Video meliora, proboque, deteriora sequor: la nozione di

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Video meliora, proboque, deteriora sequor: la nozione di
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MACERATA
DIPARTIMENTO DI STUDI UMANISTICI
CORSO DI DOTTORATO DI RICERCA IN
STORIA DELLA FILOSOFIA
CICLO XXIV
TITOLO DELLA TESI
Video meliora, proboque, deteriora sequor:
la nozione di acrasia in Spinoza
TUTOR
DOTTORANDA
Chiar.mo Prof. Filippo Mignini
Dott.ssa Cristiana Lignini Zilioli
ANNO 2013
Occorre persuadere molta gente che anche lo studio è un mestiere, e molto faticoso:
è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo, la noia e anche la sofferenza.
Antonio Gramsci
A Ugo,
che domani sia ancora come oggi,
e per sempre
“Dunque tu chi sei?”
“Una parte di quella forza che vuole costantemente il Male e opera costantemente il Bene”
Goethe, Faust
Indice Prefazione
PARTE I: L’ACRASIA IN SPINOZA
Introduzione. Prolegomeni: archeologia di un’idea
1) L’argomento: etimologia e traduzione latina del termine akrasia
2) Una breve cornice iniziale degli studi sull’acrasia 3) Spinoza come lettore degli Stoici e di Aristotele
4) La struttura della tesi
Capitolo 1. Interpretazioni e problemi dell’acrasia in Spinoza
1) La recente interpretazione di Pinheiro
2) Gli studi di Lin e di Gagnon
3) L’interpretazione di Michael Della Rocca
4) Bennet sulla schiavitù
Capitolo 2. La nozione di acrasia nei testi di Spinoza
1) La presenza dell’acrasia nei testi: la citazione di Ovidio
2) L’acrasia e la fortuna
3) L’acrasia e la teoria degli affetti
4) L’acrasia e l’immaginazione
PARTE II: SPINOZA E I CLASSICI SULL’ACRASIA
Capitolo 3. Spinoza e i classici
1. Spinoza e i classici: le ragioni di un confronto
2. L’acrasia e il desiderio: Aristotele
3. L’acrasia e il giudizio sbagliato: gli Stoici
4. Spinoza, Aristotele e gli Stoici sull’acrasia: novità e prospettive
Capitolo 4. Tra desiderio ed ignoranza: l’originalità di Spinoza
1) L’acrasia nella storia del pensiero: modelli teorici a confronto
2) L’originalità di Spinoza sull’acrasia
3) La novità di Spinoza: l’acrasia, una debolezza dell’appetito
4) Tra impotenza e libertà: il fenomeno acratico
Conclusioni
Riferimenti bibliografici
1) Sull’acrasia in generale
2) Sull’acrasia in Spinoza: testi e studi
3) Sull’acrasia nei classici: testi e studi
4) Letteratura secondaria
Prefazione
“Se istruisci un bambino, avrai un uomo istruito. Se istruisci una
donna avrai una donna, una famiglia e una società istruita” (Rita Levi
Montalcini). E’ con questo pensiero di Rita Levi Montalcini (che qui
ricordo e che proprio in questi giorni è venuta a mancare) che apro la
mia prefazione alla tesi, proprio per sottolineare la fatica e l’impegno,
le difficoltà e gli ostacoli che ogni donna, in generale nel lavoro e in
particolare nello studio, è chiamata a vivere. Non ho mai avuto il
piacere di conoscere Rita Levi Montalcini di persona, ma ho avuto
l’onore di essere in contatto epistolare con lei, una volta, in occasione
di una richiesta, da parte mia, di riflessione sulla situazione
dell’istruzione delle donne africane, questione molto cara alla signora
Levi Montalcini. Una signora la cui dignità, intelligenza, forza e
umanità è d’esempio per ogni donna. Sebbene lei resti per chiunque
un modello irraggiungibile, quasi di perfezione, prendo spunto dalle
sue parole per ricordare qui che anche questa tesi è una storia di donna
ed è stata per me, per certi aspetti, una storia di fatica, di difficoltà, ma
di impegno e di forza al contempo.
Sin dall’inizio di questa ricerca, sovente mi sono chiesta
perché mai avessi voluto riprendere a studiare e avessi scelto proprio
questa tematica per confrontare Spinoza con i classici, l’acrasia, così
tanto dibattuta tra gli antichi e così negletta negli studi spinoziani
1 specialistici. Questi anni di dottorato, infatti, coincidono con il tempo
della famiglia, un tempo dedicato per lo più ai nostri due figli ancora
piccoli che stanno crescendo e che per di più sono home-schoolers,
vale a dire istruiti in casa da mio marito e da me. Sono stati anni di
spostamenti, di molti viaggi in Irlanda e nel Regno Unito, dove
abbiamo vissuto per lavoro, con un punto fermo in Italia, in Emilia.
Sono stati anni, in breve, dedicati, prioritariamente, ai bambini perché
questo era il loro tempo, e, come mi ricorda Enzo Bianchi, “ogni cosa
alla sua stagione”. Sono stati, dunque, anni molto belli, ma molto
intensi e impegnativi. Al ritorno da questi viaggi; dopo notti insonni
per le febbri alte di nostro figlio più piccolo; quando per i rumori della
quotidianità, in particolare, non riuscivo a studiare con la continuità e
la concentrazione necessarie; o quando, infine, mi sentivo combattuta
tra il desiderio di studiare e il dispiacere di dover sottrarre del tempo
ai nostri figli, ecco, in queste situazioni e molte altre ancora, spesso,
mi veniva da pensare, in maniera quasi ricorrente: “chi me l’ha fatto
fare!”
Solo oggi, che sono oramai alla fine, ho trovato la risposta al
mio ricorrente quesito ed è stato proprio Spinoza a suggerirmela.
Dopo tanti anni, non più sopraffatta dall’entusiasmo e dalla curiosità,
a tratti acritici, tipici della gioventù, rileggere l’Etica ha rappresentato
per me un’esperienza non solo dell’intelletto, ma anche di vita. Un
percorso di illuminazione e di libertà. Pochi filosofi riescono a segnare
2 anche un’esistenza, e Spinoza è tra questi. Al tempo d’oggi, un tempo
vale a dire caratterizzato dalla fretta, dalla corsa a chi pubblica di più e
dalle ambizioni accademiche, nonché dalla superficialità, pochi
studiosi riescono a leggere e studiare per il solo piacere di farlo. Ecco
io, grazie a Spinoza, ho scoperto la lettura filosofica per diletto e mi
sono riappropriata del tempo del silenzio, un tempo disteso e di agio,
che, unico, si affaccia su un orizzonte di pace.
L’aver ripreso, inoltre, in mano l’Etica (dopo molto tempo), mi
colpisce particolarmente anche per un’altra ragione, specie se ripenso
oggi a quanto accaduto nella mia esperienza di studentessa
universitaria. Durante l’esame sull’Etica di Spinoza, infatti, negli anni
dell’Università, il professore alla fine del colloquio mi chiese che cosa
mai volessi farne di quella conoscenza acquisita dell’etica di Spinoza,
ma a quel tempo io avevo già iniziato la mia tesi di laurea in filosofia
antica (incontrando così solo cronologicamente dopo, e per accidente,
Spinoza e il suo pensiero, anche se ricordo ancora il sottile dispiacere
che questo fatto, in verità, mi suscitò). Mi stupisce ancor di più, infine,
se ripenso che in questi anni, senza mai sapere perché, in tutti e nei
tanti spostamenti e traslochi che abbiamo avuto, ho sempre portato
con me una copia dell’Etica di Spinoza, nella bellissima traduzione di
Emilia Giancotti Boscherini. Sono felice, dunque, di essere riuscita a
trovare una risposta a questi ‘piccoli’ avvenimenti (personali) che si
3 sono succeduti, anche se il significato che ha l’Etica di Spinoza per
me è compendiato solo in minima parte in questa tesi.
Come scrive Giorgio Colli, “L’Etica richiede lettori non pigri,
discretamente dotati e soprattutto che abbiano molto tempo a loro
disposizione. Se le si concede tutto questo, in cambio offre molto di
più di quello che ci si può ragionevolmente attendere da un libro:
svela l’enigma di questa nostra vita, e indica la via della felicità, due
doni che nessuno può disprezzare”. Non penso di essere stata una
lettrice pigra di Spinoza; penso di essere discretamente dotata e forse
non ho avuto sempre a mia disposizione il tempo che avrei voluto, ma
tutto quello che mi è stato dato è, in breve, troppo bello per essere
riferito e, del resto, “tutte le cose eccellenti sono tanto difficili quanto
rare”. “L’Etica ha la fermezza di un tempio, in un paesaggio
disabitato: se sapremo contemplarlo, penetrare devoti nel suo interno,
conosceremo il divino” (G. Colli).
Con questa prefazione intendo così, in particolare, esprimere la
mia gratitudine ad alcune persone, per essere riuscita, anche grazie a
loro, a svolgere questo lavoro e scrivere la tesi.
Accademicamente, ringrazio Filippo Mignini, in qualità di mio
tutor, per avermi lasciata libera di proseguire una ricerca che, sin
dall’inizio, poteva destare qualche perplessità, dato lo stato degli studi
spinoziani sull’acrasia da parte di specialisti italiani. Non posso non
ringraziare, inoltre, all’interno del Dipartimento di Studi Umanistici di
4 Macerata, Marcello La Matina, per essere stato l’unico a mostrarsi
interessato ad un nuovo approccio a Spinoza, non diffuso in Italia,
approccio che risente in maniera decisiva dei fiorenti studi spinoziani
prodotti in ambito anglosassone da filosofi analitici (è bene qui
precisare che intendo con analitico non una tradizione che si riconosce
in alcuni principi filosofici, ma quell’ambito di pensiero che mira
principalmente alla chiarezza espositiva e al dettaglio argomentativo).
La sua curiosità per il mio lavoro mi ha molto colpita e resa felice.
Filosoficamente parlando, ringrazio Chris Gill: i suoi studi, le
sue idee e il suo stile, oggi come allora, sono per me punti di
riferimento notevoli. Ringrazio anche Christopher Rowe, filosofo e
amico, per i suggerimenti che mi ha dato. Ringrazio, infine, Terry
Penner, un filosofo americano e una grande mente, per aver orientato
meglio i miei argomenti sull’acrasia in Spinoza.
A livello personale, ringrazio di cuore la Dott.ssa S&B, che mi
ha insegnato quanto sia essenziale ed importante nell’etica della vita
la chiarezza della mente, così come la chiarezza di parole e di atti. Un
grazie va anche a Cristina e al Dott. M&M che, con tatto e
delicatezza, mi hanno aiutata in un momento di difficoltà e di fatica
che ho attraversato in questi anni. Grazie a loro ho ritrovato l’energia
necessaria per superarlo.
Tra le persone amiche, ringrazio Milena Marzialetti, mia amica
da sempre, che mi ha aiutata nella traduzione dal francese di molti
5 articoli su Spinoza, specie all’inizio della mia ricerca, quando ero
ancora nelle Marche. Un grazie va anche ai miei nuovi amici emiliani:
a Margherita, sempre piena di vita, per aver illuminato con i suoi
sorrisi contagiosi il mio primo tempo in questa terra. A Giovanni e sua
moglie Vincenza: li ringrazio perché con la loro giovialità mi hanno
accolta con calore, facendomi sentire subito a casa. Ringrazio, infine,
Tina, la cui amicizia e saggezza sono per me sempre fonte di serenità,
specie quando lo sconforto prendeva il sopravvento.
Un grazie generico va invece all’Emilia, in quanto regione
geografica, dove ho trascorso serenamente il periodo finale di
dottorato: a questa terra di nebbie e di eccessi (freddo d’inverno e afa
d’estate), ma anche terra di pianura e di libertà, in cui gli orizzonti si
perdono lontano.
Un grazie pieno d’amore e particolare va ai miei due figli, Zoe
e Delio, con l’augurio che possano essere sempre liberi e felici come
sono oggi. Grazie al loro amore e alla loro attenzione ho potuto
sempre contare sulla loro comprensione, sia quando mia figlia, otto
anni, mi diceva di fare una pausa perché ero stravolta, sia quando mio
figlio più piccolo, sei anni, facendo sorridere tutti noi, e in maniera più
commovente (iniziando da poco ad esercitare la sua calligrafia), mi
scriveva: “Cara mamma, so che ti manca poco per finire la tesi di
Spinoza, e comunque tu per me sei più importante di lui”.
6 Un grazie, finale, ma primo in sé, va a mio marito Ugo. La sua
cura per me, la dedizione e l’attenzione nei miei confronti, mi
commuovono ogni giorno. Lo ringrazio anche per il sostegno concreto
che ha dato alla mia tesi: con lui ho discusso e confrontato tutte le idee
centrali del lavoro, essendo egli un giudice severo; da lui ho imparato
molto. Mi ha insegnato, in particolare, a guardare le cose della
filosofia in maniera non conformista. Come egli ricorda nel suo ultimo
libro, citando Lenin, per raddrizzare un ferro storto bisogna torcerlo
completamente dalla parte opposta. Grazie a lui, ho imparato allora,
nei fatti, quanto Spinoza mi ha rammentato, nell’intelletto, ho
imparato cioè a far filosofia divertendomi.
Per queste ragioni allora, e per molte altre ancora, a lui soltanto
dedico questa tesi con molto amore, perché domani sia ancora come
oggi, e per sempre.
7 PARTE I
L’ACRASIA IN SPNOZA
Sed omnia praeclara tam difficilia, quam rara sunt
“Ma tutte le cose eccellenti sono tanto difficili quanto rare”
Spinoza, Etica P 42 S
8 Introduzione
Prolegomeni: archeologia di un’idea
1. L’argomento: etimologia e traduzione latina del termine ‘akrasia’
Ogni ricerca, in genere, muove da una domanda di fondo che l’avvia e
che costituisce l’oggetto stesso dell’indagine. La ricerca delle risposte
al quesito o interrogativi iniziali può rappresentare, in un certo qual
modo, la traccia, lo schema che guida e orienta il lavoro. Per quello
che concerne questa mia ricerca, in particolare, il quesito iniziale che
mi sono posta riguarda la possibile definizione della nozione di
acrasia in Spinoza. Che cosa s’intende per acrasia nella filosofia
spinoziana? E’ possibile darne una definizione chiara? Come si
caratterizza l’acrasia e quali sono i presupposti, le possibili cause del
fenomeno acratico? Perché la necessità di confrontare Spinoza con i
classici sull’acrasia? Infine, all’interno del dibattito che c’è stato e che
è ancora in corso, per lo più in ambito anglosassone, dove e come
s’inserisce il mio lavoro? Questi, in breve, sono gli interrogativi di
fondo da cui sono partita.
Prima, tuttavia, di introdurre l’argomento in Spinoza,
precisando la struttura di questa ricerca, trovo utile soffermarmi
9 sull’acrasia in generale. Così facendo, cerco di chiarire, in primo
luogo, l’etimologia e la possibile traduzione del termine ‘akrasia’.
Secondariamente, intendo fornire il lettore di una cornice sintetica dei
possibili modelli interpretativi che si sono succeduti nella storia del
pensiero filosofico circa il fenomeno acratico, a partire dalla filosofia
greca fino ai giorni nostri, cornice entro cui collocare la nozione
spinoziana di acrasia, per mostrarne in particolare tutta la sua
originalità.
Con il termine ‘acrasia’ si può intendere, in genere, quella
debolezza, disposizione o condizione dell’individuo secondo cui un
uomo è portato ad agire contro il proprio miglior giudizio. Essa è una
forma di mancanza di autocontrollo, caratterizzata da un forte
conflitto tra un giudizio circa il meglio o il bene di un individuo e
l’azione verso il peggio1. Il corso d’azione seguito si oppone al
giudizio migliore che si è precedentemente formulato circa il da farsi.
L’acratico così, incapace di dominarsi, non è in grado di orientare la
propria azione verso il meglio e, pur vedendo ed approvando il
meglio, egli seguirà tuttavia il peggio. L’acrasia presuppone un
conflitto, in breve, tra giudizio, desiderio ed azione, strettamente
intesa.
1
Si veda akrasia nel The Greek Philosophical Vocabulary, a cura di J.O.
Urmson (1990), pp. 17-18.
10 Etimologicamente parlando, il termine akrasia ha una doppia e
possibile derivazione. Nella lingua greca esistono, infatti, due termini
di akrasia, uno con l’alfa breve e l’altro con l’alfa lunga: akrasia o
akrâsia. Akrasia con l’alfa breve deriva dall’unione dell’alfa negativo
con il termine kratos (da krateo) da cui l’aggettivo a-kratês, da akratos, mancanza di forza, potere, dominio, da cui si deduce il
significato più noto di akrasia come debolezza, mancanza di
autocontrollo, incontinenza o intemperanza. L’aggettivo enkratês,
opposto ad akratês, viene riferito all’individuo appunto forte, padrone
di sé e in quanto tale non acratico. Il termine, invece, akrâsia con
l’alfa lunga può derivare anche dall’unione di alfa negativo e il verbo
kerannumi (da cui krasis) che vuol dire mescolare, mescere vino,
riferito alle bevande, da cui l’aggettivo akrâtos, cioè non mescolato o
mal temperato. In riferimento alle persone questa seconda accezione
di akrâsia significherebbe eccessivo, violento, non temperato, un po’
come il vino puro quando è troppo forte e non mescolato2. L’uso
2
Liddel & Scott (1996), circa l’uso di akratos con l’alfa lunga. Si veda
anche il vocabolario della lingua greca, GI, di Franco Montanari circa il
significato traslato dell’aggettivo akratos (con la lunga) inteso come
eccessivo, violento. Circa, infine, la radice kra con l’alfa lunga, consultando
il dizionario etimologico della lingua greca, Chantraine, vengono segnalati
dei studi di approfondimento quali: Van Groningen (1965), Ermeneus; Den
Dulk (1934), Krasis, Bijohage tot de Grieksche Lexicographia.
11 dell’aggettivo akrâtos con l’alfa lunga è attestato, ad esempio in
Eschilo (Prometeo incatenato 678) e in Aristotele (Retorica III,
1406a10), mentre non è attestato il sostantivo akrâsia con la lunga. A
partire da Aristotele si è così tecnicizzato l’uso di akrasia con l’alfa
breve, con il significato che ancora oggi ha di acrasia come debolezza,
mancanza di autocontrollo, incontinenza3.
Nei testi spinoziani, ovviamente non ritroviamo il termine
greco akrasia, dal momento che Spinoza scrive in latino (o comunque
in una lingua altra dal Greco antico, che, pare, egli ammirasse per
eleganza e capacità espositiva: TTP, X). Il lemma ‘akrasia’ e affini
non compare mai all’interno del corpus spinoziano. Come ipotesi di
lavoro, nata da un vaglio attento dei testi, ho assunto che in Spinoza il
termine latino che può essere concettualmente più vicino al greco
3
Sarebbe interessante capire se le due etimologie di akrasia corrispondano
ai due significati di akrasia presenti in Aristotele, per ‘debolezza del
desiderio’ e ‘per precipitazione’ o ‘impetuosità’, ma alla luce di indicazioni
ricevute in tal senso, non esistono attestazioni a partire dalle quali sia
possibile sostenere questa corrispondenza. A tal proposito, ringrazio per i
loro suggerimenti, Simonetta Nannini, professoressa all’università di
Bologna di letteratura greca e Christopher Rowe, professore di Greco a
Durham, e noto studioso del pensiero antico.
12 ‘akrasia’ sia quello di ‘impotentia’ (così come ‘akratês’ potrebbe
essere reso con ‘impotens’)4.
A partire dagli Stoici, infatti, non esiste più una distinzione
concettuale e terminologica tra akrasia e akolasia, tra acrasia e
intemperanza, così come essa è presente in Aristotele. Come
spiegherò a fondo nel terzo capitolo, per gli Stoici tutti i tipi di pathos
rinviano ad un certo tipo di acrasia, per cui coloro che provano delle
emozioni sono tutti possibili e potenziali vittime di acrasia. Tutte le
passioni,
all’acrasia
intemperanza
stessa.
compresa,
Questo
sono
spiegherebbe
riconducibili
anche
pertanto
l’oscillazione
ciceroniana dell’uso di intemperantia o impotentia indifferentemente
per definire l’acrasia. Occorrerà poi stabilire se l’acrasia e
l’impotentia, pur rimandando apparentemente a fenomeni diversi, non
siano in realtà due concetti sovrapponibili, o addirittura isomorfi;
oppure, se ci sia uno scarto concettuale tra le due idee, in modo tale
che non tutti i casi di impotentia siano esempi di atti acratici. In
4
Sul termine ‘impotens’ (o la sua variante ‘inpotens’) come equivalente
latino di akratês, si veda Cicerone, Le Tusculane; Seneca, De ira II.4.1,
secondo i quali gli acratici sono impotenti. A tal proposito, si veda, Gill
(2006).
13 quest’ultimo caso, l’acrasia risulterebbe essere solo un tipo di
impotentia, ovvero un difetto della potentia5.
2. Una breve cornice iniziale degli studi sull’acrasia
Ritornando al tema dell’acrasia più in generale, essa è una questione
molto studiata da sempre, sin dai filosofi greci, e ancora oggi suscita
molti dibattiti. Nel corso del lavoro spiegherò più analiticamente le
diverse interpretazioni che sono state formulate sull’acrasia, specie in
relazione a Spinoza. A livello introduttivo, mi limito qui a ricordare
che nell’antica Grecia sono stati teorizzati due modelli interpretativi di
acrasia, con delle varianti significative: il modello elaborato da
Socrate e una seconda teoria formulata da Platone6. A partire da
5
Mi dilungo su questa affinità linguistica e concettuale tra i termini akrasia
e impotentia nel capitolo conclusivo.
6
Per un’introduzione generale del dibattito antico sull’acrasia, si veda
Bobonich-Destrée (2007), sulla nozione di akrasia nella filosofia greca da
Socrate e Plotino. Interessanti sono gli studi di White (2002) sull’individuo e
la natura del conflitto nell’etica greca; e di Price (1995) sul conflitto mentale
e più di recente Price (2011) sull’acrasia nel mondo greco. Sempre
fondamentali restano gli studi di Wiggins (1979). Per una panoramica ancora
14 queste due interpretazioni, al loro interno, possono essere inserite le
posizioni filosofiche di Aristotele e degli Stoici sull’acrasia, che
riprendono quella platonica il primo, quella socratica i secondi.
Entrambi questi modelli sono stati un faro filosofico anche per
i pensatori successivi che si sono occupati di acrasia7. Tra questi,
Hare, che, mutuando da Socrate la spiegazione del fenomeno acratico,
nega la possibilità stessa dell’acrasia. L’acrasia per Hare non esiste
come caso di debolezza della volontà, ma solo come possibile caso di
ignoranza, per cui lo studioso di fatto la nega: non è possibile che
più ampia che parte dal mondo classico e giunge sino al presente, si veda
Hoffmann (2008) sull’acrasia da Platone ai giorni nostri.
7
Per un’introduzione generale degli studi contemporanei sull’acrasia, si
veda la voce ‘weakness of will’ nella Stanford Encyclopedia of Philosophy al
seguente
indirizzo:
http://plato.stanford.edu/entries/weakness-will/.
Si
vedano, inoltre, in particolare gli studi di: Mortimore (1971) come sintesi
delle posizioni classiche e contemporanee sull’acrasia. Si vedano inoltre:
Buss (1997) e Charlton (1988). Utile a tal proposito, anche la panoramica
molto approfondita degli studi contemporanei sul free will presente in Kane
(2002), dove il free will viene trattato in relazione all’acrasia nella teologia,
all’interno della metafisica determinista e indeterminista, in relazione
all’etica e alle neuroscienze.
15 qualcuno faccia consapevolmente il male8. Davidson, al contrario,
ammette l’acrasia ma come un possibile conflitto tra desideri più o
meno razionali9. Tralasciando le soluzioni internaliste ed esternaliste
dell’acrasia formulate in epoca contemporanea10, dopo Davidson il
dibattito prosegue con filosofi del calibro di Bennett e McIntyre il
quale, in particolare, ritiene l’acrasia come potenzialmente razionale e
non un atto puramente irrazionale11. Holton, infine, introduce un
nuovo elemento di riflessione nel dibattito contemporaneo, ritenendo
l’acrasia come un possibile caso di azione non contro il proprio
miglior giudizio, bensì contro le intenzioni12.
A partire da questa cornice sommaria delle posizioni
filosofiche sull’acrasia, la spiegazione di Spinoza, come chiarirò
meglio nel prosieguo della tesi, emerge nuova e originale. Più in
particolare, la questione dell’acrasia risulta poco nota tra gli spinozisti,
o forse solo meno studiata rispetto invece al tema dell’impotentia o
8
R.M. Hare (2001) sulla debolezza della volontà e Hare (1963) sulla libertà
e la ragione.
9
Davidson (1969) sulla debolezza della volontà e Davidson (1982) sui
paradossi d’irrazionalità in Davidson (2006).
10
Bratman (1979); Tenenbaum (1999); Stroud (2003). Si veda anche Mele
(1987) e (1991).
11
McIntyre (1990); Bennett (1974). Si veda anche Arpaly (2000).
12
Holton (1999).
