questa situazione, egli inevitabilmente cede a ogni genere di desiderio o passione “donde ha avuto origine quel detto del Poeta”, secondo cui vede il meglio e lo approva, ma segue poi il peggio. Il secondo aspetto su cui è interessante soffermarsi, così come si evince dallo scolio, è il nesso esistente tra questo detto del Poeta, la citazione ovidiana secondo cui un individuo vede il meglio e lo approva, ma segue il peggio, con la frase dell’ Ecclesiaste per cui chi aumenta la scienza, aumenta il dolore68. Che significato può avere 68 Ringrazio Marcello La Matina per le sue indicazioni circa il commento di Gregorio di Nissa all’Ecclesiaste, commento contenente diversi passi in cui si parla di aboulia. In particolare, i passi 5.285.4; 5.291.12; 5.302.8; 5.303.2. Trovo significativo il nesso, pertanto, in Spinoza tra la citazione di Ovidio riguardante l’acrasia e il verso dell’Ecclesiaste, anche in riferimento ad un possibile collegamento tra aboulia e acrasia, collegamento che qui non posso trattare. La persona acratica (almeno in una delle sue accezioni) è sempre in qualche modo abulica, mentre l’abulico non è necessariamente acratico. Ritengo interessante, infine, che Medea, acratica per eccellenza, viene deifinita in Euripide, Medea 882, aboulica, sconsiderata e in preda all’ira. 108 questo parallelismo tra le due citazioni? Vale a dire, in che modo può accadere all’uomo di vedere il meglio, seguire il peggio e, così facendo, accrescere la sua conoscenza e dunque il dolore? Quale tipo di scientia può aumentare in un individuo che agisce acraticamente, se è vero che, come Spinoza ricorda, è questo che l’Ecclesiaste deve avere avuto in mente? Ora, quando un uomo segue il peggio pur avendo visto e approvato il meglio, non solo è acratico ma in un certo senso egli è anche impotente (impotens), spinozianamente parlando. Egli sperimenterà così la condizione di tristezza, in quanto, come ho mostrato sopra, il proprio affetto (più in generale) o il proprio individuale appetito risulterà debole e il conseguente giudizio relativo al bene ed al male deriverà dall’opinione e non dalla vera ragione. Come l’uomo acratico definito dalla citazione di Ovidio sarà impotente, così pure potrà esserlo l’individuo riferito dal passo dell’Ecclesiaste che prova dolore. Il dolore, infatti, è per Spinoza quello stato di minor perfezione o tristezza che esprime una situazione di impotenza, proprio come quella in cui si trova l’acratico che segue il male69. La mente umana si rattrista per Spinoza quando immagina la 69 “Vediamo dunque che la Mente può subire molti cambiamenti e passare ora ad una maggiore, ora invece a una minore perfezione, passioni queste che ci spiegano gli affetti della Gioia e della Tristezza. Per Gioia dunque d’ora in poi intenderò una passione, con la quale la Mente passa ad una 109 propria impotenza. In EIII, P55, si legge: “Quando la Mente immagina la propria impotenza, per ciò stesso si rattrista”. Stando così le cose, ritengo che si possa ragionevolmente asserire che quella scienza che, aumentando accresce il dolore, potrebbe rappresentare un genere di conoscenza legata all’opinione. Come si è visto, l’individuo che agisce acraticamente risulta impotente e diminuisce la propria potentia, a causa del suo agire acratico, cedendo ad ogni genere di passione, perché mosso da un appetito debole e da un giudizio legato all’opinione e all’immaginazione. Parimenti, colui che sa, che conosce, aumentando la scienza, aumenta anche il proprio dolore, sperimentando uno stato di minor perfezione e di impotenza perché quella scienza che sperimenta è in realtà il portato della sua immaginazione e della sua impotenza, non certo il risultato della ragione e dell’intelletto. Come detto poc’anzi, la conoscenza del bene e del male è subordinata all’affetto di gioia o di tristezza provato attualmente, essendo consapevolezza dell’affetto provato. Il giudizio pertanto circa il bene o il male di una cosa è formulato in relazione alla consapevolezza dell’affetto provato: ogni conoscenza deriva e dipende maggiore perfezione. Per Tristezza invece una passione, con la quale la stessa passa ad una perfezione minore”. (EIII, P11 S; EIII, Def.Aff.III; EIII P9 S). 110 dall’affetto. Nella situazione acratica, l’agente, per debolezza del suo appetito e guidato dall’immaginazione, sperimenta dunque una reale diminuzione della propria potenza, così come colui che si rattrista. A tal proposito, e a conferma del ragionamento testé svolto, lo stesso Macherey ricorda, nel suo noto commentario all’Etica, che queste due citazioni esplicitamente collegate da Spinoza, la citazione di Ovidio e quella dell’Ecclesiaste, rivelano la stessa ispirazione, pur essendo ancorata la prima agli assunti della saggezza antica circa la moralità; la seconda invece esprimendo una saggezza di tipo giudaicocristiana in campo etico. Entrambe però dicono la stessa cosa: una conoscenza vera del bene e del male, anche se teorica, produce nei fatti degli affetti esattamente opposti a quelli che preconizza 70. C’è un’ultima questione che merita, a mio parere, di essere qui discussa, vale a dire il possibile nesso che intercorre tra il giudizio circa il meglio (o il bene) e la falsa apparenza di bene, con la conseguente possibilità di intendere l’acrasia come un caso di ignoranza. É possibile definire, da un punto di vista più squisitamente concettuale, quel ‘meglio’ che l’acratico vede ed approva, prima di seguire il peggio? Come abbiamo visto, per Spinoza il ‘meglio’ (o ‘bene’) e il ‘peggio’ (o ‘male’) sono solo concetti relativi, sono modi del pensare che in sé neppure esistono. Queste nozioni sono tuttavia 70 Macherey (2005), p.102. 111 utili all’uomo perché quest’ultimo si possa formare un’idea, un modello di bene o di male con cui le cose possono poi essere definite concettualmente e confrontate tra loro, un modello, in definitiva, da utilizzare nella pratica. Nella Prefazione alla parte IV dell’Etica Spinoza ci dice esplicitamente questo: “ Per quanto attiene al bene e al male, neanche essi indicano alcunché di positivo nelle cose, in sé considerate, e non sono altro che modi del pensare, ossia nozioni che formiamo mediante il confronto delle cose tra loro […]. In verità, sebbene le cose stiano in questo modo, dobbiamo tuttavia conservare questi vocaboli. Infatti, poiché desideriamo formare un’idea di uomo come modello della natura umana al quale guardiamo, sarà tuttavia per noi utile conservare questi stessi vocaboli con quel significato che ho detto”. Il ‘meglio’ è così un’elaborazione sia concettuale che normativa del soggetto; che dire del giudizio circa il meglio? L’individuo acratico si trova, infatti, nella situazione problematica di dover determinare in maniera soggettiva il meglio, perché il meglio oggettivamente dato non esiste. Egli, tuttavia, mosso da un appetito debole, in quanto acratico, elabora il proprio giudizio circa il meglio sulla base dell’immaginazione o opinione, per definizione, primo genere di conoscenza, in quanto tale, fallibile e inadeguato. Alla luce di quanto detto, il giudizio circa il meglio in verità si rivela, per l’acratico, come una falsa apparenza di bene; in quanto tale, 112 l’agente si formerà un giudizio circa ciò che non è effettivamente bene (o meglio). Un giudizio circa ciò che non è bene (o meglio) per un agente risulterà essere inevitabilmente un giudizio circa il male (o peggio) per lui; questo sarà, dunque, un giudizio inadeguato: come Spinoza ricorda in EIV, P64, “la conoscenza del male è conoscenza inadeguata”. In breve, l’agente acratico, che è debole e in conflitto con sé stesso, ha una credenza immaginativa falsa del meglio (determinato, per di più, anche in modo soggettivo). Così dicendo, egli si forma un giudizio di tipo doxastico-immaginativo circa il meglio, un giudizio, dunque, inadeguato, derivante da un appetito debole. Un ulteriore elemento da tenere in considerazione in questo quadro è la prospettiva temporale attraverso cui gli esseri umani formano e definiscono i loro desideri ed agiscono in nome di questi. A tal proposito, Spinoza precisa che la cupidità derivante dall’esperienza di cose sentite nel presente più forte, con piacere, è più potente di quella rivolte al futuro (EIV, PP.16-17)71. Nel presente, infatti, l’uomo 71 “La Cupidità che nasce dalla conoscenza del bene e del male, in quanto questa conoscenza ha riferimento al futuro, può più facilmente essere estinta o ostacolata dalla Cupidità delle cose che al presente sono gradevoli (EIV, P16). “La Cupidità che nasce dalla vera conoscenza del bene e del male, in quanto questa verte sulle cose contingenti, può essere ostacolata ancora molto più facilmente dalla Cupidità delle cose che sono presenti“(EIV, P17). 113 per affetto stima più importante ciò che è più piacevole e gradevole, rispetto alle cose future (EIV, Cap.XXX)72. Fondamentale e significativo, a tal proposito, è lo scolio di EIV, P62 S, secondo cui: Se potessimo avere una conoscenza adeguata della durata delle cose, e determinare con la ragione i tempi di esistenza, contempleremo con lo stesso affetto le cose future, come le presenti, e il bene che la Mente concepirebbe come futuro, lo appetiremo come se fosse presente, e conseguentemente trascurerebbe necessariamente un bene presente minore per un bene maggiore futuro e, come dimostreremo subito, non appetirebbe affatto quel che fosse al presente buono ma causa di un male futuro. Ma noi possiamo avere della durata delle cose (per la Prop. 31 p.II) soltanto una conoscenza inadeguata, e con la sola immaginazione determinare i tempi di esistenza delle cose (per lo Scolio della Prop. 44 p.II), immaginazione che non è affetta egualmente dall’immagine di una cosa presente, come da quella di una cosa futura; onde accade, che la vera conoscenza del bene e del male che abbiamo non è se non astratta ossia universale, e che il giudizio che formuliamo sull’ordine delle cose e sul nesso delle cause, per poter determinare che cosa sia al presente buono o cattivo è piuttosto immaginario che reale, e perciò non c’è da meravigliarsi se la Cupidità che nasce dalla conoscenza del bene e del male, in quanto questa riguarda il futuro, può 72 Si vedano anche, EIV, P44 S; EIV, P60 S. 114 essere più facilmente repressa dalla Cupidità delle cose che sono al presente gradite, cosa sulla quale vedi la Proposizione 16 di questa parte”. Quel male che l’acratico segue potrebbe rappresentare, allora, il suo desiderio più forte nel presente, desiderio provato esattamente in quel momento, benché esso si rivelerà poi essere, tuttavia, male per lui. Ognuno giudica secondo il proprio affetto, per cui la conoscenza del bene e del male durante l’atto acratico è condizionata dal proprio individuale appetito (o affetto) che sappiamo essere in quel mentre debole. Sotto la guida della ragione, invece, appetiremo un bene maggiore futuro a preferenza di un bene minore presente e un male presente minore a preferenza di un male maggiore futuro (EIV, P66)73. Mossi da un appetito debole e dall’opinione-immaginazione, desidereremo seguire un bene che ci appare nel presente essere il più forte, ma ciò non rappresenterà il meglio per noi. Il bene giudicato dall’acratico non è il vero bene per lui, ma rappresenta come abbiamo visto, un caso di conoscenza inadeguata in quanto derivante da un 73 EIV, P66: “Sotto la guida della ragione appetiremo un bene maggiore futuro a preferenza di un bene minore presente, e un male presente minore a preferenza di uno maggiore futuro”. 115 appetito debole in nome del quale ci formiamo un giudizio annebbiato, non dettato da una vera ratio. Il bene, dunque, che l’acratico pensa di vedere e che approva, non è il vero bene, ma una falsa idea di bene, derivante dall’immaginazione o opinione e da una distorta visione temporale che rappresenta un ulteriore elemento di obnubilamento del giudizio. L’acratico vede ed approva, falsamente buono, ciò che egli ritiene essere il meglio per lui (ma che non lo è ) perché, debole nel suo appetito, lo conosce immaginativamente in maniera inadeguata, parziale e confusa. Sarà per tutto questo che, alla fine, l’acratico (che è un individuo immaginante) seguirà il male. Se così stanno le cose, è plausibile ritenere l’acrasia in Spinoza un possibile caso di ignoranza? E’ possibile che l’acratico, mentre giudica, veda ed approvi un bene che ritiene essere il meglio per lui, e, facendo ciò, egli risulti ignorante nell’elaborazione di questo giudizio, vale a dire, è possibile che egli non sappia quale sia effettivamente il suo vero bene. Queste considerazioni circa l’ignoranza come possibile spiegazione del fenomeno acratico ci impongono un parallelismo con Socrate, che negava l’acrasia come debolezza della volontà, ritenendola un caso di pura ignoranza. È noto, infatti, che alla fine del Protagora, Socrate pensa che l’essere vinto dai piaceri non sia spiegabile come fenomeno di debolezza della volontà, alla luce del 116 quale l’individuo vede il bene ma agisce male, non seguendolo. Piuttosto, Socrate insiste, l’individuo quando agisce acraticamente agisce per ignoranza, vale a dire perché soggetto al potere delle apparenze e non all’arte della misurazione che, sola, consente di valutare obiettivamente il bene e il male della vita. Socrate incalza Protagora proprio su questo punto: “Se dunque l’agire bene per noi consistesse in questo, ossia nello scegliere e nel fare le cose che sono di dimensioni più grandi e nell’evitare e nel non fare quelle che sono di dimensioni più piccole, in tal caso da che cosa dipenderebbe la salvezza della nostra vita? Dall’arte del misurare o dal potere delle apparenze” (Prt. 356d). Alla luce della dicotomia tra arte della misurazione e potere delle apparenze, Socrate spiega il fenomeno acratico di lasciarsi sopraffare dai piaceri come errore di calcolo dovuto a ignoranza, ossia all’incapacità di valutare con obiettività il piacere e il dolore, il bene e il male (Prt. 355c-356a). Per Socrate, in definitiva, l’acrasia esiste come semplice caso d’ignoranza. Socrate stesso, nel suo intellettualismo, relega i desideri e gli appetiti ad un ruolo secondario, anche nella spiegazione stessa dell’acrasia, lasciando troneggiare la forza della conoscenza su tutto il resto. Si può quindi ragionevolmente affermare che tra Socrate e Spinoza ci sono affinità per quanto riguarda la spiegazione del fenomeno acratico: l’ignoranza pare essere un elemento basilare in 117 entrambi. Diverse sono, tuttavia, anche le differenze. In primo luogo, sia Socrate che Spinoza pensano all’ignoranza come a un elemento importante per spiegare adeguatamente l’agire acratico, ma si tratta di un tipo diverso d’ignoranza. Socrate concepisce l’ignoranza dell’acratico come la mancanza di un giudizio oggettivo sul bene e sul male, vale a dire di un giudizio che, per essere tale, deve precedere e prescindere dal punto di vista soggettivo. D’altro lato, Spinoza concepisce l’ignoranza dell’acratico come il prevalere di un punto di vista soggettivo nell’elaborazione di un giudizio circa il bene e il male mediante l’opinione o immaginazione, giudizio che, tuttavia, per Spinoza si dà solo all’interno di una relazione peculiare tra il soggetto immaginante e le sue affezioni. Come ho già detto più volte, il meglio e il peggio, così come il bene e il male sono concetti relativi e soggettivamente intesi: niente di più lontano dall’intellettualismo socratico. In secondo luogo—forse in maniera più filosoficamente significativa—sia Socrate che Spinoza negano che l’acrasia sia una debolezza della volontà, ma negare la stessa cosa non vuole dire necessariamente affermare punti di vista identici. Per Socrate, infatti, l’acrasia rimane, senza compromessi, un caso esclusivo di ignoranza; per Spinoza, invece, l’acrasia si sta delineando come un caso di debolezza dell’appetito. In Socrate manca una parte essenziale della concezione spinoziana dell’acrasia, il ruolo fondativo del desiderio. 118 Per Spinoza l’individuo è un ente desiderante che tende per natura a conservare sé stesso, vale a dire egli è essenzialmente affetto; l’affetto precede e determina ogni giudizio e ogni attività conoscitiva in genere. La conoscenza, in definitiva, dipende dall’affetto-appetito: qualcosa è bene perché l’individuo la desidera e la appetisce, ed egli non desidera qualcosa perché sa che è bene. La conoscenza del bene e del male non è altro che per Spinoza l’affetto di gioia e di tristezza con la sua consapevolezza. Concludendo, in breve, per riassumere, dall’esame dello scolio di EIV, P17, sono emersi i seguenti nuclei concettuali: a) il nesso tra il giudizio circa il meglio, l’opinione e una possibile falsa credenza di bene; b) il rapporto tra acrasia, immaginazione o opinione; c) il possibile collegamento tra l’acrasia e l’impotentia; d) il nesso, infine, tra l’appetito debole e un conseguente giudizio annebbiato e inadeguato. Il giudizio dell’acratico risulta, in sintesi, debole perché il suo individuale appetito è debole. Se gli uomini sono mossi dall’opinione, essi agiscono acraticamente, ricorda Spinoza, vedono vale a dire il meglio e l’approvano, ma seguono poi il peggio per essi stessi. E ciò accade perché l’affetto-appetito dell’uomo, sua essenza costitutiva, precede ogni giudizio: quest’ultimo è inadeguato e dettato dall’opinione perché deriva da un appetito debole. L’acratico spinoziano è in parte un ignorante, ma in modo diverso da quello che 119 intende Socrate, egli è un immaginante-ignorante (perché debole nell’appetito). L’elaborazione tuttavia di un giudizio, pur annebbiato che sia, è essenziale per l’acratico: senza un giudizio contro cui agire, per definizione viene meno il fenomeno dell’acrasia stessa. Non tutti i casi in cui un individuo viene vinto da una passione sono casi di acrasia, ma solo quelli in cui egli elabora un giudizio contro cui poi agirà. Il conflitto allora tra un giudizio circa il meglio precedente un’azione verso il peggio (conflitto tra giudizio ed azione) è una caratteristica fondamentale dell’acrasia. C’è dunque acrasia se c’è un giudizio preliminare formulato dall’agente, prima di decidere di seguire un’azione contro questo 74. 74 A tal proposito, di recente, ho letto diversi articoli molto interessanti di Ribeiro (Università del Tennesee, Stati Uniti), il quale sottolinea l’importanza per l’acrasia del momento di elaborazione e formulazione di un giudizio, a tal punto che Ribeiro distingue una forma di acrasia epistemica, quella che conduce l’individuo al giudizio circa il da farsi, dall’acrasia pratica, vale a dire l’atto di agire contro il giudizio migliore per l’agente stesso. Un individuo per Ribeiro è acratico non solo quando agisce contro il suo miglior giudizio, ma anche se sa di farlo, se ha cioè una credenza in nome di cui agisce. Vedi anche J. Elster, Agir contre soi. La faiblesse de la volonté, (2007), La volontà debole (2008). Gli intenti dell’autore sono lontani dallo spirito di questa ricerca, in quanto egli cerca di rintracciare non 120 Dopo aver precisato il nesso conflittuale tra il giudizio e l’azione, nesso che in generale caratterizza il fenomeno acratico, trovo ancora più originale e nuova, a mio avviso, la teoria di Spinoza secondo cui è l’affetto-appetito a regolare l’umano agire perché ognuno giudica e stima secondo il proprio affetto e perché è in tal senso che bene è ciò che l’uomo desidera e appetisce e non il contrario. Più originale ancora la definizione della nozione di acrasia come debolezza dell’appetito e non come debolezza di volontà, così come era nel pensiero classico. Il giudizio è condizionato dall’affettoappetito perché in definitiva l’uomo per Spinoza non è un’animale solo razionale ma, principalmente, un ente desiderante. Nei prossimi capitoli, intendo approfondire le motivazioni filosofiche dell’acrasia e, così facendo, rifletterò più analiticamente anche sulla possibile influenza classica che Spinoza può aver avuto nella definizione del fenomeno acratico, esaminando più a fondo ancora le ragioni per cui un uomo può vedere ed approvare il meglio e seguire tuttavia il peggio. Cercherò, infine, anche di definire e trovare solo le risposte individuali, ma anche collettive ed istituzionali alla debolezza di volere, ma offre comunque stimoli interessanti su questo punto, in particolare circa il nesso tra il concetto di credenza stabile dell’acratico e la possibile inversione di preferenza nella pratica, nesso, in definitiva, tra giudizio e azione. 121 una possibile via d’uscita all’acrasia, possibilità questa, presente nella filosofia di Spinoza. Nello scolio di Etica IV, P66, Spinoza rammenta: “Se dunque si confrontano le cose dette qui con quelle che abbiamo dimostrato sulla forza degli affetti in questa Parte fino alla Proposizione 18, vedremo facilmente quale è la differenza tra l’uomo che è dominato soltanto dall’affetto e dall’opinione e l’uomo che è guidato da ragione. Quello, infatti, vuole, non vuole e fa le cose che massimamente ignora; questo invece non obbedisce ad altri che a sé stesso e fa soltanto quelle cose che ha imparato essere le più importanti nella vita e che perciò massimamente desidera; e perciò chiamo quello servo, questo invece libero, della cui indole e del cui modo di vita mi è gradito dire adesso poche cose”. 122 PARTE II SPINOZA E I CLASSICI SULL’ACRASIA “Per questo il bene è raro, lodevole e bello” Aristotele, Etica Nicomachea II, 9 1109 a30 “Ciò che è eccellente è raro” Cicerone, De amicitia 21.79 123 Capitolo 3 Spinoza e i classici 1. Spinoza e l’acrasia nei classici: le ragioni del confronto Dopo aver riferito sino a qui gli studi e le diverse interpretazioni sull’acrasia in Spinoza, nonché i problemi a queste connessi (status quaestionis nel capitolo 1), ho esaminato, più in dettaglio, i testi spinoziani in cui sono presenti situazioni di acrasia, dando particolare rilievo alla citazione ovidiana (capitolo 2). Da questo esame, è emerso con chiarezza che la nozione di acrasia è ben presente nell’Etica di Spinoza. In maniera più decisiva, sì è evidenziato come l’acrasia costituisca una tematica sotterranea, ma di rilevanza essenziale per l’intero sistema di Spinoza, nella misura in cui essa rinvia a tematiche centrali nella sua etica, quali, ad esempio, la dottrina della fortuna e delle cause esterne; la teoria degli affetti; la nozione del desiderio e la teoria dell’ immaginazione, nonché quella del possibile giudizio doxastico e del nesso tra questo giudizio e l’atto acratico. Più in particolare, una volta chiariti i primi interrogativi emersi dall’analisi, ho esaminato le diverse situazioni di acrasia presenti nell’Etica e nelle Epistole, coincidenti con le quattro citazioni 124 ovidiane, riprese e più volte utilizzate da Spinoza. A partire da questa prima lettura ed analisi del testo, nonché del contesto di riferimento cui i testi rinviano, ho conseguito i seguenti risultati. In breve, ho definito la nozione di acrasia in Spinoza come debolezza dell’appetito. Ho inoltre spiegato le cause dell’acrasia, i suoi presupposti concettuali, vale a dire le cause esterne e i tanti possibili (e infiniti EIII, P59 S) conflitti interni. Ho chiarito come e in che senso la debolezza dell’acratico è causata e deriva, dall’esterno, dalla fortuna, che con il suo potere schiaccia l’uomo e lo indebolisce. Così facendo, la fortuna, superando infinitamente il potere dell’uomo, lo rende passivo e impotente: “La forza con la quale l’uomo persevera nell’esistenza è limitata e infinitamente superata dalla potenza delle cause esterne” (EIV, P3). Ho anche mostrato come l’uomo acratico è combattuto dall’interno da un forte conflitto tra appetiti opposti, che si traduce di fatto in un’azione acratica. Ho spiegato, inoltre, come l’agire acratico non è una semplice fluttuazione dell’animo, ma è a questa connesso: l’atteggiamento, infatti, tipico di chi fluttua in direzione opposte, è quello stato della mente che, come le onde del mare agitate da venti contrari, fa oscillare l’uomo, inconsapevole della propria sorte e del destino. L’acrasia, invece, non è un semplice stato conflittuale della mente che conduce l’uomo a vacillare, ma essa si traduce in un’azione acratica, a partire da un conflitto interno come presupposto. A causa di questi conflitti 125 affettivi o appetitivi, non solo perché soverchiato dal potere delle cause esterne, l’uomo acratico appetisce debolmente e giunge a vedere il meglio ma a seguire il peggio, vale a dire ad agire irrazionalmente e acraticamente. Come asserito più volte, resta fondamentale il momento di elaborazione di un giudizio circa il meglio, precedente l’atto di seguire il peggio affinché ci sia acrasia. Una volta definita la nozione di acrasia e chiariti i suoi presupposti concettuali, viene da chiedersi se, in Spinoza, colui che vede il meglio, è ignorante circa il suo vero bene (così come lo era per Socrate) oppure se egli conosca effettivamente ciò che è bene ma poi decida di seguire il male o il peggio per lui (come sembra essere in Aristotele). A tal fine, ho dimostrato che in Spinoza il giudizio circa il bene è in verità una forma di falsa idea di bene, che questo giudizio risulta debole e confuso perché dettato dall’immaginazione (o opinione), non dalla vera ragione. Così dicendo, in ultima analisi, ritengo che il giudizio dell’acratico circa il meglio sia debole perché deriva da un appetito altrettanto debole. In Spinoza ogni attività conoscitiva, compresa quella del giudizio, deriva e dipende dall’affetto, dal momento che bene è ciò che io desidero, voglio e appetisco e non desidero qualcosa perché prima l’ho giudicata bene per me. Concludendo, l’acrasia è meglio definita come una debolezza dell’appetito, che deriva dalle cause esterne e dai combattimenti 126 interni dell’uomo. Essa si manifesta secondo Spinoza come una forma particolare di impotentia e si caratterizza a partire da un chiaro conflitto tra un giudizio circa il meglio e l’atto di seguire il peggio. Mostrerò nel capitolo finale le possibili vie d’uscita dall’impasse a cui l’acrasia conduce l’individuo nell’etica di Spinoza, a partire dalla nozione di impotentia e di libertà: l’acratico è con evidenza l’opposto dell’uomo libero per Spinoza. Come deduciamo dallo scolio di EIV, P66, l’uomo dominato dall’affetto e dall’opinione è diverso dall’uomo guidato solo da ragione; quello è servo, questo è libero. Prima di fare ciò, tuttavia, è essenziale confrontare la spiegazione dell’acrasia presente in Spinoza con quella elaborata dai classici, vale a dire l’acrasia intesa sia come debolezza di volontà (Aristotele) che come possibile caso di ignoranza (Socrate) o giudizio sbagliato (gli Stoici). Perché ritengo utile confrontare Spinoza con i classici? Il confronto con i classici è utile in primo luogo perché Spinoza li ha letti, così come ho mostrato nell’introduzione a questo lavoro: egli ha letto Aristotele e gli Stoici. Confrontare Spinoza con i classici non significa voler sostenere che la dottrina di Aristotele o lo stoicismo hanno necessariamente influenzato Spinoza. Anche se Spinoza è stato un lettore dei classici, non intendo mostrare quanto di aristotelico o di stoico vi sia nel suo sistema, dal momento che egli è e resta un pensatore originale in sé; vorrei invece cercare di rileggere Spinoza alla luce di possibili analogie con le teorie aristoteliche e 127 stoiche sull’acrasia75. Spinoza conosce pertanto i classici e li utilizza non per un mero intento d’erudizione, quasi un abbellimento elegante al suo sistema, bensì, al pari di un grande filosofo, per rafforzare le fondamenta teoretiche del suo complesso sistema filosofico. Il confronto tra grandi menti, come sono ad esempio Spinoza e Aristotele, produrrà sicuramente in chi è venuto dopo la possibilità di ancorare le sue idee filosofiche alla propria originalità e, al contempo, alla possibilità di confrontare questa con il grande lascito filosofico del passato. Il confronto tra Spinoza e i classici è essenziale, pertanto, per comprendere più a fondo il fenomeno acratico in Spinoza, il quale, sia direttamente che in maniera indiretta, si è confrontato con l’unica grande tradizione precedente di pensiero che si è occupata di acrasia. Una seconda ragione circa la legittimità del confronto di Spinoza con i classici è che in questo confronto—che ad oggi nessuno, a mio parere, ha tentato di svolgere in maniera omnicomprensiva e sistematica76—emergerà appieno l’originalità della posizione di Spinoza sull’acrasia, che unica, apre nuove e più 75 Ritengo che questo possa essere un modo di rileggere gli stessi classici alla luce di Spinoza. 76 Manzini (2009), pur cercando di confrontare teoreticamente quasi ‘tutti’ gli aspetti del pensiero etico e ontologico di Aristotele con quello di Spinoza (facendo un lavoro quasi immane), egli tuttavia non si è occupato nello specifico di acrasia. 128 stimolanti discussioni ancora oggi sull’intera questione77. Gli studiosi che si sono occupati di acrasia in Spinoza usualmente si interessano a questo tema esaminandolo solo a partire dai testi spinoziani, focalizzandosi di più su alcuni aspetti particolari della questione piuttosto che altri, trascurando una spiegazione più sistematica del tutto e cercando di mostrare l’esistenza e il significato dell’acrasia per la teoria morale e la teoria dell’azione, solo all’interno dei testi di Spinoza. Nessuno di loro invece si preoccupa di collegare l’acrasia spinoziana alle sue possibili fonti classiche. È proprio, tuttavia, dal confronto con i classici e con la nozione classica di acrasia che emerge la novità della concezione spinoziana di acrasia, intesa come debolezza dell’appetito o affettiva, non volitiva. Questo è quanto mi propongo di fare in questo capitolo. Del resto, come scrive Giorgio Colli a proposito del rapporto di Spinoza con la tradizione antica, dopo i Greci nessun filosofo è stato profondo come Spinoza: “a ben poco pertanto serve collocarlo nel suo tempo e studiarlo storicamente, indagando il nesso che lo lega a filosofi precedenti e ricercando tracce del suo pensiero nella speculazione posteriore. Certo, egli si serve di molti concetti della tradizione, ma li riempie dei suoi contenuti; e quando avremo stabilito i suoi presupposti culturali e i suoi influssi, continueremo a scivolare 77 Kisner (2011); Le Buffe (2010) 129 lungo la superficie di una sfera, in cui invece, come abbiamo detto, si tratta di penetrare sino al centro”78. Non so se con questa ricerca sono riuscita a penetrare sino al centro della sfera di cui parla Giorgio Colli, ma di certo, nel tentativo di farlo, ho cercato di non scivolare solo sulla superficie. Così dicendo, mi propongo allora di giungere a definire come e quali concetti della tradizione può aver usato Spinoza, riempiendoli dei suoi contenuti, nel trattare del fenomeno acratico. A tal proposito, quali letture classiche possono aver fatto riflettere Spinoza nella definizione di acrasia? Nell’introduzione a questa mia ricerca, ho già chiarito le modalità metodologiche con cui affronto la lettura dei classici nel confronto con Spinoza. Qui mi limito a rammentare i testi di riferimento che utilizzo per argomentare circa il confronto tra Spinoza e la tradizione classica. In particolare, circa la probabile lettura di Aristotele da parte di Spinoza, utilizzo e mi riferisco all’Aristotele dell’edizione latina di Melantone, quell’ “accorto amante della verità”, presente nella biblioteca di Spinoza. Nel ricostruire la nozione stoica di acrasia, invece, ci troviamo di fronte ad una questione di ben più difficile complessità. Diversamente da quanto accade per Aristotele—che gode di una notevole abbondanza di studi critici circa la nozione di acrasia elaborata principalmente in Etica Nicomachea VII— per gli Stoici la situazione 78 G. Colli (1983), pp.53-54. 130 è assai più frammentaria: non esiste una discussione sistematica sull’argomento da parte degli studiosi contemporanei, in larga parte imputabile alla difficoltà di rinvenimento nelle fonti antiche di una trattazione esaustiva dell’acrasia da parte degli Stoici. E, tuttavia, c’è evidenza che gli Stoici si sono molto interessati al fenomeno dell’acrasia, e parte della critica recente si è mossa verso una ricostruzione e un apprezzamento filosofico del trattamento stoico di un tale fenomeno. Il capitolo terzo e quarto delle Tusculane Disputationes di Cicerone, al pari del De ira di Seneca, è una fonte importante circa la ricostruzione della nozione di acrasia, così come essa era stata elaborata da Crisippo, uno dei più influenti filosofi stoici, il terzo scolarca della scuola, “il filosofo senza il quale non ci sarebbe stata la Stoà”—come dice Diogene Laerzio79. Un noto studioso olandese, Teun Tieleman ha recentemente ricostruito, tradotto e commentato una parte fondamentale di un’importante opera perduta di Crisippo, Sulle passioni (Peri pathôn), integrando l’edizione di quell’opera che Hans von Arnim fece in appendice ai suoi Stoicorum Veterum Fragmenta (SVF). Il lavoro di Tieleman è particolarmente importante ai fini di questa ricerca, nella misura in cui egli ha fornito un contributo testuale e interpretativo decisivo (e 79 E’ noto che Spinoza conosca lo stoicismo greco mediante Cicerone e Seneca. 131 assente in SVF) per quanto riguarda il quarto libro di Sulle passioni, libro che ha il titolo programmatico di ‘Terapeutico’ e ove il filosofo stoico si occupa proprio di acrasia, una delle malattie dell’anima. Basandoci sull’edizione fino ad ora canonica di Von Arnim del ‘Terapeutico’, ci si trova in realtà nell’incapacità fattiva di comprendere il fenomeno acratico in Crisippo, visto che l’edizione di Von Arnim non offre una ricostruzione critica, sorvegliata e attenta, del contesto filosofico di Galeno, la fonte principale per la comprensione del Terapeutico di Crisippo. Questo punto emergerà con la dovuta chiarezza una volta che affronterò in dettaglio la questione, nel paragrafo terzo. Un lavoro interpretativo, infine, che è in sintonia con la visione esegetica di Tieleman è quello di Christopher Gill, leading scholar sull’etica antica e sullo stoicismo. Gill in diversi studi e in vari articoli ha contribuito notevolmente a modificare l’interpretazione tradizionale dell’acrasia negli Stoici, in particolare in Crisippo. 2. L’acrasia e il desiderio: Aristotele Intendendo confrontare Spinoza con i classici, ritengo sia utile partire da Aristotele proprio perché questo possibile collegamento tra i due filosofi circa il tema dell’acrasia è senza dubbio molto più 132 problematico rispetto a alla consonanza più evidente tra Spinoza e gli Stoici sulla questione. In particolare, i nuclei concettuali su cui mi accingo a fondare la mia argomentazione sono i seguenti: (1) il nesso tra desiderio (o emozione) e giudizio (o credenza), vale a dire la possibilità che un’emozione condizioni e influenzi una credenza; e la conseguente nozione di desiderio come principale motore dell’agire; (2) il nesso tra acrasia e debolezza del desiderio; (3) l’acrasia come conflitto non tanto tra ragione e passioni quanto tra due appetiti opposti; (4) una concezione di parti dell’animo, accanto ad una visione olistica dell’uomo80. A riguardo del confronto tra i classici e Spinoza, David Konstan, studioso celebre per le sue ricerche sulla teoria delle emozioni sia nel mondo antico che tra i moderni (The Emotions of the Ancient Greeks, 2006) collega esplicitamente Spinoza ad Aristotele 80 Da un punto di vista strettamente filosofico, una concezione a parti dell’anima non significa necessariamente una concezione non olistica dell’uomo. Aristotele, ad esempio, in alcuni opere sostiene apertamente un concezione di parti dell’anima, a volte dette più propriamente funzioni, pur rimanendo di fondo un sostenitore dell’olismo (si veda, a tal proposito, De Anima, specie il libro II, e il nuovo, illuminante studio su quest’opera di T. Johansen (2012). Tuttavia, un contrasto tra concezioni a parti dell’anima e olismo dell’uomo si rinviene in molti filosofi e qui ritengo utile perseguire questa strada nel confronto tra Spinoza ed Aristotele. 133 circa il rapporto tra emozioni e credenze, spiegando come sia possibile che un’emozione condizioni in modo significativo una credenza81. Konstan analizza un celebre passo della Retorica I, 2, 1356 a 15-16, di Aristotele, in cui risulta chiarissimo che un’emozione influenza il giudizio: “ […] i giudizi non vengono emessi allo stesso modo se si è influenzati da sentimenti di dolore o di gioia, oppure di amicizia o di odio”. Aristotele prosegue, nel testo, affermando che tutto ciò sarà più chiaro quando egli parlerà di emozioni, vale a dire poco più avanti, quando sempre in Retorica, II, 1,1378 a 20-23 egli dice che “le emozioni sono i fattori in base ai quali gli uomini, mutando opinione, differiscono in rapporto ai giudizi, e sono accompagnate da dolore o piacere”. Se un individuo ama, odia, prova piacere o dolore, ciò non può non avere effetti sui giudizi che egli elabora quando prova quelle emozioni. In particolare, da un passo della Retorica I, 1, 1354 b8-13, 81 Si veda Konstan (2006), pp. 34-35. Per un approfondimento invece di tipo psico-neurologico del ruolo dell’emozione all’interno del meccanismo della decisione tra azioni alternative, si veda il testo di Damasio, Alla ricerca di Spinoza (ed. italiana 2007). Damasio collega, in particolare, (p. 47) il nesso appetito-desiderio a quello tra emozione-sentimento. A riguardo, infine, di una più recente interpretazione della cupiditas e dell’appetito in Spinoza alla luce di Aristotele, si vedano gli studi di F. Manzini (2009), pp. 32 sgg. In particolare, Manzini collega un passo di EN, I, 1, 1094 a 1-3 (Basilea, III, 1, 17-19) alla definizione spinoziana di appetito. 134 si evince con chiarezza in che modo il piacere e il dolore possano offuscare il giudizio: “costoro (sc. i membri di un’assemblea popolare, considerati differenti dal legislatore che mira all’universale) spesso sono influenzati da amicizia, odio e interesse privato, sicché non possono più vedere il vero in modo adeguato, ma il loro giudizio è oscurato dal piacere e dal dolore personale”. Konstan sottolinea come la filosofia si sia spesso occupata della questione inversa, di come cioè il giudizio condizioni le emozioni.82 Egli ritiene, tuttavia, come due notevoli eccezioni a questa tendenza siano proprio Aristotele (nei passi citati sopra della Retorica) e il nostro Spinoza83. 82 Un caso celeberrimo e molto interessante di analisi filosofica dell’influenza dei giudizi sulle emozioni rimane la discussione sui piaceri falsi del Filebo di Platone (Filebo 36a-43b) su cui si sono dilungati importanti filosofi contemporanei come Bernard Williams, Terence Penelhum e Jarvis Thomson (si vedano i loro studi contenuti in S. Hampshire, Philosophy of mind, 1966) 83 Per un ulteriore approfondimento su come sia possibile che un’emozione influenzi una credenza., si veda la bibliografia contenuta in D. Konstan (2006), in particolare Frijda-Nico-Manstead-Bem, Emotions and beliefs: how feelings influence thoughts (2000). Konstan ricorda anche la figura di Edipo nell’Edipo Re di Sofocle (523-524), quando il coro commenta l’accusa di Edipo contro Creonte, mostrando come in verità questa accusa 135 Quando distingue l’appetito dalla cupidità in EIII, P9 S, Spinoza dice letteralmente: “Risulta dunque da tutte queste cose (sc. dall’analisi di appetito, cupidità e volontà) che noi non cerchiamo, vogliamo, appetiamo, né desideriamo qualcosa perché riteniamo che sia buona; ma, al contrario, che noi giudichiamo buona qualcosa perché la cerchiamo, la vogliamo, la appetiamo e la desideriamo”. Da queste poche righe—chiare come egli voleva fossero—emerge nitidamente che la cupiditas, componente essenziale dell’uomo spinoziano, precede ogni atto conoscitivo. Vale a dire, i desideri (o, per usare un termine non spinoziano ma più attuale, le emozioni) precedono e condizionano i modi attraverso cui i giudizi vengono formulati e elaborati. Sempre in EIII, Definizione Generale Degli Affetti, Spinoza definisce l’Affetto o Pathema dell’animo come “un’idea confusa, con la quale la Mente afferma una forza di esistere del suo Corpo o di qualche sua parte maggiore o minore in precedenza e, data la quale, la stessa Mente è determinata a pensare questo piuttosto che quello”. Come già chiarito, è noto che per Spinoza il desiderio, sia esso appetito che cupiditas, esprime l’essenza stessa dell’uomo e non derivi dalla mente o dal giudizio di Edipo, quanto dalla sua rabbia, da un’emozione: il coro in risposta a Creonte afferma: “La tua offesa fu provocata dall’ira più che un ragionato giudizio”. 136 caratterizza la natura propria di ogni singolo e individuale conatus, che si sforza verso l’autoconservazione di sé. Altrettanto noto è che ogni desiderio determina e condiziona ogni attività conoscitiva in genere e ogni giudizio, a tal punto che nell’atto acratico il giudizio risulta debole in quanto deriva da un appetito debole, tipico dell’uomo che agisce acraticamente. Forse è meno noto che, come si deduce dalla Retorica, anche per Aristotele un desiderio possa condizionare un giudizio. Per Konstan la teoria degli affetti aristotelica, resta pur sempre una teoria cognitivista, secondo cui gli affetti (o le emozioni) hanno sì una funzione cognitiva, ma non possono essere definiti cause del contenuto del giudizio per un soggetto. Questa prospettiva, tuttavia, per lo studioso non esclude in Aristotele la possibilità di un sistema dinamico circolare tra emozioni e credenze, e il fatto conseguente che anche un’emozione possa influenzare una credenza. All’interno di una teoria cognitivista delle emozioni come quella di Aristotele, un giudizio non può correttamente nascere da un’emozione: mio figlio Delio ha paura di farsi curare dal dentista, ma, pur piccolo, sa che è bene farlo perché io, mamma, gli ho trasmesso questa idea che lui ha poi fatto sua, cognitivamente e indipendentemente dalla sua emozione. Il giudizio di Delio circa la cura dei denti non nasce allora dalla sua emozione di paura, ché questa gli suggerirebbe un giudizio 137 opposto a quello che lui ha; egli ha elaborato il suo giudizio in contrasto con la sua emozione di paura. Una volta sottopostosi alla cura del dentista, e sperimentato il dolore, Delio muta il suo giudizio circa la bontà dell’atto di andare dal dentista. Egli non vuole più andare dal dentista e pensa che non sia bene farlo. Il suo giudizio questa volta è influenzato dalla sua emozione di dolore e di paura per la possibile ripetizione dell’esperienza dolorosa. Questo è un esempio di una possibile circolarità tra giudizio (corretto), emozione, e nuovo giudizio (non corretto). Aristotele potrebbe obiettare che alla luce dell’esempio fatto, l’emozione, se influenza un giudizio, lo fa negativamente. Non sempre è così. Un giudizio influenza un’emozione anche positivamente: due coniugi molto innamorati credono entrambi che sia bene occuparsi l’uno dell’altra. Entrambi agiscono alla luce di questa credenza condivisa, adoperandosi perché il proprio amato/a stia bene. Agendo in questo modo, entrambi i coniugi provano emozioni di benessere, piacere, felicità, gioia. Queste emozioni producono in entrambi nuovi giudizi, che possono essere considerati un prodotto cognitivo dell’emozione: ad esempio, entrambi possono pensare che concepire dei figli sia una buona cosa, perché una progenie godrebbe fin dalla nascita di queste cure e di questo benessere. In conclusione, una prospettiva cognitivista come quella di Aristotele non esclude che le emozioni possano avere un 138 ruolo formativo epistemicamente sui giudizi—comunque che esse possano influenzare un giudizio. Al di là della novità interpretativa di Konstan, che comunque getta una luce diversa sulla teoria aristotelica delle emozioni oggi piuttosto dibattuta84, trovo molto interessante—da un punto di vista squisitamente interpretativo—non solo il fatto che per Aristotele un’emozione possa influenzare un giudizio, ma ritengo significativa anche la nozione aristotelica del desiderio che ne consegue, molto affine a quella di Spinoza, pur nelle rispettive differenze e peculiarità. Da queste brevi osservazioni, risulta infatti un’affinità filosofica di fondo tra Aristotele e Spinoza a riguardo dell’affettività e del desiderio, e di come quest’ultimo influenzi il giudizio. Anche per Aristotele, pur essendo l’essenza dell’uomo quella di un animale razionale (e non principalmente desiderante, come lo è per Spinoza), tuttavia anche per lo Stagirita il desiderio è una componente essenziale dell’agire umano e il motore delle scelte individuali. Nell’Etica Nicomachea il desiderio è illuminato dal logos e il logos spinto dal desiderio, a tal punto che l’uomo è sì ragione che desidera, ma è anche desiderio che pensa, desiderio senza il quale l’uomo sarebbe vuoto e la scelta cieca (EN VI, 1139 b4-6). Senza il desiderio, di per sé, il pensiero allora non muove nulla (EN VI, 1139 a36). Con 84 Si veda Knuuttila (2004), pp. 24-47. 