16 schiavitù, che è invece più conosciuto tra gli studiosi, in particolare
per la sua centralità nelle teorie etico-politiche di Spinoza13. Come
risulterà dal prossimo e primo capitolo, solo a partire dal 1984
spinozisti del calibro di Bennet, Nadler e Della Rocca e, più
recentemente,
Gagnon,
Lin
e
Pinheiro
si
sono
dedicati
specificatamente all’esame del problema dell’acrasia in Spinoza, con
risvolti interessanti. Mai sino ad ora però si è cercato di approfondire
la strada che conduce a collegare la nozione di schiavitù (impotentia)
a quella di acrasia. Solo Pinheiro ha tentato di spingersi sino a qui,
giungendo a parlare di una possibile identificazione (o quanto meno di
una riduzione concettuale) del fenomeno di schiavitù-impotentia a
quello dell’acrasia—anche se di recente ha in parte rivisto la sua
posizione e mostrato più cautela. Nel suo primo studio sull’acrasia in
Spinoza, Pinheiro riteneva infatti che tutte le forme di schiavitùimpotentia fossero riducibili all’acrasia. Più recentemente, in una
comunicazione personale per posta elettronica egli ha rivisto le sue
tesi, pur ribadendo che l’impotentia o la schiavitù eticamente rilevante
per Spinoza sia pur sempre l’acrasia.
13
James (2009) in The Cambridge Companion to Spinoza’s Ethics a cura di
Olli Koistinen. Susan James in particolare collega Spinoza a Platone circa la
concezione politica della schiavitù.
17 Più in generale, tuttavia, esiste una sorta di “scetticismo”
diffuso tra gli studiosi di Spinoza, almeno tra quelli di tradizione
continentale, circa l’effettiva presenza dell’acrasia in un sistema
filosofico come quello spinoziano, dove tutto ciò che esiste e agisce,
esiste e agisce necessariamente. In natura per Spinoza non è ammessa
nessuna forma d’ imperfezione in genere, nessun tipo di male. Così
dicendo, come e perché un uomo giunge a seguire acraticamente un
male che, in sé, sembra non esser neppure ammesso da Spinoza e dal
suo razionalismo? Nell’Appendice alla I parte dell’Etica, egli ricorda
che tutte le cose della natura procedono con necessità e con somma
perfezione. Come sarà possibile allora asserire e spiegare l’acrasia in
Spinoza? Questo interrogativo, che a prima vista può apparire come
una difficoltà insormontabile, in verità viene raccolto in questa
indagine come una sfida non solo possibile, ma filosoficamente
fruttuosa.
Come mostrerò nel prosieguo del lavoro, la possibilità per
l’uomo spinoziano di agire acraticamente non si spiega solo alla luce
del fatto che egli può essere in balìa della fortuna. Quasi costretto
dall’esterno, dalla fortuna, egli si agita in molti modi fluttuando in
direzioni opposte, inconsapevole del suo destino, come le onde del
mare spinte da venti contrari (EIII P17 S; EIII P59 S). L’uomo
spinoziano agisce acraticamente anche alla luce della teoria
dell’affettività umana più in generale, che Spinoza elabora. Più in
18 particolare, l’uomo è acratico anche per la natura del proprio desiderio
e della sua possibile debolezza; a causa del rapporto conflittuale tra
appetiti opposti; per il rapporto, infine, problematico esistente tra
credenza (o giudizio), emozioni (o desideri) ed azione, vale a dire per
la conseguente e possibile determinazione del desiderio nei confronti
del giudizio.
Anticipo che la nozione spinoziana di acrasia risulterà nuova e
originale, specie se vista in controluce con i classici. Confrontare,
dunque, Spinoza con i classici sull’acrasia sarà inevitabile, così come
chiarire ora, qui di seguito, la modalità e le ragioni del perché ritengo
essenziale farlo.
3. Spinoza come lettore degli Stoici e di Aristotele
Confrontare Spinoza con i classici sull’acrasia sarà essenziale non
solo per far risaltare l’originalità della risposta di Spinoza al fenomeno
acratico, ma il farlo è di per sé un tentativo originale, che non è stato
ancora intrapreso, almeno in maniera così sistematica. I vari studiosi
che si sono occupati di acrasia in Spinoza, per lo più, si sono
concentrati sulla teoria morale o la teoria dell’azione, facendo qualche
accenno ai pensatori classici. Nessuno, a mio giudizio, ha mai cercato
19 di esaminare in dettaglio i testi di Spinoza alla luce delle possibili
analogie con i classici sull’acrasia.
Mi preme, inoltre, sottolineare il fatto che Spinoza ha letto ed
utilizzato i classici non per un mero intento storico o erudito, ma alla
pari di un grande filosofo, quale lui è stato, per corroborare e
rafforzare meglio le fondamenta del suo sistema. I classici, infine,
prima di Spinoza, sono stati coloro che più di tutti hanno discusso
ampiamente e costantemente nel tempo di acrasia, formulando i
principali modelli teorici di riferimento ancora oggi.
Circa l’acrasia, ritengo utile confrontare in particolare la
nozione spinoziana con quella stoica (acrasia come giudizio sbagliato)
e con quella aristotelica (acrasia come debolezza di volontà), per
ragioni che risulteranno più chiare dopo. Mi limito qui a riferire
alcune questioni metodologiche, vale a dire a spiegare come e quali
testi classici possano essere utili in riferimento a Spinoza. Perché mi
rivolgo agli Stoici e perché e ad Aristotele?
Circa gli Stoici, è assodato che Spinoza li abbia letti e in
qualche modo abbia potuto sentirne l’influenza14. Tuttavia, io
preferisco parlare di affinità, più che di influenza circa l’acrasia. Non
14
Circa il rapporto di Spinoza con lo stoicismo, si vedano i contributi di: S.
von Dunin-Borkowski (1933-1936), vol. III, pp. 45 ss.; A. Akkerman
(1980); P.O. Kristeller (1984); R. Schottlaender (1986). Si veda infine J.
Miller (2009).
20 intendo infatti dimostrare (né voglio farlo), che Spinoza abbia subito
l’influenza dello stoicismo, né quanto di stoico (o anche di
aristotelico) vi sia nel suo pensiero. Spinoza è e resta un pensatore, a
mio avviso, troppo originale. Penso invece che sia più ragionevole
procedere per polarità ed analogie concettuali, a partire dalle quali
sarà possibile rileggere i testi spinoziani alla luce di possibili affinità
con le teorie degli Stoici e di Aristotele sull’acrasia (che è poi un
modo di rileggere gli stessi classici greci alla luce di Spinoza)15. Non
intendo allora mostrare quanto di stoico o di aristotelico vi sia in
Spinoza circa l’acrasia, bensì confrontarlo con i classici per far
emergere l’originalità della posizione spinoziana in tutta la sua novità.
Ritornando agli Stoici, nella biblioteca di Spinoza sono
presenti l’edizione latina delle Lettere a Lucilio di Seneca a cura di
Giusto Lipsio (1649); così come una versione olandese del De Brieven
van Seneca. Troviamo pure una ristampa parziale dell’edizione di
Basilea delle opere di Epitteto, curata da Wolf (1560). Spinoza
conosceva anche lo stoicismo greco, mediante quegli autori che erano
patrimonio intellettuale del suo tempo, come Cicerone, Epitteto,
Plutarco (nei suoi scritti contro gli Stoici) e Seneca16. Egli dunque
15
Si veda, come esempio di tale approccio, mediante cioè analogie e
polarità, il famosissimo studio di G.E.R. Lloyd (1966 la prima
pubblicazione, molte volte ristampato).
16
Bodei (2003), p. 182 n. 3.
21 conosceva senza dubbio Cicerone e Seneca che, come vedremo, sono
fonti importanti per ricostruire il problema stoico dell’acrasia, specie
in Crisippo. A tal proposito, risulteranno essenziali in particolare sia il
De ira di Seneca che Le Tusculane di Cicerone.
Non esiste una discussione sistematica da parte degli studiosi
contemporanei circa la nozione stoica di acrasia (così come invece
accade per Aristotele); tuttavia, la critica recente ha riportato alla luce
la questione, rivalutandola e apprezzandola filosoficamente. Il merito
va senza dubbio agli studi sullo stoicismo di Christopher Gill e a Teun
Tieleman che ha ricostruito, tradotto e commentato una parte
fondamentale di un’opera di Crisippo, Sulle passioni, integrando
notevolmente l’edizione che Hans von Arnim fece in appendice ai
suoi Stoicorum Veterum Fragmenta (SVF). Tornerò, più chiaramente
e lungamente, su questo nel terzo capitolo.
Per quanto invece concerne la lettura di Aristotele da parte di
Spinoza, la questione è ben più problematica, rispetto al fatto che
Spinoza sia stato un lettore degli Stoici. In particolare, in questo
lavoro, riguardo alle opere aristoteliche, mi riferisco all’edizione
latina delle opere di Aristotele (Basilea 1548), presente nella
biblioteca spinoziana e tradotta e annotata da Filippo Melantone,
definito da Spinoza stesso “uomo accorto amante della verità”
(Epistola n.69 Mignini = LIII G). Prima di elencare i testi di Aristotele
utili al fine di definire la nozione aristotelica di acrasia (che tratterò
22 più analiticamente nel corso del lavoro), premetto alcune precisazioni
importanti. All’inizio di questo mio dottorato, prima di scegliere il
tema dell’acrasia in Spinoza come oggetto d’indagine specifica, ho
speso molto tempo nella ricerca e nell’approfondimento della
possibile presenza delle teorie di Aristotele nella filosofia spinoziana,
specie alla luce dell’edizione di Melantone. Non posso dilungarmi su
questo qui, oltremodo, perché mi allontanerei troppo dallo scopo
introduttivo di questa trattazione, ma mi limito a riferire alcune
riflessioni svolte e risultati conseguiti, utili ai fini della mia attuale
ricerca17.
Per quanto riguarda la possibilità che Spinoza sia stato un
lettore di Aristotele, è bene precisare alcune questioni. La prima
riguarda proprio la presenza “diretta” e “indiretta” di Aristotele “in
Spinoza” o “a Spinoza”. Con “diretto” intendo, infatti, una lettura di
17
Rammento tuttavia, in nota, la fatica, e il piacere, per essere riuscita a
consultare non tanto l’edizione di Melantone (che ho ovviamente in casa,
riprodotta in maniera digitale), ma per aver potuto controllare anche le due
edizioni precedenti quella di Melantone, nel tentativo di comprendere quale
edizione dal greco Melantone avesse mai potuto tradurre: l’editio princeps
aldina in 5 volumi del 1495-98 (presente alla Palatina di Parma) e l’edizione
successiva, uscita a Basilea nel 1531 e curata da Erasmo da Rotterdam
(presente al Centro Apice di Milano).
23 prima mano delle opere di Aristotele (EM, edizione di Melantone) da
parte di Spinoza a partire dalla quale possiamo asserire che Aristotele
sia presente “in Spinoza”. Con “indiretto”, invece, intendo una lettura
di seconda mano, indiretta, che Spinoza ha potuto svolgere attraverso
la tradizione scolastica, arrabo-giudaica e rinascimentale, a partire
dalla quale Aristotele è presente “a Spinoza”. Terminologicamente
parlando, vanno invece diversamente intesi i rinvii “diretti” e
“indiretti” ad Aristotele, presenti nei testi spinoziani. Lo Stagirita
infatti, dopo Cartesio, è senza alcun dubbio l’autore più citato da
Spinoza: in 11 occorrenze del corpus spinoziano Aristotele viene
esplicitamente nominato, in maniera dunque diretta; indirettamente
inoltre Spinoza richiama spesso teorie aristoteliche, non fosse altro
che per criticarle. Un rinvio, tuttavia, diretto non coincide
necessariamente con una lettura “diretta”, di prima mano; così come
un rinvio “indiretto” non la esclude18.
Di qui deriva la seconda precisazione che intendo fare. Alla
luce di quanto detto, riguardo la possibile lettura da parte di Spinoza
di Aristotele, occorre distinguere, terminologicamente, l’uso di
“Aristotele”,
“aristotelismo”,
“aristotelismi”.
Con
il
termine
“aristotelismo” intendo, in generale, una vasta conoscenza indiretta
18
Circa i rinvii diretti, le 11 occorrenze sono: BT I, 6; II, 3 n.2; II, 17; CM I,
1; II, 6; TTP Pref.; 1, 5, 7, 13; Epistola n.72.
24 che Spinoza aveva della tradizione aristotelica successiva, sia quella
arabo-giudaica che quella scolastica. L’Aristotele, dunque, presente “a
Spinoza”. Con il termine, invece, “aristotelismi” intendo distinguere
quattro momenti storici differenti dell’aristotelismo stesso19. Con il
nome “Aristotele” mi riferisco alla filosofia dello Stagirita che
Spinoza ha potuto conoscere direttamente di prima mano tramite
l’edizione di Melantone. L’Aristotele presente “in Spinoza”. Se uno
dei problemi dello spinozismo sembrava, infatti, essere il fatto che
Spinoza, pur conoscendo e utilizzando la filosofia aristotelica “con
una certa larghezza”, richiami spesso l’Aristotele delle tradizioni
arabo-giudaiche e quelle scolastiche, precisando qui l’uso che intendo
fare del nome “Aristotele”, mi propongo proprio di chiarire e
19
I quattro momenti storici dell’aristotelismo sono: l’aristotelismo antico;
quello arabo-ebraico; quello del Medioevo (edizione di Lohr); e infine
l’aristotelismo del Rinascimento. Per “aristotelismi” intendo così una
differenziazione solo temporale dell’aristotelismo stesso. Bisogna tuttavia
osservare che l’aristotelismo rinascimentale è molto diverso da quello
medievale, è antiplatonico e antiscolastico. A tal proposito, si vedano gli
studi di Schmitt (1985), pp. 16-17; Franceschini (1957); Garin (1950). Più
recentemente, Piro (2007).
25 distinguere le varie e diverse possibilità. Come suggerisce Koyré,
l’aristotelismo del Medioevo non era quello di Aristotele20.
A sostegno, infine, della possibile lettura di prima mano che
Spinoza ha potuto svolgere, a mio avviso, di Aristotele nell’edizione
latina (Melantone) che egli possedeva, mi pare importante far presente
alcune questioni riguardanti la stessa edizione latina delle opere
aristoteliche in esame. Un errore, oggi significativo, che Spinoza
sembra aver commesso, ha condotto alcuni studiosi a ritenere con
certezza che Spinoza ha utilizzato l’edizione di Melantone per leggere
Aristotele. Non posso approfondire il significato di questo errore, né
dilungarmi sulla storia dell’edizione in questione, ma ricordo che si
tratterebbe di un errore di citazione.
Nel capitolo 6 delle Riflessioni Metafisiche, citando due opere
di Aristotele, il Sulla Respirazione e la Metafisica, Spinoza avrebbe
citato Meth. XI, 7 al posto di Meth. XII, 7. Gli studiosi oggi sono
concordi nel ritenere che non sia Spinoza a sbagliare, come fosse uno
studente sprovveduto che copia male un riferimento (magari di
seconda mano); al contrario Spinoza sta citando la pagina di
riferimento che ha sotto gli occhi, vale a dire quella di Melantone21.
20
Koyré (2002). Si veda Semerari (1952), pp. 21-22 circa il problema dello
spinozismo in relazione ad Aristotele.
21
La Metafisica nell’edizione di Melantone omette completamente il libro
XII, non nel contenuto, solo nell’intestazione della pagina in alto. Dal libro
26 Questa pagina (467 del terzo tomo – volume 2 EM, Basilea, linee 1420) corrisponde al passo in questione di Meth. XII, 7, ma contiene
l’errore nella citazione nel margine alto della pagina, in cui si legge
Meth. XI, 7. Già Bruno Widmar, nel 1970, e Frédéric Manzini, in un
suo noto studio recente su Aristotele e Spinoza (2009), hanno
approfondito e argomentato a favore di quanto ho poc’anzi sostenuto
circa Spinoza e l’Aristotele dell’edizione di Melantone22.
Di recente, infatti, grazie agli studi di Manzini, è stata
rivalutata quest’edizione di Melantone, altrimenti trascurata. Per un
lungo periodo purtroppo si era erroneamente confusa l’opera in
XI passa al libro XIII, così che l’intestazione del libro XI serve ad indicare
sia il libro XI che il XII. Sfogliandola, inoltre, con attenzione ho individuato
anche altri errori di intestazione.
22
Manzini (2009) ha controllato altre edizioni di Melantone in cui questo
errore è presente: una copia in Francia; la copia presso la Bodleiana di
Oxford; la copia a Basilea; e, grazie ad un controllo svolto da P.
Steenbakkers, anche la copia posseduta a Utrecht. Da parte mia, aggiungerei
le due copie che ho controllato in Italia, vale a dire quella presso la
Planettiana di Jesi e la copia posseduta dalla Palatina di Parma. Manzini,
inoltre, approfondisce anche il riferimento al passo del De Respiratione
(Sulla Respirazione), mostrando come Spinoza si riferisca ad esso, passo
contenuto proprio nell’edizione di Melantone. Per altri studi più generali su
Spinoza ed Aristotele, si vedano: Guttmann (1912); Hamelin (1900).
27 questione con l’Ars Retorica di Pietro Vettori. Solo nel 1899
Freudenthal segnalò l’edizione di Melantone, e più tardi Dunin
Borkowski aggiunse che si trattava di un’edizione che circolava al
tempo di Spinoza destinata per lo più agli studenti, cosa che io stessa
ho potuto verificare dal momento che molti testi aristotelici non
vengono tradotti dal greco da Melantone alla lettera, ma vengono
spesso solo riassunti23.
Alla luce, infine, di un articolo di Filippo Mignini sulla
distinzione del metodo speculativo da quello storico-critico, è
possibile stabilire dei criteri oggettivi per l’identificazione di una
possibile fonte dello spinozismo24. Rebus sic stantibus, posso
ragionevolmente asserire che l’edizione latina delle opere aristoteliche
di Melantone è una possibile fonte del pensiero spinoziano. Le opere
di Aristotele sono contenute infatti nell’elenco dei testi facenti parte
della biblioteca spinoziana e sono scritte in latino. Come è stato
precisato già, Spinoza segnala e richiama spesso, in maniera diretta ed
23
Nell’inventario redatto da Servaas van Rooijen (1888), p. 127, troviamo al
n. 12 l’edizione di Melantone con la seguente citazione: Aristoteles 1548 vol.
2 (in folio). Si veda a tal proposito, Freudenthal (1899), p. 160; Di Vona
(1960-1969), p. 207 nota 99 del tomo n. 1; Dunin Borkowski (1936), vol.
IV, p. 255. Si veda infine Cranz (1984), pp. 38-49 e Lohr (1988) sulla
circolazione delle opere aristoteliche tra il 1501 e il 1600.
24
Mignini (2007), pp. 211-270.
28 indiretta, i testi aristotelici. Aristotele dopo Cartesio è l’autore più
citato da Spinoza; studiosi dello spinozismo come Freudenthal, Dunin
Borkowski e Di Vona confermano la presenza di Aristotele E.M. tra le
letture di Spinoza. Esistono, infine, molte prove interne, testuali,
derivanti dall’esame critico e filologico dei testi e dal confronto tra
alcuni passi spinoziani con riferimenti impliciti ed espliciti a teorie
aristoteliche25.
Qualcuno potrebbe obiettarmi che non ho fornito argomenti
sufficienti a sostegno della possibile lettura diretta degli scritti
aristotelici da parte di Spinoza, ma anche se così fosse, rimane
comunque legittimo il confronto tra i due, specie alla luce
dell’approccio di cui ho detto sopra, vale a dire di un possibile
confronto per analogie e differenze. Questo approccio valorizza le
affinità o le differenze, piuttosto che una possibile influenza, tra
Spinoza e Aristotele sull’acrasia. Spinoza è un pensatore troppo
originale e Aristotele forse è stato troppo intriso di aristotelismo negli
scritti spinoziani, e confuso in essi dalla tradizione successiva. Ridare
“originarietà” ad Aristotele e mantenere la “peculiarità” di Spinoza
potrebbe dunque essere un modo per rileggere Spinoza alla luce di
possibili analogie con il pensiero di Aristotele, in particolare per
quanto riguarda la nozione di acrasia.
25
Manzini (2009); Morfino (2007); Piro (2007); Chiereghin (1987).
29 I testi aristotelici a cui mi riferirò nel prosieguo del lavoro sono
il libro VII dell’Etica Nicomachea, interamente dedicato all’acrasia; il
De Anima, specie il libro III, in cui si riprende un’accezione di acrasia
come conflitto tra desideri; e passi della Retorica, sul rapporto tra
desiderio e giudizio. Va da sé, infine, che questi testi di Aristotele
esaminati sono stati tutti controllati nell’edizione latina di Melantone,
rilevando, laddove era necessario, eventuali discrepanze con
l’edizione greca.
4. La struttura della tesi
La tesi strutturalmente è divisa in due parti: una prima parte
riguardante la nozione di acrasia in Spinoza; una seconda invece
finalizzata a confrontare Spinoza e i classici, Aristotele e gli Stoici, in
particolare, sull’acrasia.
Dopo aver presentato, a livello introduttivo qui, l’argomento in
Spinoza, facendo cenno al dibattito contemporaneo e antico
sull’acrasia; ho precisato in che senso si possa ritenere Spinoza un
lettore degli Stoici e di Aristotele. Così facendo, ho chiarito il
significato del confronto che farò in seguito (introduzione).
Nel primo capitolo ricostruisco uno status quaestionis, delineo
cioè una cornice di riferimento iniziale degli studi sull’acrasia in
30 Spinoza entro cui collocare le singole interpretazioni allo scopo, in
particolare, di confrontarle tra loro. Così facendo, evidenzio subito i
primi problemi emersi e formulo i primi interrogativi. Che cosa si può
intendere con acrasia in Spinoza? Come definirla? E’ effettivamente
presente concettualmente nei suoi scritti? Perché poi nasce la necessità
di confrontare la nozione spinoziana di acrasia con quella stoica ed
aristotelica?
I primi risultati conseguiti, a partire da questo quadro iniziale e
problematico, sono essenzialmente tre: in primo luogo mostro la
presenza dell’acrasia in Spinoza come fonte di perplessità filosofica.
Secondariamente, sostengo che questa non è una tematica periferica
né inspiegabile all’interno del sistema di Spinoza. L’acrasia
rappresenta un fenomeno carsico, in parte sotterraneo, che va dunque
fatto riemergere e rintracciato. In quanto tale, essa non è
geometricamente esposta (come vedremo), ma è comunque un
fenomeno rilevante in quanto rinvia a temi centrali dell’etica
spinoziana quali la fortuna, il desiderio, l’affettività e l’impotenza. La
mia ricerca così s’inserisce all’interno del dibattito che è ancora in
corso sull’acrasia, specie nei paesi di lingua anglosassone,
mostrandosi a mio avviso originale e nuova, così come nuova e
originale sarà la risposta all’acrasia che attribuisco a Spinoza. La mia
ricerca si rivelerà allora nuova, nella misura in cui con essa cerco di
definire l’acrasia spinoziana a partire dai testi in un’ottica più
31 sistematica; originale, invece, perché cerco di confrontare Spinoza con
i classici in maniera più approfondita di quanto sia stato fatto sul tema
dell’acrasia.
Nel secondo capitolo, il mio lavoro s’impernia sull’analisi
della nozione di acrasia in Spinoza, a partire da una disamina attenta
dei testi. In particolare, mi concentro sulla citazione della frase di
Ovidio, video meliora, proboque, deteriora sequor, presente per ben
quattro volte all’interno dei testi spinoziani (EIV, Pref.; EIII, P2 S;
EIV, P17 S; Lettera a Schuller n. 74 Mignini = 58 G). La frase di
Ovidio è la cifra dell’atteggiamento tipico di chi agisce acraticamente,
vale a dire di colui che vede ed approva il bene, ma segue poi il male.
A partire da alcune riflessioni sulla traduzione dal latino della frase
stessa, la analizzo, in via preliminare, alla luce della dottrina
epistemologica degli Stoici, in particolare del nesso impressioneassenso (video meliora, proboque) e giudizio-azione, propriamente
detta (deteriora sequor). L’azione, come mostrerò, può essere infatti
difforme o conforme al giudizio. Così dicendo, possiamo delineare
una sorta di quadripartizione (casi 1 e 2: atto conforme o difforme dal
giudizio vero; casi 3 e 4 atto conforme o difforme dal giudizio falso),
all’interno della quale il caso 2 esprime l’acrasia: un’azione difforme
dal giudizio vero. Dopo un esame più generale della frase di Ovidio,
mi soffermo sui quattro luoghi in cui questa è presente nei testi di
Spinoza, cercando di ricostruire la cornice filosofica e concettuale
32 entro cui è collocata. Da questo esame, emerge non solo che l’uomo
per Spinoza può agire acraticamente per le cause esterne, vale a dire
perché egli non è padrone di sé, ma in balìa della fortuna sotto il
potere della quale è così tanto sottoposto che spesso, sebbene veda il
meglio e lo approvi, tuttavia egli segue il peggio (EIV, Pref.). L’uomo
è acratico anche per gli affetti contrari che lo agitano e che lo
indeboliscono (EIII, P2 S; Lettera a Schuller). Il conflitto interno è
dunque un ulteriore causa dell’acrasia. Come ricorda Nadler, la vita
dell’individuo spinoziano è una continua lotta tra le forze fuori sé
stesso e al proprio interno. Il vero contrasto così non è tra intelletto e
passioni, ma tra affetti in competizione tra loro. Mignini sottolinea
come l’affettività umana sia una continua interazione tra affetti attivi e
affetti passivi, tra azioni e passioni.
Combattuto da affetti contrari e in quanto subisce l’azione
delle cause esterne, l’uomo, debole nel suo appetito, agirà
acraticamente, vale a dire sperimenterà un conflitto tra ciò che giudica
buono e il male invece verso cui è condotto. Spinoza, tuttavia,
chiarisce in EIV, P17 S che gli uomini che agiscono acraticamente
sono mossi dall’immaginazione o dall’opinione, mai da vera ragione.
Il giudizio pertanto circa il meglio si rivela essere una falsa idea di
bene, e, in quanto tale confuso, parziale e inadeguato. Questo giudizio
è inadeguato e formulato con l’immaginazione perché derivante da un
appetito debole: ognuno infatti giudica secondo il proprio appetito ciò
33 che è buono e ciò che è cattivo, ciò che è meglio e ciò che è peggio
(EIII, P39 S). Il desiderio-appetito precede dunque ogni attività
conoscitiva, anche il giudizio: bene è ciò che io desidero, e non
desidero qualcosa perché è bene (EIII, P9 S). Concludendo, il giudizio
circa il meglio dell’acratico è confuso perché determinato da un
appetito altrettanto debole. La prospettiva temporale, infine, è un
ulteriore elemento di obnubilamento del giudizio: la cupidità derivante
dall’esperienza di cose sentite, nel presente, con piacere, è più potente
e forte di quella sentita rispetto al futuro (EIV, PP16-18). In definitiva,
per Spinoza, se la conoscenza del bene e del male altro non è che
l’affetto di gioia e tristezza con la sua consapevolezza, nell’acrasia, un
affetto debole rinvia ad una conoscenza del bene e del male di tipo
immaginativo. Rimane fondamentale il momento di elaborazione del
giudizio, pur annebbiato che sia, per l’acratico. Non tutti i casi, infatti,
in cui un affetto è debole sono casi di acrasia, ma perché ci sia acrasia
bisogna giungere a formulare un giudizio.
Nel capitolo terzo, dopo aver chiarito la nozione di acrasia in
Spinoza e dopo averla definita una debolezza dell’appetito, la
confronto con la nozione aristotelica e stoica, motivando, e
approfondendo, nuovamente le ragioni stesse di un tale confronto.
Alla luce di questo, emergerà più chiaramente l’originalità e la novità
della risposta spinoziana all’acrasia. Nuova è la definizione, originale
la spiegazione, più esaustiva. Rispetto agli Stoici, secondo cui
34 l’acrasia è un giudizio sbagliato o un puro caso di ignoranza come era
per Socrate; e rispetto ad Aristotele, secondo cui l’acrasia è una
debolezza di volontà o comunque un conflitto tra ragione e passioni,
per Spinoza l’acrasia è, tra ignoranza e desiderio, una debolezza
dell’appetito. É tra ignoranza e desiderio perché Spinoza riprende
alcuni dei concetti tipici della tradizione greca riempiendoli tuttavia
dei suoi contenuti. In particolare, egli riprende la nozione aristotelica
di desiderio, con le dovute differenze, e la possibilità che sia il
desiderio a condizionare un giudizio nell’atto acratico; egli riprende
pure il concetto stoico-socratico di ignoranza acratica (o giudizio
sbagliato).
Nel capitolo quarto, quello finale, dopo un breve quadro dei
modelli teorici classici di acrasia, mi soffermo sull’originalità e la
novità della soluzione spinoziana all’acrasia, approfondendone le
motivazioni filosofiche. Chiarisco, infine, in che senso asserisco che
l’acrasia si manifesta come un possibile caso di impotenza, pur non
coincidendo con essa. Di qui deriva il legame dell’acrasia con la
nozione di libertà, nella misura in cui l’acratico è un uomo impotente,
dunque servo e non libero. A partire da questa analisi, cerco di
rintracciare una possibile via d’uscita dall’impasse acratica, o
comunque un modo di evitarla. Anche in questo Spinoza si mostrerà
essere un pensatore particolarmente originale.
35 Capitolo 1
Interpretazioni e problemi dell’acrasia in Spinoza
1. La recente interpretazione di Pinheiro26
Lo scopo di questo capitolo è ricostruire lo status quaestionis e riferire
le singole interpretazioni dei diversi studiosi che si sono occupati del
tema dell’acrasia in Spinoza sino ad ora, per confrontarle poi tra loro.
Così facendo, sarà possibile evidenziare i primi problemi emersi da
quest’analisi e fornire al lettore una cornice iniziale di riferimento,
entro cui collocare la nozione di acrasia in Spinoza, che sarà trattata
più specificatamente nel capitolo seguente. Da questi primi studi,
nonostante le differenze di stile e di impostazione fra i vari studiosi,
emerge con chiarezza non solo la presenza dell’acrasia in Spinoza
26
Ulysses Pinheiro è professore all’Università Federale di Rio de Janeiro. La
sua esperienza filosofica spazia dalla storia della filosofia alla metafisica. In
particolare, i temi e gli autori di cui si occupa sono la teoria dell’azione;
libertà e determinismo; identità personale; teoria della conoscenza in
Spinoza, Locke, Hume, Cartesio e Leibniz. Sono stata sin dall’inizio di
questa ricerca in contatto con il Prof. Pinheiro che qui ringrazio per il suo
prezioso aiuto e per i suoi suggerimenti.
36 come eventuale fonte di perplessità filosofica, ma anche che questa
rinvii a tematiche cruciali dell’etica spinoziana, quali la fortuna, la
nozione di desiderio, la teoria dell’affettività, l’impotentia e il
rapporto problematico tra ragione e passioni.
Queste tematiche sono trattate sovente nell’Etica ma in modo
non sistematico, vale a dire che Spinoza stesso pare non evidenziare
nessi concettuali diretti tra quei temi e l’acrasia. Considerato il
carattere non geometrico del collegamento concettuale nell’Etica tra
acrasia e possibili fenomeni contigui come la fortuna e il conflitto
affettivo, lo studioso si trova nella condizione di dedurre possibili
nessi filosofici, soffermandosi di più su alcuni aspetti dell’intricata
questione piuttosto che altri. Ad esempio, Pinheiro si sofferma sul
possibile rapporto tra schiavitù e acrasia; Lin, da parte sua, predilige
indagare come il tempo influenzi l’intensità o il potere di idee e
passioni. Nadler e Della Rocca individuano altri nessi all’interno della
teoria dell’affettività e, più in generale, dell’azione.
Da parte mia—e in questo risiede una possibile originalità di
questo lavoro—mi propongo, in primo luogo, di fornire una chiara
definizione dell’acrasia, a partire da un’attenta analisi dei passi
dell’Etica in cui vengono descritti o allusi atti acratici. In secondo
luogo, mi prefiggo di spiegare come la soluzione originalissima che
Spinoza dà del fenomeno acratico all’interno del suo complesso
sistema filosofico risenta in parte dell’influenza degli antichi. Altri, tra
37 gli studiosi citati, hanno semplicemente ricordato possibili affinità tra
Spinoza e gli Stoici, Socrate e Aristotele circa la problematica
acratica. Nessuno, tuttavia, ha confrontato in maniera sistematica e
approfondita la soluzione classica a quella spinoziana. Questo non si
dimostrerà un mero esercizio di paragone concettuale tra autori di
diverse epoche fine a sé stesso ma—è questa la scommessa—si
paleserà come il modo principe per mostrare l’originalità della
soluzione spinoziana ad una problematica spesso negletta tra gli stessi
spinozisti.
È giunto ora il momento di passare in rassegna le varie, seppur
esigue, interpretazioni degli studiosi succitati a proposito dell’acrasia
in Spinoza. Ulysses Pinheiro dedica due lunghi articoli alla trattazione
del problema dell’acrasia in Spinoza. Nel 2007 pubblica in portoghese
brasiliano Servidão e acrasia segundo Espinoza e nel 2009
approfondisce e rivede questo primo studio, in Acrasia, metamorfoses
e o suicìdio de Seneca na Etica de Espinosa, collegando la nozione di
acrasia alla questione del suicidio, ritenendo quest’ultimo un modello
estremo di conflitto interno. Dedico uno spazio maggiore a questa
interpretazione rispetto alle altre non solo perché l’ho potuta
approfondire e discutere direttamente con l’autore, ma anche perché
apre orizzonti nuovi e provoca riflessioni più stimolanti.
Con la sua interpretazione dell’acrasia in Spinoza, Pinheiro
cerca di dimostrare (a mio avviso con successo) che, in primo luogo,
38 l’acrasia è presente nei testi spinoziani e che essa non si risolve con
l’ipotesi
di
un
mero
paradosso
di
autocontraddizione.
Secondariamente, Pinheiro delinea due possibili soluzioni del
problema acratico, sostenendo che Spinoza in modo del tutto originale
oscillerebbe tra le due possibili spiegazioni. In terzo luogo, egli
approfondisce il concetto di conflitto interno come possibile
presupposto dell’acrasia, anticipando il nesso con la filosofia
aristotelica. Da ultimo, con qualche esitazione egli tenta di collegare
la nozione di acrasia a quella di schiavitù o impotentia. Riguardo al
primo punto, alla luce dell’interpretazione di Pinheiro, Spinoza
presenta il fenomeno dell’acrasia nelle prime diciotto proposizioni
della parte IV dell’Etica che trattano, in particolare, del problema
della schiavitù. In queste proposizioni, per Pinheiro si nasconderebbe
in realtà una teoria spinoziana molto originale che mette in evidenza
non solo che cosa sia l’acrasia, ma anche il suo collegamento con la
schiavitù e le conseguenze di ciò per la teoria morale stessa.
Come illustrato nell’introduzione, per acrasia s’intende quella
disposizione dell’agente a compiere atti contro il suo miglior giudizio.
In particolare, nella formulazione classica riferita da Pinheiro,
l’acrasia è quella simultanea apparenza di giudizi opposti. Chiamo A e
B due diversi giudizi. Io giudico che A sia meglio di B e allo stesso
tempo decido di fare B. Per qualcuno ciò è contraddittorio o,
addirittura, autocontraddittorio perché è come se simultaneamente un
39 individuo affermasse che A sia meglio di B e B sia meglio di A. Se
ciò dovesse accadere, ci troveremmo di fronte ad un paradosso
insolubile in quanto autocontraddittorio a partire dal quale l’acrasia
verrebbe eliminata d’amblais27.
Come mostrerò nel capitolo seguente, tuttavia, l’atto di
scegliere B e di seguire il peggio non è un atto contraddittorio, ma in
un certo senso intenzionale28. L’uomo segue B (il peggio) perché
preferisce fare B anche se sarebbe meglio fare A (il meglio). Scegliere
(o tendere verso) B significa dare corso a un’azione irrazionale. Se
così fosse, come sarebbe possibile spiegare, dal punto di vista della
ragione, la possibilità dell’irrazionale in un sistema come quello
27
A meno che uno non intenda non adottare il principio di non-
contraddizione, “il più sicuro di tutti i principi”, come ci dice Aristotele in
Metafisica IV, 3. Almeno su questo punto, siamo oggigiorno molto lontani
da Aristotele: le logiche non-classiche, vale a dire che rifiutano il principio
di non-contraddizione, sono usate in filosofia oggi tanto quanto quelle
classiche: si veda Priest (2001).
28
Uso ‘intenzionale’ e ‘intenzionalità’ nel senso classico elaborato
originariamente da Franz Brentano e poi in voga in tutta la filosofia della
mente contemporanea (soprattutto di matrice analitica), per indicare il
carattere essenziale di tutti gli atti mentali come credere, percepire e
giudicare: la direzionalità psichica verso un oggetto, che, in quanto tale,
potrebbe pure essere non esistente.
40 spinoziano, in cui la realtà è pienamente intellegibile, in cui l’ordine e
la connessione delle cose non sono altro che l’ordine e la connessione
delle idee?29 Pinheiro cerca di uscire da questa impasse proponendo
due soluzioni diverse al problema dell’acrasia nel contesto del sistema
spinoziano, una di tipo socratico e l’altra di tipo scettico.
E con questo veniamo al secondo punto. La prima soluzione
suggerita da Pinheiro, quella socratica, postula una momentanea
ignoranza dell’agente circa il vero bene: chi agisce scegliendo il male
lo fa perché in realtà non sa di fare il male, ma pensa di star facendo il
bene. È noto, infatti, l’intellettualismo etico di Socrate, almeno come
questo è stato ricostruito all’interno dei dialoghi cosiddetti giovanili di
Platone: per il Socrate del Protagora, ad esempio, l’acrasia è un
semplice caso di ignoranza. Lontana la tripartizione platonica
dell’anima, per Socrate l’acratico è colui che non sa, cioè ignora, che
quello che sta facendo sia effettivamente male. L’acrasia non è, in
questo caso, una prevaricazione della parte appetitiva dell’anima sulla
razionale, come pare sia il caso della necrofilia di Leonzio in
Repubblica IV, ma, più essenzialmente e forse paradossalmente, un
29
Confronta anche Bennett (1984), p. 303, circa il razionalismo esplicativo
di Spinoza.
41 caso di schietta ignoranza. Come ci viene ricordato anche nel Gorgia,
nessuno pecca sua sponte.30
Se la posizione socratica è ragionevole, se so che A è meglio di
B, non posso non fare A. Al contrario, se invece scelgo B, ciò accade
perché in quel momento penso che B sia effettivamente meglio di A.
Solo dopo aver eliminato l’ignoranza e acquisito la conoscenza, sono
in grado di comprendere l’errore che mi ha portato all’azione acratica.
Pinheiro interpreta la spiegazione socratica dell’acrasia come caso di
ignoranza come un esempio di auto-illusione, mentre, strettamente
parlando, per Socrate l’acrasia rimane un caso di deficienza
conoscitiva, non di auto-illusione.
Stando alla seconda soluzione al problema acratico, quella
definita da Pinheiro scettica, l’atto di scegliere il peggio non deriva da
un caso d’ignoranza dell’agente, bensì dall’attribuzione all’agente
stesso di una forma di coazione irresistibile causata da forze esterne,
fuori dal suo controllo. L’agente non sceglie B perché non sa che A è
meglio di B, ma solo perché una compulsione che proviene
dall’esterno lo costringe a farlo, in una specie di meccanismo causale
30
Sull’intellettualismo
socratico
come
posizione
più
coerente
e
filosoficamente interessante dell’etica della scelta platonica, si vedano i
famosi studi di T. Penner, soprattutto Penner (1990). Questo aspetto della
questione sarà approfondito nel terzo capitolo (§4) e nel quarto capitolo
(§§1-2).
42 quasi brutalmente cieco. Da qui consegue l’interpretazione originale
di Pinheiro del fenomeno acratico nel sistema spinoziano, secondo cui
Spinoza oscillerebbe tra una spiegazione socratica e una scettica circa
l’acrasia. Alla luce di questa interpretazione, l’agente potrebbe sapere
che A è meglio di B ma sceglie di seguire B per una passione
presente. L’acrasia in Spinoza si fonderebbe allora su un forte
conflitto tra ragione ed emozioni: la conoscenza è una condizione
necessaria ma non sufficiente della virtù. Il vizio spiega solo in parte
l’ignoranza.
Veniamo al terzo punto. In che senso l’acrasia può essere per
Pinheiro un conflitto tra ragione ed emozioni? Lo studioso sottolinea
che nei confronti di una passione presente siamo portati ad agire più a
causa di quella che a causa di quanto la ragione prescrive o che
immaginiamo essere un futuro contingente (EIV, PP16-17). Si agisce
allora in nome della passione e non razionalmente. Nella misura in cui
i dati dell’immaginazione contaminano le informazioni che derivano
dalla ragione, questo tipo di contaminazione spiegherebbe la
possibilità stessa dell’acrasia. In tal modo, per Pinheiro una ragione
può mostrare il meglio, mediante il suo contenuto cognitivo, ma
motivati da una passione presente, possiamo seguire il peggio. Com’è
noto, per Spinoza, infatti, solo un affetto può contrastare la vera
conoscenza del bene e del male. Un bene presente è certamente più
desiderabile di un bene futuro.
43 La spiegazione che Pinheiro fornisce del fenomeno acratico in
Spinoza può risultare convincente nella misura in cui le deliberazioni
razionali hanno per Spinoza un contenuto affettivo, non solo
cognitivo. E nel caso in cui una deliberazione razionale venga
applicata ai dati dell’immaginazione, ne seguirebbe che dati razionali
e immaginativi sarebbero combinati insieme con gli affetti di
ciascuno. Le idee, in quanto hanno un aspetto affettivo, e non solo un
contenuto cognitivo, sono motivi per agire.
L’agente in definitiva sceglie ciò che sembra presentemente
(ed erroneamente) il meglio (vale a dire un affetto di gioia più intenso)
e non agisce contro quello che nel presente è il suo desiderio più forte.
Il desiderio e il possibile conflitto tra desideri o appetiti opposti sono
alla base dell’acrasia per Pinheiro, secondo cui in ultima analisi questo
rinvierebbe pure a un conflitto tra ragione ed emozioni. La ragione
può essere vinta, infatti, dal desiderio. L’acrasia è possibile nella
misura in cui l’agente acratico può sapere (razionalmente) ciò che è
meglio e, tuttavia, può fare (passionalmente) il peggio. Resta, tuttavia,
problematica a mio vedere questa “scelta di fare” il peggio anche
all’interno dell’interpretazione dell’acrasia che Pinheiro fornisce,
secondo cui quando un uomo sceglie il peggio ciò che ha scelto non
appare il peggio ma, momentaneamente, come il meglio. “Essere il
meglio” s’identificherebbe, dunque, con “l’essere il desiderio più
forte”.
44 Veniamo all’ultimo punto, forse il più filosoficamente
significativo dell’intera interpretazione di Pinheiro. Egli tenta di
identificare o ridurre il fenomeno della schiavitù a quello dell’acrasia,
cercando di chiarire quali siano le conseguenze di questa riduzione sia
per la teoria morale che per la teoria dell’azione di Spinoza. Per
Pinheiro, tutte le volte che Spinoza spiega le varie forme di schiavitù o
impotentia, ad esempio nelle prime diciotto proposizioni della parte
IV dell’Etica, alluderebbe a fenomeni acratici, tanto che Pinheiro
identifica i due concetti di acrasia e schiavitù. Benché una tale
identificazione possa essere non solo legittima ma anche foriera di una
nuova luce ermeneutica, bisogna tuttavia essere cauti nel distinguere
due possibilità che si danno:
a) la prima possibilità si basa sull’ipotesi secondo cui la
schiavitù sia equivalente all’acrasia, per cui, come ritiene
Pinheiro, la schiavitù si riduce ad acrasia: (S=A, ove per S
si intende ovviamente schiavitù e per A acrasia).
b) In alternativa, esiste la possibilità che l’acrasia sia solo un
tipo, una forma di schiavitù, anche se, come pensa
Pinheiro, il tipo di schiavitù eticamente rilevante e
importante da esaminare è pur sempre e solo l’acrasia: (A=
St,
un tipo di S,
ove per St si intende un tipo specifico di
schiavitù).
45 Il nesso o il collegamento concettuale tra schiavitù e acrasia, ancorché
molto interessante, abbisogna di un’analisi filosofica più approfondita.
È più ragionevole definire, prima, la nozione di acrasia in Spinoza e
analizzare, poi, le occorrenze significative del termine impotentia
all’interno dell’Etica (e, più in generale, dell’intero corpus
spinoziano), per giungere, solo alla fine, a ipotizzare una relazione
concettuale tra i due termini. Il nesso tra schiavitù e acrasia risulta
problematico anche per il fatto che la schiavitù (impotentia) in
Spinoza non può essere assimilata né alla coazione in generale, né
all’intemperanza in particolare. La schiavitù in Spinoza non è un
semplice caso di coazione o costrizione a causa delle quali l’uomo è
schiacciato dalle cause esterne, come potrebbe apparire ad una lettura
superficiale del testo. La schiavitù non è solo “quell’impotenza umana
nel frenare e dominare gli affetti” (EIV, Pref.). Essa però non è
neppure un caso simile all’intemperanza in cui l’agente sceglie il male
in quanto tale (ipotesi questa che rinvierebbe concettualmente a
un’ipotetica responsabilità dell’agente o a una libera volontà, da
escludersi decisamente nel sistema di Spinoza).
L’intemperanza, a prima vista, è un caso paradigmatico di
errore morale perché l’agente fa il male sapendolo tale e volendolo
fare. L’acrasia, invece, non si caratterizza propriamente come un
errore morale, al più come un errore cognitivo, in quanto l’agente sa
ciò che è bene e vorrebbe seguirlo, ma è vinto da forze più potenti.
46 Approfondirò adeguatamente questo punto nei capitoli seguenti, in
particolare in relazione alle cause esterne quali, ad esempio, la
fortuna, ma anche in relazione a conflitti interni dell’individuo, che—
come chiarirò nel prosieguo del lavoro—sono alla base del fenomeno
acratico in Spinoza. Per ora mi limito a precisare che Pinheiro ritiene
impossibile per Spinoza il darsi del caso di un agente che vede il male
e lo vuole in quanto tale. Nessuno fa il male volontariamente, non
perché, com’era per Socrate, la conoscenza è alla base di ogni atto
pratico e non può essere sconfitta, ma perché il significato del bene
per l’individuo spinoziano è ridotto al conatus e allo sforzo di
ciascuno di perseverare nel suo essere, e, aggiungerei anche, a quel
desiderio che è fondamento dell’uomo stesso.
Nel suo secondo articolo (2009) Pinheiro approfondisce il
tema dell’acrasia in Spinoza utilizzando il suicidio come modello
estremo di conflitto interno. Nel fare ciò, egli chiarisce meglio la
natura di un possibile conflitto nell’etica spinoziana, illuminando così
la nozione stessa di acrasia e liberandoci di un possibile
fraintendimento. L’acrasia deve essere tenuta concettualmente ben
distinta dall’idea di conflitto interno: una situazione di acrasia non è
una situazione semplicemente conflittuale, ma il conflitto è solo una
delle possibili condizioni o presupposti dell’agire acratico. In tal senso
l’interpretazione di Pinheiro è interessante, perché egli distingue due
tipi di conflitto, un primo conflitto “più debole” che si dà nell’agente
47 tra due alternative opposte, come ad esempio il caso di colui che tende
al bene o al male, agitato da affetti contrari. Esiste tuttavia anche un
conflitto “più forte” dell’agente con sè stesso, in relazione alle cause
esterne: si pensi al caso di colui che, in balìa della fortuna, costretto
dall’esterno, si agita in molti modi fluttuando in direzione opposte,
come le onde del mare spinte da venti contrari.
L’acrasia sussiste quando l’agente si sente incline a compiere
atti, motivato da forti desideri tra loro opposti. In nome di questa
credenza contraddittoria, l’individuo sceglie un bene, in rapporto
all’immaginazione e non alla vera conoscenza adeguata del proprio
bene. A livello dell’opinione, intesa come credenza immaginativa,
allora esiste una situazione di conflitto che induce un individuo, per
ignoranza del vero bene, a fluttuare tra ciò che sa essere il meglio e le
inclinazioni del suo stesso desiderio, contro cui non può andare. In tal
senso, il suicida è un caso paradigmatico di divisone mentale interna
ed estrema e, nell’essere tale, potrebbe rappresentare per Pinheiro un
caso paradigmatico di acrasia (anche se il conflitto alla base dell’agire
acratico
non
implica
necessariamente
la
distruzione
fisica
dell’individuo).
L’agente acratico è come se fosse in conflitto con sé stesso e in
opposizione con il suo sé a causa di una falsa credenza: egli crede di
essere causa della diminuzione della sua potenza di agire, mentre la
causa effettiva e reale è un oggetto esterno alla sua natura, su cui non
48 è possibile esercitare nessun controllo. Immaginare però un’impotenza
causa inevitabilmente una tristezza reale: una credenza pertanto
immaginativa falsa causa una reale diminuzione della potenza di
agire. L’immaginazione falsa di sé, che genera conflitti reali in chi
pensa, sembra un elemento importante per spiegare l’acrasia, al pari
del conflitto in quanto tale. L’acratico vive, in definitiva, dei conflitti
e con sé stesso e in rapporto al mondo esterno. Del resto, come ricorda
Spinoza, sotto il dominio di affetti contrari, gli uomini non sanno ciò
che vogliono.
2. Gli studi di Lin e di Gagnon
Martin Lin è Assistant Professor all’Università di Toronto. Egli
dedica un articolo al tema dell’acrasia in Spinoza dal titolo: Spinoza’s
account of akrasia, “Journal of the History of Philosophy” 2006. Lin
riprende poi alcune questioni, in particolare il rapporto tra passioni e
ragione in Spinoza, in un saggio contenuto nel The Cambridge
Companion to Spinoza’s Ethics (2009), edito da Olli Koistinen.
Secondo l’interpretazione di Lin, Spinoza collegherebbe la tematica
dell’acrasia alle passioni e, più in particolare, al rapporto conflittuale
tra ragione e passioni. L’acratico è colui che agisce contro il suo
miglior giudizio; quando ciò accade, la sua ragione è vinta dalle
49 passioni, anche se non tutti i casi di ragione che soccombono alle
passioni sono necessariamente casi di acrasia. L’acrasia, infatti,
implica sempre una formulazione di un giudizio, che induce l’agente
ad agire in modo acratico. I casi di ragione che soccombono alle
passioni e che non sono definibili acraticamente sono pertanto casi in
cui la passione impedisce all’agente di arrivare a un giudizio.
Più in dettaglio, la tesi principale sostenuta da Lin circa
l’acrasia consiste nel fatto che questa può essere spiegata come un
fenomeno pervasivo e pernicioso nella filosofia morale di Spinoza. Se
la chiave della felicità per Spinoza secondo Lin risiede nel dominio
della ragione sulle passioni, il conflitto di queste ultime con il potere
della ratio inevitabilmente rappresenta un problema. In tal senso,
l’acrasia si presenta come un caso specifico in cui ragione e passioni
agiscono simultaneamente e anche conflittualmente; alla luce di ciò,
l’acrasia è un fenomeno negativo da rimuovere o contenere.