139 più evidenza, leggiamo nel DA III, 9, 432 b26-433 a5, che il desiderio è il motore dell’azione, è tendenza, è movimento; in nome di esso l’uomo agisce, come ad esempio nel caso dell’uomo acratico. Aristotele dice esplicitamente: Ma nemmeno si può dire che ciò che muove sia la facoltà razionale e quello che è chiamato intelletto. Infatti, l’intelletto teoretico non pensa nulla di ciò che è oggetto dell’azione, e nulla dice su ciò che si deve evitare e perseguire, mentre il movimento è sempre proprio di un essere che evita qualcosa e persegue qualcosa. Ma neppure quando l’intelletto prende in considerazione qualcosa di simile, per ciò stesso comanda di evitare o perseguire l’oggetto. Ad esempio spesso pensa qualcosa di pauroso o di piacevole, e tuttavia non comanda di temerlo, benchè il cuore si muova, o, se l’oggetto è piacevole, qualche altra parte corporea. Inoltre, anche se l’intelletto ordina e la ragione dice di evitare o di perseguire qualcosa, non ci si muove, ma si agisce in conformità del desiderio, come avviene con l’acratico85 Da questo passo del De Anima si evince che non solo il desiderio è il motore principale di un’azione rispetto alla parte razionale dell’uomo, ma anche che l’uomo acratico è proprio colui che agisce in conformità al desiderio. A conferma di quanto sto dicendo, Aristotele aggiunge 85 Si veda pure il libro VII, 1, sgg. dell’ Etica Nicomachea. 140 che la parte appetitiva è l’unico motore dell’azione umana, a tal punto che l’intelletto (o volontà) non muove senza la tendenza (o desiderio). Il desiderio – ricorda Aristotele – può muovere anche contro ragione, come nel caso dell’acrasia. La volontà è sempre retta, mentre il desiderio e l’immaginazione possono essere rette oppure non rette. Alla luce di questo, è sempre l’oggetto del desiderio a muovere; questo o è il bene o ciò che appare come bene. Ecco il passo di Aristotele al riguardo: “Ora, mentre risulta che l’intelletto non muove senza la tendenza (poiché la volontà è una tendenza, e quando ci si muove in conformità della ragione, ci si muove anche in conformità della volontà), la tendenza muove invece anche contro la ragione, giacché il desiderio è una forma di tendenza” (DA III, 10, 433 a2227). Sempre al De Anima (e forse anche alla Retorica) sembra riferirsi Spinoza nel Breve Trattato II, 17, quando discute la definizione aristotelica di desiderio e di volontà. A questo punto del mio ragionamento, risulta allora inevitabile, oltre che essenziale, riflettere sul possibile collegamento tra l’Aristotele del De Anima (e del passo della Retorica) e l’interpretazione che ci fornisce Spinoza nel Breve Trattato. In particolare, così facendo, intendo chiarire meglio il nesso e la possibile affinità di Spinoza con Aristotele, circa la nozione di desiderio e di come questo possa influenzare un giudizio. A tal proposito, Franco Chiereghin si è occupato della 141 presenza aristotelica nel Breve Trattato, dove secondo lo studioso testé citato Aristotele tocca livelli assai differenziati di “riferimenti storici e rilevanza speculativa” e dove Spinoza steso riprenderebbe in particolare, proprio da Aristotele, la nozione di “desiderio”86. E’ senza dubbio vero, come ricorda anche Mignini nel suo noto studio sul B.T., che Spinoza non accetta in toto la teoria aristotelica del desiderio e della volontà, ma è innegabile che Spinoza l’accetti—almeno in parte a mio avviso—ed utilizzi la tesi di Aristotele per criticare e rifiutare la dottrina cartesiana della volontà e del desiderio87. Spinoza non può accettare del tutto la tesi di Aristotele, in particolare perché, strettamente parlando, da un punto di vista spinoziano la volontà come facoltà propria non esiste, ma si danno solo volizioni e desideri particolari. Celebri, a tal proposito, sono le proposizioni di EII, PP 48-49 (con le relative dimostrazioni e i relativi scolii), in cui Spinoza si accinge a confutare il pregiudizio volontaristico. Nella dimostrazione di P 48, Spinoza afferma: “La Mente è un modo certo e determinato del pensare, e perciò non può 86 Chiereghin (1987), pp. 325-431. 87 Anche per Mignini (1986), pp. 674-675: “si può concludere che Spinoza accetti questa tesi aristotelica così interpretata (con le riserve e le precisazioni che verranno aggiunte nei paragrafi che seguono) e che se ne serva come critica implicita della dottrina cartesiana e di quelle degli scolastici moderni”. 142 essere causa libera delle sue azioni, ossia non può avere un’assoluta facoltà di volere e di non volere; ma deve essere determinata da una causa, che anch’essa è determinata da un’altra causa.” Stando così le cose, Spinoza nello scolio a P 48 spiega: “In questo stesso modo si dimostra che nella mente non si dà alcuna facoltà assoluta di intendere, di desiderare, di amare, ecc. Donde segue che queste e simili facoltà o sono del tutto fittizie o non sono altro che enti metafisici, ossia universali che siamo soliti formare dai particolari. Così che l’intelletto e la volontà stanno a questa e quella idea o a questa e quella volizione nello stesso modo in cui la petreità sta a questa e quella pietra o in cui l’uomo sta a Pietro e Paolo”. In definitiva, Spinoza sostiene che esistono solo singole volizioni e singoli desideri particolari: “Nella mente non si dà alcuna assoluta facoltà di volere o di non volere ma soltanto volizioni singolari, e cioè questa o quella affermazione, e questa e quella negazione” (P 49). Tali dottrine erano anticipate nel BT: “Come nella trattazione della volontà abbiamo detto che negli uomini essa non è altro che questa o quella volontà, allo stesso modo non esiste in loro nient’altro che questo e quel desiderio, che è causato da questo o quel concetto. Infatti il desiderio non è qualcosa che esista realmente nella Natura, ma è solo astratto da questo o quel particolare desiderare; dunque il desiderio, non essendo qualcosa di reale, non può neppure causare realmente alcunché” (BT II, 17, § 5). 143 Nonostante le differenza tra Aristotele e Spinoza circa volontà e desiderio, esiste uno spazio di affinità tra di loro a proposito della nozione stessa di desiderio che intendo approfondire ora, alla luce del Breve Trattato (e del De Anima e della Retorica). Nel BT (II, 16), prima di discutere la nozione aristotelica di desiderio e di volontà, Spinoza critica la teoria cartesiana della volontà, secondo cui è il desiderio che dipende dalla volontà (intesa come giudizio o ragione). Per Cartesio la volontà precede il desiderio che, in quanto inclinazione verso il bene, segue all’affermazione o negazione della volontà. Per Spinoza, invece, nel processo decisionale il desiderio precede la volontà: di qui le due note teorie spinoziane del desiderio e della volontà, il primo inteso come inclinazione verso il bene, la seconda come affermazione del bene e negazione del male. Come è stato mostrato nelle righe precedenti, volontà e desiderio non sono due facoltà astratte per Spinoza; esistono solo volizioni e desideri particolari. Volontà e desiderio esprimono la stessa identica idea secondo punti di vista diversi: in riferimento alla sola mente (volontà) e in relazione alla mente e al corpo (desiderio)88. Nel capitolo seguente (BT II, 17) Spinoza discute la teoria di Aristotele, citandolo direttamente: 88 Si veda, EII, PP48-49; EIII, P9 S. Si veda anche il commentario di Mignini (1987) al Breve Trattato, pp. 672 sgg. 144 Secondo la definizione di Aristotele, il desiderio sembra essere un genere comprendente sotto di sé due specie; infatti egli dice che la volontà è quell’appetito o attrazione che si prova sotto l’aspetto del bene. Perciò mi sembra che egli pensi che desiderio (o cupiditas) siano tutte le inclinazioni, sia al bene che al male. Se l’inclinazione è solo al bene, o se l’uomo prova tale inclinazione sotto l’aspetto del bene, allora la chiama voluntas o buona volontà; ma se è cattiva, cioè se vediamo in un altro un’inclinazione verso qualcosa che è cattivo, egli la chiama voluptas o cattiva volontà. Pertanto l’inclinazione della mente non ha lo scopo di affermare o negare, ma solo di ottenere qualcosa sotto l’aspetto del bene e di fuggirlo sotto l’aspetto del male. In genere, si pensa che la definizione aristotelica cui Spinoza allude in BT II, 17, sia proprio quella di DA III, 9 433a—di cui ho trattato poc’anzi—oppure quella che si evince da un passo della Retorica I, 10. Nella Retorica, trattando delle azioni intenzionali delittuose, Aristotele distingue l’appetito sensibile irrazionale (o desiderio) dall’appetito razionale (o volontà), intendendo la volontà come un impulso razionale verso il bene. Nel De Anima il desiderio e la volontà sono considerate due parti—altrimenti dette funzioni—della stessa facoltà appetitiva dell’anima, necessarie per condurre l’uomo a decidere. Il desiderio rappresenta la parte irrazionale; la volontà 145 esprime quella razionale che determina i fini, mentre la deliberazione preliminare aveva stabilito i mezzi per conseguire quanto la volontà voleva89. Il capitolo del Breve Trattato in esame è pertanto un testo significativo come testimonianza della teoria aristotelica del desiderio e della volontà. Più in particolare, il passo citato del Breve Trattato è significativo per altre due ragioni importanti, soprattutto ai fini della ricerca qui in atto: la prima ragione è che Spinoza, utilizzando Aristotele per criticare Cartesio, conferma con la sua analisi che per Aristotele il desiderio precede la volontà e comunque la determina— come Spinoza stesso ritiene e come entrambi i filosofi pensano contro Cartesio. In secondo luogo, pur differenziandosi da Aristotele, Spinoza elabora una teoria del desiderio molto affine concettualmente a quella aristotelica, molto più affine di quello che a prima vista di possa ritenere. Originale a questo riguardo rimane l’interpretazione di Wolfson: lo studioso americano sostiene che la teoria del desiderio e 89 Per altri studiosi, ad esempio, Trendelenburg (1867), p. 346, in BT II, 17, Spinoza si riferirebbe ad un passo di Metafisica XII, 7, dove Aristotele tratta del Motore Immobile. Dopo aver precisato che ciò che muove senza essere mosso è oggetto di appetizione e di intellezione, egli (Aristotele) sostiene che oggetto di desiderio è ciò che appare buono, mentre oggetto di volontà è ciò che è buono. 146 della volontà di Spinoza rappresenti un ampliamento e uno sviluppo delle tesi aristoteliche. In entrambi i filosofi il desiderio condiziona l’azione, ne è la matrice90. In secondo luogo, per entrambi i filosofi il desiderio è quello sforzo di auto-conservazione che è tipico dell’essere umano in quanto tale.91 In conclusione, un importante elemento di affinità tra Spinoza e Aristotele a riguardo del desiderio è che il desiderio precede sempre la volontà; in questa precedenza si possono rinvenire le tracce della determinazione del primo sulla seconda. Questo punto è generalmente assodato per quanto riguarda Spinoza, ma piuttosto innovativo per quel che concerne Aristotele. Gli studi di Konstan ampiamente citati in precedenza hanno aperto nuove strade interpretative circa il rapporto tra desiderio, volontà e giudizio in Aristotele. Facendo leva sull’innovazione esegetica di Konstan, ho fornito argomenti che corroborino l’idea che per Aristotele il desiderio influenzi il giudizio e 90 Si veda Wolfson (1960), pp. 169-205, che si riferisce a EIII, P9 S e alla Retorica di Aristotele. Per un approfondimento ulteriore del rapporto tra Aristotele e Spinoza in generale (e in particolare circa la nozione di desiderio) si vedano gli studi recenti di Manzini (2009); Chiereghin (1987); Hampshire (1977). 91 Si veda ancora Wolfson (1960), pp. 204-207 circa la teoria del desiderio in Spinoza in relazione agli Stoici, in particolare al nesso stoico tra autoconservazione dell’individuo e piacere. 147 la stessa volontà. Alla luce di questa notevole affinità, sia Spinoza che Aristotele intendono il desiderio come un elemento essenziale dell’umano agire—Spinoza lo considera, come cupiditas, l’essenza stessa dell’uomo, Aristotele un cardine fondamentale dell’azione92. La differenza tra Aristotele e Spinoza si situa a livello non solo dell’idea di volontà ma soprattutto a riguardo del ruolo che il desiderio assume nel fenomeno acratico. È su questo terreno che i due si distanziano molto e in questa distanza è possibile cogliere appieno l’originalità della spiegazione spinoziana di acrasia. (2) Di qui veniamo al secondo punto dei quattro elencati in precedenza, riguardante il nesso tra acrasia e desiderio. Come ho già chiarito, in Spinoza il desiderio è debole e l’acrasia è meglio intesa come una debolezza appetitiva. Stando così le cose, l’acrasia non è una 92 A tal proposito, trovo interessante rilevare che Melantone traduce il termine ‘desiderio’ (presente nell’EN, VII) con il termine latino cupiditas, intendendo con questa l’orexis aristotelica. Egli traduce, inoltre, con appetitus l’epithumia di Aristotele, il desiderio irrazionale; mentre con voluptas traduce spesso la nozione di ‘piacere’ e con voluntas la volontà (boulesis) aristotelica. Con adfectus viene invece tradotto il termine pathos. Si veda anche l’interpretazione di Wolfson (1960), circa l’uso di questi vocaboli in Aristotele e Spinoza. 148 debolezza di volontà, come invece viene spesso definita in Aristotele da parte di molti studiosi93. La nozione di acrasia in Aristotele è molto—e vivacemente— discussa ancora oggi e risulta anche problematica, nella misura in cui dall’esame dei testi aristotelici emergono due definizioni di acrasia. Come si evince dagli studi di Pierre Destrée, è possibile spiegare il fenomeno acratico in Aristotele in maniera duplice: l’acrasia può essere intesa così sia come debolezza di volontà che come mancanza di conoscenza. Entrambe queste spiegazioni sono presenti nell’Etica Nicomachea VII, e la prima, la debolezza della volontà, verrebbe 93 Il tema dell’acrasia sia, in generale, che, in particolare, in Aristotele è molto studiato da sempre. Per una recentissima interpretazione dell’acrasia in Aristotele, si veda il volume curato da C. Natali (2009), frutto di un Simposio Aristotelico che si è tenuto a Venezia e pubblicato dalla Oxford University Press, volume interamente dedicato alla lettura ed approfondimento del Libro VII dell’Etica Nicomachea. Per una panoramica più generale (con un aggiornamento bibliografico), si vedano anche gli studi di T. Hoffmann (2009) sulla debolezza di volontà da Platone al presente. Per un ulteriore approfondimento del tema si vedano P. Destréè, M. Zingano, D. Charles contenuti in un volume interamente dedicato all’acrasia nel mondo greco, a cura di Destrée-Bobonich (2007). Recentissimi anche gli studi di A. Price (2011), succesivi al famoso volume Mental conflict (1995). Da non trascurare gli studi di Wiggins (1978), Kenny (1979), Lear (1988). 149 trattata da Aristotele anche nel DA III, 701 a31-32- III, 11, 434 a 1114, dove l’acrasia è presentata come un conflitto tra due desideri. Alla luce dell’interpretazione che Destrée fornisce dei testi aristotelici, l’acrasia è in primo luogo possibile perché la volontà diventa debole e l’uomo manca di autocontrollo: l’agente acratico sa che mangiare una fetta di torta per lui è male, ma egli tuttavia la mangia ugualmente perché la propria capacità di non volerla mangiare viene meno sul desiderio forte di mangiarla. Di qui s’origina la prima spiegazione di acrasia come debolezza di volontà. L’agente acratico è dunque debole nella volontà perché è incapace dall’astenersi dal mangiare la torta; il conflitto sarebbe tra la volontà di non mangiare la torta, perché ciò è male per lui, e il desiderio forte di farlo ugualmente. (Anche nel De Anima un desiderio forte ed irrazionale si oppone, vincendolo, ad un desiderio razionale—o volontà. L’acrasia è anche qui spiegata come un possibile conflitto tra due desideri opposti e, in quanto tale, come una debolezza di volontà. Su questo punto tornerò più tardi con più dovizia di particolari). Alla luce invece della seconda spiegazione aristotelica—di tipo intellettualistico o cognitivistico—l’acrasia è intesa come una possibile mancanza di conoscenza: l’agente acratico decide di mangiare la torta perché ha perduto la conoscenza che gli impediva di farlo oppure, più semplicemente, egli non sa, quasi socraticamente, 150 che mangiare la torta rappresenti per lui un male94. L’agente acratico è pertanto ignorante circa il suo bene. Destrée mostra come per molto tempo gli studiosi si sono concentrati o sulla prima o sulla seconda spiegazione di Aristotele dell’acrasia, mentre lui cerca di conciliarle entrambe95. L’acrasia è, in definitiva, una debolezza del volere ma si spiega anche come possibile errore cognitivo perché la ragione viene comunque e sempre vinta dal desiderio. Un recente simposio aristotelico, tenutosi a Venezia nel 2007, si è interamente focalizzato sul libro VII dell’Etica Nicomachea, e, di riflesso, sull’acrasia, tema fondamentale di quello stesso libro. Carlo Natali ritiene più corretto—a proposito di Aristotele—definire l’acrasia una mancanza di autocontrollo. Una tale mancanza di autocontrollo si biforca in due possibili stati: la mancanza di 94 Si veda Destrée (2007), pp.140-141. 95 Si veda sempre Destrée (2007), per una cornice bibliografica di questi studi. In particolare, per questa interpretazione intellettualistica dell’acrasia in Aristotele, si vedano Robinson (1977); Joachim (1951); Gauthier-Jolif (1970); Timmermann (2000); Bostock (2000); Grgic (2002); e infine Vergnières (2002). Questa lettura era già presente, come osserva Destrée, nei commentatori antichi, greci e latini. Per il primo tipo di interpretazione (acrasia aristotelica come debolezza di volontà), invece, si vedano Dahl (1984) e Charles (1984) e (2007); Burnet (1900). 151 autocontrollo per impetuosità e quella legata ai desideri96. Come ci dice Aristotele: “Vedremo adesso che la mancanza di autocontrollo per impetuosità è meno turpe di quella legata ai desideri” (1149 a 2325). In un passo vicino a quello testé citato, Aristotele specifica ulteriormente che l’acrasia è sempre una mancanza di autocontrollo che può avvenire “per precipitazione” (propeteia) o per debolezza (astheneia): “Parte della mancanza di autocontrollo è precipitazione, parte è debolezza.” (1150 b18-20). Alla luce di questi passi aristotelici, è possibile identificare l’acrasia per impetuosità con quella per precipitazione e l’acrasia legata ai desideri con quella per debolezza, come ha sottolineato recentemente anche Bobonich e lo stesso Natali.97 Un articolo recentissimo di Bruno Centrone illustra più chiaramente i due possibili significati di acrasia presenti nell’ Etica Nicomachea di Aristotele, confermando quanto asserito da Natali98. Secondo l’analisi di Centrone, esiste in Aristotele un primo tipo di acrasia che consiste in una debolezza della parte razionale dell’uomo. Centrone identifica questo primo tipo di acrasia, che egli dice per 96 Melantone traduce l’acrasia per impetuosità con “incontinenza dell’ira”; l’acrasia invece per debolezza del desiderio con “incontinenza della cupiditas”. 97 Bobonich (2009); Natali (2009). 98 B. Centrone (2011), pp. 316 sgg. 152 natura, con l’acrasia per astheneia. L’acratico delibera, ma poi—in quanto tale—non si attiene a ciò che ha deliberato; per debolezza egli cede al desiderio. Un secondo tipo di acrasia in Aristotele è quella che Centrone chiama per abitudine—vale a dire per precipitazione (propeteia) o impetuosità—che esclude la deliberazione razionale precedente un’azione e conduce l’uomo ad agire acraticamente perché soverchiato dall’affezione. Per Aristotele: “Alcuni infatti, per passione, deliberano e poi non si attengono saldamente alle cose che hanno deliberato; altri invece sono spinti dalla passione perché non hanno deliberato” (1150 b 20-22). Centrone discute questi due tipi di acrasia in relazione alla melanconia, mostrando come in verità l’acratico che può guarire è solo quello precipitoso perché non delibera. Così facendo, viene evidenziato il nesso tra acrasia/debolezza del desiderio/immaginazione. Alla luce di questo secondo tipo di acrasia, l’acratico è colui che non ragiona e non delibera prima di agire; debole per l’impetuosità che lo caratterizza, egli segue l’immaginazione perchè soverchiato dall’affezione99. Entrambi i tipi di acrasia riferiti, tuttavia, rinviano al desiderio debole. L’agente 99 Qui non mi è possibile approfondire l’interessante nesso tra melanconia e acrasia, già evidenziato da Centrone in Aristotele, anche in relazione a Spinoza, dove la melanconia (o maestitia e aegritudo) è una dolce tristezza, apparentemente sempre cattiva EIII, P11 e EIV, P42. 153 acratico, sia che deliberi sia che non lo faccia, in fondo rimane soverchiato dal desiderio a cui cede—nel primo caso andando contro la sua miglior ragione; nel secondo caso cedendo all’impeto e alla debolezza del suo desiderare. Il ruolo del desiderio nel fenomeno acratico e la conseguente debolezza di questo, come caratteristica dell’acrasia, potrebbe apparire, così, come un tratto comune sia all’acratico di Aristotele che a quello di Spinoza: per entrambi l’acrasia può essere infatti spiegata alla luce di una possibile debolezza del desiderio (come rilevato poc’anzi, il desiderio è una componente essenziale dell’acrasia, essendo esso motore dell’agire umano per Aristotele ed essenza stessa dell’uomo per Spinoza). Nonostante questa apparente—e forse secondaria—affinità tra Spinoza ed Aristotele, in verità sono le differenze ad essere molto più rilevanti e significative. In primo luogo, a differenza di Aristotele, per Spinoza l’acrasia non è mai una debolezza della volontà. Nell’etica spinoziana la volontà non potrà mai essere debole e essa non esiste così come la intendeva Aristotele, vale a dire come facoltà astratta. L’acrasia in Spinoza, inoltre, non rinvia mai a un conflitto tra ragione e passioni, ma presuppone un conflitto tra soli appetiti opposti. Il primo tipo di acrasia aristotelica è pertanto del tutto assente in Spinoza perché nessun desiderio forte si oppone e vince sulla ragione, ma si dà il caso di un desiderio debole che rende l’acratico impotente e passivo. 