Analizzando le prime diciotto proposizioni della parte IV
dell’Etica, Lin si sofferma in particolare sulla nozione di desiderio, sul
potere motivazionale dei desideri razionali circa i beni futuri, nonché
sull’intensità stessa dei nostri desideri circa le cose future. Per
Spinoza, un affetto verso qualcosa che pensiamo futuro è meno
intenso che verso qualcosa che pensiamo essere presente (EIV, P9).
L’argomentazione di Lin è la seguente:
50 a) supponiamo che un’ agente abbia un’idea vera del bene e del
male; in base a ciò compie R (=azione razionale; si chiami R
anche l’idea razionale che sottende a R come azione, essendoci
una perfetta corrispondenza tra idea e azione in Spinoza).
b) Al contempo, egli è mosso da una passione irrazionale che lo
spinge all’azione I (passione irrazionale).
c) R ed I sono ovviamente incompatibili.
d) L’agente darà corso a I e non a R.
La passione I restringerebbe, o comunque potrebbe in qualche modo
contenere, il potere dell’idea che spinge l’agente a fare R.
Spinozianamente parlando, alla luce dell’interpretazione di Lin, una
passione può avere un vantaggio sull’idea razionale se e, solo se, il
bene a cui mirerebbe R è più lontano, nel tempo futuro, rispetto al
bene a cui invece tende I. L’agente così agisce irrazionalmente o
acraticamente contro il suo miglior giudizio facendo I perché egli
possiede un’idea R che lo induce a fare I.
I nuclei concettuali su cui fa perno l’interpretazione di Lin che
ho testé ricostruito sono i seguenti: 1) la nozione di idea razionale e
passione irrazionale con i loro relativi poteri; 2) il loro conflitto, alla
base dell’atto acratico stesso; 3) la teoria della percezione del tempo,
che ora mi accingo a spiegare più in dettaglio. Una tale teoria è molto
cara a Lin perché grazie a essa è possibile dimostrare come la nostra
51 percezione del tempo possa influenzare l’intensità o il potere di
un’idea, la novità ermeneutica più rilevante della sua analisi.
Lin inizia il suo ragionamento ricordando la nota concezione
spinoziana secondo cui se un individuo non è causa adeguata di
un’affezione, egli è passivo e subisce l’azione delle cause esterne o,
più semplicemente, subisce una passione. Un individuo può avere idee
inadeguate e, a causa di queste, egli può giungere ad avere un giudizio
annebbiato. Le passioni sarebbero, per la mente, delle idee inadeguate
e funzioni dell’impatto del mondo esterno su di noi. E’ chiaro che, se
l’individuo è causa inadeguata, le rappresentazioni che egli ha sono
mutilate e confuse, anche se non tutte le idee inadeguate sono
ovviamente delle passioni.
Dopo aver confrontato la teoria del giudizio cartesiana con
quella
spinoziana,
Lin
chiarisce
e
puntualizza
nuovamente
l’importanza del fattore del tempo e dell’intensità con cui si compiono
determinate azioni nelle situazioni di acrasia. I beni presenti sono più
desiderabili di quelli futuri e il potere motivazionale del desiderio è
più debole se si aspetta più a lungo nel tempo. Di qui la sua
definizione di acrasia non-impulsiva (non-impulsive akrasia):
l’acratico è colui che è vinto dal desiderio più intenso che vive nel
52 presente, a dispetto di qualsiasi giudizio più razionale su un bene
futuro.31
Stando alla definizione II, in EIII, noi siamo attivi quando in
noi o fuori di noi avviene qualcosa di cui noi siamo causa adeguata.
Parimenti, siamo passivi quando in noi accade qualcosa—o dalla
nostra natura segue qualcosa—di cui noi siamo solo una causa
parziale. Per Lin l’acratico agirebbe ‘genuinamente’, secondo la sua
stessa caratterizzazione. In che senso, tuttavia, è possibile agire
genuinamente, data la distinzione che Spinoza stesso fa in EIII, Def. II
di attivo e passivo? L’agire dell’acratico potrebbe essere influenzato
da una certa gradualità dell’azione stessa, o almeno ciò è quanto
ritiene Lin. Secondo la sua interpretazione, esiste un senso forte del
31
Mi pare importante rilevare che quest’idea di acrasia non-impulsiva pare
avere analogie non secondarie con l’arte della misurazione (dei piaceri e, per
esteso, anche dei desideri) che Socrate illustra alla fine del Protagora
(356d).
Secondo
Socrate,
infatti,
e
secondo
la
sua
concezione
intellettualistica dell’etica che abbiamo prima citato, chi sa, sa anche
misurare in maniera precisa e oggettiva il piacere nel tempo e quindi non
sceglie mai un piacere immediato perché più vicino nel tempo, rispetto a un
piacere futuro più forte e benefico. Di converso, l’acratico è colui che non sa
affatto misurare oggettivamente il piacere nel tempo ma cede al ‘potere delle
apparenze’, come Socrate pensa faccia chi aderisce al relativismo di
Protagora.
53 termine actio e un senso debole: nel senso forte l’agente è causa
adeguata e dunque attivo. In un senso debole, l’agente è causa
parziale, è passivo. Anche quando siamo passivi, tuttavia, noi agiamo,
facciamo molte cose, anzi, le nostre passioni determinano molte delle
azioni umane che sovente compiamo: il desiderio è infatti per Spinoza
l’essenza stessa dell’uomo.32
Il nodo centrale dell’interpretazione di Lin consiste, in ultima
analisi, nel rapporto problematico tra il potere della ragione e le
passioni dell’individuo. Nel caso dell’acrasia e degli atti acratici non
si verifica solo il caso di una passione che sconfigge la ragione, ma,
più essenzialmente, accade che le cause esterne distorcano i contorni
del desiderio dell’agente. Gli studi di Lin non approfondiscono
quest’ultimo aspetto con la dovizia analitica che esso meriterebbe e si
concentrano invece sul rapporto tra ragione e passioni, ritenendo
questo un punto focale per dimostrare la presenza del fenomeno
dell’acrasia in Spinoza. Certamente, il rapporto tra il potere della
32
L’analisi di Lin termina collegando i possibili atti acratici ai
comportamenti non-intenzionali e a quelli compulsivi. Egli ricorda la
psicologia meccanicistica di Spinoza e le ragioni, a noi note, del perché essa
prenda le distanze dalla tripartizione classica dell’anima. La nozione
spinoziana di acrasia si concilierebbe perfettamente con questa concezione
meccanicistica della natura umana.
54 ragione e le passioni risulta significativo, e va esaminato, specie allo
scopo di indagare come sia possibile evitare atteggiamenti acratici.
Come mostrerò, tuttavia, nel corso della mia ricerca, non è
questo rapporto centrale nella definizione dell’acrasia stessa e,
soprattutto, non aiuta a comprendere la natura stessa del fenomeno
acratico in Spinoza. La questione principale che illustrerò con
dettaglio nella prosecuzione di questa ricerca verte in realtà sul
conflitto affettivo interno dell’individuo, il quale è meglio qualificato
come conflitto tra affetti opposti, e non tra ragione e passioni. Mosso
dall’ambivalenza affettiva che lo spinge da un affetto all’altro,
l’individuo acratico è in grado di produrre solo un giudizio
annebbiato, lontano dalla ragione e assai più vicino alla mera opinione
o immaginazione.
Per comodità del lettore, sintetizzo l’interpretazione di Lin,
dopo averla esaminata: 1) la nozione di acrasia è ben presente
nell’etica di Spinoza, anzi per Lin si tratta di una presenza pervasiva e
perniciosa per l’individuo; 2) focalizzandosi sul rapporto conflittuale
tra ragione e passioni, Lin ritiene che l’acrasia sia un caso specifico in
cui la ragione e le passioni agiscono insieme, o meglio, interagiscono;
ciò è importante anche per comprendere come l’acrasia stessa lavori e
come si possa superare; 3) agire pertanto acraticamente per Lin vuol
dire agire irrazionalmente spinti da una passione irrazionale; 4) il
55 desiderio è collegato e collegabile alla percezione che di esso si
avverte nel tempo.
Prima di Pinheiro e Lin, in ambito non-analitico ma
continentale, in Francia Gagnon aveva rilevato la presenza dell’acrasia
in Spinoza in un articolo del 2002, Spinoza et le problème de
l’akrasia: un aspect négligé de l’ordo geometricus, analizzando la
parte IV dell’Etica, in particolare le proposizioni di EIV, PP14-17. La
faiblesse de la volonté, o debolezza della volontà, come egli la
definisce, è una questione centrale dell’etica spinoziana. L’intento
principale dell’articolo di Gagnon è quello di mostrare come sia
possibile risolvere il problema acratico nei fatti e non solo nelle
analisi. In breve, i concetti chiave su cui Gagnon si concentra sono i
seguenti: 1) l’uomo è parte della natura e, in quanto tale, può essere
sottomesso agli affetti; 2) bisogna fornire all’uomo gli strumenti
adeguati per raggiungere fattivamente il sommo bene, non
semplicemente indicarglielo, definendolo concettualmente; 3) se
l’uomo avesse una conoscenza vera del bene e del male e non
immaginativa, potrebbe agire meglio; 4) l’acrasia richiama la
questione dell’agire umano e del fatto che questo è determinato dal
desiderio stesso.
Gagnon cerca di trovare delle indicazioni nei testi spinoziani
perché si possa pensare che l’individuo sia in grado di contenere o
reprimere gli affetti contrari e tra loro confliggenti, al fine di evitare di
56 agire seguendo il peggio. Ciò che alla fine Gagnon propone consiste
nell’ipotizzare che il metodo geometrico utilizzato da Spinoza sia la
soluzione stessa dell’acrasia. Egli insiste che il metodo geometrico è
un buon viatico alla soluzione dell’acrasia: leggere l’Etica di Spinoza
è un vero e proprio esercizio di ragione. Di dimostrazione in
dimostrazione, il lettore attento esercita assiduamente la propria
ragione. Questo esercizio nel tempo conduce il lettore a evitare atti
acratici nella misura in cui egli affina costantemente le armi del
raziocinio nell’analisi della realtà e nell’agire pratico. Ogni
dimostrazione è per Gagnon un vero esercizio spirituale.
La liceità della soluzione al problema acratico che Gagnon
suggerisce è rafforzata dal paragone che s’impone con due altri tipi di
esercizio filosofico: il primo è quello che suggerisce Wittgenstein nel
Tractatus Logico-philosophicus, il secondo sono gli esercizi spirituali
che Pierre Hadot vede connaturati all’idea stessa di filosofia nel
mondo antico. Nel primo caso, Wittgenstein nel Tractatus si occupa
solo di alcuni tipi di questioni, quelle riguardanti i fatti atomici, la loro
logica, il significato, relegando l’etica al regno dell’ineffabile: “su ciò
di cui non si può parlare, si deve tacere”33. Tuttavia, il Tractatus è
un’opera profondamente etica. Il lettore impara quest’etica e l’etica
della vita, semplicemente leggendo le proposizioni del Tractatus,
33
Wittgenstein (1961), 7.
57 anch’esse in parte geometriche come quelle dell’Etica di Spinoza.
Una volta saliti sulla scala che ci ha fatto vedere i contorni morali del
mondo, senza dirceli, il lettore la getta via: “Le mie proposizioni
illustrano così: colui che mi comprende, infine le riconosce insensate,
se è salito per esse – su esse – oltre esse. (Egli deve, per così dire,
gettar via la scala dopo che v’è salito)34.
Dall’altro canto, in Esercizi spirituali e filosofia antica, Pierre
Hadot ha mostrato in maniera magistrale come non solo le dottrine
ellenistiche ma anche le filosofie del periodo classico possano e
debbano essere interpretate come un esercizio di ragione volto alla
purificazione dell’anima e al conseguimento della felicità35. Questi
due paragoni che si impongono allo studioso recano con sé un
ulteriore punto importante. Non si può certo dire che Wittgenstein
abbia influenzato Spinoza, per ovvie ragioni cronologiche—anzi
sarebbe interessante cercare di capire se il contrario sia avvenuto. Ma,
se l’interpretazione di Gagnon è corretta, e se quindi Spinoza
suggerisce veramente di uscire dall’acrasia con un esercizio spirituale
di lettura e purificazione, nulla esclude che Spinoza stesso sia stato in
questo potenzialmente influenzato dal mondo classico che, come sì è
34
Wittgenstein (1961), 6.54.
35
P. Hadot (1988) ed. italiana (Einaudi).
58 visto, interpreta l’esercizio filosofico come un esercizio dello spirito
da tradurre in concreti atti pratici.
In linea generale, l’interpretazione di Gagnon circa l’acrasia in
Spinoza deve, a mio parere, essere valorizzata nella misura in cui,
oltre alla sua originalità, essa mette in luce il possibile retroterra
classico da cui Spinoza trae parte della sua risposta al problema
acratico. In particolare, Gagnon precisa il collegamento tra l’etica di
Spinoza e quella di Aristotele. Più criticamente, la comprensione del
fenomeno acratico che emerge dall’analisi di Gagnon rinvia ad una
deficienza di ragione (seppur intrinsecamente connessa a una volontà
debole), quando—come s’evincerà meglio in seguito—io ritengo che
l’acrasia ha posto nell’Etica di Spinoza come evidenza di una
debolezza affettiva dell’individuo, non come debolezza volitiva.
3. L’interpretazione di Michael Della Rocca
Molto utili e interessanti sono gli studi di Della Rocca su Spinoza e la
questione dell’acrasia. Dopo il suo celebre e dibattuto libro del 1996
sul rapporto problematico mente-corpo in Spinoza e nella sua filosofia
della mente (Representation and the mind-problem in Spinoza, Oxford
and New York: OUP), nel più recente libro su Spinoza (London and
59 New York: Routledge, 2008), in particolare in una parte del quarto
capitolo, egli riprende le sue riflessioni sull’acrasia.
Della Rocca discute di acrasia in Spinoza inserendola
all’interno della teoria degli affetti, delle emozioni e del conatus. Nel
fare ciò, egli mette in luce come sia possibile—anche in un sistema
filosofico che vuole essere compiutamente razionalistico come quello
spinoziano—ammettere fenomeni irrazionali quali l’acrasia o
emozioni conflittuali, come la gelosia e l’amore che si può tramutare
in odio. Della Rocca ritiene sia possibile dare una spiegazione
razionale del fenomeno acratico in Spinoza, pur pensando egli che
l’acrasia sia espressione d’irrazionalità. Le azioni irrazionali sono atti
compiuti contro il proprio miglior giudizio. Se, ad esempio, un uomo
tira un pugno in faccia ad un altro uomo, pur sapendo che ciò sia male
per colui che compie l’azione di sferrare il pugno (specie alla luce
delle conseguenze che possono verificarsi), perché—si chiede Della
Rocca—ciò accade? La risposta va ricercata nell’ipotetica forza
dell’emozione che sembra essere la causa di questi atti irrazionali.
Della Rocca indaga poi alcune caratteristiche della mente,
indipendenti da quelle rappresentazionali, per spiegare meglio questi
atti contro ragione. Nel fare ciò, egli approfondisce anche la questione
del tempo tanto cara a Lin, per mostrare come in Spinoza un piacere
A, benché più debole di un dolore B (in quanto più vicino nel futuro
rispetto a B) possa essere alla fine più forte di B proprio alla luce della
60 disparità temporale tra i due affetti confliggenti e dell’intensità
dell’affetto più prossimo nel tempo (EIV, Def. 9 e P10). Di qui la
disparità temporale tra i due affetti e la possibilità di agire in nome
dell’affetto sentito più vicino nel tempo.
Quando un individuo agisce irrazionalmente, egli è vinto da un
affetto presente più forte che egli prova intensamente. Questo
equivarrebbe a pensare che egli sia soggetto a una distorsione
affettiva, che risulta meglio spiegata come indotta da una disparità
temporale tra gli oggetti causanti gli affetti e i due affetti anticipati che
confliggono tra loro. Alla luce di questa spiegazione, l’acrasia nel
sistema di Spinoza si spiegherebbe come caso emblematico di
fenomeno irrazionale, in cui il tempo distorce la prospettiva adeguata
con cui è necessario valutare le cose e gli affetti che da esse sorgono
in noi. Questa spiegazione—se legittima—non può non rinviare, come
lo stesso Della Rocca sottolinea36—alla soluzione socratica che si dà
alla fine del Protagora e di cui prima abbiamo detto in nota.
Come per il Socrate del Protagora allora, anche per Spinoza
gli uomini sono soggetti al ‘potere delle apparenze’ e incapaci di
esercitare quella che Socrate chiama ‘l’arte della misurazione’, che
per Spinoza equivarrebbe alla conoscenza derivante dalla ragione. Il
potere (irrazionale) delle apparenze, di cui parla Socrate, spinge gli
36
Della Rocca (2008), p. 171, nota 17.
61 uomini ad agire solo in base a ciò che appare nel presente (senza
alcuna considerazione circa il meglio nel futuro) e ha pertanto molte
somiglianze con l’analisi che Della Rocca fa dell’acrasia in Spinoza,
intesa come fenomeno irrazionale generato da una prospettiva
temporale viziata.
Il valore della prospettiva temporale nel fenomeno acratico è,
quindi, un elemento che collega l’analisi di Lin con quella di Della
Rocca. Il valore aggiunto dell’interpretazione di quest’ultimo sta
nell’aver inserito il problema dell’acrasia all’interno della teoria
spinoziana degli affetti e del conatus. Se è vero—come è vero—che
gli affetti e il conatus sono due elementi essenziali del sistema
spinoziano; se, come ci dice Della Rocca, l’acrasia è strettamente
connessa a quegli elementi, tutto ciò rende l’acrasia un problema non
transitorio o meramente secondario nell’Etica di Spinoza.
4. Bennett sulla schiavitù.
Jonathan Bennett è, notoriamente, un filosofo analitico che si è
occupato a lungo di storia della filosofia moderna, lavorando su
Cartesio, Spinoza, Locke, Hume, Leibniz e Berkeley e producendo
molti studi notevoli su questi pensatori: basti citare l’ultimo,
densissimo, Learning from Six Philosophers, Oxford 2001. Per questo
62 mio lavoro, tuttavia, Bennett rimane l’autore di A Study of Spinoza’s
Ethics, Cambridge 1984.
Lo studio di Bennett è un lavoro originale e ambizioso che
mira
a
fornire
un’interpretazione
dell’Etica
attraverso
una
delucidazione delle dottrine principali—etiche, epistemologiche e
metafisiche—su cui Spinoza fonda il suo sistema. Su Bennett e sulla
sua lettura dell’Etica si sono riversate molte critiche, soprattutto da
parte di coloro che sono avversi all’approccio analitico in filosofia.
Nelle sue disamine concettuali, infatti, Bennett ricorre ad argomenti
che egli mutua dall’immenso bagaglio teoretico tipico della filosofia
analitica; nel fare ciò, egli muove critiche—spesso anche importanti—
alle posizioni di Spinoza. Di qui, facilmente, segue l’accusa di
anacronismo: non si può valutare un’opera con un metro concettuale
che non sia, per così dire, interno all’epoca in cui quell’opera è stata
scritta.
L’accusa a Bennett, tuttavia, pare pretestuosa: gli argomenti
dei filosofi mirano alla solidità logica e filosofi di altre epoche sono in
grado di valutarli proprio nelle misura in cui una tale solidità logica
sia veramente effettiva e efficace. Questo non significa non
riconoscere la storicità degli argomenti, quanto piuttosto metterla sullo
stesso piano del rigore concettuale e dell’analisi teoretica. Valutare
argomenti con altri argomenti, infatti, aiuta spesso a capire più
approfonditamente i punti di vista e le dottrine del filosofo in
63 questione, illustrando in tal modo nessi e relazioni tra idee a volte
taciute o che sfuggono ad analisi più tradizionali.
Per tornare al libro di Bennett su Spinoza: esemplare mi pare la
commistione tra consapevolezza storica e analisi filosofica che egli
mostra nell’affrontare il tema della turbolenza dell’animo nel
complesso sistema di Spinoza. Bennett sostiene che le proposizioni 8
e 14, 15, 16 e 17 della parte IV dell’Etica, esattamente quelle in cui
Spinoza affronta la relazione tra affetti, cupidità e conoscenza di bene
e male, sono scritte avendo Cartesio in mente. Più precisamente,
Bennett cita un passo di Cartesio dalle Passioni dell’Anima in cui
quest’ultimo difende l’idea che il desiderio debba essere contrastato
dai giudizi:
Alcuni […] non permettono mai che il loro desiderio combatta con le sue
stesse armi, ma solo con armi che le stesse passioni mettono a disposizione
come difesa da altre passioni. Quelle che chiamo ‘le sue stesse armi’ sono
giudizi saldi e determinati circa il bene e il male, con cui il desiderio si è
risolto a regolare le azioni della sua vita (§ 48).
Secondo Bennett, Spinoza giudica questa opposizione tra desiderio
(più in generale, tra vita emotiva) e conoscenza del bene e del male
(più in generale, vita della mente) una falsa antitesi, nella misura in
cui la conoscenza del bene e del male non sta al di sopra della nostra
64 vita emotiva, ma ne è parte integrante. Come noi concepiamo il bene e
il male è una parte non secondaria della vita dei nostri appetiti. Infatti,
continua Bennett, la conoscenza del bene e del male di cui Spinoza
parla nelle proposizioni dell’Etica sopra citate è sempre una
conoscenza soggettiva, relativa al punto di vista del soggetto che è
affetto in un qualche modo. Come Spinoza ci ricorda in EIII, P9 S e in
EIII, P39 S, noi chiamiamo qualcosa bene perché lo desideriamo (e
non viceversa); desiderando diversamente, avremo differenti idee
circa il bene e il male. La conoscenza del bene e del male non può
essere regolativa sugli affetti, come vorrebbe Cartesio37.
Considerato questo quadro concettuale, Bennett afferma che
per Spinoza la maggioranza degli esseri umani rimane prigioniera di
affetti che si contrastano e che creano una turbolenza dell’animo che è
di difficile eliminazione. Alla luce di quest’analisi, la maggioranza
degli
uomini
sono
potenzialmente—se
non
addirittura
concretamente—acratici. L’uomo non-acratico sarà colui che, capace
di mirare ad una conoscenza non relativa di bene e male, diverrà un
uomo finalmente libero, nella misura in cui sarà in grado di esercitare
una psicoterapia cognitiva sui suo affetti. Nell’analisi di Bennett,
pertanto, l’acrasia in Spinoza, ben lungi dall’essere un fenomeno
37
Bennett sviluppa quest’analisi a pp. 284-8 di Bennett (1984).
65 secondario o trascurabile, diventa il fulcro della vita emotiva
dell’uomo non libero38.
38
Si veda Bennett (1984), cap. 13, per la psicoterapia cognitiva.
66 Capitolo 2
La nozione di acrasia nei testi di Spinoza
1. La presenza dell’acrasia nei testi: la citazione di Ovidio
Quello che intendo fare in questo capitolo—a partire da un solido
esame testuale—è mostrare non solo che l’acrasia è presente in
Spinoza ma anche spiegare che cosa essa sia, i suoi presupposti, la sua
natura e le sue caratteristiche concettuali. Parte dell’incompletezza che
riconosco negli altri tentativi di comprensione dell’acrasia in Spinoza
nasce da una certa leggerezza nell’analisi puntuale delle fonti. La
maggioranza degli studiosi che si sono occupati dell’acrasia in
Spinoza fino ad ora, infatti, si sono focalizzati per lo più su alcuni
aspetti particolari del fenomeno acratico, trascurando sia un esame
accurato dei testi sia il confronto con la tradizione classica.
Mio compito principale allora sarà l’analisi dei seguenti passi:
(a) Prefazione alla parte IV dell’Etica, in cui si parla di fortuna e di
cause esterne; (b) parte III dell’Etica, P2 S e (c) lettera a Schuller n.
74 (nella numerazione Mignini = Gebhart 58), in cui viene trattato il
conflitto tra appetiti opposti; (d) lo scolio della P17 della parte IV
67 dell’Etica, infine, in cui l’acrasia è collegata alla possibilità di
conoscere mediante l’opinione o l’immaginazione.
Nel fare ciò, emergerà l’originalità della posizione di Spinoza
a riguardo dell’acrasia, sia in sé, sia rispetto all’altra grande tradizione
di pensiero che, unicamente prima di Spinoza, s’è occupata di
debolezza della volontà: quella classica. Considerati questi fattori, il
confronto con i classici greci s’impone quasi da sé, non solo come
elemento d’influenza o di debito che Spinoza potrebbe aver egli stesso
contratto con i filosofi antichi a tal riguardo, ma anche come elemento
sullo sfondo del quale è teoreticamente utile valutare la posizione
spinoziana circa l’acrasia.
In particolare, l’analisi dei passi si articolerà in prima istanza
in una disamina puntuale dei quattro luoghi in cui compare la
citazione di Ovidio (“video meliora, proboque, deteriora sequor”),
cercando di illuminare al contempo il contesto filosofico in cui essa è
inserita. Gli studiosi, a partire già da Gentile e da Akkerman (come
rilevato
da
Emilia
Giancotti
Boscherini)39
sono
concordi
nell’attribuire questa citazione al libro VII delle Metamorfosi di
Ovidio, versi 20-1. In questo libro l’autore, narrando delle avventure
degli argonauti e di Medea, ricorda di come la donna, trascinata da un
impulso inaudito, divisa tra ciò che la passione sente e la mente
39
Giancotti Boscherini (1993), p. 399 nota 17.
68 consiglia, tra cupido e mens, veda il bene, l’approvi ma segua poi il
male. Questa citazione ovidiana è certamente significativa in sé stessa,
ma ciò che trovo più interessante è il fatto che per ben quattro volte
Spinoza la ripeta, utilizzandola tre volte nell’Etica e una volta nelle
Epistole (nei passi sopra indicati), sempre collegata alla spiegazione di
atti acratici e a situazioni di impotentia.
Nulla vieta di pensare che la citazione di Ovidio abbia nel testo
originale, quello del poeta latino, un significato non necessariamente
identico a quello che assume nel testo di Spinoza. Ogni grande
filosofo—e che Spinoza lo sia non v’è alcun lecito dubito—si
appropria di autori del passato che gli paiono significativi senza alcun
interesse erudito ma per illustrare meglio alcune idee filosofiche
proprie della sua speculazione. Basti pensare a come Schopenhauer
utilizza i classi greci nei suoi Parerga e Paralipomena: Platone dice
spesso cose che forse non si sarebbe mai sognato di dire veramente.
Infatti—anticipando una questione che emergerà poi in tutta la sua
valenza—nella citazione di Ovidio il conflitto è tra la passione che
sceglie il male e la mente che vede il bene, mentre l’uso che Spinoza
farà della citazione di Ovidio sarà molto più articolato e denso di
connotazioni filosofiche.
Prima di passare all’analisi filosofica dei testi, vorrei
premettere alcune osservazioni riguardanti la traduzione del testo
latino della citazione ovidiana in esame: “video meliora, proboque,
69 deteriora sequor”. Con il verbo ‘video’, che in generale significa
‘vedere’ nel senso di ‘osservare’, ‘scorgere’, ‘percepire’, si può
intendere anche un tipo di percezione sensoriale, intesa come un
percepire l’affezione ricevuta ma in maniera esclusivamente passiva.
‘Probo’ viene tradotto con ‘approvo’, intendendo con un tale verbo
l’approvazione cosciente del soggetto, la possibilità cioè che colui che
approva riconosca qualcosa come tale e ne accetta l’affezione. In
breve, ‘probo’ indica l’assenso che in un certo qual modo viene dato
dal soggetto all’alterazione o affezione percepita. Da ultimo, ‘sequor’,
che significa generalmente ‘seguo’, può essere inteso anche nel senso
di ‘inseguire’, ‘incalzare’ quasi sino a cedere40. ‘Video’ allora è inteso
come un avvertire l’affezione subita che poi il soggetto senziente
‘probat’, conosce cioè mediante l’esperienza, in quanto ne è cosciente
con gli organi di senso. L’approvazione sembra così una presa di
coscienza da parte del soggetto dell’alterazione subita, un’idea di
quell’affezione.
Queste osservazioni sulle diverse fasi dell’affezione, vale a
dire impressione iniziale passiva e successivo assenso cosciente da
parte del soggetto, non possono non rinviare nel lettore attento alla
teoria della conoscenza degli Stoici, che fu di gran lunga la dottrina
40
Si veda Lewis and Short, Latin Dictionary, ss. vv. ‘video’, ‘probo’ e
‘sequor’.
70 epistemologica più famosa dell’intera epoca ellenistica e che ebbe poi
notevoli ammodernamenti in epoca rinascimentale e illuministica.
Stando ad un livello generale, senza dilungarci troppo, per gli Stoici la
conoscenza inevitabilmente procedeva secondo quattro fasi.
Secondo Diogene Laerzio VII, 42-51, l’impressione sensibile
che colpisce il soggetto passivamente si chiama ‘phantasia’ (prima
fase). Il secondo momento è costituito dall’assenso attivo del soggetto
percipiente che accetta il contenuto dell’impressione (sunkatathesis).
A queste due fasi iniziali, seguono la cognizione vera e propria
(katalepsis) e infine il pensiero (epistêmê). Si badi che le impressioni
vengono ulteriormente distinte in impressioni adeguate (o catalettiche)
o false: le prime sono adeguate nella misura in cui esprimono
l’accordo con ciò che esiste. In quanto tali, esse sono vere e criterio di
verità. Un’impressione adeguata che riceve l’atto di assenso del
soggetto conoscente diventa cognizione (katalepsis).
Non s’intendano, tuttavia, tali impressioni adeguate come
semplice espressione di un criterio puramente mentale, come
potrebbero essere intese le idee “chiare e distinte” di Cartesio. Le
impressioni adeguate degli Stoici sono esempi di cognizione empirica,
traducibili in proposizioni come le seguenti: “C’è un albero qui di
71 fronte a me”; “oggi piove”.41 Per gli Stoici gli esseri umani possono
esperire molte impressioni adeguate e, pertanto, raggiungere spesso la
cognizione; solo al saggio stoico, è riservata l’epistêmê che è simile ad
un’idea di conoscenza sistematica, uno sguardo vero sull’interezza del
mondo, sia fisico, che interiore.
A tal proposito, un’immagine molto famosa, riportata da
Cicerone in Academica 2, 1.45, ritrae Zenone che spiega
l’epistemologia stoica con il seguente esempio: una mano aperta e
stesa nell’aria, con le dita allungate, indica la phantasia, la semplice
impressione. La stessa mano con le dita chiuse ma non serrate sul
palmo rappresenta l’assenso all’impressione iniziale. La mano con le
dita serrate a pugno stretto indica invece la cognizione; la mano ben
chiusa a pugno, ricoperta delicatamente dall’altra mano, rappresenta la
scienza, prerogativa del saggio.
Al nostro scopo, interessano in particolare le prime due fasi del
processo conoscitivo degli Stoici (e, in maniera indiretta, la
cognizione che è la sintesi dei primi due momenti). Infatti, il nesso
impressione-assenso richiama fedelmente il nesso video-probo della
41
Gli Stoici intendono le impressioni come principalmente generate
dall’incontro del soggetto conoscente con il mondo esterno; essi, tuttavia,
chiamano ‘impressioni’ anche le elaborazioni che la mente opera sulle
proposizioni prodotte da impressioni empiriche. Su questo punto, si veda
Sellars (2006), pp. 64 sgg.
72 citazione ovidiana utilizzata da Spinoza. Come ci informa Cicerone,
per gli Stoici l’assenso dato nel processo conoscitivo non deriva
necessariamente da una scelta deliberata e consapevole, ma esso è pur
sempre imputabile al soggetto che in ultima analisi fornisce
l’assenso42. Dare o rifiutare l’assenso, pertanto, è una responsabilità
lasciata interamente al soggetto conoscente. Secondo gli Stoici, non
possiamo scegliere le impressioni che ci colpiscono: se vedo un albero
di fronte a me, quest’impressione non può essermi negata. Possiamo
tuttavia decidere se dare o rifiutare l’assenso all’impressione. Se sono
convinto che un demone mi stia ingannando, posso non dare l’assenso
all’impressione di avere un albero di fronte a me. Altrimenti, sono
liberissimo di dare l’assenso all’impressione dell’albero di fronte a
me.
Alla luce di questa teoria epistemologica, l’assenso che diamo
alle impressioni si traduce prima in una credenza o giudizio (corretto o
adeguato oppure falso e infondato) e poi in un’azione (anche questa
conforme al giudizio o difforme)43. Si noti che per gli Stoici, l’assenso
42
Cicerone, Accademica 1, 1.40: “Come stavo dicendo, Zenone unì questi,
cioè a dire le impressioni ricevute dai sensi, con l’assenso della nostra mente
che egli pensava essere volontario e avere la sua causa in noi”. Si veda anche
Zeno fr. 1.61 (SVF); Cicerone, Accademica 2, 37-39.
43
Per riflettere sulla dimensione morale della teoria della conoscenza stoica,
si veda Brunschwig (2007), secondo cui le cose non sono causa di qualità
73 che conduce ad una cognizione può avere anche un giudizio di valore.
Un famoso esempio riportato da Aulo Gellio illustra il punto con
molta chiarezza.
Aulo Gellio (Notti Attiche 19.1.1-21) riferisce di un suo
viaggio in barca in compagnia di un filosofo stoico. Coinvolti in una
tempesta di mare, Aulo Gellio si stupisce di vedere il filosofo stoico
spaventato quanto tutti gli altri passeggeri. Aulo interroga il filosofo
chiedendogli lumi sulla famosa apatheia di cui gli Stoici andavano
fieri. Il filosofo stoico replica dicendo che egli non ha potuto nulla
sulle impressioni ricevute, cioè dal vedere che c’erano grandi onde,
altissime, sulla sua testa. Questo ha creato in lui un disagio iniziale.
Quello che il filosofo stoico non ha fatto, a suo dire, è di avere dato
l’assenso cognitivo all’impressione adeguata dell’onda altissima su di
lui, ma di non avere conferito nessun giudizio di valore a un tale
assenso. Il filosofo stoico non ha dato l’assenso alla seguente
proposizione: “C’è un’onda altissima sopra di me (impressione
cognitiva) e questo è male (assenso non conferito dal filosofo)”. Al
primo movimento dell’impressione, non è seguita per il filosofo—
che risultano in affezioni conoscitive (bianchezza, calore, etc), ma anche
oggetti che spingono ad una scelta etica, vale a dire, qualcosa da accettare o
rigettare.
74 diversamente da tutti gli altri passeggeri—l’attribuzione di un giudizio
di valore come parte integrante dell’assenso.
Quest’ulteriore informazione su impressione e assenso ci
permette di arrivare ai casi d’azione, che sono quelli che più ci
interessano e che ci riportano al ‘sequor’ della citazione di Ovidio,
dopo il “video meliora, proboque”. Spieghiamoci ora il ‘deteriora
sequor’. Data la caratterizzazione anche etica dell’assenso e della
cognizione, ricordando che l’impressione può essere adeguata o no,
ora l’attenzione si sposta sull’azione, o meglio, sul nesso tra giudizio
(o credenza) circa il meglio e l’azione seguente circa il peggio.
In generale, almeno dal punto di vista schiettamente teorico, si
possono dare quattro casi: un’azione può essere conforme o difforme
rispetto ad un’impressione. L’impressione a sua volta può essere
adeguata (o vera=giudizio vero) o non adeguata (o falsa=giudizio
falso). Questo crea una possibile quadri-partizione: a) l’azione è
conforme ad un giudizio vero; b) l’azione è difforme da un giudizio
vero; c) l’azione è conforme ad un giudizio falso; d) l’azione è
difforme da un giudizio falso. L’acrasia rientra a pieno titolo nel caso
b): l’individuo compie un’azione difforme rispetto al suo miglior
giudizio, che come tale è un esempio d’impressione adeguata, cioè
vera. Per fare un esempio: l’individuo sa che è bene fare p, ma egli
compie non-p. Per ragioni di completezza, il caso c) rappresenta
l’acrasia socraticamente intesa. L’individuo acratico è ignorante circa
75 il vero (per usare il nostro lessico, egli ha un giudizio falso), e pertanto
compie un’azione conforme a tale giudizio, cioè in linea con la sua
ignoranza.
Dopo aver analizzato in generale la citazione di Ovidio, mi
accingo ora ad esaminare in dettaglio i luoghi in cui questa compare in
Spinoza44.
2. L’acrasia e la fortuna.
Video meliora, proboque, deteriora sequor: percepisco, allora,
approvo e sono cosciente di quell’affezione percepita, del meglio per
me (giudizio), ma poi seguo il male (azione). Perché?
Una prima spiegazione del perché l’uomo possa seguire il
peggio, benché egli veda ciò che è meglio, emerge dalle parole stesse
di Spinoza nella prefazione alla parte IV dell’Etica. Il passo indicato
così recita: “homo enim affectibus obnoxius suis juris non est, sed
44
Per un ulteriore approfondimento, più filosofico e teoretico, dell’uso della
citazione di Ovidio in connessione al fenomeno acratico, si veda un recente
articolo di Glauser su Locke e il problema dell’acrasia. Glauser, in
particolare, mette in risalto il nesso che intercorre tra il giudizio e il desiderio
(piuttosto che tra il giudizio e la volontà), come elemento centrale
dell’acrasia.
76 fortunae, in cujus potestate ita est, ut saepe coäctus sit, quamquam
meliora sibi videat deteriora tamen sequi” (“l’uomo che è soggetto
agli affetti, infatti, non è padrone di sé, ma in balìa della fortuna, nel
cui potere è a tal punto che spesso è costretto, sebbene veda il meglio,
a seguire tuttavia il peggio”).
Spinoza precisa qui che un individuo soggetto (coäctus) alle
passioni (o affetti passivi), da cui non può sottrarsi, resta
completamente nelle mani della fortuna, cioè in balìa della serie di
cause esterne che lo spingono a forza, e che quasi costringendolo, lo
conducono a fare il peggio. Lo stesso verbo sequor, qui utilizzato, che
significa “seguire” nel senso di “inseguire”, quasi cioè fino a incalzare
e cedere, come detto poc’anzi, insieme al termine coäctus,
suggeriscono una sorta di meccanismo di costrizione quasi causale
proveniente dall’esterno nei confronti del quale l’uomo non può fare
nulla.
Analizzando più in dettaglio questa prima citazione ovidiana e
il testo spinoziano dove è inserita emergono interrogativi interessanti,
come i seguenti: in primo luogo, anche ammesso che un individuo sia
costretto a seguire il peggio da qualcosa di esterno e di più potente e
forte di lui, chi stabilisce e definisce, che cosa sia quel peggio verso
cui si è diretti e a cui si cede? In secondo luogo, che cosa è bene e il
meglio per l’uomo, e che cosa male e il peggio? Esistono cioè un bene
e un male in sé o c’è qualcosa che è bene per me e male per un altro?
77 Definire le nozioni di bene-meglio e male-peggio può essere pertanto
un modo per chiarire le ragioni spinoziane del perché in molti casi un
uomo può essere indotto a scegliere qualcosa che gli nuoce.
In terzo luogo, la scelta di seguire il peggio è effettivamente
una scelta? Sappiamo, infatti, che ogni atto di libero arbitrio è
puramente illusorio in un sistema filosofico come quello spinoziano:
non esiste nessuna scelta deliberata, nessuna volontà ma singole
volizioni concrete. Allora di che natura può essere l’atto di seguire il
peggio se non è intenzionale?45
45
Riguardo la presunta intenzionalità o meno di un atto acratico, trovo
piuttosto interessante la proposta di Pinheiro, secondo cui se per intenzionale
s’intende l’esercizio della reale deliberazione e quest’ultima implica
l’esistenza di stati di cose contingenti, è ovvio che non c’è spazio alcuno nel
sistema filosofico spinoziano per l’intenzionalità convenzionalmente intesa.
Ma se pensiamo (in un senso minimo) all’intenzionale inteso come un atto
che risulti da una deliberazione non reale, e non da una forma di pensiero
proposizionale, allora sì che possiamo ipotizzare nella filosofia della mente
di Spinoza uno spazio di intenzionalità, Pinheiro (2007). Si veda anche la
nota su Brentano (nota n.4 cap.1)). A tal proposito, inoltre, ritengo utili gli
studi di Davidson sui paradossi di irrazionalità (1982) in Davidson (2006),
pp.143-146; in particolare, Davidson distingue il Principio di Medea,
secondo cui un individuo agisce irrazionalmente contro il suo miglior
giudizio perché una forza aliena (alien force) lo soverchia, dal Principio di
78 Infine, c’è uno spazio, seppur piccolo, d’irrazionalità
nell’universo spinoziano, se è vero che l’uomo per Spinoza comunque
non può prescindere dagli affetti passivi? Ammettere una forma
d’irrazionalità, come potrebbe essere la condizione in cui versa
l’uomo che agisce acraticamente, non vuol dire ammettere il mondo
del non-razionale, opzione in sé stessa inconciliabile con il
razionalismo spinoziano. L’irrazionale per definizione è ben distinto
dal non-razionale. Donald Davidson, che conosce la filosofia
spinoziana e le dedica un lungo studio in particolare riguardante la
teoria causale degli affetti, occupandosi nello specifico dei vari tipi di
paradossi di irrazionalità, descrive a mio avviso chiaramente come e
in che senso sia bene tenere distinti in filosofia i termini di irrazionale,
non-razionale e razionale.46 Ricordando Hobbes, secondo cui solo
l’uomo ha il privilegio dell’assurdo, Davidson suggerisce che solo
l’essere umano in quanto creatura razionale può essere irrazionale. Il
non-razionale è fuori dall’ambito della razionalità in assoluto, mentre
l’irrazionale indica una mancanza “nella casa della ragione”.
Platone, secondo cui invece è impossibile che un individuo agisca
intenzionalmente contro il suo giudizio migliore, in quanto forma di
conoscenza e in quanto creatura razionale (preciso che in verità il principio
che Davidson attribuisce a Platone è la posizione di Socrate). Davidson
(1993) su Spinoza e la teoria causale degli affetti, in Davidson (2005).
46
Davidson (2006), p.136.
79 L’irrazionale è pertanto un processo o stato mentale, così come lo è il
razionale, solo che è un processo che è “sbagliato, andato male”47.
Seguendo le indicazioni terminologiche di Davidson, mostrerò
pertanto come e in che senso l’acrasia può essere intesa come un
fenomeno irrazionale o come una condizione irrazionale in cui versa
l’individuo, entrambi i casi perfettamente compatibili e conciliabili
con il razionalismo spinoziano. Cercherò inoltre di chiarire perché
l’acrasia, in quanto difetto della ragione, non sia mai un fenomeno
che può essere coerentemente definito contro ragione, al pari di un
paradosso autocontradditorio. Alla luce di questa spiegazione,
l’acrasia non è mai una condizione non-razionale, ma solo irrazionale,
o, come voleva David Pears, una “irrazionalità motivata”48.
Ripartiamo
allora
dal
passo—riferito
poc’anzi—della
Prefazione alla parte IV dell’Etica, in cui compare la citazione di
Ovidio, riferita e utilizzata da Spinoza più volte, al fine di chiarire i
seguenti punti: 1) che cosa è bene e dunque meglio per un individuo?
47
“Gone wrong”, come dice Davidson stesso: Davidson (2006), pp. 138-
152.
48
Pears (1984), pp. 22-26, dedica un’intera monografia, dal titolo molto
esplicativo Motivated Irrationality, alla questione dell’acrasia, esaminandola
in relazione al problema dell’autoinganno, di una possibile percezione errata,
e di un ragionamento dell’individuo mai compiutamente non-razionale.
80 2) che cosa invece è male-peggio? 3) perché seguiamo il peggio se
vediamo il meglio? 4) perché in definitiva agiamo acraticamente?
Spinoza nella Prefazione alla parte IV dell’Etica definisce la
schiavitù umana nel seguente modo: “Humanam impotentiam in
moderandis, et coërcendis affectibus servitute voco” (“chiamo
‘schiavitù’ l’impotenza dell’uomo a moderare e reprimere gli affetti”).
Nel fare ciò, egli descrive un caso di azione acratica, fornendocene
una prima formulazione. Egli inoltre dice di voler dimostrare la causa
del perché accadono fenomeni acratici, intendendo spiegare “che cosa
gli
affetti
abbiano
di
buono
o
di
cattivo“
e
precisando
terminologicamente, nel prosieguo della prefazione, le nozioni di bene
e male, oltre che di perfetto e imperfetto49.
49
Trovo qui interessante anche il collegamento tra questa prefazione alla
parte IV dell’Etica e il libro IX (Theta) della Metafisica (1044 b33-35) di
Aristotele, circa la nozione di potentia ed impotentia. Sia Spinoza che
Aristotele usano lo stesso esempio del costruttore e dell’arte di costruire
case, per chiarire la nozione di potenza. Questo stesso nesso è stato già
rilevato ed esplicitamente asserito da Macherey, il quale sostiene che
Spinoza riprende proprio da Aristotele l’esempio in questione per spiegare la
produzione di opere artificiali e l’azione dell’uomo sulla natura (insieme alle
nozioni di perfetto e imperfetto): Macherey (1997), pp. 15-16.
81 Per rispondere ai primi due quesiti che ci siamo posti nella
pagina precedente, bene e male sono concetti relativi per Spinoza 50.
Essi non esistono in sé, ma solo in relazione a qualcosa, sono cioè
modi del pensare: significativo a tal proposito l’esempio della musica
che può risultare buona per l’uomo malinconico; cattiva per quello
addolorato e indifferente per il sordo che non può ascoltarla.51 Rebus
sic stantibus, bene e male non sono fenomeni reali ma sono solo modi
di pensare; parimenti, le nozioni di “meglio” e di “peggio” saranno
altrettanto relative, soggettive e non oggettivamente date. Si possono
comprendere anche le ragioni per cui ciò che conta veramente per un
individuo non sia l’oggetto in sé, la cosa in sé stessa, verso cui o da
cui l’individuo è mosso, ma il modo in cui egli è affetto dalle cose,
come cioè le cose lo colpiscono52. Quella cosa che è bene allora per X
può essere male per Y. Ciò che risulta essere il meglio viene stabilito
50
Più avanti Spinoza, in EIV, P68, dirà anche che bene e male sono
correlativi, nella misura in cui si definiscono reciprocamente. Si noti che la
correlatività è un esempio particolare di relatività, così come Aristotele la
definisce in Metafisica IV, 6, circa la percezione.
51
Si veda la Prefazione di EIV.
52
In tal senso, Pinheiro pensa di poter asserire che le cause esterne sono
delle affezioni nella mente dell’agente, dei suoi stati mentali, in Pinheiro
(2007).
82 in relazione a qualcosa e relativamente a qualcuno; così come ciò che
è peggio è tale per qualcuno e in relazione a qualcosa.
Per quanto riguarda il terzo e il quarto quesito: è noto che per
Spinoza ognuno giudica e stima secondo il proprio affetto. Ciò che è
bene è tale perché qualcuno lo desidera e il desiderio è fondativo,
precede cioè ogni forma di attività conoscitiva in genere. Che cosa
allora fa sì che l’individuo, pur giudicando che un’azione A sia meglio
di B, per lui, tuttavia sceglie B? Stando a questa prima lettura del testo
spinoziano, un individuo segue il peggio (B), pur vedendo il meglio
(A), solo perché, sottoposto agli affetti passivi, non è padrone di sé
stesso ma nelle mani della fortuna, della serie cioè di cause o eventi
che lo costringono dall’esterno.
Quale ruolo può svolgere la fortuna nell’agire acratico?
Secondo la definizione di Spinoza, per fortuna s’intende “la direzione
divina delle cose umane mediante le cause esterne”53. L’individuo
risulta passivo o coatto perché subisce l’azione delle cause esterne da
cui non può prescindere in quanto egli è parte della natura. Mi accingo
ora a chiarire l’ineluttabilità della fortuna nella vita degli esseri umani,
approfondendo meglio il collegamento tra fortuna e acrasia.
53
Spinoza, TTP3, 3; TTP Pref. 1. Spinoza parla anche di forte fortuna,
intendendo con ciò “il mero caso” (TP11, 2).
83 Come Spinoza spiega nelle primissime proposizioni della parte
IV dell’Etica, l’individuo è soggetto alla natura e al suo ordine; e in
ciò risiede la radice ontologica delle passioni. Così facendo, egli è
sottoposto a una serie di modificazioni, di mutamenti dei quali per lo
più è causa inadeguata e che egli subisce. Dal momento che
l’individuo è soggetto alle passioni, inevitabilmente egli subirà molti
mutamenti e sentirà molte affezioni derivanti sia dalla natura che dalle
cause esterne. La natura non è altro che una serie infinita di relazioni
reciproche;
l’individuo
stesso,
che
agisce
ed
esiste
come
determinazione particolare (modo finito) dell’essenza e della potenza
della natura di cui è parte, si modificherà in relazione ad altri corpi e
altre menti. Emerge così chiaramente l’idea di un vero e proprio
campo dinamico di forze, di modificazioni, di corpi e menti che
modificano altri corpi e altre menti e che a loro volta ne sono
modificati, al variare delle relazioni stesse. L’individuo non può
esistere e agire senza le altre parti; tuttavia egli persevera con una
forza limitata e superata dalle cause esterne (EIV, P3). Non è possibile
in alcun modo evitare le cause esterne (anche se più avanti, nella
sezione finale della parte IV e in particolare nella parte V Spinoza
darà delle indicazioni su come sopportare gli avvenimenti contrari e
contenere in un certo senso le cause esterne).
Per ora si rammenti che l’individuo non può evitare le cause
esterne, in quanto è parte integrante di questa natura (EIV, App.32).
84 L’affettività dell’individuo appare come una continua interazione tra
affetti attivi e passioni che interagiscono tra loro.54 Da ciò si evince
con una certa evidenza l’idea che l’esistenza stessa dell’individuo sia
una sorta di lotta perpetua. In natura non esiste per Spinoza nessuna
cosa singolare di cui non esista una cosa più forte e più potente da cui
quella può essere distrutta (EIV, Ax.1). Qualunque cosa data pertanto
ne implicherà sempre una più forte e potente: esiste un numero
infinito di conatus ciascuno dei quali lotta per la sua individuale
sopravvivenza, sino a giungere a un vero e proprio scontro reciproco.
Come ricorda Nadler, nella vita dell’essere umano questa lotta si
verifica sia tra l’individuo e le forze dentro sé stesso che tra
l’individuo e le forze fuori, esterne a lui55. Il corpo lotta con i propri
conatus contro le cose che potrebbero indebolirlo; la mente lavora per
incrementare il proprio potere di azione.
Qui s’insinua e trova spazio concettuale l’acrasia come
fenomeno intrinseco alla filosofia spinoziana. Come si legge in Etica
IV, P3, il potere delle cause esterne è infinitamente più forte della
forza dell’individuo, del proprio individuale conatus. L’individuo è
parte della natura, dunque passivo e mai svincolato del tutto dalle
cause esterne. Si può dare il caso allora che un individuo si veda
54
Mignini (1995), pp.142-144.
55
Nadler (2006), pp.221-225.
85 costretto a agire contro il proprio miglior giudizio—quindi
acraticamente—proprio perché vinto dalle cause esterne, dal potere
della fortuna. La fortuna con il proprio potere soverchia il conatus
dell’individuo, sempre perdente di fronte all’irrompere inevitabile
delle cause esterne su di lui.