154 Alla luce delle teorie etiche spinoziane, non si darà mai, dunque, il caso di un uomo che deliberi preliminarmente il meglio e che poi non si attenga alle sue decisioni perché un desiderio forte indebolisce la sua ragione. Esiste, invece, la possibilità che un uomo elabori un giudizio circa il da farsi e il meglio per sé stesso, ma poi segua il peggio perché il suo desiderio debole influenza anche il suo giudizio. Il giudizio circa il meglio che l’acratico formula non è veramente il suo bene bensì una falsa apparenza di bene, in quanto frutto dell’immaginazione, non della vera ragione. In quanto tale, il giudizio dell’acratico circa il suo meglio sarà così un giudizio vacillante, confuso e parziale. Stando così le cose, l’uomo per Spinoza agisce acraticamente e decide di seguire il corso peggiore nell’azione, condizionato da un giudizio vacillante, a sua volta originato da un appetito debole. Agendo in un tale modo, l’uomo acratico risulta impotente dinanzi alle cause esterne e ai propri conflitti e combattimenti affettivi interni, i due presupposti–come abbiamo avuto modo di rilevare a lungo nel capitolo precedente—del fenomeno acratico in Spinoza. Alla luce di queste considerazioni, l’acrasia spinoziana risulta più affine al secondo tipo di acrasia aristotelica, quello per precipitazione. L’acrasia di Spinoza esclude, infatti, ogni tipo o forma di deliberazione preliminare (e razionale) e rinvia invece sempre all’immaginazione tipica dell’acratico precipitoso. Chi è debole e 155 impetuoso non si attiene che all’immaginazione, agendo così in modo acratico. Nel mondo etico di Spinoza, però, l’acrasia non può essere mai definita come debolezza di volontà, né come possibile conflitto tra ragione e passioni: per Spinoza non esiste nessuna volontà astratta, così come non esiste nessun conflitto, nessuna opposizione tra parte razionale e desiderativa dell’anima. La concezione olistica dell’individuo spinoziano, inteso come identità di corpo e mente, come un unicum non diviso, non esclude, tuttavia, che in Spinoza ci possa essere un conflitto tra appetiti. (3) Veniamo così al terzo punto, il nesso tra acrasia e conflitto appetitivo. Una tale riflessione—all’interno della teoria dell’affettività di Spinoza—diventa di portata ancora maggiore qualora si consideri la posizione che Aristotele difende nel De Anima, a proposito del conflitto appetitivo. Pur ribadendo la possibilità di un’opposizione tra parte appetitiva e razionale dell’anima, Aristotele tuttavia non esclude la possibilità anche di un conflitto tra appetiti opposti all’interno della stessa parte dell’anima (quella desiderativa). Dopo aver spiegato che è il desiderio a muovere l’individuo e che è l’acratico che agisce in conformità a questo (DA 433 a 2-5), Aristotele dice esplicitamente che talvolta i desideri si oppongono e una tendenza muove contro l’altra come una palla, a tal punto che talvolta la tendenza—il desiderio— supera la stessa volontà. Egli poi precisa che questo è il caso dell’acrasia 434 a 14-16: “Perciò la tendenza non comporta la facoltà 156 deliberativa; talvolta la tendenza (il desiderio) supera la volontà e muove il soggetto; talvolta invece quella tendenza supera e muove quest’altra come una palla, quando v’è incontinenza”100. Se leggiamo il testo del De Anima alla luce di quanto Aristotele ci suggerisce nella Retorica e di quanto lo stesso Spinoza ci riferisce nel Breve Trattato II, 17 (testo che abbiamo già discusso), emergerà che la volontà è un impulso o desiderio razionale e che il desiderio è un impulso irrazionale. A una lettura attenta, allora, in Aristotele il vero conflitto tra appetiti opposti è un conflitto tra volontà—intesa come desiderio razionale—e desiderio in senso stretto, vale a dire un desiderio irrazionale. In Spinoza, invece, il conflitto è sempre tra appetiti o affetti opposti. Alla luce di questa mia 100 Anche poco prima, Aristotele aveva detto che i desideri possono essere contrari gli uni agli altri, e che ciò avviene in relazione alla percezione del tempo. Il desiderio comanda allora sulla base del tempo presente e in relazione a questo, nella misura in cui un individuo, in conflitto tra due desideri, sembra scegliere quello che è immediatamente piacevole, o che almeno appare tale in assoluto, in quel momento. Il desiderio rinvia così al piacere nel presente. Nel DA 431 b 7-10 Aristotele ricorda che “il soggetto calcola e delibera circa le cose future in relazioni a quelle presenti; e quando si dice, come lì, che un oggetto è piacevole o doloroso, così qui si evita o si persegue; ed è ciò che generalmente avviene nell’azione”. 157 interpretazione dei testi, una significativa differenza tra i due filosofi si registra a riguardo della natura del conflitto in questione. Per Spinoza la volontà non solo non è mai una facoltà astratta, ma essa neppure può essere un desiderio razionale, così come la intendeva Aristotele. La volontà è intelletto e sforzo di autoconservazione riferito alla sola mente, quello sforzo che riferito alla mente e al corpo diventa appetito e poi cupidità, vale a dire appetito con consapevolezza. Se diverse, direi anche opposte, sono le definizioni di volontà in Spinoza e Aristotele, è inevitabile che l’acrasia per Spinoza non potrà mai essere una debolezza di volontà (dal momento che non può essere debole l’intelletto). L’acrasia intesa come debolezza di volontà, vale a dire come debolezza di un desiderio razionale soverchiato da un desiderio irrazionale più forte non esiste in Spinoza, così come non esiste nel suo sistema di pensiero la conseguente possibilità di intendere l’acrasia come conflitto tra ragione (volontà) e desiderio. Schematizzando il ragionamento di questo terzo passaggio dell’argomentazione, si evince che in Aristotele si dà il seguente schema: 1 Volontà= desiderio razionale 2 Desiderio =desiderio irrazionale 3 Debolezza di volontà=Debolezza di un desiderio razionale 158 4 Acrasia=debolezza di volontà=conflitto tra due desideri 5 Acrasia =conflitto tra due desideri 6 Conflitto tra due desideri=conflitto tra desierio razionale (o volontà) e desiderio irrazionale (desiderio) A Spinoza possiamo invece attribuire il seguente schema: 1 Volontà=conatus in relazione alla sola mente 2 Desiderio=Appetito=Cupiditas 3 Appetito=conatus in relazione alla mente e al corpo 4 Cupiditas=conatus=appetito+consapevolezza 5 Acrasia≠debolezza della volontà 6 Acrasia=debolezza dell’appetito Alla luce di quanto schematizzato ora, anche in Aristotele il conflitto affettivo è collegato all’acrasia, a tal punto che l’acrasia si identifica con un conflitto affettivo o appetitivo, un conflitto tra desiderio razionale (volontà) e desiderio irrazionale. Per Spinoza invece il conflitto affettivo—o tra appetiti opposti—è uno dei presupposti dell’acrasia. Il vero contrasto tra conoscenza e passioni in Spinoza non è un contrasto tra emozioni e intelletto, bensì un vero e proprio 159 combattimento affettivo, dove i desideri dell’uomo sono in competizione.101 Per riassumere: Aristotele e Spinoza sono affini circa la nozione del desiderio in generale (punto 1) e differenti sui punti essenziali testé illustrati (punti 2 e 3 dell’argomentazione), ma registrano una distanza anche a riguardo della rispettiva concezione dell’anima. (4) Notoriamente, Aristotele difende una concezione tripartita dell’anima (e in questo, pur con le dovute differenze, egli tradisce il suo passato platonico) che gli permette di ritenere il conflitto tra appetiti e ragione come uno dei conflitti essenziali che muovono e agitano l’animo umano (pur ammettendo, come s’è appena visto, un possibile ma particolare contrasto tra appetiti opposti). D’altro canto, Spinoza esclude la possibilità che il contrasto tra emozione e intelletto possa spiegarsi alla luce di un contrasto tra parte razionale e parte appetitiva dell’anima (tra volontà e desiderio). Spinoza, infatti, esclude la divisione aristotelica dell’anima in parti, adottando invece una forma decisa di olismo psico-fisico, secondo la quale l’individuo è un tutt’uno ed è meglio spiegato come unità di corpo e mente. Questa concezione dell’individuo come un tutt’uno 101 Sul punto del combattimento affettivo (‘affective struggle’), si veda Nadler (2006), pp. 223-224, secondo cui la lotta tra affetti opposti è la spiegazione ultima del fenomeno acratico in Spinoza. 160 allontana Spinoza da Aristotele e lo avvicina da un lato a Socrate, fervido sostenitore del monismo dell’anima, e dall’altro—più significativamente—agli Stoici, citati spessissimo all’interno del corpus spinoziano. 3. L’acrasia come possibile giudizio sbagliato: gli Stoici In questo paragrafo mi concentro, in particolare, sul confronto tra Spinoza e gli Stoici a riguardo della nozione di acrasia. La paucità delle fonti e dei relativi studi circa questa tematica negli Stoici ha scoraggiato, specie in passato, molti studiosi, i quali a fronte delle eccessive difficoltà finivano per negare la rilevanza del fenomeno acratico nello stoicismo. Secondo costoro l’acrasia non può rappresentare un problema rilevante per l’etica stoica, così come lo era per Aristotele, perché secondo questa interpretazione gli Stoici negano la possibilità stessa di divisione in parti dell’anima e, di conseguenza, il darsi di un conflitto tra le parti102. Essendo l’acrasia in principio definibile anche come possibile conflitto tra le diverse parti 102 Inwood (1985), p.137; Come ricorda Gourinat (2007) p. 216, si veda anche Plutarco, Virt. Mor., 7, 446F (SVF III 459=Long-Sedley 65G), circa la possibilità, negata dagli Stoici, di ogni conflitto nell’anima. Si veda inoltre, Dyroff (1897), p. 88. 161 dell’anima, poiché gli Stoici non concepivano l’anima come tripartita, i suddetti studiosi concludevano che non esiste nell’etica stoica una tematizzazione del fenomeno acratico. Altri studiosi, invece, pur non trattandola in maniera sistematica103, si occupano indirettamente di acrasia nella misura in cui essi trattano della teoria stoica delle emozioni. Un esempio classico e famoso di questo tipo di approccio è lo studio di Richard Sorabji, Emotion and peace of mind. From Stoic Agitation to Christian Tempation (Oxford 2000). Egli, cercando di studiare le emozioni stoiche e il loro ruolo nell’etica della Stoà, discute indirettamente di acrasia, che è strettamente congiunta a queste emozioni. Altri studi più recenti e autorevoli hanno restituito rilevanza filosofica ad una tematica trascurata e in parte negletta, quale è stata quella dell’acrasia negli Stoici, nella misura in cui si è scisso il discutibile nesso concettuale tra partizione dell’anima e acrasia. Non è, infatti, un mistero per il lettore di questa tesi che si può legittimamente trattare di acrasia in assenza di una teoria mereologica dell’anima, o addirittura in assenza di una qualsiasi teoria dell’anima. 103 Nonostante non esista una trattazione sistematica dell’acrasia negli Stoici, specie se paragonata a quella aristotelica, in realtà già dal 1987 esistevano degli studi al riguardo. Si veda Gosling (1987); Joyce (1995). 162 In particolare, come esempio significativo di questo approccio innovatore all’intera questione dell’acrasia stoica, ricordo gli studi di Christopher Gill, in particolare The Structured Self in Hellenistic and Roman thought (Oxford 2006) e l’importante e quasi coevo lavoro di Teun Tieleman, Chrysippus’ On Affections (Leiden 2003). Il libro IV dell’opera di Crisippo, il ‘Terapeutico’, tratta in maniera notevole di acrasia e non è mai stato adeguatamente interpretato e commentato, meno che mai nel pregevole lavoro di raccolta delle fonti sugli Stoici antichi, approntato da Hans von Arnim ad inizio del XX secolo (19031905). Mi riferisco principalmente a questi studi nel prosieguo del lavoro e nel tentativo di rintracciare possibili influenze e analogie tra la trattazione stoica di acrasia e quella spinoziana. A questo punto della mia argomentazione, penso sia bene anticipare i nuclei concettuali su cui fondo il ragionamento, per poter confrontare Spinoza e gli Stoici sull’acrasia. I nuclei concettuali dell’argomento sono i seguenti: (1) la concezione olistica dell’uomo e il conseguente e possibile conflitto affettivo interno; (2) la nozione stoica di emozione intesa come giudizio e di acrasia intesa come giudizio sbagliato. (3) I testi di Cicerone e di Seneca come possibili fonti sull’acrasia negli Stoici; e i recenti studi di Tieleman su Crisippo. (4) La concezione stoica dell’acrasia intesa come un possibile caso di ignoranza, e la conseguente affinità tra Spinoza e gli Stoici sull’acrasia. 163 (1) Un notevole punto di concordanza tra gli Stoici e Spinoza sta nella condivisione dell’olismo psico-fisico, alla luce del quale l’individuo è meglio inteso come un unicum di corpo e mente (lontani qui sia il dualismo di Cartesio che la barriera platonica tra corpo e anima). L’olismo psico-fisico, tuttavia, in sé non esclude affatto la possibilità di un conflitto affettivo all’interno dell’individuo, nella misura in cui con l’unica anima indivisa di cui un individuo è provvisto egli è in grado di desiderare, di giudicare e, al contempo, di sperimentare un conflitto tra queste due attività. E’ bene rilevare qui che il conflitto interno che gli Stoici presuppongono alla base dell’acrasia non è un contrasto tra ragione e passioni, bensì una lotta tra due possibili giudizi, o meglio tra due insiemi di credenze-emozioni che si rivaleggiano e sono in competizione tra loro104. Come ho già detto, anche per Spinoza il conflitto presupposto dell’acrasia e dall’acrasia non è mai tra ragione e passioni, ma un vero e proprio combattimento affettivo. Secondo l’interpretazione molto autorevole di Christopher Gill, è proprio questo conflitto uno dei presupposti dell’acrasia secondo gli Stoici: il saggio stoico è proprio colui che, liberandosi 104 Questo punto richiama l’idea di Davidson secondo cui l’acrasia è meglio spiegata come un contrasto tra due desideri, in qualche misura entrambi razionali. Tornerò più chiaramente su questo nel capitolo conclusivo. 164 interamente dalle passioni, è immune dall’acrasia. Di converso, anche colui che prova la minima passione è secondo gli Stoici passibile di compiere atti acratici, poiché in ogni passione è potenzialmente contenuta la spinta ad agire acraticamente105. (2) Per gli Stoici le emozioni sono dei giudizi, come afferma Cicerone: “Mentre alcuni filosofi antichi pensavano che le emozioni fossero il prodotto della nostra natura non razionale e ascrivessero il desiderio non razionale a una parte dell’anima e la ragione ad un’altra, Zenone lo Stoico non concordava con queste dottrine. Egli pensava che le emozioni fossero volontarie, vale a dire prodotte dal giudizio e dall’opinione, e che la fonte di tutte le emozioni fosse una sorta di selvaggia mancanza di auto-controllo (o acrasia) (omnium perturbationum arbitrabatur materm esse immoderatam quamdam intemperantiam)” (Accademica I, 1.39)106. La stessa dottrina stoica delle emozioni viene attestata da Galeno: “Crisippo nel primo libro del trattato sulle affezioni cerca di dimostrare che le emozioni sono giudizi prodotti dalla ragione” (PHP 5.1.4). 105 Si veda Gill (2006), pp.75-99; pp.129-165; pp.238-265. Sul nesso tra acrasia e conflitto negli Stoici, si veda anche Engberg-Pedersen (1990), in particolare i suoi studi sul concetto di ‘persona’ nello stoicismo. 106 A tal proposito, si veda anche Cicerone, Le Tusculane IV, 14-15; III, 24- 25. 165 In particolare, Diogene Laerzio riferisce come, sin dal loro primo insorgere, molte passioni per gli Stoici traggono origine dal falso, da cui si genera la perversione del pensiero: “Dal falso si genera le perversione del pensiero, da cui traggono origine molte passioni, che sono anche causa di instabilità […]. Secondo gli Stoici le passioni sono giudizi” (DL VII, 110-1). Dai passi riportati, concettualmente si evince un nesso forte tra emozioni e giudizi e la conseguente identificazione delle passioni stoiche con i giudizi corrotti. Le emozioni così possono essere dei giudizi sbagliati, come nel caso dell’acrasia. Tutti i tipi di pathos implicano potenzialmente un certo tipo di acrasia, per cui coloro che provano emozioni sono possibili vittime di acrasia. A tal proposito, Cicerone ricorda che l’acrasia (intemperantia) è: La causa prima di tutte le passioni, secondo loro (sc. gli Stoici), è l’intemperantia, che è una ribellione totale dello spirito contro la retta ragione, un movimento così contrario ai principi razionali, che non lascia assolutamente modo di frenare e di contenere gli appetiti dell’anima. E dunque, al modo stesso in cui la temperanza placa gli appetiti, li porta a obbedire alla retta ragione, e mantiene intatti i giudizi illuminati della nostra mente, così l’intemperanza, a lei nemica, infiamma, turba e sommuove ogni stato regolare dell’anima: è da lei, quindi, che nascono le varie specie di 166 afflizione e di paura, ed anche tutte quante le altre passioni (Le Tusculane IV, 22-23). Qui ne Le Tusculane, così come negli Accademica (I, 1.39), Cicerone riferisce come per gli Stoici la fonte di tutte le emozioni (o passioni) fosse una sorta di mancanza di autocontrollo, vale a dire di acrasia (intemperantia). Questo testo mostra, allora, che l’acrasia è la causa prima di tutte le passioni, confermando quanto appena detto, vale a dire che l’uomo che è in preda ad una passione è vittima di acrasia. Cicerone conferma anche il nesso tra l’acrasia e un possibile giudizio non illuminato, nella misura in cui l’uomo acratico è un individuo turbato, infiammato che non segue quanto la retta ragione gli indica; il suo animo è così mosso che non riesce a placare e frenare gli appetiti. Da un punto di vista strettamente terminologico, Cicerone sia negli Accademica che ne Le Tusculane, utilizza il termine ‘intemperantia’ per rendere il greco ‘akrasia’. In altri passi, egli usa il termine ‘impotentia’ per riferirsi all’akrasia. Zeller stesso aveva rilevato come per gli Stoici l’akrasia fosse l’intemperantia107. Tuttavia, l’oscillazione terminologica che Cicerone mostra tra 107 Si veda Zeller (1909), III-1, 234, n. 4; Reid (1885) nel suo commento agli Accademica (1.39 ad locum). Circa l’uso di ‘impotentia’ per akrasia si veda in particolare Cicerone, Le Tusculane IV, 15.34; Seneca, De Ira. 167 intemperantia e impotentia, non deve essere interpretata come un’ambiguità concettuale. Per gli Stoici, infatti, non esiste nessuna distinzione essenziale tra akolasia e akrasia, vale a dire tra intemperanza e acrasia, nella misura in cui tutte le passioni sono riconducibili all’acrasia stessa. Nello stoicismo tutti i casi di passioni o emozioni rappresentano una dipartita dalla virtù e dalla saggezza che tutti gli esseri umani sono, costitutivamente, capaci di raggiungere. In tal senso, tutti i casi di passione, inclusa quella che Aristotele definisce akolasia, sono un tipo di acrasia, nella misura in cui questa agisce contro la virtù. Come abbiamo già rilevato, per gli Stoici tutte le passioni hanno una dimensione acratica, poiché le passioni sono per natura fluttuanti e oscillanti108. Anche Seneca offre una testimonianza importante circa la nozione stoica di acrasia come giudizio sbagliato. Seneca ne L’ira 2.3.1-2 spiega che un uomo che prova un’emozione, per gli Stoici, non ha solo una reazione fisica irrazionale, né è mosso da un’impressione presente alla mente, ma che questo uomo si arrende all’emozione, dando assenso all’impressione iniziale. “Nulla di ciò che muove casualmente l’animo si deve chiamare passione (adfectus): queste situazioni l’animo, per così dire, le subisce più che produrle. Pertanto non è passione sentirsi sollecitato dall’aspetto che viene 108 Gill (2006), p. 318, chiarisce senza lasciare dubbi questo punto. 168 offerto delle cose, ma lasciarsi trascinare da esse e assecondare quest’impulso casuale” (L’ira, 2.3.1-2). Anche alla luce di Seneca, l’emozione è data, in generale, dall’insieme di un’impressione e di un atto di assenso109. L’assenso dato ad un’impressione per gli Stoici si traduce poi in una credenza, un giudizio che diventa, in ultima istanza, azione110. Di qui la spiegazione di emozione come giudizio. In particolare, Seneca poco più avanti, illustrando come le passioni abbiano inizio, definisce l’impulso acratico (motus impotens) come un impulso ormai sfrenato che ha debellato la ragione (rationem evicit). E perché tu sappia come le passioni abbiano inizio, si sviluppino e si esaltino, il primo impulso non è volontario, ma è per così dire preparazione e minaccia di passione; il secondo è sorretto da volontà non ostinata, in quanto è bene che io mi vendichi perché sono stato offeso, o che paghi il fio chi ha commesso un delitto; il terzo impulso è ormai sfrenato, vuole vendicarsi in ogni caso, prescindendo dall’opportunità, e ha debellato la ragione (2.4.1) 109 Per Cicerone, infatti, l’assenso è in un certo qual modo sempre imputabile al soggetto che lo fornisce: si vedano Accademica I, 1.40; II, 37-39. Si può anche avere una conferma di questo nel frammento di Zenone, in Zeno fr.1.61 (SVF). Ho, infine, discusso e approfondito questo punto nel paragrafo 1 del capitolo 2, quando ho parlato del nesso impressione-assenso negli Stoici. 110 Sellars (2006), pp.64-65. 