È
quindi
inevitabile—naturalmente
inevitabile—che
l’individuo spinoziano soggiaccia alle forze esterne, agendo contro il
proprio miglior giudizio, che lo spingerebbe ad azioni altre rispetto a
quelle che si vede costretto a compiere. Se così fosse, l’acrasia diventa
un fenomeno che fa capolino dietro ogni riga dell’Etica, almeno delle
parti IV e V, nella misura in cui la potenza delle cause esterne e della
fortuna rinvia sempre ad un individuo perdente, che può agire contro
il proprio miglior giudizio. Alla luce di quanto detto, l’acrasia si
presenta in Spinoza come un fenomeno carsico, una presenza fattiva
ma di difficile identificazione, visto il terreno accidentato che
attraversa. Nell’Etica Spinoza mira a costruire un gigantesco sistema
razionale che ci abbacini con la sua chiarezza, ma dietro a cotanta
razionalità scorrono fiumiciattoli nascosti, dove si cela l’irrazionale,
l’atto acratico.
Alla luce di questa analisi, la fortuna (con il predominare delle
cause esterne a lei connesse) risulta una delle cause della presenza
dell’acrasia nella filosofia di Spinoza. Ad esempio, io posso ritenere
che non sia bene mandare mia figlia Zoe a scuola al compimento dei
86 sei anni d’età e per un tempo così lungo in un giorno, e trovarmi
tuttavia costretta a farlo perché in Italia vige l’obbligo d’istruzione. Io
mi formo un giudizio relativo circa il bene di mia figlia Zoe. Il mio
giudizio può essere sbagliato ma è legittimo da un punto di vista
epistemologico e, soprattutto, io posso agire adeguandomi a quel
giudizio. Per tornare al lessico ovidiano preferito da Spinoza, vedo ciò
che è bene e meglio per Zoe (secondo il mio punto di vista), ma scelgo
ciò che è peggio per lei (dalla mia prospettiva) in questo momento.
Nel mandare a scuola Zoe contro il mio giudizio migliore,
posso apparire non sottoposta a nessuna passione interna (anzi l’amore
per mia figlia mi porterebbe a fare l’esatto contrario), ma sono
costretta a fare ciò da una forma di coazione a me esterna (la legge
vigente), che funziona in parte come un dato di fortuna, una causa
esterna su cui nulla posso. Quindi, la mia azione acratica sembra
essere tale alla luce della coazione a me imposta dalle cause esterne.
Stando a quanto detto sul ruolo della fortuna nel sistema
spinoziano, l’esempio sopra riferito di Zoe che va a scuola contro il
miglior giudizio di sua madre è un caso lampante di acrasia e del
nesso di questa con la fortuna. È questa, tuttavia, l’unica spiegazione
possibile dell’esempio riferito? Sono io costretta solo dalle cause
esterne ad agire nel modo in cui agisco, oppure c’è qualche altro
elemento significativo nel quadro? È il mio appetito a desiderare
debolmente? Tutte le cose, del resto, sono determinate a esistere e
87 agire per Spinoza in un certo modo dalle cause esterne: tutto ciò che
non esiste o agisce per sua natura, richiede una causa esterna. L’atto di
mandare Zoe a scuola costretta dalla legge (di seguire, quindi, quello
che a me appare come il peggio per lei, agendo contro il mio miglior
giudizio) potrebbe essere condizionato dal mio appetito-amore per lei
che mi impedisce di accettare serenamente quanto le cause esterne (la
legge vigente) mi obbligano a fare. Se così fosse, questo mio
appetito—il desiderare che lei resti a casa e si educhi alla scrittura e
alla lettura in un modo più consono ai suoi bisogni—potrebbe essere
un’altra ragione del mio agire acratico (nel corso dell’indagine questo
punto risulterà più chiaro, specie alla luce di quanto mostrerò in
merito agli affetti contrari e all’appetito debole).
Rebus sic stantibus, la mia azione acratica, vale a dire mandare
a scuola mia figlia contro il mio (soggettivo) giudizio migliore a
riguardo, potrebbe essere meglio descritta come il risultato di due
fattori che interagiscono tra di loro in modo massiccio ma che
rimangono comunque fattori distinti l’uno dall’altro: la coazione a me
imposta dalle cause esterne che cozza contro il mio miglior giudizio, e
gli appetiti che mi spingono all’azione e che si traducono nel mio
giudizio soggettivo di non mandare a scuola mia figlia. Anche in
Spinoza—e questa è la mia tesi—i due fattori ora descritti e distinti
sono in realtà fusi nell’azione acratica. Come rammenta Spinoza nella
Prefazione alla parte IV dell’Etica (citata in apertura a questo
88 paragrafo 2), l’individuo acratico è sia soggetto agli affetti (egli
desidera debolmente e può naturalmente essere in conflitto con sé
stesso) sia in balìa della fortuna.
L’esempio di Zoe ci ha permesso di individuare le due cause
dell’agire acratico che penso possano spiegare tale fenomeno
all’interno del sistema di Spinoza: la fortuna come causa esterna (su
cui ci siamo dilungati in questo paragrafo) e il conflitto appetitivo
come causa interna (che mi accingo a chiarire nel seguente paragrafo).
3. L’acrasia e la teoria degli affetti
In modo preliminare, ritengo utile chiarire il termine ‘interno’ che
utilizzo spesso per riferire, in particolare, sia il conflitto che si dà tra
due affetti nell’individuo che il conflitto dell’individuo con sé stesso.
E’ noto che nella filosofia spinoziana ‘interno’ non è sinonimo
d’interiorità, la quale pare essere un concetto sconosciuto a Spinoza.
‘Interno’ non indica per Spinoza un luogo ontologico, tanto meno una
sostanza in senso agostiniano o cartesiano di soggettività. L’uomo per
Spinoza è solo un modo finito e nulla in lui o fuori di lui rinvia alla
sostanza. L’interno al più indica semplicemente un ‘modo’ (non un
luogo ontologico), una modalità di relazione dell’individuo con sé
stesso.
89 L’idea di ‘interno’ come modo di relazione dell’individuo con
sé stesso e non come luogo ontologico è filosoficamente legittima,
almeno sin dal pensiero antico. In un mio precedente lavoro sul
dialogo interiore nel pensiero classico (in particolare in Omero,
Platone e Aristotele), ho rilevato come la filosofia greca non avesse
elaborato alcuna idea di soggetto e di una dimensione interiore come
luogo d’eccellenza per la vita ontologica di un tale soggetto.56 Anche
le filosofie più soggettiviste del mondo antico, come il relativismo di
Protagora e l’infallibilismo dei Cirenaici, non hanno mai elaborato
l’idea che il soggetto abbia uno spazio ontologico proprio. Ciò non ha
impedito alla filosofia greca di pensare il soggetto come modo
particolare di relazione dell’individuo con sé stesso.
Egualmente legittimo, dal punto di vista filosofico, è l’uso di
‘interno’ in Spinoza per qualificare il conflitto che l’individuo vive
con sé stesso ed in sé stesso, senza per questo presumere una sostanza
interna che indichi un luogo ontologico.
Un secondo luogo spinoziano utile alla ricostruzione e
definizione della nozione di acrasia è EIII, P2 S, ove è presente per la
seconda volta la citazione di Ovidio. Nel lungo e noto scolio alla
56
Sull’idea che la filosofia greca non abbia elaborato il concetto di soggetto,
si veda il famosissimo articolo di Myles Burnyeat (1982), dal titolo molto
significativo: Idealism and Greek Philosophy: what Descartes saw and
Berkeley missed.
90 proposizione 2 della parte III dell’Etica, dopo aver dimostrato
l’unicità e l’identità della sostanza (EII, P12), pur nella pluralità dei
suoi attributi, e dopo aver stabilito che la mente non determina il
corpo ad agire né il corpo la mente a pensare, Spinoza dice che le cose
umane andrebbero certamente meglio se fosse in potere dell’uomo
tanto parlare quanto tacere. L’esperienza però insegna che gli uomini
non possono controllare la loro lingua, e meno che mai moderare i
loro appetiti. I più pensano che si possa agire liberamente nei
confronti di quelle cose “verso cui tendiamo con moderazione”, gli
appetiti deboli, in quanto questi, a differenza di quelli forti, possono
essere frenati.
In realtà Spinoza sottolinea che non facciamo nulla
liberamente. Anzi, spesso facciamo molte cose di cui poi ci pentiamo,
e quando siamo agitati da affetti contrari (contrariis affectibus
conflictamur), vediamo il meglio e seguiamo il peggio. Così il
bambino crede di appetire liberamente il latte, il fanciullo adirato la
vendetta; parimenti l’ubriaco crede di dire per libero decreto della sua
mente ciò che da sobrio preferirebbe tacere57. Ciascuno per Spinoza
57
Nell’Etica Nicomachea VII dell’edizione E.M., Aristotele utilizza la stessa
figura dell’ebbro o ubriaco per parlare di acrasia. Come in Spinoza, l’ebbro
viene utilizzato da Aristotele come esempio di non moderazione o debolezza
dell’appetito.
91 regola tutte le cose secondo il proprio affetto; se agitato da affetti
contrari, l’individuo non sa esattamente quello che vuole.
Spinoza utilizza ancora una volta la citazione di Ovidio,
ripetendo quasi testualmente quanto detto nello scolio alla P2 della
parte III dell’Etica. Nella lettera a Schuller (lettera 74 nella
numerazione Mignini=Gebhardt 58), ottobre 1674, Spinoza ribadisce
e ripete sostanzialmente l’argomento della debolezza dell’appetito.
Egli sta cercando di mostrare in questa lettera che il libero arbitrio sia
solo un pregiudizio innato in tutti gli uomini. L’esperienza insegna a
sufficienza che gli uomini non sono capaci di controllare nulla, meno
che mai i loro appetiti. Spesso essi, combattuti da affetti contrari,
vedono le cose migliori ma seguono le peggiori, continuando a
credere di essere liberi. Ciò accade perché essi “appetiscono certe cose
debolmente”, hanno cioè degli appetiti deboli, che, in quanto tali,
possono essere diminuiti con facilità dalla memoria di un’altra cosa
della quale ci si ricorda più frequentemente. Ecco le parole di
Spinoza:
Questa è quell’umana libertà che tutti si vantano di avere e che consiste
soltanto nell’essere gli uomini consapevoli dei loro appetiti e ignari delle
cause dalle quali sono determinati. Così il bambino crede di volere
liberamente il latte; il fanciullo irato di volere la vendetta e il timido la fuga.
L’ubriaco crede di dire per libera decisione della mente quelle cose che poi,
92 da sobrio, vorrebbe aver taciuto. Così, colui che delira, il ciarlatano e molti
di questa razza credono di agire per libero decreto della mente, non di essere
trasportati dall’impulso. E poiché questo pregiudizio è innato in tutti gli
uomini, non si liberano di esso molto facilmente. Infatti, benché l’esperienza
insegni più che a sufficienza che gli uomini nulla possono controllare meno
che mai i loro appetiti e che spesso, combattuti da affetti contrari, vedono le
cose migliori e seguono le peggiori, credono tuttavia di essere liberi e questo
avviene perché appetiscono certe cose debolmente ( leviter appetant) e tale
appetito può essere diminuito con facilità dalla memoria di un’altra cosa
della quale ci ricordiamo più spesso.
I due passi di Spinoza qui riportati contengono la stessa citazione di
Ovidio e la spiegano allo stesso modo, vale a dire, riferendosi al
conflitto affettivo. I termini concettuali essenziali che Spinoza utilizza
riferendosi alla citazione di Ovidio nei passi testé indicati sono i
seguenti: gli affetti contrari, la fluttuazione dell’animo, l’appetito
debole e, non ultima, la questione più complessa della libertà.
Spinoza definisce l’affetto nel seguente modo: “Per affetto
intendo le affezioni del corpo con le quali la potenza di agire dello
stesso corpo è aumentata o diminuita, favorita o ostacolata e,
simultaneamente, le idee di queste affezioni. Se dunque possiamo
essere causa adeguata di qualcuna di queste affezioni, per affetto
intendo un’azione, altrimenti una passione” (EIII, Def.III).
93 Spinoza poi definisce gli affetti contrari nel seguente modo:
“Per affetti contrari intenderò d’ora in poi quegli affetti che trascinano
l’uomo in direzioni opposte, sebbene siano dello stesso genere, come
la lussuria e l’avarizia, che sono specie dell’amore; né sono contrari
per natura, ma per accidente” (EIV, Def.V).
Preciso inoltre che per Spinoza l’affetto, essenza stessa
dell’uomo, è potentia agendi, dunque conatus, sforzo, vale a dire, di
autoconservazione, quella forza o potenza con cui ogni ente è
determinato a conservare la propria esistenza e a compiere tutto ciò
che è utile a perfezionarsi (EIII, PP4-8). Questo sforzo (o conatus) in
quanto spinta, impulso ad agire si esprime attraverso il desiderio, la
cupidità o l’appetizione in genere. Da ciò segue che quando questo
sforzo si riferisce alla sola mente, per Spinoza si tratta di volontà;
quando invece si riferisce simultaneamente alla mente e al corpo si
chiama appetito.
L’appetito si distingue poi dalla cupidità nella misura in cui
quest’ultima è consapevole dello sforzo di cui stiamo trattando. Nel
noto scolio alla proposizione 9 della parte III dell’Etica, Spinoza
afferma: “Questo sforzo si chiama volontà quando si riferisce alla sola
Mente; ma quando si riferisce simultaneamente alla Mente e al Corpo
si chiama Appetito, che perciò non è altro che la stessa essenza
dell’uomo, dalla cui natura seguono necessariamente le cose che
servono alla sua conservazione […]; la Cupidità è l’appetito con la sua
94 consapevolezza” (EIII, P9 S). L’appetito è pertanto distinto da
Spinoza dalla cupiditas: quest’ultima è l’essenza stessa dell’uomo ed
è forma fondamentale dell’affetto. Più rigorosamente, la cupiditas è
l’appetito con la sua consapevolezza (“cupiditas est appetitus cum
ejusdem conscientia”, EIII, P9 S) 58. L’appetito è allora quello sforzo,
quella pulsione propria di un soggetto sensibile non consapevole; la
cupiditas invece è la pulsione umana di un soggetto consapevole di
averla.
Ora, date queste definizioni, passiamo alla ricostruzione
dell’argomento mediante cui Spinoza presenta e discute il conflitto
affettivo, alla base dell’acrasia, accanto alle cause esterne. A tal fine,
per approfondire ciò, penso sia utile chiarire e definire prima quella
58
In particolare, come sottolinea Emilia Giancotti Boscherini (1993), p.399
nota n.16, Spinoza di volta in volta userebbe i termini desiderium-appetituscupiditas in maniera distinta, così che sembrerebbe più corretto mantenere
tale distinzione. Alle definizioni date in EIII, P9 S di appetito e cupiditas, si
aggiunge quella di desiderio, che non è altro che una forma di cupidità o
appetito di disporre di una certa cosa, di possederla (EIII, Aff.Def.32). La
studiosa ricorda infine che il termine appetitus ricorre ben 47 volte, a cui
vanno aggiunte le 47 volte del verbo appetere; desiderium invece ricorre
solo 8 volte; la frequenza più alta è quella di cupiditas che ricorre 157 volte.
(Si veda pure, EIII, AD1 Ex).
95 fluttuazione dell’animo che Spinoza stesso collega ai conflitti affettivi
in genere.
In Etica III, P17 S, fluctuatio animi o fluttuazione dell’animo
è per Spinoza quello stato della mente che nasce da affetti contrari:
“Questa costituzione della mente che nasce da due affetti contrari, si
chiama fluttuazione dell’animo, che perciò è nei confronti dell’affetto
quel che il dubbio è nei confronti dell’immaginazione”.
Spinoza precisa che deduce queste fluttuazioni dalle cause che,
per sé, sono cause di un affetto e, per accidente, sono cause di un altro
affetto, senza per questo negare che le fluttuazioni dell’animo
traggono origine dall’oggetto che è causa efficiente di entrambi gli
affetti opposti. Il corpo umano per Spinoza è composto da moltissimi
individui di natura diversa: uno stesso e solo corpo può essere affetto
in moltissimi e diversi modi; al contrario, quello stesso corpo potrà a
sua volta affettare in molti e diversi modi una sola e stessa parte del
corpo59. Un solo e stesso oggetto può essere allora causa di molti
affetti contrari. Si comprende ora meglio in che senso nel sistema
59
Mantengo come traduzione del verbo latino ‘afficere’ l’italiano, forse un
po’ desueto, di ‘affettare’, così come proposto da Emilia Giancotti
Boscherini (1993), p.363 nota 121, perché a mio parere rende in maniera più
adeguata il significato delle possibili modificazioni dell’affettività nel
sistema filosofico di Spinoza. Si vedano anche EIV, PP38-39; EIV, Cap.
XXVII.
96 filosofico spinoziano sono presenti forze, energie, corpi che vengono
modificati e che a loro volta possono modificare altri corpi,
interagendo tutti in una serie infinita di combinazioni sino al
delinearsi di una sorta di vero e proprio campo dinamico di forze.
Come Spinoza ricorda anche nello scolio di EIII, P59 S, le fluttuazioni
dell’animo nascono dalla composizione dei tre affetti primitivi (vale a
dire, cupidità, gioia e tristezza).
Da ciò appare che noi siamo per Spinoza agitati dalle cause
esterne in molti modi e, come onde del mare agitate da venti contrari,
fluttuiamo in direzioni opposte, inconsapevoli del nostro destino e
della nostra sorte60. Spinoza inoltre sottolinea che ha illustrato solo le
passioni più importanti, non tutti i possibili conflitti dell’animo. Tanti
e indefiniti possono allora essere i conflitti affettivi alla base delle
infinite combinazioni affettive. Interessante, infine, a tal proposito
anche quanto si legge in EIII, P51: se uomini diversi possono essere
affetti dallo stesso oggetto in modo diverso, così pure uno stesso
uomo potrà essere affetto dallo stesso oggetto in modi diversi, in
60
Approfondire quanto segue mi porterebbe troppo lontana, ma trovo
interessante quanto leggo nella Medea di Seneca circa la fluttuazione
dell’animo: “Cuore, perché vacilli? Perché lacrime mi bagnano la faccia e
sono divisa tra ira ed amore? Fluttuo in balìa di una doppia corrente: come
quando i venti rapaci si scontrano in guerre selvagge e il mare ribelle è
sconvolto dalla discordia dei flutti, così ondeggia il mio cuore”.
97 tempi però diversi. Così dicendo, potrebbe accadere che lo stesso
uomo approvi il bene e segua ‘poi’ il male in tempi però diversi? Se
così fosse quel ‘poi’ indicherebbe uno spostamento cronologico nel
tempo delle due azioni, seppur piccolo che sia61.
Il nesso appena evidenziato tra acrasia e fluttuazione
dell’animo appare ora chiaro, così come il significato del conflitto
affettivo che deduciamo a partire da questi fenomeni. In primo luogo,
l’acrasia non è una semplice fluttuazione dell’animo né è un semplice
stato della mente, ma essa si riferisce simultaneamente alla mente e al
corpo. L’acrasia non è inoltre un mero conflitto affettivo che conduce
l’uomo ad oscillare, ma il conflitto affettivo è una delle cause—una
causa interna—dell’acrasia stessa. La fluttuazione dell’animo nasce
così da affetti opposti che tuttavia agiscono e si agitano l’uno accanto
all’altro, come nel caso della speranza e della paura, affetti contrari
che permangono sempre insieme (EIII, P50): un individuo non spera
mai senza aver paura, né ha paura senza sperare. L’acrasia, invece, è
un fenomeno ben più complesso e articolato della fluttuazione
dell’animo, essendo quella non un semplice conflitto tra affetti
contrari che esistono nello stesso tempo, bensì il prodotto di un
61
In particolare, fra breve, approfondirò il significato del ‘poi’, così come
questo si deduce a partire dal nesso acratico tra un giudizio circa il meglio e
l’atto di cedere invece al peggio. Su ciò vedi anche EIV, PP15-17.
98 possibile conflitto affettivo. L’acrasia potrebbe, in un certo senso,
presupporre uno stato di fluttuazione dell’individuo, nella misura in
cui l’acratico vive al proprio interno dei conflitti affettivi, ma essa
resta un fenomeno distinto dalla fluttuazione dell’animo.
Il bene e il male per l’acratico non sono semplicemente due
affetti contrari, ma elementi che conducono l’individuo ad oscillare,
ad essere combattuto a causa loro, arrivando a vedere il bene per poi
cedere al male. Il conflitto affettivo alla base dell’acrasia si risolve in
un atto acratico, contrario al migliore giudizio dell’agente. Il conflitto
tra affetti opposti invece—tipico di chi fluttua—permane senza venir
risolto in un’azione concreta, continuando ad agitare l’animo del
fluttuante. Vedo il bene e seguo il male: questa è un’azione acratica.
Spero e temo qualcosa, in quanto qualunque cosa può essere causa di
speranza e di paura: questa invece è una fluttuazione dell’animo.
A partire da queste definizioni appena fornite (di ‘affetto’, di
‘contrario’, di ‘appetito e di ‘fluttuazione dell’animo’), sulla base dei
due testi riferiti (la lettera a Schuller e EIII, P2 S), si può ipotizzare
che un individuo possa vedere il bene e seguire tuttavia il male perché
“appetisce debolmente certe cose”. Quando ciò accade, vale a dire
quando l’appetito risulta debole, nell’individuo si verifica un conflitto
tra affetti contrari, opposti, a causa dei quali egli è agitato e
“combattuto da affetti contrari”. Egli è indotto dall’interno ad agire
acraticamente. L’azione acratica—la decisione di seguire il peggio,
99 dopo aver approvato il meglio—pone fine al conflitto affettivo che
agitava prima l’individuo, anche se in modo dannoso per l’individuo
stesso. Egli pertanto si comporta acraticamente in primo luogo perché,
debole nel suo appetito, subisce l’azione delle cause esterne, della
fortuna. Appetendo debolmente, in secondo luogo egli vive all’interno
un conflitto vero e proprio tra affetti contrari che lo conducono ad
oscillare, trascinandolo in direzioni opposte (EIV, Def.V). Così
facendo, gli affetti contrari lo portano a non sapere ciò che egli vuole,
a pentirsi di ciò che ha fatto e, in ultima analisi, lo portano a diminuire
la propria potentia agendi. Egli vive in questo modo un conflitto forte
tra il bene che giudica e il male che segue, tra un giudizio
apparentemente benefico e un’azione sicuramente dannosa. Da qui si
evince la natura problematica del giudizio annebbiato (o parziale e
confuso) derivante dall’immaginazione dell’uomo in relazione al suo
comportamento acratico (problema questo che tratto fra breve, nel
prossimo paragrafo).
Questi due testi esaminati hanno dunque mostrato con
chiarezza che cosa Spinoza intenda per conflitto affettivo e il nesso
che intercorre sia con lo stato di fluttuazione dell’animo che con
l’acrasia. Così facendo, ho spiegato in che senso il conflitto affettivo è
un’ulteriore causa dell’acrasia, vale a dire la sua possibile causa
interna. Come ho già mostrato in precedenza, l’acrasia ha anche una
causa
esterna
per
Spinoza,
la
fortuna.
Mi
occuperò,
più
100 analiticamente, del rapporto sussistente tra cause esterne e causa
interna del fenomeno acratico nel capitolo finale, in cui illustrerò la
mia interpretazione sinottica e conclusiva dell’acrasia in Spinoza,
intesa come debolezza dell’appetito o debolezza affettiva.
Da questo quadro concettuale emerge allora con chiarezza il
significato dell’acrasia come debolezza dell’appetito (o, più in
generale, affettiva): l’appetito è infatti lo sforzo di conservazione di
sé, riferito alla mente e al corpo, che esprime l’essenza stessa di ogni
ente. Ma anche l’affetto, in quanto antropologicamente primario e
fondativo, regola lo stesso agire dell’individuo ed è essenza stessa di
ogni ente, come l’appetito. Affetto e appetito sono termini
concettualmente sovrapponibili in Spinoza, almeno parzialmente,
nella misura in cui entrambi esprimono l’essenza stessa di ogni ente e,
pertanto, di ogni individuo. (Senza dimenticare quanto detto poc’anzi
sulla cupiditas e l’appetito che sono differenti solo nella misura in cui
la cupidità è l’appettito con la sua consapevolezza, EIII, P9 S).
4. L’acrasia e l’immaginazione
Per la quarta volta Spinoza cita esplicitamente il verso di Ovidio nello
scolio alla proposizione 17 della parte IV dell’Etica, dove collega la
possibilità di seguire il peggio—pur vedendo il meglio—all’opinione
101 e all’impotentia, descrivendo ancora una volta una situazione acratica.
Lo scolio così recita:
Credo così di aver spiegato la ragione per cui gli uomini sono mossi più
dall’opinione che dalla vera ragione e per cui la vera conoscenza del bene e
del male eccita i moti dell’animo e spesso cede ad ogni genere di libidine;
onde ha avuto origine quel detto del Poeta: Vedo il meglio, e lo approvo, ma
seguo il peggio. Il che sembra aver avuto in mente anche l’Ecclesiaste,
quando ha detto: Chi aumenta la scienza, aumenta il dolore (EIV, P17 S).
In questo scolio Spinoza dice di aver spiegato la causa per cui gli
uomini sono mossi più dall’opinione che dalla vera ratio, per cui la
vera conoscenza del bene e del male eccita (o emoziona62) i moti
62
His me causam ostendisse credo, cur homines opinione magis, quam vera
ratione commoveantur, et cur vera boni, et mali cognitio animi commotiones
excitet, et saepe omni libidinis generi cedat […]: il verbo qui utilizzato è
commoveo che significa ‘muovere’, ‘spingere’, anche nel senso di ‘far
muovere’, ‘scuotere’, vale a dire ‘agitare’, ‘turbare’ sino a ‘far decidere’.