169 (3) Cicerone e Seneca sono considerati due possibili fonti per ricostruire la filosofia di Crisippo. Integrando Galeno con Cicerone e Seneca, Tieleman ricostruisce in maniera fondamentale il contesto filosofico, e in parte testuale, del IV libro di Sulle passioni, il cosiddetto Terapeutico. Per il suo carattere spiccatamente medico e per l’insieme di prescrizioni comportamentali che vi compaiono, il Terapeutico può essere considerato un libro a sé stante, come ci dice Tieleman, “un libro che si leggeva prima di andare a dormire per la saggezza che infondeva”. Nel Terapeutico è presente una discussione sull’acrasia a partire dal caso di Medea, acratica per eccellenza, la quale ha ucciso i suoi figli per vendicare il marito. Galeno cita il famoso verso della Medea di Euripide: “Io capisco quale tipo di male mi accingo a fare, ma la mia ira è più forte dei miei buoni giudizi” (Medea, 1078-79). Galeno, dopo aver riferito questo passo, cita direttamente la spiegazione che Crisippo ne dà: Ma Crisippo non nota la contraddizione qua ed egli scrive innumerevoli affermazioni di questo genere, quando ad esempio dice: “Questo movimento (sc. l’impeto che trascina Medea a compiere quell’atto tragico) è irrazionale e volge le spalle alla ragione ed è, penso, qualcosa di molto comune, 170 riferendoci al quale diciamo, ad esempio, che le persone sono mosse dall’ira (PHP, 4.6.23). Era prassi interpretativa consolidata fino ai recenti studi di Tieleman e di Gill, ritenere che Crisippo, spiegando sulla base del passo di Galeno l’acrasia di Medea come il risultato di un contrasto tra ragione e passioni, si distanziasse dalla teoria classica stoica delle emozioni (quella espressa dal passo di Zenone riferito da Cicerone, Accademica I, 1.39). Tieleman ha dimostrato con dovizia di particolari e con ottime argomentazioni che Galeno riporta sì fedelmente le citazioni di Crisippo, ma le male interpreta, alla luce della tripartizione dell’anima che Galeno stesso mutua da Platone. Svincolato dall’ortodossia tripartita che egli non sottoscrive, Crisippo è in assoluta linea interpretativa con gli Stoici precedenti, ritenendo l’acrasia un caso di, come dice significativamente Tieleman, “turning one’s back to reason”, vale a dire un “girare le spalle alla ragione”. Questa spiegazione dell’acrasia non implica alcun riferimento al conflitto tra ragione e passioni ed è evidente dal passo stesso di Crisippo che Galeno cita: Crisippo spiega l’impeto di Medea come “irrazionale e contrario alla ragione”. Negli altri passi di Crisippo che Galeno riporta è chiaro che il filosofo stoico interpreta sempre l’acrasia come capovolgimento della ragione: 171 Come si è detto la pazzia e l’uscire di senno non avvengono se non al seguito di uno stravolgimento della ragione. Tali solo le effusioni che gli innamorati pretendono dai loro amanti; sconsiderati quali sono e senza alcun rispetto per la ragione hanno la propensione a trasgredire i suoi dettami, anzi a non ascoltarli per niente (PHP, 4.6.25-25). I termini e le espressioni usate qui da Crisippo rinviano ad una spiegazione del fenomeno acratico come prodotto dell’allontanamento delle passioni dalla ragione, senza fare alcun riferimento a conflitti tra passione e ragione, meno che mai a conflitti tra parti dell’anima. Questa interpretazione dell’acrasia in Crisippo che Tieleman fornisce sulla base di un’analisi corretta dei travisamenti galenici delle fonti, è confermata magistralmente da Gill, sia nell’articolo pionieristico del 1983 su Crisippo e Medea (in cui egli mostrava come Crisippo avesse veramente compreso il comportamento di Medea, contro l’analisi di Galeno), che nel recente e già citato studio The Structured Self 111. 111 Gill (2006), parte 2, sezioni 4.1-4.6. Trovo interessante anche quanto Gill sostiene circa il nesso tra le tragedie di Seneca e Crisippo. In particolare, per Gill, pp. 421-435, la Medea di Seneca, nonostante le rispettive differenze, sarebbe stata influenzata da Crisippo e dalla figura della Medea di Euripide citata dal filosofo stoico. 172 In breve, per riassumere quanto sostenuto sino a qui: un primo punto di concordanza tra gli Stoici e Spinoza sta nella concezione olistica dell’uomo e nella conciliabilità di questa con la possibilità stessa di un conflitto interno (1). L’uomo è pertanto un unicum indiviso, capace di desiderare e di giudicare con l’unica anima di cui è dotato e di sperimentare, al contempo, un conflitto interno tra queste due attività, agendo così acraticamente. Il conflitto alla base dell’acrasia non è mai però tra ragione e passioni: Medea non vive un conflitto tra la ragione e la passione, ma agisce più essenzialmente in maniera irrazionale, acratica, voltando le spalle alla ragione. In questo Spinoza e gli Stoici si distanziano da Aristotele (e dall’interpretazione di Galeno), ma si distanziano anche da Ovidio, secondo il quale il contrasto acratico resta quello tra ragione e passione. Nelle Metamorfosi VII, in particolare, Medea agisce acraticamente perché vive un forte conflitto tra ciò che la mente (mens) le consiglia e ciò verso cui la passione (cupido) la trascina. Un secondo punto di affinità tra Spinoza e gli Stoici, pur nelle dovute differenze, potrebbe essere rintracciato nella definizione stoica di acrasia come possibile giudizio sbagliato (punti 2-3 dell’argomento che qui sto riassumendo). Anche per Spinoza in un certo senso l’acrasia rinvia ad un giudizio sbagliato, nella misura in cui quest’ultimo è offuscato, confuso e inadeguato. Sia per gli Stoici che per Spinoza l’acratico formula un giudizio errato circa il bene. Il 173 giudizio sul bene (o il meglio) formulato dall’acratico di Spinoza è, in verità, una falsa idea di bene, un’idea inadeguata, perché derivante dall’immaginazione, non dalla vera ragione. Nell’etica di Spinoza, l’obnubilamento del giudizio acratico è determinato da un appetito debole che rende l’uomo impotente e ne offusca la mente. Per gli Stoici invece il giudizio sbagliato coincide con l’emozione incontrollata, non deriva da questa. La concezione stoica, dunque, di acrasia è una forma di giudizio sbagliato e, in quanto tale, può essere definita un possibile caso di ignoranza. Di qui veniamo all’ultimo punto del ragionamento, il quarto (4), allo scopo di chiarire meglio l’affinità, nonché le differenze, tra Spinoza e gli Stoici sull’acrasia. Così facendo, è inevitabile ritornare alla teoria stoica delle emozioni ed approfondirla. Come si è visto, ad esempio in Crisippo, la teoria stoica delle emozioni è una teoria cognitivista, nella misura in cui le emozioni sono dei giudizi, o meglio la combinazione di due giudizi o combinazione di due insiemi di credenze-emozioni. Più in generale, le emozioni sono dei giudizi in quanto esse sono delle reazioni psicofisiche, meglio dette contrazioni o espansioni nel lessico stoico, correlate con dei giudizi. Alla luce di ciò, è possibile ritenere ‘primo’ il giudizio propriamente detto, la credenza che un uomo ha su qualcosa: ad esempio il fatto di sapere che qualcosa sia bene o male per me (primo giudizio). Il ‘secondo’ giudizio, invece, è la reazione 174 emotiva che un uomo prova in relazione al primo giudizio, ad esempio, come io reagisco nei confronti del giudizio che ho formulato circa quel qualcosa (secondo giudizio). Alla luce di ciò, io posso ritenere bene per me il fatto di camminare ogni giorno per mezz’ora almeno (primo giudizio), ma posso reagire a questa mia credenza o correttamente (secondo giudizio corretto) e cammino così ogni giorno per mezz’ora; oppure decido di non andare a camminare e reagisco, dunque, in modo sbagliato al mio giudizio iniziale (secondo giudizio sbagliato). Di qui l’identificazione stoica di emozioni e giudizi, nonché la dottrina della combinazione di due giudizi (dove il secondo giudizio in verità è la contrazione o espansione emotiva più o meno appropriata al primo giudizio)112. Più in particolare, per chiarire meglio l’originalità della teoria stoica dei giudizi, può risultare utile riferirsi alla teoria stoica dell’azione, specie in riferimento all’acrasia. Quando un uomo agisce, 112 Su questo punto, molto chiaro nel libro II di Sulle passioni di Crisippo, si vedano Tieleman (2003), pp.114-121; Long-Sedley (=LS) 65 B = SVF 3.391. Si vedano inoltre Gill (2005) e Price (2005), per approfondire il modello olistico a cui gli Stoici si ispirano, secondo cui un individuo è, propriamente detto, il risultato dell’integrazione del mentale con il fisico, del razionale con l’emotivo. L’essere umano per lo stoicismo non possiede infatti una coscienza di tipo cartesiano; egli è invece un organismo integrato, consapevole del carattere psico-fisico della propria vita organica. 175 per lo Stoico, riceve prima un’impressione a cui poi dà o rifiuta il proprio assenso. Quest’ultimo si traduce in un giudizio o credenza in risposta al quale l’uomo reagisce con un impulso per poi giungere ad agire. L’impressione, l’assenso, l’impulso e l’azione, propriamente detta, sono i quattro elementi dell’azione umana per gli Stoici. L’emozione-giudizio è il risultato della combinazione di questi elementi, o come dice Seneca, l’emozione e il giudizio sono due aspetti dello stesso fenomeno. Nel caso dell’acrasia, l’emozione è un giudizio sbagliato, coincide con questo; in tal senso, è possibile definire l’acrasia un possibile caso di ignoranza. Si comprende più chiaramente ora la definizione stoica di acrasia come reazione emotiva incontrollata, un vero e proprio impulso sfrenato, un’emozione sbagliata che, in quanto tale, rigetta completamente la ragione. Va, invece, spiegato meglio in che senso l’acrasia può essere intesa come caso di ignoranza. Se le emozioni stoiche sono dei giudizi (in generale), e la combinazione di due giudizi (in particolare), è bene sottolineare che l’identificazione acratica di emozione con giudizio sbagliato rinvia ad una sorta di contemporaneità nell’azione stessa dell’acratico. Per gli Stoici non esiste la possibilità che un uomo possa elaborare un giudizio corretto e poi reagire acraticamente contro questo. L’acrasia non è mai un conflitto tra ragione corretta e passione smodata; l’acratico non agisce e reagisce mai intenzionalmente contro il suo 176 giudizio migliore. L’acrasia stoica è, invece, un impulso sfrenato che ha debellato la ragione e non reagisce contro questa. L’acratico stoico ha così un giudizio sbagliato e agisce in modo irrazionale, voltando le spalle alla ragione totalmente: ciò accade perché egli reagisce in modo sbagliato, in quello stesso tempo, alla sua credenza o giudizio. Esiste una correlazione stretta tra il giudizio sbagliato e l’emozione incontrollata che questo suscita e con cui si reagisce allo stesso: un individuo reagisce acraticamente, e immediatamente, ad un giudizio perché quella stessa credenza (o giudizio) non era corretta sin da subito. Esiste allora una forma di contemporaneità negli Stoici tra il giudizio, l’emozione e l’azione: so che qualcosa è bene e lo compio; se agisco acraticamente è perché non sapevo cosa fosse bene per me. Diversamente, per Aristotele può accadere che un uomo sa che qualcosa sia bene per lui, ma che egli, tuttavia, scelga il male. Di qui la contrapposizione aristotelica tra ragione, che, preliminarmente, formula un giudizio corretto circa il meglio e desiderio irrazionale, in nome di cui si agisce. Per gli Stoici invece l’acratico è colui che reagisce irrazionalmente ad un giudizio che lì, nel momento stesso in cui viene formulato, è sbagliato113. Se sapesse cosa è bene fare, l’individuo stoico lo farebbe. L’acratico è invece un ignorante, così 113 A tal proposito, si può vedere anche Salles (2007), sull’acrasia precipitativa in Epitteto. 177 come l’acratico spinoziano è un immaginante. Nel prossimo paragrafo, mostrerò con più chiarezza e più analiticamente le differenze tra Spinoza e gli Stoici (su questo punto), e riprenderò il confronto con Aristotele114. A partire infatti dal confronto tra Spinoza, gli Stoici ed Aristotele sull’acrasia emergerà tutta l’originalità della spiegazione spinoziana. 4. Spinoza, Aristotele e gli Stoici sull’acrasia: novità e prospettive Nell’introduzione ho illustrato la differenza tra ‘diretto’ e ‘indiretto’ in riferimento alla possibile presenza dei classici in Spinoza: per ‘diretto’, intendo una lettura di prima mano che Spinoza può aver fatto di Aristotele e degli Stoici; per ‘indiretto’, invece, intendo una lettura di seconda mano che Spinoza ha svolto di quegli stessi filosofi attraverso la tradizione (sia scolastica che rinascimentale). Alla luce di quanto mostrato nei paragrafi precedenti, si può con agio asserire che nella filosofia spinoziana esiste una doppia analogia, aristotelica e stoica, a riguardo della nozione di acrasia. Spinoza conserva concetti 114 Per un approfondimento ulteriore, si veda Boeri (2005), secondo cui è possibile rintracciare nella definizione stoica di acrasia non solo la presenza di Socrate ma anche di Aristotele. 178 della tradizione classica, quali ad esempio la nozione aristotelica di desiderio e la possibile e reciproca influenza del desiderio sul giudizio. Egli pare condividere anche la possibilità stoica che questo giudizio circa il meglio sia in realtà una forma di ignoranza. I concetti classici di ‘desiderio’, ‘giudizio sbagliato’ o ‘ignoranza’ e la loro reciproca influenza, sono presenti in Spinoza direttamente (e a Spinoza, in modo indiretto); egli li utilizza, tuttavia, all’interno del suo sistema filosofico in maniera del tutto originale, riempiendoli dei suoi contenuti. Nel prossimo capitolo, quello conclusivo, mostrerò meglio in che senso la presenza dei classici, nonché la doppia e possibile influenza aritostelico-stoica, fornisca le coordinate concettuali per definire in maniera adeguata ed approfondita l’originalità di Spinoza circa l’acrasia. A proposito dell’acrasia, ritornando sulla doppia analogia con Aristotele e gli Stoici, Spinoza è affine sia al primo che ai secondi, pur non essendo egli né aristotelico, né stoico. E’ molto vicino ad Aristotele circa la nozione generale di ‘desiderio’ e, in particolare, di come questo influenzi e possa condizionare il giudizio. Il desiderio è per entrambi i filosofi una caratteristica fondamentale dell’uomo, essenza stessa o cupiditas per Spinoza; motore principale dell’agire per Aristotele. Il ruolo, tuttavia, che il desiderio svolge all’interno dell’acrasia allontana i due filosofi. Spinoza ed Aristotele registrano, infatti, una distanza radicale sia sulla possibile definizione di acrasia 179 come debolezza della volontà, che sulla conseguente natura del conflitto che caratterizza l’acrasia. Per la concezione filosofica spinoziana di desiderio e di volontà, non è possibile ammettere quest’ultima come facoltà astratta, così come la intendeva Aristotele, e di conseguenza l’acrasia non può essere definita come una debolezza del volere. Il conflitto acratico, inoltre, per Spinoza non è tra ragione e passione (o desiderio irrazionale) come era in Aristotele: non si dà il caso di un agente in Spinoza che delibera prima razionalmente circa il meglio per sé stesso e poi agisce contro questo a causa di un soverchio della passione sulla ragione. L’acratico spinoziano è debole in primis nel suo appetito, mai nella volontà. Egli così vive un forte conflitto, sia al proprio interno, tra appetiti opposti che lo inducono a vacillare; sia all’esterno, con la fortuna che lo rende passivo e lo indebolisce. Il conflitto in Spinoza, allora, non è mai tra volontà (o desiderio razionale e, dunque, ragione per Aristotele) e passione, ma tra due appetiti in competizione tra loro. Ciò si spiega alla luce della distanza che c’è tra Spinoza ed Aristotele anche circa la nozione di anima: la natura del conflitto affettivo e il ruolo che esso ha all’interno dell’acrasia è diverso nei due filosofi perché antitetiche sono le rispettive concezioni dell’animo umano. Per Aristotele l’anima rimane comunque divisa in parti e il conflitto principale resta pur sempre quello tra ragione-volontà e passioni-desiderio irrazionale; mentre per Spinoza l’uomo è un tutt’uno, un unicum, olisticamente inteso, 180 prospettiva che tuttavia non esclude la possibilità del darsi di un conflitto interno. Spinoza allontanandosi da Aristotele per le ragioni ora spiegate, sembra risultare più vicino agli Stoici, specie per quanto riguarda la concezione di acrasia come giudizio sbagliato e, dunque, come possibile caso di ignoranza. Infatti sia per Spinoza che per gli Stoici, se un uomo agisce acraticamente contro il suo miglior giudizio, lo fa perché egli non sa che quello che sta facendo sia effettivamente male per lui, in quel momento. Il giudizio sul bene elaborato sia dall’acratico stoico che da quello spinoziano è, in verità, una falsa idea di bene, un giudizio sbagliato, vacillante, confuso, dettato dall’immaginazione, non dalla vera ragione. Spinoza, tuttavia, diversamente dagli Stoici, ritiene che il giudizio sul bene sia confuso, parziale, sbagliato perché condizionato da un appetito debole. L’acratico è pertanto ignorante circa il suo vero bene, perché egli appetisce debolmente sia per le cause esterne che per gli infiniti conflitti interni. Per gli Stoici la natura del giudizio sbagliato che s’identifica con l’acrasia è del tutto diversa. Per il saggio stoico, l’acratico è colui che, affatto debole nel suo desiderio, volta le spalle alla ragione, inficiando così, in maniera decisiva, la razionalità stessa delle emozioni. In altre parole, l’acratico è per gli Stoici colui che interrompe il processo di crescita razionale ed emotiva (sfere coincidenti nel pensiero stoico); una tale crescita dovrebbe in 181 principio portare alla saggezza e alla virtù, due obbiettivi teoricamente raggiungibili da ogni essere umano. Come già detto più volte, nell’ etica spinoziana è l’appetitocupidità ad essere determinante su ogni tipo di attività conoscitiva e, dunque, anche sul giudizio. In EIII P9 S, Spinoza precisa che qualcosa cosa è bene perché io lo desidero, e non desidero qualcosa perché è bene per me. A riguardo del nesso tra giudizio-azione, esiste allora una priorità concettuale oltre che temporale tra il desiderio che precede il giudizio che, dunque, è determinato da quello stesso desiderio. Per gli Stoici, invece, esiste una contemporaneità tra giudizio-emozione-azione, a tal punto che le emozioni sono dei veri e propri giudizi. Di qui la teoria cognitivista delle emozioni elaborata dagli Stoici, in particolare da Crisippo. A tal proposito, per gli Stoici le passioni (o emozioni) sono estirpabili e l’uomo saggio è in grado nel tempo di sviluppare le sue potenzialità in maniera del tutto naturale, in modo tale che egli giunge alla saggezza, vale a dire alla piena realizzazione di sé come individuo115. Il saggio stoico risulta così essere un organismo integrato in armonia con una concezione naturalistica del mondo. Per Spinoza, 115 Per Sorabji (2000), al contrario, le emozioni stoiche possono essere solo moderate, mai eliminate. Per Gill (1996), pp.443-455: diversamente, le emozioni sono estirpabili secondo gli Stoici e in questo risiede la possibilità stessa che l’individuo possa diventare pienamente umano, “fully human”. 182 invece, le passioni non possono essere estirpabili. L’uomo non può avere un controllo assoluto su di esse, né può liberarsene totalmente. Nella Prefazione alla parte III dell’Etica, pur riconoscendo loro dei meriti, Spinoza critica Cartesio e gli Stoici, perché egli non pensa che l’uomo abbia un potere assoluto o un dominio totale sulle passioni e sugli affetti. Proprio alla luce di questa concezione, Spinoza elabora una scienza degli affetti che, in quanto tali, sono dimostrabili e in principio controllabili, ma mai eliminabili. Anche in questo risiede un tratto dell’originalità di Spinoza nei confronti degli Stoici: “Tratterò dunque della natura e delle forze degli Affetti, come anche del potere della Mente su di essi con lo stesso Metodo con il quale nelle parti precedenti ho trattato di Dio e della Mente, e considererò le azioni e gli appetiti umani come fossero Questioni di linee, superfici o di corpi”. Per Spinoza gli affetti sono un corredo della natura e noi possiamo indagarne le cause allo scopo di moderarli, mai di estirparli. Se l’uomo ha un potere sui propri affetti, è ragionevole pensare che sia possibile trovare soluzioni e vie d’uscita anche per un fenomeno d’irrazionalità come quello dell’acrasia. Di recente, Anthony Price, elabora un modello interpretativo dell’acrasia, a mio avviso, illuminante ai fini di quello che sto discutendo in queste pagine e che, in parte, offre una tassonomia bipartita del fenomeno acratico. Egli distingue due tipi di acrasia: una 183 prima concezione di acrasia diacronica, secondo cui prima l’agente sa, conosce, e formula un proprio giudizio sul bene e solo dopo agisce contrariamente a questo. L’acratico in questo caso è debole nell’azione, no nel giudizio. Questo tipo di acrasia diacronica è attribuibile principalmente ad Aristotele, almeno stando ad una delle sue possibili definizioni di acrasia presente nel libro VII dell’Etica Nicomachea116. Esiste anche una seconda concezione di acrasia, da Price definita sincronica, secondo cui conoscenza ed azione si danno appunto sincronicamente o contemporaneamente. L’acratico sa che qualcosa è bene per lui e tuttavia agisce contemporaneamente male contro questo giudizio. Questo tipo di acrasia sincronica è attribuibile sia a Socrate che agli Stoici: costoro negano infatti l’acrasia diacronica perché dal loro punto di vista giudizio e azione sono sincronici. L’agente che agisce male, lo fa perché è ignorante circa il bene; egli ha un giudizio sbagliato e non sa quello che sta facendo. Agisce male perché, nello stesso momento, è informato male. Rebus sic stantibus, secondo una concezione diacronica di acrasia un uomo è debole nell’agire e non nel giudizio che preliminarmente è stato formulato; per una concezione invece 116 Price (2011). Si veda Charles (2009), sulle varietà dell’acrasia in Aristotele. 184 sincronica, l’uomo è debole sia nel giudizio che nell’azione, nello stesso medesimo tempo, perché egli agisce male in quanto è ignorante. Rispetto a queste due concezioni la soluzione di Spinoza è innovativa in quanto questa non è né diacronica né sincronica. Per Spinoza l’uomo acratico è debole sia nel giudizio che nell’appetito, ma non sincronicamente perché l’appetito viene prima del giudizio e, precedendolo, lo condiziona e lo determina. Parimenti l’acrasia non è neppure diacronica perché il giudizio dell’acratico non è preliminarmente formulato in maniera corretta, come era per Aristotele, ma è debole, confuso e inadeguato. Secondo la prospettiva spinoziana, non c’è nessun giudizio corretto, dunque, contro cui agire. Concludendo, l’acrasia per Spinoza non è un semplice giudizio sbagliato, né un puro caso di ignoranza; essa non è neppure una debolezza del desiderio sulla ragione e meno che mai una debolezza della volontà. L’acrasia non è, allora né un giudizio sbagliato né semplicemente espressione di un desiderio irrazionale. Tra desiderio e ignoranza l’acrasia è una forma di debolezza dell’appetito che richiama per un verso il desiderio come suo tratto dominante, e per l’altro il giudizio, dettato dall’immaginazione, come prodotto della debolezza del desiderio. 185 Capitolo 4 Tra desiderio e ignoranza: l’originalità di Spinoza 1. L’acrasia nella storia del pensiero: modelli teorici a confronto In questo capitolo conclusivo della tesi, mi pare lecito iniziare con una panoramica concettuale del fenomeno acratico all’interno della storia del pensiero, pur senza indugiare nei dettagli di una tematica che fin dal mondo antico—e con insospettata vivacità nel dibattito contemporaneo, soprattutto di matrice analitica e in lingua inglese— ha interessato i più importati filosofi morali. Si è parlato spesso fino ad ora in questa tesi di una originalità per quanto riguarda la possibile formulazione e conseguente spiegazione che Spinoza ha dato del fenomeno acratico; si è anche fornito qualche dettaglio sul reale spessore di tale originalità. Quest’ultima, tuttavia, emerge a pieno titolo solo se considerata in controluce con le trattazioni e le soluzioni che gli altri filosofi hanno inteso fornire dell’acrasia. È proprio questo che qui mi accingo a fare. Nella storia del pensiero filosofico emergono due grandi modelli interpretativi dell’acrasia, che poi hanno significative varianti: uno è il modello socratico, l’altro quello platonico (di Repubblica IV, 186 per intenderci). Nella loro paradigmaticità, entrambi i modelli sono stati un faro filosofico per i pensatori successivi che si sono occupati di acrasia. Per Socrate, come si è accennato altre volte nel corso di questo lavoro, l’acrasia è un semplice e schietto caso di ignoranza: colui che agisce acraticamente è l’individuo che non sa, che non è in possesso della vera conoscenza circa il bene. Ai molti—come dice Socrate nel Protagora di Platone, dialogo su cui torniamo fra qualche riga e su cui abbiamo speso qualche parola nel corso di questa ricerca—la spiegazione di Socrate sembra assurda, parendo negare questa un dato di fatto, all’apparenza incontrovertibile, che sta sotto gli occhi di tutti: molti individui agiscono acraticamente perché, pur sapendo quello che è bene fare, vengono soverchiati dai loro desideri. Ma Socrate insiste sulla sua posizione, obiettando che quello che appare un caso di soverchio del desiderio sulla conoscenza è in realtà un caso di ignoranza. Gli individui non sanno veramente cosa sia bene e, pertanto, agiscono male; essi agiscono cioè in base al potere delle apparenze e non alla luce di un’arte oggettiva, quella metretica, la quale, se adoperata adeguatamente, permette loro di raggiungere la piena conoscenza. Gli individui privi di un mezzo oggettivo che consenta loro di sapere—e di valutare la percorribilità delle loro azioni alla luce della conoscenza—diventano facile terreno di conquista da parte delle apparenze. Pertanto, il fenomeno di ‘lasciarsi vincere dai piaceri’ (caso emblematico di acrasia, sia per gli 187 antichi che per i moderni) è per Socrate un caso in cui l’individuo erroneamente valuta il piacere, misurandolo dal punto di vista del presente; così facendo, egli preferisce un piacere immediato proprio perché più vicino nel tempo, trascurando un piacere migliore solo perché più lontano nel tempo. Se l’individuo valutasse oggettivamente il piacere, secondo un’arte delle misurazione che rifugga le apparenze e dia il giusto peso al fattore temporale, allora egli agirebbe diversamente, preferendo il piacere migliore, anche se più lontano nel tempo. In ultima istanza, quindi, il lasciarsi vincere dai piaceri (immediati) è un semplice caso di ignoranza, il risultato di una valutazione soggettiva che non raggiunge la conoscenza delle cose per come esse veramente sono, fermandosi a come appaiono. Nessun altro fattore è coinvolto nella spiegazione di Socrate del lasciarsi vincere dai piaceri se non la dicotomia conoscenza/apparenza errata (ignoranza). Socrate rimprovera proprio al senso comune l’idea che il fenomeno acratico sia spiegabile alla luce di un prevalere di elementi desiderativi su quelli conoscitivi.117 117 Ho qui riassunto, nelle sue linee generali, l’argomento di Socrate sul piacere e sull’arte della misurazione che si può leggere in Platone, Protagora, 351b – 357e. Per gli studiosi, pur nella differenza delle legittime e diverse interpretazioni di questa sezione del Protagora, si ha qui un’esposizione importante del cosiddetto intellettualismo socratico. Per 188 Ben altra spiegazione è quella che ci dà Platone nella Repubblica, libro IV. Leonzio, salendo al Pireo seguendo le mura settentrionali di Atene, accortosi che vicino al luogo in cui il boia eseguiva le sue esecuzioni stavano cadaveri non ancora rimossi, fu preso da un forte desiderio di guardarli. A questo desiderio se ne opponeva un altro, antitetico, quello di procedere per la propria strada e non guardare quello spettacolo riprovevole. Come ci dice Platone, Leonzio “per un po’ combatté contro sé stesso, e si coprì gli occhi, ma poi, vinto dal desiderio, li riaprì e, correndo verso i cadaveri, se ne uscì con questa affermazione (rivolgendosi ai suoi occhi): ‘ecco, disgraziati, riempitivi di questa bella visione” (Repubblica IV, 439e 440a). Alla luce di quanto dice Platone, l’acrasia è meglio spiegabile come un fenomeno in cui l’agente opera contro il suo miglior giudizio poiché egli viene vinto dal desiderio. Un desiderio, a volte irrazionale, agisce contro il giudizio migliore dell’individuo, mettendolo in condizione di agire acraticamente. Assai diversamente da Socrate, un’interpretazione tradizionale dell’intellettualismo socratico, si vedano: Irwin (1995) e prima (1977); Vlastos (1991); Reshotko (1992); Nehamas (1999). Per un’interpretazione, invece, alternativa a queste, si vedano gli studi di T.C. Brickhouse & N.D. Smith (2007) sull’acrasia, e (2010) sulla psicologia morale di Socrate più in generale. A tal proposito, più originali e significativi sono gli studi di Terry Penner che discuterò in dettaglio fra breve. 189 l’ignoranza non ha nessun ruolo all’interno della spiegazione che Platone ci fornisce del caso di Leonzio: Leonzio ha una credenza su come dovrebbe agire, ma agisce contrariamente a questa credenza perché vinto da un desiderio nefasto118. Notoriamente, questa spiegazione dell’acrasia ha la sua radice più profonda nella tripartizione dell’anima, che Platone illustra per la prima volta in dettaglio proprio nel libro IV della Repubblica. Essendo l’anima divisa in tre parti, razionale, irascibile e concupiscibile, essa ha un equilibrio precario, proprio alla luce di una possibile predominanza di una sua parte inferiore su quella razionale. Alla luce di questo, l’acrasia è proprio il risultato del predominio della parte desiderativa su quella razionale. Ecco allora spiegati i due estremi verso i quali oscilla la spiegazione dell’acrasia all’interno della storia del pensiero: caso di ignoranza oppure caso di predominio del desiderio sulla ragione. Le altre spiegazioni possibili, dal punto di vista filosofico, oscillano tra questi due estremi, o sono variazioni di queste due spiegazioni 118 Per l’acrasia in Platone, si vedano: Price (1995) e (2011); Bobonich (2007); Shields (2007); Weiss (2007); Dorion (2007) e Carone (2007). Per una diversa interpretazione, invece, di Repubblica IV, così come dell’acrasia in Platone, si veda: Rowe (2007), pp. 170-174. 190 limite119. Donald Davidson ha etichettato questi due opposti principi esplicativi come, rispettivamente, ‘Principio di Platone’ e ‘Principio di Medea’, fornendo una ripresa contemporanea, in termini filosofici nuovi120, di un dibattito antico. Al di là della legittimità delle etichette (il ‘Principio di Platone’ dovrebbe essere in realtà quello di Socrate e quello di Medea quello di Platone—visto il quadro concettuale testé delineato), Davidson stesso spiega il fenomeno acratico alla luce di un conflitto tra due desideri, in parte razionali, ma diversamente tali. Partendo da una concezione della mente che richiama in parte il monismo socratico (pur in modo anomalo: di qui l’espressione ‘monismo anomalo’ per definire la concezione psico-fisica della mente in Davidson), Davidson amplia la soluzione socratica al problema dell’acrasia, dilatando la ragione fino a includere desideri che, pur essendo in principio razionali, possono deviare dalla loro natura in modo deciso. Per Davidson, l’acrasia risulterebbe così essere un conflitto tra due desideri più o meno razionali. È bene e utile qui sottolineare che sia la soluzione stoica che quella aristotelica al problema dell’acrasia rientrano appieno nella 119 Si veda Boeri (2005), in particolare per quanto concerne la possibilità di una continuità e affinità filosofica tra le diverse varianti. Boeri sostiene una presenza di Socrate e di Aristotele nella dottrina stoica dell’acrasia. 120 Per gli studi di Davidson sui paradossi dell’irrazionalità (1982) e sull’acrasia (1969), si veda in Davidson (2006). 191 tassonomia esplicativa illustrata: gli Stoici attualizzano la soluzione socratica come caso di ignoranza, trattando in maniera più decisa e significativa di quanto avesse fatto Socrate la questione del desiderio e delle affezioni. Per costoro le emozioni sono dei giudizi e l’acrasia un giudizio sbagliato. Aristotele, dal canto suo, integra le due soluzioni in un quadro organico, parlando a proposito dell’acrasia sia di deficienza conoscitiva che di turbamento del desiderio. In più, egli tratta anche della possibilità che l’acrasia sia una debolezza di volontà121. In un famoso articolo del 1990, infine, Terry Penner sintetizza i diversi modelli teorici appena illustrati e muove delle critiche vincenti, e a mio avviso corrette, sia alla spiegazione platonica che a quella di Davidson122. Penner chiarisce, senza lasciare dubbi, i punti di forza della risposta socratica al problema dell’acrasia. Così facendo, egli anticipa alcuni dei punti su cui si fonderebbe, alla luce della mia 121 Nel precedente capitolo, mi sono già dilungata più analiticamente sull’acrasia in Aristotele e negli Stoici, in particolare in relazione a Spinoza. 122 Si vedano in particolare gli studi di Penner (1990) sull’acrasia e Penner (1996) sulla distinzione tra conoscenza e credenza vera nella psicologia socratica dell’azione. Infine, anche Penner (1997), su Socrate e il potere della conoscenza, in riferimento alla sezione del Protagora appena discussa. 192 analisi, anche la soluzione di Spinoza all’acrasia, da un punto di vista squisitamente concettuale123. Sia Spinoza che Socrate ritengono che non si dà il caso di un individuo che agisca intenzionalmente contro ragione, né che questi venga trascinato da desideri irrazionali in conflitto con la sua conoscenza o vera ragione. Se un individuo conosce razionalmente ciò che è bene fare, non può che farlo; diversamente, se agisce in maniera acratica, ciò accade perché quella credenza (e non la conoscenza) circa il meglio era falsa. Per questa ragione, secondo Penner, per Spinoza e Socrate non esiste l’acrasia sincronica (degli Stoici) perché nessuno sbaglia volontariamente. La credenza (mai la conoscenza) è, dunque, vinta dal piacere e dal desiderio: agire contro ciò che credi sia la miglior opzione è altro dall’agire contro ciò che sai essere la miglior opzione. Se desidero allora qualcosa che mi nuoce e agisco conformemente a questo desiderio, ciò accade socraticamente perché sono un ignorante circa il giudizio e spinozianamente perché sono un immaginante-ignorante. 123 Penner (1990). Ringrazio Penner con cui sono stata in contatto epistolare, in questa fase finale della ricerca, anche per le sue riflessioni su Spinoza e l’acrasia. I suoi suggerimenti e indicazioni mi hanno aiutata a fondare meglio filosoficamente la mia comprensione della risposta spinoziana all’acrasia. 193 A riguardo, tuttavia, delle ragioni più profonde del perché questo accada, le strade di Spinoza e Socrate si dividono qui, in particolare sia in merito al concetto di bene oggettivamente e soggettivamente inteso; alla priorità socratica della conoscenza sul desiderio; e rispetto, infine, al rapporto tra credenza o giudizio sbagliato e desiderio. Vediamo ora di valutare la soluzione all’acrasia che Spinoza offre alla luce dei due principi esplicativi indicati, desiderio e ignoranza, al fine di verificarne, con più ampia capacità, l’originalità. 2. L’originalità di Spinoza sull’ acrasia Alla luce dell’analisi dei testi spinoziani sino a qui svolta, la spiegazione dell’acrasia che attribuisco a Spinoza risulta essere non solo nuova, ma anche molto originale, sia rispetto alle soluzioni teoriche elaborate nel pensiero classico greco, sia rispetto all’interpretazione di Davidson. Diversamente da queste, per Spinoza l’acrasia non è un puro caso di ignoranza o giudizio sbagliato (come lo è per Socrate e per gli Stoici); né un semplice caso di soverchio della passione sulla ragione o conflitto tra una parte razionale e una irrazionale dell’anima (come per Platone e per Aristotele); meno che mai essa è una debolezza di volontà (Aristotele). L’acrasia non è 194 neppure un possibile conflitto tra due desideri più o meno razionali (come ci suggerisce Davidson). Spinoza, tuttavia, mantiene alcuni dei presupposti concettuali della tradizione classica, riempiendoli dei suoi contenuti, giungendo a delineare una soluzione a mio avviso molto interessante che, nuova, ancora oggi contribuisce a rendere vivace il dibattito su questo tema. La spiegazione di Spinoza dell’acrasia, inoltre, non è solo nuova e originale, ma anche più esaustiva, nella misura in cui essa chiarisce ed approfondisce le motivazioni filosofiche del fenomeno acratico (cause esterne ed interne dell’agire acratico) e offre una possibile via d’uscita dall’impasse acratica (come mostrerò nel paragrafo finale). Per corroborare quanto ho appena detto circa l’originalità di Spinoza sull’acrasia, trovo utile riprendere e approfondire la citazione ovidiana da cui sono partita in questa indagine, riflettendo ancora sul suo significato. Da questo riesame risulterà più chiaramente la tesi che intendo sostenere, vale a dire in che senso asserisco che la lettura spinoziana dell’acrasia può essere, per un verso, stoicamente ed aristotelicamente orientata, pur non essendo essa né stoica né aristotelica124. 124 Come ho già precisato, rammento che con l’aggettivo ‘aristotelico’ e ‘stoico’, in riferimento a Spinoza, intendo indicare un’affinità concettuale e non, necessariamente, un’influenza diretta. 195 Video meliora, proboque, deteriora sequor: vedo il meglio e l’approvo, ma seguo il peggio. Vedo che A è meglio di B, e lo accetto, ma tuttavia decido di seguire B. Come ho più volte ripetuto, in generale, questa citazione sintetizza in una frase il nucleo filosofico del fenomeno acratico, inteso come un possibile conflitto tra un giudizio circa il meglio e un’azione verso il peggio. In questa mia ricostruzione, ritengo che la prima parte della citazione, il video meliora, proboque, esprima, in generale, il giudizio formulato dall’individuo circa il meglio per sé. In particolare, sostengo che in Spinoza questo giudizio (video meliora, proboque) è, per certi aspetti, sia aristotelicamente che stoicamente orientato, con le dovute differenze. Questa è, in sintesi, la tesi che sostengo: vediamo ora in che senso e come intendo argomentarla. Il giudizio formulato dall’agente acratico prima di agire può essere aristotelicamente inteso solo rispetto al nesso giudiziodesiderio, vale a dire, nella misura in cui un desiderio può condizionare ed influenzare il giudizio. Nella forma, dunque, il giudizio è aristotelico, ma lo è solo in questo, perché nel contenuto in verità esso risulta più stoico. Per Spinoza il fatto che un desiderio possa orientare un giudizio (e il ‘come’ ciò avviene, in definitiva, il video meliora, proboque), è aristotelico, non stoico, in quanto giudizio e desiderio non sono sincronici (così come accadeva invece per gli Stoici). L’agente acratico spinoziano appetisce debolmente prima e, 196 così facendo, il suo giudizio, subordinato all’affetto provato, sarà altrettanto debole e confuso. Il nesso desiderio-giudizio si traduce, infine, in un atto acratico. Anche per Aristotele, pur essendo l’uomo un animale razionale e non desiderante come per Spinoza, tuttavia, è il desiderio a muoverlo. Il desiderio è una componente essenziale dell’agire umano, e delle scelte in genere, e, come abbiamo visto, influenza i giudizi. E’ il desiderio inteso come tendenza o movimento, in generale, che muove gli uomini all’azione, tanto che nell’Etica Nicomachea leggiamo che l’uomo è pensiero che desidera e desiderio che ragiona. Circa, invece, il contenuto del giudizio, il video meliora, proboque è più stoico. Per Spinoza, così come era per gli Stoici e per Socrate, il giudizio circa il meglio o il bene è in verità una falsa idea di bene, una forma di ignoranza o un giudizio sbagliato, dettato dall’immaginazione, non dalla vera ragione. E’ possibile, tuttavia, intendere il nesso stoico impressione-assenso (video meliora, proboque), in maniera differente in Spinoza e negli Stoici. Per questi ultimi, infatti, i giudizi coincidono con le emozioni. Diversamente da loro, per Spinoza il giudizio circa il meglio è sbagliato e confuso perché deriva da un appetito debole, non perché coincide con esso. Nell’etica spinoziana, infatti, come ho già detto più volte, ogni giudizio, o attività conoscitiva in genere, dipende dall’affetto provato. E’ per debolezza del suo appetito che l’uomo giudica mediante 197 l’opinione (che spinozianamente è immaginazione o primo genere di conoscenza), e, così facendo, egli non ha una vera conoscenza del bene, ma una falsa apparenza di bene. Concludendo, il giudizio circa il meglio della citazione ovidiana (video meliora, proboque) è in Spinoza una falsa idea di bene, o una forma di ignoranza, in quanto tale giudizio è dettato dall’immaginazione e da una distorta visione temporale che costituisce un ulteriore elemento di obnubilamento del giudizio stesso. La prospettiva temporale, vale a dire il fatto che l’affetto verso una cosa che immaginiamo futura è più debole dell’affetto provato, con piacere, per una cosa presente (EIV, PP16-18; P62 S), rinvia all’azione, e, dunque, al deteriora sequor. Veniamo così alla seconda parte della citazione, il deteriora sequor. Questo indica l’azione compiuta dall’agente acratico che segue il peggio perché, passivo e coatto, subisce le cause esterne, e, fluttuando in direzioni opposte, vive molti conflitti interni con sé stesso che lo conducono ad agire acraticamente. L’atto di seguire il peggio potrebbe essere inteso come un tipo di azione doxastica, usando le parole di Olli Koistinen nel suo studio sulla teoria dell’azione in Spinoza125. Circa l’azione, allora, definita in senso stretto acratica, vale a dire circa quella possibilità di seguire il male, 125 Koistinen (2009). 198 penso che Spinoza sia più stoicamente orientato, in particolare quando egli ricorda che l’uomo subisce l’azione delle cause esterne da cui non può svincolarsi, per il fatto che è parte di una natura dove tutto ciò che è e agisce, è e agisce necessariamente. L’acratico segue il peggio perché, per debolezza del suo appetito, egli subisce l’azione delle cause esterne e vive molti conflitti al proprio interno, vacillando ed oscillando sul da farsi. Così facendo, mosso da un desiderio debole, egli è causa inadeguata delle proprie azioni, e in quanto tale, l’acratico sarà dunque passivo e impotente. La nozione di acrasia è pertanto una questione non secondaria all’interno della filosofia spinoziana, e si comprende ora meglio anche alla luce del determinismo di Spinoza e della radice ontologica delle passioni che caratterizzato la sua etica. La radice ontologica delle passioni risiede proprio nel fatto che l’uomo è parte della natura e soggetto al suo ordine. Alla luce della concezione deterministica, infatti, tutto accade secondo leggi di natura. Ogni avvenimento è determinato da una serie di nessi causali. Rebus sic stantibus, per Spinoza le nostre azioni non sono libere, ma sono determinate da ciò che precede e gli effetti sono parti ineluttabili del corso della Natura. L’uomo non è per questo libero, ma trascinato da determinismi costringenti. Se l’uomo, spinozianamente, può non conoscere le cause delle proprie azioni e dei propri appetiti, egli tuttavia è cosciente delle proprie azioni e dei propri appetiti. Gli stessi 199 affetti sono dimostrabili per Spinoza, tanto che egli cerca di elaborare una scienza degli affetti nella parte III dell’Etica. Come mostrerò nel paragrafo finale, è anche possibile trovare una via d’uscita dall’acrasia, alla luce della quale un uomo può non agire acraticamente e in modo irrazionale, rafforzando il potere della mente sugli affetti. Se l’uomo è parte della natura e questa è determinata da una serie di nessi causali; se le passioni per Spinoza hanno una radice ontologica; anche l’atto acratico è spiegabile alla luce di ciò. É per rispondere, allora, ad una passione presente, e debole, che l’acratico agisce in maniera irrazionale. Per Spinoza, la cupidità derivante dall’esperienza di cose sentite nel presente più forte, con piacere, è appunto più potente di quella rivolte al futuro (EIV, PP16-17). L’affetto verso una cosa presente è decisamente più forte e intenso rispetto a quello provato per una cosa futura. Quel male così che l’acratico segue è il suo desiderio più forte nel presente, in quel momento, benché esso sia male. La distorsione temporale è, dunque, un ulteriore elemento di obnubilamento non solo del giudizio, come ho già detto, ma anche dell’azione. Così come il piacere, in quanto modificazione o affezione che accompagna l’affetto verso una cosa presente, è un altro elemento importante e da non trascurare, all’interno dell’azione acratica. A tal proposito, nella sua introduzione all’Etica di Spinoza, a riguardo del possibile piacere provato 200 dall’acratico, Nadler ricorda una situazione particolare, vale a dire il caso di un uomo che sa che qualcosa sia bene per lui, ma egli esita a farlo, è combattuto, perché non prova piacere in quell’azione. Ad esempio, prendiamo il caso di un malato che dovrebbe assumere una medicina sapendo che è molto amara, egli non vuole farlo perché quest’azione non è gradevole, non è piacevole. Con piacere, in generale (e in breve), si può intendere in Spinoza quella sensazione con cui si percepisce il rafforzamento della proporzione moto-quiete del corpo affetto da un altro corpo. A seconda che questa sensazione rafforzi o distrugga tale proporzione costitutiva del corpo, la sensazione viene percepita come piacevole o spiacevole. In tal senso il piacere o, più in generale sensazione, può essere una possibile causa che induce a giudicare buono l’oggetto afficiente (BT II, 19). Nel Breve Trattato II, 17 (§4), Spinoza ritiene che il piacere possa addirittura causare un desiderio126. Il piacere può rendere pertanto più gradevole e intenso l’affetto stesso in nome di cui si agisce127. 