Potrebbe risultare interessante il senso del movimento implicito nel
significato del verbo ‘commoveo’: un movimento, dunque, che scuote o
qualcuno, condizionandolo, o induce qualcosa in qualcuno, un movimento
vale a dire che provoca o suscita qualcosa, quasi sino a commuovere o
impressionare, muovendo appunto dall’esterno.
102 dell’animo e spesso cede a ogni genere di libidine; donde è nato quel
detto del poeta : vedo il meglio e l’approvo, ma seguo il peggio. La
stessa cosa sembra aver avuto in mente l’Ecclesiaste dicendo che chi
accresce la scienza, accresce il dolore63. Nella seconda parte dello
scolio, Spinoza precisa che quanto appena detto non significhi che
l’ignoranza sia preferibile alla scienza, come invece sembra alludere il
riferimento al passo dell’Ecclesiaste. Lo stolto è altro da colui che
intende nel governare e moderare gli affetti. Spinoza ricorda questa
differenza tra lo stolto e colui che intende perché è necessario
conoscere tanto la potenza che l’impotenza della natura umana, per
determinare che cosa la ragione possa o non possa fare nel dominio
degli affetti. In questa parte, infine, egli precisa che tratterà solo
dell’impotentia umana64.
Alla luce di questo scolio, si possono dedurre almeno due
considerazioni importanti. In primo luogo, e per la prima volta,
Spinoza collega esplicitamente il detto di Ovidio al fenomeno
63
Manzini (2009), pp. 53-55, collega questa conoscenza vera del bene e del
male alla phronesis aristotelica (o prudentia), distinguendola dall’episteme.
Su questo si veda pure Matheron (1988), p. 523.
64
Secondo gli studiosi che si occupano di acrasia in Spinoza (come Gagnon,
Pinheiro, e Della Rocca), egli, nel trattare nelle prime diciotto proposizioni
della parte IV dell’Etica dell’impotentia, in realtà descriverebbe il fenomeno
acratico.
103 dell’acrasia, vale a dire alla formulazione di un ipotetico giudizio circa
il meglio, precedente l’atto di seguire tuttavia il peggio. L’acrasia, più
in particolare, nello scolio in questione, è collegata al fatto che gli
uomini sono mossi dall’opinione e alla possibilità che la conoscenza
del bene e del male derivi da questa stessa opinione piuttosto che dalla
vera ragione. Conoscenza del bene e del male altro non è che l’affetto
di gioia e tristezza con la consapevolezza di ciò: “La conoscenza del
bene e del male altro non è che l’affetto della Gioia o della Tristezza
in quanto ne siamo consapevoli”(EIV, P8). Come ricorda nel
prosieguo della stessa proposizione, conoscere il bene o il male
significa avere l’idea della gioia o della tristezza che necessariamente
segue dallo stesso affetto di gioia o tristezza. L’affetto non si può
distinguere realmente dall’idea dell’affezione del corpo; l’affetto di
gioia o tristezza, pertanto, in quanto idea e in quanto se ne ha
coscienza, coincide con la conoscenza del bene e del male65. Nella
dimostrazione che segue alla proposizione in questione Spinoza
aggiunge: “chiamo bene o male ciò che giova o è d’ostacolo alla
conservazione del nostro essere, cioè che aumenta o diminuisce,
favorisce o ostacola la nostra potenza di agire. In quanto dunque,
percepiamo che una certa cosa produca in noi un affetto di Gioia o
Tristezza, la chiamiamo buona o cattiva; e perciò la conoscenza del
65
Bennett (1984), pp. 281 sgg.
104 bene e del male non è altro che l’idea della Gioia o della Tristezza che
segue necessariamente dallo stesso affetto della Gioia o della
Tristezza”(EIV, P8). Questa idea è però unita per Spinoza all’affetto
nello stesso modo in cui la mente è unita al corpo, vale e dire questa
idea non si distingue in realtà dallo stesso affetto, ossia dall’idea
dell’affezione del corpo, se non nel concetto. Da tutto ciò si deduce
allora che la conoscenza del bene e del male non è altro che lo stesso
affetto, in quanto ne siamo consapevoli.
Così dicendo, risulta evidente che la possibilità stessa di agire
acraticamente per l’individuo risiede anche nel fatto che egli ha una
coscienza del bene e del male basata sull’opinione, una conoscenza
potremmo dire di tipo immaginativo o, spinozianamente parlando, un
primo genere di conoscenza inadeguata, altra dalla ragione e
dall’intelletto, generi adeguati di conoscenza. Vedo così il bene e
l’approvo, ma seguo poi il male perché il mio giudizio circa il bene e
il male è parziale, confuso e annebbiato. Questo genere di conoscenza
coincide con una conoscenza di tipo affettivo, o meglio non razionale,
vale a dire con l’opinione o l’immaginazione. Da ciò, si evince con
chiarezza che il video meliora, proboque, della citazione di Ovidio, il
giudizio cioè precedente un’azione acratica, viene formulato in
maniera inadeguata, mediante l’immaginazione o opinione e, in
quanto tale, esso è annebbiato. Perché ciò accade? L’acratico formula
il suo giudizio circa il meglio (o il possibile bene da seguire) in modo
105 confuso e parziale perché egli, così facendo, è condizionato da un
appetito debole66.
Se è vero, come è vero, che per Spinoza la conoscenza del
bene (e del male) non è nient’altro che l’affetto di gioia (o di tristezza)
con la consapevolezza di ciò (EIV, P8); se è inoltre chiarito in EIII, P9
S che l’appetito, il desiderio e l’affetto, in genere, sono essenza stessa
di ogni individuo, in quanto noi non cerchiamo, vogliamo, appetiamo
né desideriamo qualcosa perché riteniamo che sia buona, ma al
contrario, noi giudichiamo buona qualcosa perché la cerchiamo, la
vogliamo, la appetiamo e la desideriamo; rebus sic stantibus, il
giudizio è annebbiato perché è l’appetito dell’acratico che appetisce
debolmente. L’affetto precede ogni attività conoscitiva in genere e
ogni giudizio, dal momento che ognuno regola e stima secondo il
proprio affetto. Essendo quest’ultimo costitutivo dell’individuo stesso,
l’affetto regola e determina il suo agire. “Ognuno, secondo le leggi
della propria natura, necessariamente ricerca o respinge ciò che
giudica buono o cattivo”(EIV, P19), in quanto l’atto di conoscenza è
subordinato all’affetto provato; questo appetito non è altro che la
stessa essenza o natura dell’individuo. In EIII, P39 S si legge:”Qui per
bene intendo ogni genere di Gioia e qualunque cosa, inoltre, conduce
66
Per un approfondimento del rapporto tra cupiditas e immaginazione, si
veda Mignini (1981), pp. 151 sgg.
106 ad essa, e soprattutto ciò che soddisfa un desiderio, qualunque questo
sia. Per male, invece, intendo ogni genere di Tristezza e soprattutto
ciò che frustra il desiderio. Sopra, infatti, (nello Scolio della Prop.9 di
questa parte) abbiamo mostrato che noi non desideriamo qualcosa
perché riteniamo che sia buona, ma al contrario chiamiamo bene quel
che desideriamo; e conseguentemente chiamiamo male ciò a cui siamo
contrari; per cui ognuno giudica o stima, secondo il proprio affetto,
quel che è bene e quel che è male, quel che è meglio e quel che è
peggio e, infine, quel che è ottimo e quel che è pessimo. […]; e così
ognuno giudica una certa cosa buona o cattiva, utile o inutile secondo
il suo affetto”.
In Spinoza l’individuo è così in primis desiderante e, in
quanto tale, è l’appetito a muoverlo: se quest’ultimo è debole,
necessariamente il giudizio sarà altrettanto debole e confuso. Se, in
via ipotetica, un qualsiasi individuo non fosse invece mosso da un
appetito debole, la sua ratio risulterebbe vera e la sua conoscenza del
bene e del male non cederebbe a ogni genere di libido67, per cui non
avrebbe neppure origine quel detto del poeta di cui stiamo discutendo.
Questi non cederebbe a ogni genere di passione, di desiderio (e più in
67
Il termine libido potrebbe a mio avviso, ed è solo un’ipotesi, essere
tradotto con desiderio, brama, passione oltre che avere anche il significato di
piacere.
107 generale si potrebbe anche dire di affetto), perché se così fosse,
eviterebbe di seguire il male, dopo aver visto e approvato il bene.
L’acratico, al contrario, mosso da un appetito debole e dall’opinione,
ha una coscienza offuscata e parziale del bene e del male. Essendo in
questa situazione, egli inevitabilmente cede a ogni genere di desiderio
o passione “donde ha avuto origine quel detto del Poeta”, secondo cui
vede il meglio e lo approva, ma segue poi il peggio.
Il secondo aspetto su cui è interessante soffermarsi, così come
si evince dallo scolio, è il nesso esistente tra questo detto del Poeta, la
citazione ovidiana secondo cui un individuo vede il meglio e lo
approva, ma segue il peggio, con la frase dell’ Ecclesiaste per cui chi
aumenta la scienza, aumenta il dolore68. Che significato può avere
68
Ringrazio Marcello La Matina per le sue indicazioni circa il commento di
Gregorio di Nissa all’Ecclesiaste, commento contenente diversi passi in cui
si parla di aboulia. In particolare, i passi 5.285.4; 5.291.12; 5.302.8; 5.303.2.
Trovo significativo il nesso, pertanto, in Spinoza tra la citazione di Ovidio
riguardante l’acrasia e il verso dell’Ecclesiaste, anche in riferimento ad un
possibile collegamento tra aboulia e acrasia, collegamento che qui non
posso trattare. La persona acratica (almeno in una delle sue accezioni) è
sempre in qualche modo abulica, mentre l’abulico non è necessariamente
acratico. Ritengo interessante, infine, che Medea, acratica per eccellenza,
viene deifinita in Euripide, Medea 882, aboulica, sconsiderata e in preda
all’ira.
108 questo parallelismo tra le due citazioni? Vale a dire, in che modo può
accadere all’uomo di vedere il meglio, seguire il peggio e, così
facendo, accrescere la sua conoscenza e dunque il dolore? Quale tipo
di scientia può aumentare in un individuo che agisce acraticamente, se
è vero che, come Spinoza ricorda, è questo che l’Ecclesiaste deve
avere avuto in mente?
Ora, quando un uomo segue il peggio pur avendo visto e
approvato il meglio, non solo è acratico ma in un certo senso egli è
anche
impotente
(impotens),
spinozianamente
parlando.
Egli
sperimenterà così la condizione di tristezza, in quanto, come ho
mostrato sopra, il proprio affetto (più in generale) o il proprio
individuale appetito risulterà debole e il conseguente giudizio relativo
al bene ed al male deriverà dall’opinione e non dalla vera ragione.
Come l’uomo acratico definito dalla citazione di Ovidio sarà
impotente, così pure potrà esserlo l’individuo riferito dal passo
dell’Ecclesiaste che prova dolore. Il dolore, infatti, è per Spinoza
quello stato di minor perfezione o tristezza che esprime una situazione
di impotenza, proprio come quella in cui si trova l’acratico che segue
il male69. La mente umana si rattrista per Spinoza quando immagina la
69
“Vediamo dunque che la Mente può subire molti cambiamenti e passare
ora ad una maggiore, ora invece a una minore perfezione, passioni queste
che ci spiegano gli affetti della Gioia e della Tristezza. Per Gioia dunque
d’ora in poi intenderò una passione, con la quale la Mente passa ad una
109 propria impotenza. In EIII, P55, si legge: “Quando la Mente immagina
la propria impotenza, per ciò stesso si rattrista”.
Stando così le cose, ritengo che si possa ragionevolmente
asserire che quella scienza che, aumentando accresce il dolore,
potrebbe rappresentare un genere di conoscenza legata all’opinione.
Come si è visto, l’individuo che agisce acraticamente risulta
impotente e diminuisce la propria potentia, a causa del suo agire
acratico, cedendo ad ogni genere di passione, perché mosso da un
appetito
debole
e
da
un
giudizio
legato
all’opinione
e
all’immaginazione. Parimenti, colui che sa, che conosce, aumentando
la scienza, aumenta anche il proprio dolore, sperimentando uno stato
di minor perfezione e di impotenza perché quella scienza che
sperimenta è in realtà il portato della sua immaginazione e della sua
impotenza, non certo il risultato della ragione e dell’intelletto.
Come detto poc’anzi, la conoscenza del bene e del male è
subordinata all’affetto di gioia o di tristezza provato attualmente,
essendo consapevolezza dell’affetto provato. Il giudizio pertanto circa
il bene o il male di una cosa è formulato in relazione alla
consapevolezza dell’affetto provato: ogni conoscenza deriva e dipende
maggiore perfezione. Per Tristezza invece una passione, con la quale la
stessa passa ad una perfezione minore”. (EIII, P11 S; EIII, Def.Aff.III; EIII
P9 S).
110 dall’affetto. Nella situazione acratica, l’agente, per debolezza del suo
appetito e guidato dall’immaginazione, sperimenta dunque una reale
diminuzione della propria potenza, così come colui che si rattrista.
A tal proposito, e a conferma del ragionamento testé svolto, lo
stesso Macherey ricorda, nel suo noto commentario all’Etica, che
queste due citazioni esplicitamente collegate da Spinoza, la citazione
di Ovidio e quella dell’Ecclesiaste, rivelano la stessa ispirazione, pur
essendo ancorata la prima agli assunti della saggezza antica circa la
moralità; la seconda invece esprimendo una saggezza di tipo giudaicocristiana in campo etico. Entrambe però dicono la stessa cosa: una
conoscenza vera del bene e del male, anche se teorica, produce nei
fatti degli affetti esattamente opposti a quelli che preconizza 70.
C’è un’ultima questione che merita, a mio parere, di essere qui
discussa, vale a dire il possibile nesso che intercorre tra il giudizio
circa il meglio (o il bene) e la falsa apparenza di bene, con la
conseguente possibilità di intendere l’acrasia come un caso di
ignoranza. É possibile definire, da un punto di vista più squisitamente
concettuale, quel ‘meglio’ che l’acratico vede ed approva, prima di
seguire il peggio? Come abbiamo visto, per Spinoza il ‘meglio’ (o
‘bene’) e il ‘peggio’ (o ‘male’) sono solo concetti relativi, sono modi
del pensare che in sé neppure esistono. Queste nozioni sono tuttavia
70
Macherey (2005), p.102.
111 utili all’uomo perché quest’ultimo si possa formare un’idea, un
modello di bene o di male con cui le cose possono poi essere definite
concettualmente e confrontate tra loro, un modello, in definitiva, da
utilizzare nella pratica. Nella Prefazione alla parte IV dell’Etica
Spinoza ci dice esplicitamente questo: “ Per quanto attiene al bene e al
male, neanche essi indicano alcunché di positivo nelle cose, in sé
considerate, e non sono altro che modi del pensare, ossia nozioni che
formiamo mediante il confronto delle cose tra loro […]. In verità,
sebbene le cose stiano in questo modo, dobbiamo tuttavia conservare
questi vocaboli. Infatti, poiché desideriamo formare un’idea di uomo
come modello della natura umana al quale guardiamo, sarà tuttavia
per noi utile conservare questi stessi vocaboli con quel significato che
ho detto”. Il ‘meglio’ è così un’elaborazione sia concettuale che
normativa del soggetto; che dire del giudizio circa il meglio?
L’individuo acratico si trova, infatti, nella situazione
problematica di dover determinare in maniera soggettiva il meglio,
perché il meglio oggettivamente dato non esiste. Egli, tuttavia, mosso
da un appetito debole, in quanto acratico, elabora il proprio giudizio
circa il meglio sulla base dell’immaginazione o opinione, per
definizione, primo genere di conoscenza, in quanto tale, fallibile e
inadeguato.
Alla luce di quanto detto, il giudizio circa il meglio in verità si
rivela, per l’acratico, come una falsa apparenza di bene; in quanto tale,
112 l’agente si formerà un giudizio circa ciò che non è effettivamente bene
(o meglio). Un giudizio circa ciò che non è bene (o meglio) per un
agente risulterà essere inevitabilmente un giudizio circa il male (o
peggio) per lui; questo sarà, dunque, un giudizio inadeguato: come
Spinoza ricorda in EIV, P64, “la conoscenza del male è conoscenza
inadeguata”.
In breve, l’agente acratico, che è debole e in conflitto con sé
stesso, ha una credenza immaginativa falsa del meglio (determinato,
per di più, anche in modo soggettivo). Così dicendo, egli si forma un
giudizio di tipo doxastico-immaginativo circa il meglio, un giudizio,
dunque, inadeguato, derivante da un appetito debole.
Un ulteriore elemento da tenere in considerazione in questo
quadro è la prospettiva temporale attraverso cui gli esseri umani
formano e definiscono i loro desideri ed agiscono in nome di questi. A
tal proposito, Spinoza precisa che la cupidità derivante dall’esperienza
di cose sentite nel presente più forte, con piacere, è più potente di
quella rivolte al futuro (EIV, PP.16-17)71. Nel presente, infatti, l’uomo
71
“La Cupidità che nasce dalla conoscenza del bene e del male, in quanto
questa conoscenza ha riferimento al futuro, può più facilmente essere estinta
o ostacolata dalla Cupidità delle cose che al presente sono gradevoli (EIV,
P16). “La Cupidità che nasce dalla vera conoscenza del bene e del male, in
quanto questa verte sulle cose contingenti, può essere ostacolata ancora
molto più facilmente dalla Cupidità delle cose che sono presenti“(EIV, P17).
113 per affetto stima più importante ciò che è più piacevole e gradevole,
rispetto alle cose future (EIV, Cap.XXX)72. Fondamentale e
significativo, a tal proposito, è lo scolio di EIV, P62 S, secondo cui:
Se potessimo avere una conoscenza adeguata della durata delle cose, e
determinare con la ragione i tempi di esistenza, contempleremo con lo stesso
affetto le cose future, come le presenti, e il bene che la Mente concepirebbe
come futuro, lo appetiremo come se fosse presente, e conseguentemente
trascurerebbe necessariamente un bene presente minore per un bene
maggiore futuro e, come dimostreremo subito, non appetirebbe affatto quel
che fosse al presente buono ma causa di un male futuro. Ma noi possiamo
avere della durata delle cose (per la Prop. 31 p.II) soltanto una conoscenza
inadeguata, e con la sola immaginazione determinare i tempi di esistenza
delle cose (per lo Scolio della Prop. 44 p.II), immaginazione che non è
affetta egualmente dall’immagine di una cosa presente, come da quella di
una cosa futura; onde accade, che la vera conoscenza del bene e del male che
abbiamo non è se non astratta ossia universale, e che il giudizio che
formuliamo sull’ordine delle cose e sul nesso delle cause, per poter
determinare che cosa sia al presente buono o cattivo è piuttosto immaginario
che reale, e perciò non c’è da meravigliarsi se la Cupidità che nasce dalla
conoscenza del bene e del male, in quanto questa riguarda il futuro, può
72
Si vedano anche, EIV, P44 S; EIV, P60 S.
114 essere più facilmente repressa dalla Cupidità delle cose che sono al presente
gradite, cosa sulla quale vedi la Proposizione 16 di questa parte”.
Quel male che l’acratico segue potrebbe rappresentare, allora, il suo
desiderio più forte nel presente, desiderio provato esattamente in quel
momento, benché esso si rivelerà poi essere, tuttavia, male per lui.
Ognuno giudica secondo il proprio affetto, per cui la conoscenza del
bene e del male durante l’atto acratico è condizionata dal proprio
individuale appetito (o affetto) che sappiamo essere in quel mentre
debole.
Sotto la guida della ragione, invece, appetiremo un bene
maggiore futuro a preferenza di un bene minore presente e un male
presente minore a preferenza di un male maggiore futuro (EIV,
P66)73. Mossi da un appetito debole e dall’opinione-immaginazione,
desidereremo seguire un bene che ci appare nel presente essere il più
forte, ma ciò non rappresenterà il meglio per noi. Il bene giudicato
dall’acratico non è il vero bene per lui, ma rappresenta come abbiamo
visto, un caso di conoscenza inadeguata in quanto derivante da un
73
EIV, P66: “Sotto la guida della ragione appetiremo un bene maggiore
futuro a preferenza di un bene minore presente, e un male presente minore a
preferenza di uno maggiore futuro”.
115 appetito debole in nome del quale ci formiamo un giudizio
annebbiato, non dettato da una vera ratio.
Il bene, dunque, che l’acratico pensa di vedere e che approva,
non è il vero bene, ma una falsa idea di bene, derivante
dall’immaginazione o opinione e da una distorta visione temporale
che rappresenta un ulteriore elemento di obnubilamento del giudizio.
L’acratico vede ed approva, falsamente buono, ciò che egli ritiene
essere il meglio per lui (ma che non lo è ) perché, debole nel suo
appetito, lo conosce immaginativamente in maniera inadeguata,
parziale e confusa. Sarà per tutto questo che, alla fine, l’acratico (che è
un individuo immaginante) seguirà il male.
Se così stanno le cose, è plausibile ritenere l’acrasia in Spinoza
un possibile caso di ignoranza? E’ possibile che l’acratico, mentre
giudica, veda ed approvi un bene che ritiene essere il meglio per lui, e,
facendo ciò, egli risulti ignorante nell’elaborazione di questo giudizio,
vale a dire, è possibile che egli non sappia quale sia effettivamente il
suo vero bene.
Queste considerazioni circa l’ignoranza come possibile
spiegazione del fenomeno acratico ci impongono un parallelismo con
Socrate, che negava l’acrasia come debolezza della volontà,
ritenendola un caso di pura ignoranza. È noto, infatti, che alla fine del
Protagora, Socrate pensa che l’essere vinto dai piaceri non sia
spiegabile come fenomeno di debolezza della volontà, alla luce del
116 quale l’individuo vede il bene ma agisce male, non seguendolo.
Piuttosto, Socrate insiste, l’individuo quando agisce acraticamente
agisce per ignoranza, vale a dire perché soggetto al potere delle
apparenze e non all’arte della misurazione che, sola, consente di
valutare obiettivamente il bene e il male della vita. Socrate incalza
Protagora proprio su questo punto: “Se dunque l’agire bene per noi
consistesse in questo, ossia nello scegliere e nel fare le cose che sono
di dimensioni più grandi e nell’evitare e nel non fare quelle che sono
di dimensioni più piccole, in tal caso da che cosa dipenderebbe la
salvezza della nostra vita? Dall’arte del misurare o dal potere delle
apparenze” (Prt. 356d).
Alla luce della dicotomia tra arte della misurazione e potere
delle apparenze, Socrate spiega il fenomeno acratico di lasciarsi
sopraffare dai piaceri come errore di calcolo dovuto a ignoranza, ossia
all’incapacità di valutare con obiettività il piacere e il dolore, il bene e
il male (Prt. 355c-356a). Per Socrate, in definitiva, l’acrasia esiste
come
semplice
caso
d’ignoranza.
Socrate
stesso,
nel
suo
intellettualismo, relega i desideri e gli appetiti ad un ruolo secondario,
anche nella spiegazione stessa dell’acrasia, lasciando troneggiare la
forza della conoscenza su tutto il resto.
Si può quindi ragionevolmente affermare che tra Socrate e
Spinoza ci sono affinità per quanto riguarda la spiegazione del
fenomeno acratico: l’ignoranza pare essere un elemento basilare in
117 entrambi. Diverse sono, tuttavia, anche le differenze. In primo luogo,
sia Socrate che Spinoza pensano all’ignoranza come a un elemento
importante per spiegare adeguatamente l’agire acratico, ma si tratta di
un tipo diverso d’ignoranza. Socrate concepisce l’ignoranza
dell’acratico come la mancanza di un giudizio oggettivo sul bene e sul
male, vale a dire di un giudizio che, per essere tale, deve precedere e
prescindere dal punto di vista soggettivo. D’altro lato, Spinoza
concepisce l’ignoranza dell’acratico come il prevalere di un punto di
vista soggettivo nell’elaborazione di un giudizio circa il bene e il male
mediante l’opinione o immaginazione, giudizio che, tuttavia, per
Spinoza si dà solo all’interno di una relazione peculiare tra il soggetto
immaginante e le sue affezioni. Come ho già detto più volte, il meglio
e il peggio, così come il bene e il male sono concetti relativi e
soggettivamente intesi: niente di più lontano dall’intellettualismo
socratico.
In secondo luogo—forse in maniera più filosoficamente
significativa—sia Socrate che Spinoza negano che l’acrasia sia una
debolezza della volontà, ma negare la stessa cosa non vuole dire
necessariamente affermare punti di vista identici. Per Socrate, infatti,
l’acrasia rimane, senza compromessi, un caso esclusivo di ignoranza;
per Spinoza, invece, l’acrasia si sta delineando come un caso di
debolezza dell’appetito. In Socrate manca una parte essenziale della
concezione spinoziana dell’acrasia, il ruolo fondativo del desiderio.
118 Per Spinoza l’individuo è un ente desiderante che tende per natura a
conservare sé stesso, vale a dire egli è essenzialmente affetto; l’affetto
precede e determina ogni giudizio e ogni attività conoscitiva in
genere. La conoscenza, in definitiva, dipende dall’affetto-appetito:
qualcosa è bene perché l’individuo la desidera e la appetisce, ed egli
non desidera qualcosa perché sa che è bene. La conoscenza del bene e
del male non è altro che per Spinoza l’affetto di gioia e di tristezza
con la sua consapevolezza.