126 A tal proposito, si veda EIV, P44 S e quanto Mignini (2007) scrive in merito al piacere e alla sensazione, pp. 1865-1870. 127 Nadler (2006), pp. 224-225. Non mi dilungo ora sul tema del piacere, perché per farlo dovrei allargare l’orizzonte alla psicologia e forse alla psicoanalisi, ma faccio solo presente che il piacere è, in un certo qual modo, intrinseco all’acrasia stessa, nella psicologia dell’atto acratico. Basti solo 201 Per riassumere, in particolare, quanto sostenuto in riferimento all’azione, al deteriora sequor, leggiamo ciò che Spinoza scrive in Etica IV, P62: Se potessimo avere una conoscenza adeguata della durata delle cose, e determinare con la ragione i tempi di esistenza, contempleremo con lo stesso affetto le cose future, come le presenti, e il bene che la Mente concepirebbe come futuro, lo appetiremo come se fosse presente, e conseguentemente trascurerebbe necessariamente un bene presente minore per un bene maggiore futuro e, come dimostreremo subito, non appetirebbe affatto quel che fosse al presente buono ma causa di un male futuro. Ma noi possiamo avere della durata delle cose (per la Prop. 31 p.II) soltanto una conoscenza inadeguata, e con la sola immaginazione determinare i tempi di esistenza delle cose (per lo Scolio della Prop. 44 p.II), immaginazione che non è affetta egualmente dall’immagine di una cosa presente, come da quella di una cosa futura; onde accade, che la vera conoscenza del bene e del male che pensare agli studi sulla libido di Freud. Per un’analisi più filosofica del concetto di libido, nonché del rapporto tra ‘desiderio’ e ‘credenza’ in Freud, si veda: Wollheim (1993). Un uomo può così decidere di seguire il male perché prova un certo piacere nel farlo. Ad esempio, il caso di un fumatore rientra pienamente in questa situazione: chi fuma sa che è bene non farlo e che è sbagliato fumare, tuttavia egli fuma lo stesso perché prova piacere nel farlo. 202 abbiamo non è se non astratta ossia universale, e che il giudizio che formuliamo sull’ordine delle cose e sul nesso delle cause, per poter determinare che cosa sia al presente buono o cattivo è piuttosto immaginario che reale, e perciò non c’è da meravigliarsi se la Cupidità che nasce dalla conoscenza del bene e del male, in quanto questa riguarda il futuro, può essere più facilmente repressa dalla Cupidità delle cose che sono al presente gradite, cosa sulla quale vedi la Proposizione 16 di questa parte”. Ognuno, dunque, giudica secondo il proprio affetto, per cui la conoscenza del bene e del male durante l’atto acratico è condizionata dalla propria individuale cupiditas che sappiamo essere in quel mentre debole. Per concludere, pur mostrando delle affinità concettuali sia con Aristotele che con gli Stoici (e Socrate, sopra spiegate), Spinoza offre una spiegazione dell’acrasia nuova e originale. Nuova la definizione, perché per Spinoza l’acrasia non è solo un caso d’ignoranza, né un conflitto tra parte razionale e irrazionale dell’anima né una debolezza di volontà, ma è una debolezza dell’appetito. Originale la spiegazione, perché, diversamente dai classici e da Davidson, per Spinoza l’acrasia è tra ignoranza e desiderio, vale a dire l’ignoranza o credenza immaginativa falsa (video meliora, proboque) è determinata e spiegata a partire dal desiderio che, debole, la condiziona e la rende altrettanto debole e confusa. Il desiderio debole e il giudizio falso si traducono in 203 un’azione acratica (deteriora sequor). Per Spinoza la conoscenza del bene e del male è affetto di gioia e tristezza in quanto ne siamo consapevoli (EIV, P8), ma questa conoscenza del bene e del male non è altro che l’idea della gioia e della tristezza che segue necessariamente dallo stesso affetto di gioia e tristezza. Ognuno giudica o stima secondo il proprio affetto quel che è bene e quel che è male, così come il meglio e il peggio (EIII, P39 S). Prima di approfondire la novità della risposta spinoziana al problema acratico, vale a dire la definizione stessa di acrasia come debolezza dell’appetito (riassumendo quanto ho sostenuto sino a qui circa la nozione spinoziana di acrasia), penso possa essere utile fornire al lettore il seguente schema riassuntivo. Schematizzo così qui di seguito la tesi sostenuta e appena argomentata circa l’originalità di Spinoza rispetto ai classici sull’acrasia: SPINOZA ↓ TRA Desiderio Ignoranza ARISTOTELE STOICI ↓ ↓ (nesso desiderio-giudizio) (giudizio sbagliato) ↓ 204 SOCRATE ↓ (Conoscenza e desiderio del bene) ↓ SPINOZA ↓ Acrasia = tra ignoranza e desiderio = impotenza 3. La novità di Spinoza: l’acrasia, una debolezza dell’appetito Dopo aver motivato la mia tesi circa l’originalità della risposta spinoziana all’acrasia, mi accingo ora a chiarire meglio la novità della definizione di acrasia che attribuisco a Spinoza. Così dicendo, ritengo sia utile approfondire la nozione di acrasia, così come questa risulta presente a partire dai testi esaminati, in particolare dall’analisi della citazione di Ovidio. Lontana, dunque, dall’essere un fenomeno inspiegabile (meno che mai un paradosso autocontraddittorio), l’acrasia è concettualmente presente nell’etica di Spinoza e costituisce una questione rilevante, contigua a temi e problemi centrali della filosofia spinoziana. É degno di nota, e significativo a mio parere, il fatto che l’acrasia non venga mai esposta geometricamente da Spinoza. E se è vero che, come 205 ritiene Piet Steenbakkers, per Spinoza l’ordo geometricus non è solo una forma esterna, ma è intimamente connesso alla sua filosofia, o come ricorda Gagnon l’ordine geometrico è una possibile via d’uscita dall’impasse acratica, sarà altrettanto vero che anche un’esposizione non geometrica, come quella dell’acrasia, può essere intimamente connessa alla sua filosofia128. La modalità di esporre in maniera non geometrica, vale a dire mediante scolii, prefazioni ed epistole, è infatti, e comunque, essenziale per Spinoza affinché egli possa spiegare meglio, mediante l’esperienza, quanto esposto geometricamente129. A tal proposito, trovo significativo che tutte e quattro le citazioni della frase di Ovidio, cifra dell’acrasia nei testi spinoziani, non sono mai esposte in maniera geometrica, ma vengono riferite in una prefazione, in due scolii ed in un’epistola. A mio giudizio, Spinoza non tratta mai degli atti acratici in maniera geometrica perché egli non può geometricamente dimostrare la possibilità o la presenza di atteggiamenti irrazionali nella sua etica. 128 Steenbakkers (2009), p. 43; Gagnon (2002). 129 Circa la funzione esplicativa o storica dello scolio nell’Etica di Spinoza, si veda l’introduzione alla lettura di Mignini (1995), p. 30 nota 9, secondo cui lo scolio servirebbe o a spiegare meglio, mediante l’esperienza, quanto dimostrato geometricamente; oppure serve storicamente a citare le fonti che Spinoza critica o comunque discute nel corso della sua argomentazione. La nota rinvia pure a Deleuze (1968) e Macherey (1983). 206 Spinoza così presenta e discute di acrasia mediante esempi tratti dall’esperienza (come accade in tutti gli altri testi non geometricamente esposti), perché questi fenomeni o atti acratici sono condizioni tipiche dell’irrazionalità e perché essi nella stessa esperienza risiedono. dell’immaginazione, Ed nella è lì, nel possibilità mondo delle dell’opinione, cause esterne e dell’affettività umana (più in generale) che bisogna andare a rintracciarli. L’acrasia, dunque, sebbene non sia geometricamente esposta, rimane pur sempre un fenomeno spiegabile. Come ho già lungamente mostrato, è infatti possibile sia darne una definizione che spiegarne i suoi presupposti e le sue caratteristiche concettuali. Come e perché, allora, video meliora, proboque, deteriora sequor? Per Spinoza perché un individuo, dopo aver approvato il meglio, segue il peggio? Per riassumere, schematizzo l’argomentazione ricostruita sino a qui, elencando gli interrogativi su cui l’ho fondata e in risposta ai quali ho definito la nozione spinoziana di acrasia. Gli interrogativi sono i seguenti: 1 che cosa s’intende per acrasia in Spinoza: che cos’è? (sua definizione) 2 Quali sono le motivazioni, le cause di questa: quali i suoi presupposti? 207 3 Natura e caratteri dell’acrasia stessa: come si manifesta? 4 Novità e prospettiva di soluzione: originalità rispetto ai classici e come sia possibile uscire dall’impasse dell’acrasia130. 1 Definizione di acrasia = debolezza dell’appetito In primo luogo, per acrasia in Spinoza s’intende quel fenomeno secondo cui l’uomo, per debolezza dei suoi appetiti, pur vedendo e approvando il meglio, segue tuttavia il peggio. L’acrasia, dunque in generale, è intesa e definita come una debolezza dell’appetito. Di qui la novità della definizione spinoziana di acrasia rispetto a quella classica e contemporanea. 2 Presupposti o cause dell’acrasia Le due cause principali degli stati di acrasia sono: a) lo stato di passività o coazione in cui versa l’uomo nelle mani della fortuna, della serie cioè di cause esterne, per cui non è padrone di sé, e diventa passivo e di conseguenza impotente. Ciò, infatti, che accade all’uomo di male per 130 Rendo noto che gli interrogativi 1. e 2. sono stati oggetto d’indagine nel secondo e terzo capitolo; mentre gli interrogativi 3. e 4. vengono discussi, in particolare, in questo capitolo. 208 Spinoza può derivare solo dalle cause esterne da cui è difficile (ma non impossibile in assoluto) “liberarsi”. b) Il conflitto affettivo, il conflitto cioè tra affetti contrari, conduce l’uomo dall’interno ad agire in modo irrazionale (causa interna). Questo conflitto può condurre l’uomo anche ad uno stato di fluttuazione tale che, inconsapevole del suo destino, viene spinto di qua e di là, in opposte direzioni, e, proprio come le onde del mare, egli è agitato da venti contrari, giungendo ad essere acratico. La fluttuazione tuttavia non va confusa con l’acrasia, ma è un suo possibile presupposto. Di qui la concomitanza e interazione delle cause esterne con quelle interne nell’acrasia, da cui segue non solo l’originalità, ma anche l’esaustività della spiegazione spinoziana del problema acratico. 3 Natura e caratteri dell’acrasia A partire da questi presupposti, l’acrasia intesa come una forma di debolezza appetitiva dell’uomo, è caratterizzata da un conseguente conflitto tra il giudizio circa il bene o il meglio per l’agente acratico e l’azione invece di seguire il male o peggio per sé stesso. Il giudizio deriva dall’immaginazione (o opinione), non dalla vera ragione, ed è subordinato all’affetto-emozione provato. L’acrasia, inoltre, si 209 manifesta come un caso di impotentia. Di qui il suo legame con la nozione di ‘libertà’. Prima di esaminare il nesso impotenza-libertà in riferimento all’acrasia, mi preme sottolineare che, pur annebbiato che sia, il momento di elaborazione del giudizio è essenziale affinché ci sia acrasia. Il giudizio risulterà allora debole, dal momento che debole è lo stesso affetto o appetito-cupidità che lo muove. Sempre per l’appetito debole, sotto la pressione delle cause esterne per un verso, e a causa degli affetti contrari per l’altro, l’uomo cederà a ogni genere di libidine. Se l’uomo ha pertanto una conoscenza inadeguata del bene (EIV P64), egli giunge a formulare un giudizio circa il meglio per sé dettato dall’opinione o immaginazione. Un tale giudizio è un giudizio doxastico-immaginativo sulle cose e inevitabilmente condiziona le nozioni, le idee di bene e di male che di per sé, in assoluto, neppure esistono, ma esprimono solo modi di pensare relativi al soggetto. Il momento tuttavia dell’elaborazione del giudizio, per quanto confuso sia, è un momento imprescindibile dell’acrasia stessa. Un atto è acratico quando si agisce contro un miglior giudizio, anche qualora questo sia formulato inadeguatamente. Come ricorda Lin, esistono casi in cui la ragione soccombe alle passioni che però non sono casi di acrasia perché la passione impedisce di arrivare anche al giudizio131. 131 Lin (2006), pp. 416-417. 210 In breve, dunque, l’acrasia è una debolezza dell’appetito caratterizzata da un conflitto tra un giudizio circa il meglio e un’azione verso il peggio. Essa, infine, si manifesta come un possibile caso di impotenza (impotentia). 4 Novità e prospettiva di soluzione Come detto poc’anzi, la portata della novità spinoziana circa il tema dell’acrasia è significativa perché diversamente dalla lettura classica di acrasia come caso di ignoranza o conflitto tra ragione e passioni, o debolezza di volontà, per Spinoza l’acrasia è intesa come debolezza dell’appetito. A partire da questo, sarà interessante chiarire come sia possibile guarire dall’acrasia o evitarla (paragrafo successivo e finale). Alla luce di quanto detto sino a qui, se è vero che l’acratico, debole nel suo appetito, è mosso da affetti opposti e, in conflitto con sé stesso, subisce l’azione delle cause esterne, agendo così in maniera acratica, egli giunge persino a non sapere bene che cosa vuole, a fare ciò che non vuole e a non volere ciò che desidera (EIII, P39 S)132. L’acratico giunge ad essere impotens, impotente. L’acrasia in Spinoza si manifesta e si caratterizza allora come un caso di impotenza 132 Questa è per Spinoza la condizione propria di chi ha paura, di chi prova timore, di chi si pente. E chi si pente è misero due volte e impotente. Il pentimento non nasce da ragione, non è virtù (EIV, P54). 211 (impotentia). Mi accingo ora a riflettere sul nesso che esiste tra acrasia e impotentia, che è lo scopo del prossimo paragrafo, così come ad approfondire la possibile via d’uscita dall’acrasia in relazione alla nozione di ‘libertà’. L’uomo libero non è acratico, l’uomo schiavo sì. 4. Tra impotenza e libertà: il fenomeno acratico Nel paragrafo precedente, e più a lungo prima, ho definito e spiegato l’acrasia come una possibile condizione irrazionale dell’individuo che rientra nel modo di pensare, giudicare (con l’immaginazione) e di agire (sotto la pressione di cause esterne e conflitti interni) dell’uomo. Una tale condizione è presente in maniera rilevante nell’etica di Spinoza, tanto da richiamare temi e problemi centrali e affatto secondari della sua filosofia. Ora, in conclusione, ritengo utile chiarire due questioni ancora, riflettendo sui seguenti punti: (1) in primo luogo, vorrei soffermarmi sulla natura stessa del fenomeno acratico, così come esso appare in relazione all’impotenza o impotentia spinoziana. (2) A partire dal nesso dell’acrasia con l’impotenza, vorrei collegare quest’ultimo con la nozione di libertà, giungendo ad ipotizzare una possibile via d’uscita dall’acrasia, o un modo di evitarla, così come si può dedurre dall’etica spinoziana. In questo, infine, risiederà un ulteriore elemento 212 di originalità della spiegazione di Spinoza rispetto alla trattazione classica (conclusioni). Ma l’acrasia è l’impotenza, coincide con essa, come pensa Pinheiro, o è un tipo particolare di schiavitù? A livello etimologico, i termini akrasia ed impotentia mostrano delle affinità: per akrasia, in una delle due possibili accezioni, infatti, s’intende una mancanza di forza, e dunque di autodominio, da cui il significato classico di acrasia come mancanza di autocontrollo, incapacità di dominarsi, incontinenza. Anche impotentia, da in-potentia, indica una mancanza di potenza, tipica di colui che non si sa dominare e che non è padrone di sé. Talvolta l’impotens è così incapace di controllarsi che giunge ad essere violento e l’impotentia diventa una sorta di smoderatezza, un impulso sfrenato e violento, come nel De Ira di Seneca. Ne Le Tusculane, infine, l’impotentia (di cui ho già trattato), è quell’incapacità o mancanza di autodominio tipica di chi è vinto dai piaceri, al pari dell’intemperante o dell’acratico133. Come ho già mostrato, per Cicerone e Seneca l’acrasia è una forma di impotentia. Per Spinoza, tuttavia, non è propriamente così: concettualmente, l’acrasia non coincide pienamente con l’impotenza. 133 Si veda Lewis and Short, Latin Dictionary, s.v. “impotentia”, da cui traggo sia il riferimento a Seneca, De Ira I, 1.2 che a Cicerone, Le Tusculane, IV, 15.34; IV, 16.35. 213 L’acrasia non è, infatti, solo una semplice forma di schiavitù, vale a dire non è solo “quell’impotenza umana nel frenare e dominare gli affetti”; essa non è neppure, più in generale, solo una coazione o costrizione a causa della quale l’uomo è schiacciato dalle cause esterne. L’acrasia è tutto questo, ma è anche molto di più. Pur essendo una forma di impotenza, l’acrasia è un fenomeno più complesso: è una debolezza dell’appetito che presuppone diversi fattori concomitanti, sia una causa interna che le cause esterne. Dall’interno, l’uomo vive un forte conflitto tra appetiti opposti a causa del quale è combattuto; e dall’esterno egli subisce l’azione della fortuna nei confronti della quale non può svincolarsi. L’interazione di questi fattori, vale a dire la lotta dentro sé stesso e con le cause esterne, caratterizza l’acrasia spinoziana, che in quanto tale è, dunque, un conflitto tra un giudizio circa il meglio e un’azione verso il peggio. Alla luce di ciò, essa si manifesta come un tipo di impotenza ed è anche impotenza. A partire, infine, da un controllo attento dei diversi passi, nel corpus delle opere di Spinoza (passi ove sono presenti le varie occorrenze dei termini ‘impotentia’ e ‘impotens’), posso ragionevolmente asserire che l’acrasia non coincide con l’impotentia, nel senso che non tutte le volte che Spinoza parla di impotentia si riferisce a situazioni di acrasia, mentre l’acrasia è un tipo particolare di impotentia, e in quanto tale, essa è anche un possibile difetto della 214 potentia (anche se non è solo semplicemente questo)134. Non tutti gli impotenti sono allora acratici, mentre tutti gli acratici sono impotenti. In particolare, alla luce dell’esame svolto delle occorrenze di impotens e di impotentia, si evince che la maggior parte delle volte che Spinoza usa il termine “impotenza” o “impotente” si sta riferendo a possibili situazioni di acrasia. Nove occorrenze su dieci del termine impotens e quattordici su ventidue di impotentia sono, infatti, concentrate nella Parte III e prima sezione della parte IV dell’Etica, ove è possibile rintracciare la spiegazione e descrizione del fenomeno acratico. Ciò nonostante, non è possibile identificare compiutamente l’impotenza con l’acrasia. Negli altri passi, tuttavia, dove non è possibile ricondurre il significato dell’impotenza all’acrasia, Spinoza collega l’impotenza al concetto di libertà: a partire da quest’ultimo, allora, sarà possibile rintracciare e dedurre una possibile via d’uscita dall’impasse acratica, nella misura in cui l’acratico-impotente non è un uomo libero. I passi a cui mi riferisco sono quelli di EI, P11 A2 e di EII, P3 S, dove l’impotenza umana è trattata in relazione alla potenza divina, e alla possibilità che solo Dio può esistere necessariamente. In questi testi, l’impotenza è definita come un poter non esistere, diversamente 134 Circa l’esame delle occorrenze dei termini impotens e impotentia, mi sono valsa del Lexicon Spinozanum di Giancotti Boscherini (1970). 215 dalla potenza che è poter esistere. In EIII, inoltre, nella Definizione degli Affetti XXVI, definendo l’umiltà, Spinoza avvicina l’impotenza all’imbecillitas: “L’Umiltà è tristezza nata dal fatto che l’uomo contempla la propria impotenza, o debolezza”135. Nel TPII, 6, 7, 22, infine, l’impotente è descritto come colui che è trascinato dal piacere, che è possibile “preda degli affetti” e che, in quanto tale, non è libero. Di qui deriva il nesso acrasia-impotenzalibertà. L’impotenza non è così un difetto o peccato di natura: l’impotente non è, infatti, libero nel senso che suggerisce Agostino, secondo cui l’uomo era prima libero, e in quanto tale, ha scelto il peccato; l’uomo dopo è diventato schiavo, o acratico-impotente, perché è stato soffocato da forze esterne. Diversamente, per Spinoza se l’uomo fosse stato libero, questi non avrebbe scelto il peccato. L’uomo è pertanto libero solo in quanto ha il potere di esistere e agire 135 Trovo questo collegamento tra impotentia e imbecillitas significativo, nella misura in cui pensiamo all’imbecillitas come ad una debolezza anche dell’animo o morale, una debolezza intellettuale o della mente. L’imbecillitas sarebbe, dunque, una sorta di fragilità intesa come impotenza o incapacità di difendersi. Si veda a tal proposito la nozione ciceroniana di infirmitas in Le Tusculane, V, 1; Sull’Amicizia, 8; Sulla Repubblica., 1.25; Bruto, 55.202. Per un ulteriore approfondimento della nozione di imbecillitas in Spinoza, si vedano: EI, Appendice; EIII, P55 S; III, Definizione degli Affetti XXVIII; EV, Prefazione. 216 secondo le leggi della natura; la libertà è infatti una virtù, una perfezione. “Quanto più dunque consideriamo l’uomo come libero, tanto meno ci è lecito dire che possa non usare la ragione e scegliere i mali in luogo dei beni” (TPII, 7). Così facendo, l’uomo impotente non solo non è libero, ma può giungere ad agire anche acraticamente. In conclusione, l’uomo non ha pertanto il potere di usare sempre la ragione e di essere sempre al culmine dell’umana libertà. Potendo non avvalersi della ragione, egli può decidere di agire in maniera acratica e di seguire il male. In questi paragrafi in esame del TPII, Spinoza non definisce l’impotenza all’interno di una trattazione del problema acratico, ma in relazione alla libertà. Pur non richiamando la frase di Ovidio (secondo cui è possibile seguire il peggio, dopo aver visto e approvato il meglio), tuttavia, la definizione dell’impotente che Spinoza fornisce è attribuibile in toto all’acratico, nella misura in cui chi agisce acraticamente è impotente e dunque servo, non libero. L’impotenza definisce la servitù dell’uomo, non certo la sua libertà: “tutto ciò che rimanda all’impotenza dell’uomo non rimanda quindi alla sua libertà”. In tal senso asserisco che l’acrasia è un fenomeno che s’inserisce tra la nozione spinoziana di impotenza e quella di libertà. Tornerò fra breve su questo punto del ragionamento, ma per riassumere questa mia prima riflessione, concludo che (1) l’impotenza spinoziana non coincide né s’identifica con l’acrasia, bensì 217 quest’ultima è una forma di impotenza, un caso specifico di impotentia (così come si evince sia dall’esame delle occorrenze in Spinoza che dagli usi di questi termini in Cicerone e Seneca), così che è possibile asserire che non tutti gli impotenti sono necessariamente acratici, ma tutti gli acratici sono impotenti. Negli scritti spinoziani, tuttavia, anche laddove la trattazione dell’impotenza non rinvia agli atti acratici, essa richiama e si collega inevitabilmente alla nozione di libertà, dal momento che per Spinoza sempre un impotente, così come un acratico, è un uomo servo, dunque non libero (come abbiamo visto dai passi del Trattato Politico e come è concettualmente legittimo ritenere). Di qui veniamo alla seconda riflessione (2), al chiarimento cioè del possibile nesso dell’acrasia con la libertà. Alla luce di ciò, sarà possibile dedurre e rintracciare una via d’uscita all’acrasia, o un possibile modo di evitarla, fermo restando che essa non è del tutto eliminabile, come invece pensavano gli Stoici (cosa che intendo trattare nelle pagine conclusive). Da due dei quattro testi esaminati per definire e spiegare l’acrasia in Spinoza (in due delle quattro citazioni della frase di Ovidio), in particolare in EIII, P2 S e nella lettera a Schuller (n .74 = 58 G), emerge con evidenza testuale che l’acrasia è intimamente connessa al problema della libertà. Spinoza qui, dopo aver stabilito una totale assenza di reciprocità causale tra mente e corpo (a partire 218 dalla quale la mente non determina il corpo ad agire, né il corpo la mente a pensare), vuole dimostrare una reciproca dipendenza di mente e corpo mediante l’esperienza, pur rimanendo comunque mente e corpo una sola ed identica cosa. La mente allora non potrà mai essere libera senza il corpo o contro di esso ma solo con il corpo: laddove la mente decide, il corpo dispone. Non è possibile così determinare la relazione moto-quiete nel corpo, né i decreti o volizioni della mente singolarmente, ma corpo e mente risultano simultaneamente attivi o passivi136. Ciò nonostante, l’esperienza insegna che gli uomini non possono controllare i loro appetiti, così come frenare la loro lingua. Non facciamo dunque nulla liberamente, anzi, facciamo molte cose di cui ci pentiamo e quando siamo agitati da affetti contrari vediamo il meglio e seguiamo il peggio, agiamo cioè acraticamente. Di qui viene spiegato il nesso tra l’acrasia e la libertà. L’uomo che agisce in modo acratico non è pertanto in grado di scegliere il bene liberamente. Egli segue invece il male dopo aver visto e approvato il bene. Come ho già chiarito, ciò accade per una sorta di debolezza degli appetiti che egli non è capace di controllare, giungendo così a seguire le cose peggiori, combattuto da affetti 136 Macherey (2005); p. 64; Giancotti Boscherini (1993), pp. 398-399, la quale ritiene che così dicendo, vale a dire che mente e corpo sono così uniti, si sottolinea la potentia del corpo. 219 contrari. Così facendo, l’uomo che pensa di agire liberamente, agisce in realtà acraticamente. Per Spinoza, tuttavia, la libertà umana è veramente finta? Se è infatti vero che all’uomo non è dato conoscere le cause delle proprie azioni, dei propri appetiti, non è altrettanto vero che egli è consapevole dei suoi appetiti e delle sue azioni? E queste azioni sono o non possono essere libere? Se pensiamo alla libertà come libera necessità, dal momento che libero per Spinoza è solo ciò che esiste e agisce per necessità della sua sola natura (EI, def. 7), pienamente e veramente libero è solo Dio. L’uomo è, invece, coatto, se è vero che tale è ciò che è determinato ad esistere e agire secondo una certa determinata ragione (o modo). A partire dalle definizioni di ‘libero’ e ‘coatto’, libera è pertanto solo la libera necessità (res libera), da cui consegue che la nozione di libertà non si oppone a quella di necessità, ma al concetto di coazione. Ontologicamente le cose finite sono così determinate da altro a esistere e agire, e in quanto tali, esse sono coatte (EI, P28). Alla luce di ciò, anche l’uomo allora è sì coatto, ontologicamente parlando, e, in quanto modo finito, è determinato da altro a esistere e agire; ma egli può anche essere libero nel senso però della libertà spinozianamente intesa, come suggerisce anche Emilia 220 Giancotti Boscherini137. A partire da questa seconda riflessione sul nesso acrasia-libertà (dopo quello acrasia-impotenza), in conclusione, mi preme chiarire in che senso ritengo che sia possibile ammettere la libertà umana in Spinoza, alla luce della quale sarà anche possibile accettare e comprendere meglio il fenomeno dell’acrasia qui indagato. Conclusioni Non posso dilungarmi, qui ed ora, in queste pagine conclusive, sul tema della libertà, che meriterebbe in sé una trattazione a parte e molto più analitica (a tal punto da poter costituire un oggetto d’indagine per un’altra ricerca), ma vorrei concentrarmi solo su alcune questioni alla luce delle quali è ancora più evidente il legame della nozione di libertà umana con quello di acrasia. Così facendo, spero di chiarire e liberare il campo da alcune obiezioni possibili alla tesi che ho sostenuto sull’acrasia in Spinoza. 137 Giancotti Boscherini (1993), pp. 328 ss. Confronta anche quanto leggiamo nella definizione VII della parte I dell’Etica. Mignini (2007), p. 1741 nota n. 37, ricorda la distinzione spinoziana tra la coazione o costrizione esterna (contraria alla libertà) e la necessità di un’azione derivante dall’agente ed esprimente libertà. 221 Premesso che pienamente libero per Spinoza è solamente Dio, sostanza assolutamente infinita, spesso a partire da ciò si è ritenuto in maniera riduttiva che l’uomo non potesse essere mai libero, collegando questa teoria ad un’interpretazione errata del determinismo, secondo cui l’uomo non è libero perché tutto è predeterminato quasi fatalisticamente. Il concetto di determinazione e dunque di determinismo, come ricorda anche Giancotti Boscherini, ricollegandosi ad una distinzione di Robinson, è molto più elaborato. Abbiamo almeno tre significati di determinazione in Spinoza: una determinazione qualitativa, una quantitativa e una causale. Solo i modi finiti, tra cui l’uomo, sono determinati in tutti i tre i sensi138. È vero che tutto è determinato nel senso che tutto procede secondo nessi causali per legge di natura, ciò tuttavia non pregiudica da un punto di vista filosofico uno spazio di libertà per l’uomo, come dimostra Peter Van Inwagen, in suo famoso saggio sul free will139. Stando ad un’altra possibile lettura della libertà umana in Spinoza, una concezione deterministica della realtà può non escludere la possibilità della libertà per l’uomo, ma, ciò nonostante, solo Dio resterebbe veramente libero in Spinoza e l’uomo no. Notoriamente gli studiosi che hanno aderito a questa interpretazione riduttiva della 138 Si veda Giancotti Boscherini (1993), p. 328. 139 Van Inwagen (1983), per un approfondimento di questa interpretazione. 222 libertà in Spinoza, spesso ( ma non necessariamente), hanno condiviso una lettura dell’etica di tipo terapeutico, secondo cui la libertà dell’uomo a cui ci si riferisce nell’Etica è un modello di natura umana da perseguire. In una tale interpretazione, il modello di natura umana così delineato diventerebbe una meta irraggiungibile, al pari di quello che pensavano gli Stoici, secondo cui solo il saggio stoico poteva raggiungere la perfezione umana e la vera virtù140. Contro questa visione standard, Matthew Kisner propone una nuova e più interessante interpretazione della libertà in Spinoza, interpretazione che a suo dire sarebbe molto affine a quanto riteneva Emilia Giancotti Boscherini, in un suo articolo sulla teoria e la pratica della libertà141. Secondo Kisner, in breve, la libertà umana sarebbe una condizione essenziale entro cui e a partire da cui l’uomo elabora la sua deliberazione pratica per l’azione. Per lo studioso, più in particolare, la nozione spinoziana di libertà è collocabile tra una teoria incompatibilista e una compatibilista della stessa. In generale, secondo una concezione incompatibilista, la libertà è quell’abilità di fare altrimenti, per cui un individuo è libero sempre di fare diversamente da come sta facendo; secondo invece una teoria compatibilista, che 140 Circa questo approccio terapeutico dell’etica di Spinoza, si vedano: Le Buffe (2010); Bennett (1984). 141 Kisner (2011); Giancotti Boscherini (1990). 223 Kisner attribuisce a Hobbes, la libertà è quell’assenza di costrizioni nel perseguire i propri desideri. Per lo studioso, Spinoza oscillerebbe tra queste due concezioni di libertà, intesa come forma di indipendenza dalle determinazioni esterne e al contempo dai fattori interni. Se allora esistono degli ostacoli anche interni alla libertà, cioè delle forze psicologiche irrazionali, si comprende meglio a mio avviso il suo nesso con l’acrasia qui investigato. Quando siamo acratici, non possiamo essere liberi; se fossimo liberi, per Spinoza, non saremmo acratici. Alla luce di ciò, nell’etica spinoziana, come è possibile allora uscire dall’impasse acratica o evitare atti acratici? Se essere liberi non vuol dire solamente cercare di dominare le proprie individuali passioni (lettura terapeutica dell’etica), ma, come ho già detto, se essere liberi vuol dire cercare di raggiungere la libertà, esercitando la deliberazione pratica nell’azione (come suggerisce Kisner); gli esseri umani, in quanto esseri autodeterminati e autocausati, non possono essere pienamente liberi nel senso della libera necessità, ma possono esserlo, cercando di raggiungere la libertà umana mediante l’uso della ragione che è data all’uomo. La libertà rinvia allora alla ragione e la possibilità di avere idee adeguate; la schiavitù e l’acrasia richiamano l’immaginazione e le idee inadeguate. La libertà umana non è pertanto solo una nozione teorica, ma la si raggiunge con la pratica, è una pratica. Di qui deriva con 224 cognizione di causa la lettura dell’etica di Spinoza in termini di una filosofia pratica che in definitiva per Kisner è una filosofia della libertà. Così dicendo, l’etica è un mezzo per pianificare la nostra vita in vista del bene, del bene più alto, cioè del Sommo Bene (la conoscenza di Dio). Cercando di perseguire il nostro bene, potenziamo il nostro individuale conatus e sviluppiamo la nostra natura, raggiungendo la libertà. La libertà coincide con la virtù, con l’agire cioè per il proprio potere. In EIV, PP 20-24, Spinoza identifica la virtù con la potenza e con il conatus, con quello sforzo di conservazione dell’esistenza di ciascuno, che rappresenta il nostro bene e il nostro supremo utile: “La virtù è la stessa potenza umana che è definita dalla sola essenza dell’uomo, cioè che è definita dal solo sforzo con il quale l’uomo si sforza di perseverare nel proprio essere” (EIV, P20 D). “Lo sforzo di conservare se stessi è il primo e unico fondamento della virtù” (EIV, P22 C). “Agire, dunque, secondo virtù non è altro in noi che agire, vivere e conservare il proprio essere secondo la guida della ragione” (EIV, P24 D). E chi vive sotto la guida della ragione sarà libero (EV, P54 S; P66 S). Se l’uomo allora per diventare libero deve agire cercando di rafforzare il proprio potere, la propria individuale potentia, la libertà diventa una forma di autonomia che chiede responsabilità all’agente. Essa è autonomia perché è in virtù di quest’ultima che l’agente agisce: 225 l’uomo diventa autonomo mediante l’uso della ragione e la conoscenza adeguata. Quest’ultima, in quanto è una forma di conoscenza sicura e vera, garantisce autonomia all’uomo stesso. La conoscenza adeguata infatti esprime la sola potenza della natura umana e l’unica condizione per cercare la conservazione di sé e l’attuazione della virtù (EIV, PP 23-25). L’autonomia dell’uomo dunque è garantita dalla conoscenza adeguata. A riguardo, invece, del problema della responsabilità, la questione è più delicata, nella misura in cui in genere gli studiosi tendono a negare in Spinoza una qualunque forma di responsabilità umana nell’azione. Come tuttavia ho cercato di mostrare, il determinismo causale di Spinoza non minaccia l’attribuzione di responsabilità morale all’agente. Non è possibile rintracciare negli scritti spinoziani una spiegazione di come noi esseri umani possiamo essere responsabili delle nostre azioni in senso stretto, ma è possibile ammettere che noi siamo responsabili delle nostre azioni in nome dell’attività conoscitiva che abbiamo, in quanto esseri umani, proprio nell’agire. Di qui veniamo agli atti acratici. Come avevo spiegato anche circa il nesso giudizio-azione nell’atto acratico, il video meliora, proboque, deteriora sequor, la responsabilità dell’agente non è tanto nell’azione strettamente intesa, vale a dire quando egli decide di seguire il male, ma è nel giudizio, quando egli formula un giudizio 226 circa il meglio. Questo tipo di responsabilità è da intendersi in un senso “debole”, vale a dire non come un’intenzionalità morale e consapevole, dal momento che interagiscono diversi fattori concomitanti nell’atto acratico, sia dall’interno che dall’esterno. Tuttavia nell’etica di Spinoza c’è ed esiste uno spazio di responsabilità dell’uomo, pur piccolo che sia, ed esso è affine al concetto di responsabilità che Cicerone attribuisce agli Stoici negli Accademica I, 1.40. Ho infatti già mostrato come anche per gli Stoici l’assenso che viene dato all’impressione iniziale che colpisce un uomo non è propriamente una scelta deliberata, ma è imputabile in qualche modo al soggetto che riceve l’impressione. Il nesso impressioneassenso, simile al nostro video meliora proboque dell’atto acratico, si traduce in un giudizio prima e poi di fatto in azione (deteriora sequor). Alla luce di ciò, ritengo di poter asserire che le azioni umane, anche quelle acratiche, così come le decisioni e volizioni, pur non essendo pienamente libere nel senso della libera necessità, esse tuttavia, in qualche modo, possono essere determinate da noi esseri umani. Le azioni sono causalmente determinate dall’esterno e sono al contempo determinate da noi, dall’interno, vale a dire dalle nostre credenze, i nostri pensieri e i nostri desideri (di qui l’affinità con gli Stoici). Quando questi desideri sono deboli, appetiamo debolmente e giungiamo ad agire in maniera acratica. Si può comprendere ora 227 meglio in che senso le cause delle azioni umane in Spinoza sono il risultato del determinismo causale ma sono anche determinate dai nostri poteri particolari, dall’interno. Esistono allora dei processi psicologici mediante cui è possibile per l’uomo determinare le proprie azioni a partire dalle quali promuovere la libertà e il raggiungimento del bene. A tal proposito, Kisner dedica un lungo capitolo alla deliberazione pratica in Spinoza, definendola un possibile intreccio di idee che spingono gli uomini ad agire, intreccio che conduce a far sì che le azioni umane ultime siano determinate dalle idee più forti142. L’uomo che delibera (per agire) sperimenta l’aumento o la diminuzione della propria potenza a seconda dell’interazione di idee adeguate e inadeguate. Durante il processo psicologico della deliberazione, interagiscono dunque idee adeguate e inadeguate, e come la deliberazione si sviluppa dipende dall’adeguatezza stessa delle idee. Per Kisner, infatti, se le idee sono adeguate, la deliberazione pratica si baserà su certe rappresentazioni che conducono l’uomo ad atti razionali. Al contrario, come ho mostrato nell’azione acratica, se le idee sono inadeguate la deliberazione pratica si baserà sull’immaginazione, a partire dalla quale l’agente agirà in modo irrazionale e dunque acratico. Se si delibera con le idee 142 Kisner (2011), pp. 179-197. 228 inadeguate, la deliberazione stessa è infatti basata su rappresentazioni meno certe che direzionano i nostri pensieri alla luce dell’opinione o dell’immaginazione, conducendoci ad atti meno benefici. In tal caso, i processi deliberativi mediante cui decidiamo le nostre azioni non sono razionali, altrettanto deboli saranno i responsi emozionali e come veniamo affetti dalle cause esterne. Per concludere, se (come suggerisce Kisner) la libertà umana rinvia inevitabilmente alla passività e alla possibile inadeguatezza umana, il giudizio o una deliberazione pratica corretta risiede in un buon equilibrio tra ragione e immaginazione. La ragione ci indica gli obiettivi generali, mentre l’immaginazione ha un ruolo strumentale nel raggiungerli. Siamo dunque liberi non solo perché obbediamo alle leggi pratiche della ragione, ma perché siamo in grado di negoziare situazioni pratiche sulla base di queste leggi, impiegando un tipo di saggezza pratica che include l’inadeguatezza delle idee. Di qui consegue la novità dell’interpretazione di Kisner, secondo cui la libertà in Spinoza è quella condizione essenziale entro cui l’uomo elabora la sua deliberazione pratica per l’azione. Alla luce di ciò, ritengo altrettanto nuova la possibile soluzione all’acrasia che attribuisco a Spinoza. Secondo una concezione terapeutica dell’etica e della libertà, l’acrasia è un fenomeno da tenere a freno, da moderare nella misura in cui è dato all’uomo dominare le sue passioni. L’uomo non può essere mai pienamente libero e dunque 229 è potenzialmente acratico. A partire invece dalla nozione di libertà e di deliberazione pratica di Kisner, l’acrasia non è tanto un fenomeno da evitare o tenere a freno. Non si possono rintracciare modi certi per uscire allora dall’impasse acratica, ma questa va solo accettata come tale. L’acrasia è una condizione radicata potenzialmente in ogni essere umano: piuttosto allora che cercare invano di sradicarla con la terapia delle passioni (tanto comunque necessariamente libero è solo Dio), è meglio accettarla. Alla luce dell’etica di Spinoza, il fatto di accettare l’acrasia come un fenomeno imprescindibile dell’essere umani non esclude la possibilità di tentare di migliorare, di cercare cioè di diventare sempre più immuni dall’acrasia e dunque più liberi. Una possibile arma contro l’acrasia potrebbe forse essere quella Fortitudo di EIII, P59 S, una sorta di fermezza d’animo. Spinoza allora anche nella possibile via d’uscita all’acrasia, che è poi accettazione dell’acrasia stessa, risulta originale. Diversamente dagli Stoici che delineano un modello di natura umana irraggiungibile per l’uomo, concesso al solo saggio stoico, Spinoza ci offre un percorso di libertà che è una specie di esperienza della mente, vale a dire di come la ragione si coniuga alle emozioni irrazionali degli esseri umani. Spinoza accetta il malore della passività umana, accetta le passioni, non estirpabili (come invece volevano gli Stoici), accetta la possibilità di atti irrazionali come l’acrasia. Così come non 230 vuole sradicare le passioni umane, Spinoza non vuole sradicare l’acrasia. Anzi, le passioni sono essenziali all’uomo perché gli forniscono un tipo di conoscenza importante per il ragionamento etico: la consapevolezza di come raggiungere la perfezione e la virtù. Le passioni indicano il grado della maggior o minore potenza e come siamo affetti dagli oggetti esterni. A partire da questo, è possibile sforzarci di diventare sempre più umanamente liberi, affermando il nostro individuale bene. Del resto, anche se per legge di natura si cerca il bene e si fugge il male (EIV, P19), ci formiamo i concetti di bene e di male in quanto non nasciamo liberi, ma possiamo diventarlo, umanamente parlando. Senza il male non può esistere il bene, perché bene e male per Spinoza sono correlativi (e male è la conoscenza inadeguata, EIV, P58 D). A tal proposito, Spinoza distingue l’uomo dominato solo dall’affetto e dall’opinione, come è l’agente acratico, da quello guidato dalla ragione. Nello scolio di EIV, P66, egli precisa che: “Quello, infatti (lo schiavo) vuole, non vuole e fa le cose che massimamente ignora; questo invece (l’uomo libero) non obbedisce ad altri che a sé stesso e fa soltanto quelle cose che ha imparato essere le più importanti nella vita e che perciò massimamente desidera; e perciò chiamo quello servo, questo invece libero, della cui indole e del cui modo di vita mi è gradito dire adesso poche cose”. La libertà umana possibile all’individuo è, dunque, equiparata alla vita 231 razionale: come suggerisce Emilia Giancotti Boscherini, “questa autonomia e indipendenza dell’uomo libero non toglie, tuttavia, il condizionamento ontologico al quale non può sottrarsi in quanto essere finito, ma la conoscenza razionale di cui è capace lo rende consapevole di questa sua condizione e, pertanto meno soggetto alle passioni”143. Per concludere, in quanto esseri finiti, giungiamo ad agire anche acraticamente e irrazionalmente, ma possiamo, mediante la ragione, cercare di diventare umanamente liberi per essere felici, se è vero che per Spinoza possiamo essere determinati dalla sola ragione a compiere tutte quelle azioni a cui siamo determinati da una passione o appetito (EIV, P59 D). Questa, in fondo, è la sfida all’acrasia, una sfida della nostra stessa vita per raggiungere quella tranquillità dell’animo di cui parla Spinoza, per mezzo della quale si giunge alla vera Beatitudine: “La Beatitudine non è premio alla virtù, ma la virtù stessa; né godiamo di essa perché teniamo a freno le libidini; ma al contrario, poiché godiamo di essa, possiamo tenere a freno le libidini” (EV, P42). L’umana potenza allora con cui si tengono a freno gli 143 Giancotti Boscherini (1993), p. 414, nota n. 66. La studiosa, inoltre, osserva che questa equiparazione di libertà e vita razionale era stata già fatta, incidentalmente, nello scolio della P54. 232 affetti consiste solo nell’intelletto. Così facendo, si giunge alla tranquillità dell’animo. “La via che ho mostrato condurre a questo, pur se appare molto difficile, può tuttavia essere trovata. E d’altra parte deve essere difficile, ciò che si trova così raramente. Ma tutte le cose eccellenti sono tanto difficili quanto rare” (EV, P42 S). 233 Riferimenti bibliografici 1. Sull’acrasia in generale Arpaly N. (2000), On acting rationally against one’s better judgement, in «Ethics», 110, pp. 488-513 Bennett J. (1974), The Conscience of Huckleberry Finn, in «Philosophy», 49, pp. 123-149 Bratman M. (1979), Practical reasoning and weakness of will, in «Nous», 13, pp. 153-171 Buss S. (1997), Weakness of Will, in «Pacific Philosophical Quarterly», 78, pp. 13-44 Charlton W. (1988), Weakness of will, Oxford Davidson D. 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