Concludendo, in breve, per riassumere, dall’esame dello scolio
di EIV, P17, sono emersi i seguenti nuclei concettuali: a) il nesso tra il
giudizio circa il meglio, l’opinione e una possibile falsa credenza di
bene; b) il rapporto tra acrasia, immaginazione o opinione; c) il
possibile collegamento tra l’acrasia e l’impotentia; d) il nesso, infine,
tra l’appetito debole e un conseguente giudizio annebbiato e
inadeguato.
Il giudizio dell’acratico risulta, in sintesi, debole perché il suo
individuale appetito è debole. Se gli uomini sono mossi dall’opinione,
essi agiscono acraticamente, ricorda Spinoza, vedono vale a dire il
meglio e l’approvano, ma seguono poi il peggio per essi stessi. E ciò
accade perché l’affetto-appetito dell’uomo, sua essenza costitutiva,
precede ogni giudizio: quest’ultimo è inadeguato e dettato
dall’opinione perché deriva da un appetito debole. L’acratico
spinoziano è in parte un ignorante, ma in modo diverso da quello che
119 intende Socrate, egli è un immaginante-ignorante (perché debole
nell’appetito).
L’elaborazione tuttavia di un giudizio, pur annebbiato che sia,
è essenziale per l’acratico: senza un giudizio contro cui agire, per
definizione viene meno il fenomeno dell’acrasia stessa. Non tutti i casi
in cui un individuo viene vinto da una passione sono casi di acrasia,
ma solo quelli in cui egli elabora un giudizio contro cui poi agirà. Il
conflitto allora tra un giudizio circa il meglio precedente un’azione
verso il peggio (conflitto tra giudizio ed azione) è una caratteristica
fondamentale dell’acrasia. C’è dunque acrasia se c’è un giudizio
preliminare formulato dall’agente, prima di decidere di seguire
un’azione contro questo 74.
74
A tal proposito, di recente, ho letto diversi articoli molto interessanti di
Ribeiro (Università del Tennesee, Stati Uniti), il quale sottolinea
l’importanza per l’acrasia del momento di elaborazione e formulazione di un
giudizio, a tal punto che Ribeiro distingue una forma di acrasia epistemica,
quella che conduce l’individuo al giudizio circa il da farsi, dall’acrasia
pratica, vale a dire l’atto di agire contro il giudizio migliore per l’agente
stesso. Un individuo per Ribeiro è acratico non solo quando agisce contro il
suo miglior giudizio, ma anche se sa di farlo, se ha cioè una credenza in
nome di cui agisce. Vedi anche J. Elster, Agir contre soi. La faiblesse de la
volonté, (2007), La volontà debole (2008). Gli intenti dell’autore sono
lontani dallo spirito di questa ricerca, in quanto egli cerca di rintracciare non
120 Dopo aver precisato il nesso conflittuale tra il giudizio e
l’azione, nesso che in generale caratterizza il fenomeno acratico, trovo
ancora più originale e nuova, a mio avviso, la teoria di Spinoza
secondo cui è l’affetto-appetito a regolare l’umano agire perché
ognuno giudica e stima secondo il proprio affetto e perché è in tal
senso che bene è ciò che l’uomo desidera e appetisce e non il
contrario. Più originale ancora la definizione della nozione di acrasia
come debolezza dell’appetito e non come debolezza di volontà, così
come era nel pensiero classico. Il giudizio è condizionato dall’affettoappetito perché in definitiva l’uomo per Spinoza non è un’animale
solo razionale ma, principalmente, un ente desiderante.
Nei prossimi capitoli, intendo approfondire le motivazioni
filosofiche dell’acrasia e, così facendo, rifletterò più analiticamente
anche sulla possibile influenza classica che Spinoza può aver avuto
nella definizione del fenomeno acratico, esaminando più a fondo
ancora le ragioni per cui un uomo può vedere ed approvare il meglio e
seguire tuttavia il peggio. Cercherò, infine, anche di definire e trovare
solo le risposte individuali, ma anche collettive ed istituzionali alla
debolezza di volere, ma offre comunque stimoli interessanti su questo punto,
in particolare circa il nesso tra il concetto di credenza stabile dell’acratico e
la possibile inversione di preferenza nella pratica, nesso, in definitiva, tra
giudizio e azione.
121 una possibile via d’uscita all’acrasia, possibilità questa, presente nella
filosofia di Spinoza. Nello scolio di Etica IV, P66, Spinoza rammenta:
“Se dunque si confrontano le cose dette qui con quelle che abbiamo
dimostrato sulla forza degli affetti in questa Parte fino alla
Proposizione 18, vedremo facilmente quale è la differenza tra l’uomo
che è dominato soltanto dall’affetto e dall’opinione e l’uomo che è
guidato da ragione. Quello, infatti, vuole, non vuole e fa le cose che
massimamente ignora; questo invece non obbedisce ad altri che a sé
stesso e fa soltanto quelle cose che ha imparato essere le più
importanti nella vita e che perciò massimamente desidera; e perciò
chiamo quello servo, questo invece libero, della cui indole e del cui
modo di vita mi è gradito dire adesso poche cose”.
122 PARTE II
SPINOZA E I CLASSICI SULL’ACRASIA
“Per questo il bene è raro, lodevole e bello”
Aristotele, Etica Nicomachea II, 9 1109 a30
“Ciò che è eccellente è raro”
Cicerone, De amicitia 21.79 123 Capitolo 3
Spinoza e i classici
1. Spinoza e l’acrasia nei classici: le ragioni del confronto
Dopo aver riferito sino a qui gli studi e le diverse interpretazioni
sull’acrasia in Spinoza, nonché i problemi a queste connessi (status
quaestionis nel capitolo 1), ho esaminato, più in dettaglio, i testi
spinoziani in cui sono presenti situazioni di acrasia, dando particolare
rilievo alla citazione ovidiana (capitolo 2). Da questo esame, è emerso
con chiarezza che la nozione di acrasia è ben presente nell’Etica di
Spinoza. In maniera più decisiva, sì è evidenziato come l’acrasia
costituisca una tematica sotterranea, ma di rilevanza essenziale per
l’intero sistema di Spinoza, nella misura in cui essa rinvia a tematiche
centrali nella sua etica, quali, ad esempio, la dottrina della fortuna e
delle cause esterne; la teoria degli affetti; la nozione del desiderio e la
teoria dell’ immaginazione, nonché quella del possibile giudizio
doxastico e del nesso tra questo giudizio e l’atto acratico.
Più in particolare, una volta chiariti i primi interrogativi emersi
dall’analisi, ho esaminato le diverse situazioni di acrasia presenti
nell’Etica e nelle Epistole, coincidenti con le quattro citazioni
124 ovidiane, riprese e più volte utilizzate da Spinoza. A partire da questa
prima lettura ed analisi del testo, nonché del contesto di riferimento
cui i testi rinviano, ho conseguito i seguenti risultati. In breve, ho
definito la nozione di acrasia in Spinoza come debolezza dell’appetito.
Ho inoltre spiegato le cause dell’acrasia, i suoi presupposti
concettuali, vale a dire le cause esterne e i tanti possibili (e infiniti
EIII, P59 S) conflitti interni. Ho chiarito come e in che senso la
debolezza dell’acratico è causata e deriva, dall’esterno, dalla fortuna,
che con il suo potere schiaccia l’uomo e lo indebolisce. Così facendo,
la fortuna, superando infinitamente il potere dell’uomo, lo rende
passivo e impotente: “La forza con la quale l’uomo persevera
nell’esistenza è limitata e infinitamente superata dalla potenza delle
cause esterne” (EIV, P3). Ho anche mostrato come l’uomo acratico è
combattuto dall’interno da un forte conflitto tra appetiti opposti, che si
traduce di fatto in un’azione acratica.
Ho spiegato, inoltre, come l’agire acratico non è una semplice
fluttuazione dell’animo, ma è a questa connesso: l’atteggiamento,
infatti, tipico di chi fluttua in direzione opposte, è quello stato della
mente che, come le onde del mare agitate da venti contrari, fa oscillare
l’uomo, inconsapevole della propria sorte e del destino. L’acrasia,
invece, non è un semplice stato conflittuale della mente che conduce
l’uomo a vacillare, ma essa si traduce in un’azione acratica, a partire
da un conflitto interno come presupposto. A causa di questi conflitti
125 affettivi o appetitivi, non solo perché soverchiato dal potere delle
cause esterne, l’uomo acratico appetisce debolmente e giunge a vedere
il meglio ma a seguire il peggio, vale a dire ad agire irrazionalmente e
acraticamente. Come asserito più volte, resta fondamentale il
momento di elaborazione di un giudizio circa il meglio, precedente
l’atto di seguire il peggio affinché ci sia acrasia.
Una volta definita la nozione di acrasia e chiariti i suoi
presupposti concettuali, viene da chiedersi se, in Spinoza, colui che
vede il meglio, è ignorante circa il suo vero bene (così come lo era per
Socrate) oppure se egli conosca effettivamente ciò che è bene ma poi
decida di seguire il male o il peggio per lui (come sembra essere in
Aristotele). A tal fine, ho dimostrato che in Spinoza il giudizio circa il
bene è in verità una forma di falsa idea di bene, che questo giudizio
risulta debole e confuso perché dettato dall’immaginazione (o
opinione), non dalla vera ragione. Così dicendo, in ultima analisi,
ritengo che il giudizio dell’acratico circa il meglio sia debole perché
deriva da un appetito altrettanto debole. In Spinoza ogni attività
conoscitiva, compresa quella del giudizio, deriva e dipende
dall’affetto, dal momento che bene è ciò che io desidero, voglio e
appetisco e non desidero qualcosa perché prima l’ho giudicata bene
per me.
Concludendo, l’acrasia è meglio definita come una debolezza
dell’appetito, che deriva dalle cause esterne e dai combattimenti
126 interni dell’uomo. Essa si manifesta secondo Spinoza come una forma
particolare di impotentia e si caratterizza a partire da un chiaro
conflitto tra un giudizio circa il meglio e l’atto di seguire il peggio.
Mostrerò nel capitolo finale le possibili vie d’uscita dall’impasse a cui
l’acrasia conduce l’individuo nell’etica di Spinoza, a partire dalla
nozione di impotentia e di libertà: l’acratico è con evidenza l’opposto
dell’uomo libero per Spinoza. Come deduciamo dallo scolio di EIV,
P66, l’uomo dominato dall’affetto e dall’opinione è diverso dall’uomo
guidato solo da ragione; quello è servo, questo è libero.
Prima di fare ciò, tuttavia, è essenziale confrontare la
spiegazione dell’acrasia presente in Spinoza con quella elaborata dai
classici, vale a dire l’acrasia intesa sia come debolezza di volontà
(Aristotele) che come possibile caso di ignoranza (Socrate) o giudizio
sbagliato (gli Stoici). Perché ritengo utile confrontare Spinoza con i
classici? Il confronto con i classici è utile in primo luogo perché
Spinoza li ha letti, così come ho mostrato nell’introduzione a questo
lavoro: egli ha letto Aristotele e gli Stoici. Confrontare Spinoza con i
classici non significa voler sostenere che la dottrina di Aristotele o lo
stoicismo hanno necessariamente influenzato Spinoza. Anche se
Spinoza è stato un lettore dei classici, non intendo mostrare quanto di
aristotelico o di stoico vi sia nel suo sistema, dal momento che egli è e
resta un pensatore originale in sé; vorrei invece cercare di rileggere
Spinoza alla luce di possibili analogie con le teorie aristoteliche e
127 stoiche sull’acrasia75. Spinoza conosce pertanto i classici e li utilizza
non per un mero intento d’erudizione, quasi un abbellimento elegante
al suo sistema, bensì, al pari di un grande filosofo, per rafforzare le
fondamenta teoretiche del suo complesso sistema filosofico. Il
confronto tra grandi menti, come sono ad esempio Spinoza e
Aristotele, produrrà sicuramente in chi è venuto dopo la possibilità di
ancorare le sue idee filosofiche alla propria originalità e, al contempo,
alla possibilità di confrontare questa con il grande lascito filosofico
del passato. Il confronto tra Spinoza e i classici è essenziale, pertanto,
per comprendere più a fondo il fenomeno acratico in Spinoza, il quale,
sia direttamente che in maniera indiretta, si è confrontato con l’unica
grande tradizione precedente di pensiero che si è occupata di acrasia.
Una seconda ragione circa la legittimità del confronto di
Spinoza con i classici è che in questo confronto—che ad oggi
nessuno, a mio parere, ha tentato di svolgere in maniera
omnicomprensiva e sistematica76—emergerà appieno l’originalità
della posizione di Spinoza sull’acrasia, che unica, apre nuove e più
75
Ritengo che questo possa essere un modo di rileggere gli stessi classici
alla luce di Spinoza.
76
Manzini (2009), pur cercando di confrontare teoreticamente quasi ‘tutti’
gli aspetti del pensiero etico e ontologico di Aristotele con quello di Spinoza
(facendo un lavoro quasi immane), egli tuttavia non si è occupato nello
specifico di acrasia.
128 stimolanti discussioni ancora oggi sull’intera questione77. Gli studiosi
che si sono occupati di acrasia in Spinoza usualmente si interessano a
questo tema esaminandolo solo a partire dai testi spinoziani,
focalizzandosi di più su alcuni aspetti particolari della questione
piuttosto che altri, trascurando una spiegazione più sistematica del
tutto e cercando di mostrare l’esistenza e il significato dell’acrasia per
la teoria morale e la teoria dell’azione, solo all’interno dei testi di
Spinoza. Nessuno di loro invece si preoccupa di collegare l’acrasia
spinoziana alle sue possibili fonti classiche. È proprio, tuttavia, dal
confronto con i classici e con la nozione classica di acrasia che
emerge la novità della concezione spinoziana di acrasia, intesa come
debolezza dell’appetito o affettiva, non volitiva. Questo è quanto mi
propongo di fare in questo capitolo.
Del resto, come scrive Giorgio Colli a proposito del rapporto
di Spinoza con la tradizione antica, dopo i Greci nessun filosofo è
stato profondo come Spinoza: “a ben poco pertanto serve collocarlo
nel suo tempo e studiarlo storicamente, indagando il nesso che lo lega
a filosofi precedenti e ricercando tracce del suo pensiero nella
speculazione posteriore. Certo, egli si serve di molti concetti della
tradizione, ma li riempie dei suoi contenuti; e quando avremo stabilito
i suoi presupposti culturali e i suoi influssi, continueremo a scivolare
77
Kisner (2011); Le Buffe (2010)
129 lungo la superficie di una sfera, in cui invece, come abbiamo detto, si
tratta di penetrare sino al centro”78. Non so se con questa ricerca sono
riuscita a penetrare sino al centro della sfera di cui parla Giorgio Colli,
ma di certo, nel tentativo di farlo, ho cercato di non scivolare solo
sulla superficie. Così dicendo, mi propongo allora di giungere a
definire come e quali concetti della tradizione può aver usato Spinoza,
riempiendoli dei suoi contenuti, nel trattare del fenomeno acratico.
A tal proposito, quali letture classiche possono aver fatto
riflettere Spinoza nella definizione di acrasia? Nell’introduzione a
questa mia ricerca, ho già chiarito le modalità metodologiche con cui
affronto la lettura dei classici nel confronto con Spinoza. Qui mi
limito a rammentare i testi di riferimento che utilizzo per argomentare
circa il confronto tra Spinoza e la tradizione classica. In particolare,
circa la probabile lettura di Aristotele da parte di Spinoza, utilizzo e
mi riferisco all’Aristotele dell’edizione latina di Melantone, quell’
“accorto amante della verità”, presente nella biblioteca di Spinoza.
Nel ricostruire la nozione stoica di acrasia, invece, ci troviamo di
fronte ad una questione di ben più difficile complessità. Diversamente
da quanto accade per Aristotele—che gode di una notevole
abbondanza di studi critici circa la nozione di acrasia elaborata
principalmente in Etica Nicomachea VII— per gli Stoici la situazione
78
G. Colli (1983), pp.53-54.
130 è assai più frammentaria: non esiste una discussione sistematica
sull’argomento da parte degli studiosi contemporanei, in larga parte
imputabile alla difficoltà di rinvenimento nelle fonti antiche di una
trattazione esaustiva dell’acrasia da parte degli Stoici.
E, tuttavia, c’è evidenza che gli Stoici si sono molto interessati
al fenomeno dell’acrasia, e parte della critica recente si è mossa verso
una ricostruzione e un apprezzamento filosofico del trattamento stoico
di un tale fenomeno. Il capitolo terzo e quarto delle Tusculane
Disputationes di Cicerone, al pari del De ira di Seneca, è una fonte
importante circa la ricostruzione della nozione di acrasia, così come
essa era stata elaborata da Crisippo, uno dei più influenti filosofi
stoici, il terzo scolarca della scuola, “il filosofo senza il quale non ci
sarebbe stata la Stoà”—come dice Diogene Laerzio79. Un noto
studioso olandese, Teun Tieleman ha recentemente ricostruito,
tradotto e commentato una parte fondamentale di un’importante opera
perduta di Crisippo, Sulle passioni (Peri pathôn), integrando
l’edizione di quell’opera che Hans von Arnim fece in appendice ai
suoi Stoicorum Veterum Fragmenta (SVF). Il lavoro di Tieleman è
particolarmente importante ai fini di questa ricerca, nella misura in cui
egli ha fornito un contributo testuale e interpretativo decisivo (e
79
E’ noto che Spinoza conosca lo stoicismo greco mediante Cicerone e
Seneca.
131 assente in SVF) per quanto riguarda il quarto libro di Sulle passioni,
libro che ha il titolo programmatico di ‘Terapeutico’ e ove il filosofo
stoico si occupa proprio di acrasia, una delle malattie dell’anima.
Basandoci sull’edizione fino ad ora canonica di Von Arnim del
‘Terapeutico’, ci si trova in realtà nell’incapacità fattiva di
comprendere il fenomeno acratico in Crisippo, visto che l’edizione di
Von Arnim non offre una ricostruzione critica, sorvegliata e attenta,
del contesto filosofico di Galeno, la fonte principale per la
comprensione del Terapeutico di Crisippo. Questo punto emergerà
con la dovuta chiarezza una volta che affronterò in dettaglio la
questione, nel paragrafo terzo. Un lavoro interpretativo, infine, che è
in sintonia con la visione esegetica di Tieleman è quello di
Christopher Gill, leading scholar sull’etica antica e sullo stoicismo.
Gill in diversi studi e in vari articoli ha contribuito notevolmente a
modificare l’interpretazione tradizionale dell’acrasia negli Stoici, in
particolare in Crisippo.
2. L’acrasia e il desiderio: Aristotele
Intendendo confrontare Spinoza con i classici, ritengo sia utile partire
da Aristotele proprio perché questo possibile collegamento tra i due
filosofi circa il tema dell’acrasia è senza dubbio molto più
132 problematico rispetto a alla consonanza più evidente tra Spinoza e gli
Stoici sulla questione. In particolare, i nuclei concettuali su cui mi
accingo a fondare la mia argomentazione sono i seguenti: (1) il nesso
tra desiderio (o emozione) e giudizio (o credenza), vale a dire la
possibilità che un’emozione condizioni e influenzi una credenza; e la
conseguente nozione di desiderio come principale motore dell’agire;
(2) il nesso tra acrasia e debolezza del desiderio; (3) l’acrasia come
conflitto non tanto tra ragione e passioni quanto tra due appetiti
opposti; (4) una concezione di parti dell’animo, accanto ad una
visione olistica dell’uomo80.
A riguardo del confronto tra i classici e Spinoza, David
Konstan, studioso celebre per le sue ricerche sulla teoria delle
emozioni sia nel mondo antico che tra i moderni (The Emotions of the
Ancient Greeks, 2006) collega esplicitamente Spinoza ad Aristotele
80
Da un punto di vista strettamente filosofico, una concezione a parti
dell’anima non significa necessariamente una concezione non olistica
dell’uomo. Aristotele, ad esempio, in alcuni opere sostiene apertamente un
concezione di parti dell’anima, a volte dette più propriamente funzioni, pur
rimanendo di fondo un sostenitore dell’olismo (si veda, a tal proposito, De
Anima, specie il libro II, e il nuovo, illuminante studio su quest’opera di T.
Johansen (2012). Tuttavia, un contrasto tra concezioni a parti dell’anima e
olismo dell’uomo si rinviene in molti filosofi e qui ritengo utile perseguire
questa strada nel confronto tra Spinoza ed Aristotele.
133 circa il rapporto tra emozioni e credenze, spiegando come sia possibile
che un’emozione condizioni in modo significativo una credenza81.
Konstan analizza un celebre passo della Retorica I, 2, 1356 a 15-16, di
Aristotele, in cui risulta chiarissimo che un’emozione influenza il
giudizio: “ […] i giudizi non vengono emessi allo stesso modo se si è
influenzati da sentimenti di dolore o di gioia, oppure di amicizia o di
odio”. Aristotele prosegue, nel testo, affermando che tutto ciò sarà più
chiaro quando egli parlerà di emozioni, vale a dire poco più avanti,
quando sempre in Retorica, II, 1,1378 a 20-23 egli dice che “le
emozioni sono i fattori in base ai quali gli uomini, mutando opinione,
differiscono in rapporto ai giudizi, e sono accompagnate da dolore o
piacere”. Se un individuo ama, odia, prova piacere o dolore, ciò non
può non avere effetti sui giudizi che egli elabora quando prova quelle
emozioni. In particolare, da un passo della Retorica I, 1, 1354 b8-13,
81
Si veda Konstan (2006), pp. 34-35. Per un approfondimento invece di tipo
psico-neurologico del ruolo dell’emozione all’interno del meccanismo della
decisione tra azioni alternative, si veda il testo di Damasio, Alla ricerca di
Spinoza (ed. italiana 2007). Damasio collega, in particolare, (p. 47) il nesso
appetito-desiderio a quello tra emozione-sentimento. A riguardo, infine, di
una più recente interpretazione della cupiditas e dell’appetito in Spinoza alla
luce di Aristotele, si vedano gli studi di F. Manzini (2009), pp. 32 sgg. In
particolare, Manzini collega un passo di EN, I, 1, 1094 a 1-3 (Basilea, III, 1,
17-19) alla definizione spinoziana di appetito.
134 si evince con chiarezza in che modo il piacere e il dolore possano
offuscare il giudizio: “costoro (sc. i membri di un’assemblea popolare,
considerati differenti dal legislatore che mira all’universale) spesso
sono influenzati da amicizia, odio e interesse privato, sicché non
possono più vedere il vero in modo adeguato, ma il loro giudizio è
oscurato dal piacere e dal dolore personale”.
Konstan sottolinea come la filosofia si sia spesso occupata
della questione inversa, di come cioè il giudizio condizioni le
emozioni.82 Egli ritiene, tuttavia, come due notevoli eccezioni a questa
tendenza siano proprio Aristotele (nei passi citati sopra della Retorica)
e il nostro Spinoza83.
82
Un caso celeberrimo e molto interessante di analisi filosofica
dell’influenza dei giudizi sulle emozioni rimane la discussione sui piaceri
falsi del Filebo di Platone (Filebo 36a-43b) su cui si sono dilungati
importanti filosofi contemporanei come Bernard Williams, Terence
Penelhum e Jarvis Thomson (si vedano i loro studi contenuti in S.
Hampshire, Philosophy of mind, 1966)
83
Per un ulteriore approfondimento su come sia possibile che un’emozione
influenzi una credenza., si veda la bibliografia contenuta in D. Konstan
(2006), in particolare Frijda-Nico-Manstead-Bem, Emotions and beliefs:
how feelings influence thoughts (2000). Konstan ricorda anche la figura di
Edipo nell’Edipo Re di Sofocle (523-524), quando il coro commenta
l’accusa di Edipo contro Creonte, mostrando come in verità questa accusa
135 Quando distingue l’appetito dalla cupidità in EIII, P9 S,
Spinoza dice letteralmente: “Risulta dunque da tutte queste cose (sc.
dall’analisi di appetito, cupidità e volontà) che noi non cerchiamo,
vogliamo, appetiamo, né desideriamo qualcosa perché riteniamo che
sia buona; ma, al contrario, che noi giudichiamo buona qualcosa
perché la cerchiamo, la vogliamo, la appetiamo e la desideriamo”. Da
queste poche righe—chiare come egli voleva fossero—emerge
nitidamente che la cupiditas, componente essenziale dell’uomo
spinoziano, precede ogni atto conoscitivo. Vale a dire, i desideri (o,
per usare un termine non spinoziano ma più attuale, le emozioni)
precedono e condizionano i modi attraverso cui i giudizi vengono
formulati e elaborati. Sempre in EIII, Definizione Generale Degli
Affetti, Spinoza definisce l’Affetto o Pathema dell’animo come
“un’idea confusa, con la quale la Mente afferma una forza di esistere
del suo Corpo o di qualche sua parte maggiore o minore in precedenza
e, data la quale, la stessa Mente è determinata a pensare questo
piuttosto che quello”.
Come già chiarito, è noto che per Spinoza il desiderio, sia esso
appetito che cupiditas, esprime l’essenza stessa dell’uomo e
non derivi dalla mente o dal giudizio di Edipo, quanto dalla sua rabbia, da
un’emozione: il coro in risposta a Creonte afferma: “La tua offesa fu
provocata dall’ira più che un ragionato giudizio”.
136 caratterizza la natura propria di ogni singolo e individuale conatus,
che si sforza verso l’autoconservazione di sé. Altrettanto noto è che
ogni desiderio determina e condiziona ogni attività conoscitiva in
genere e ogni giudizio, a tal punto che nell’atto acratico il giudizio
risulta debole in quanto deriva da un appetito debole, tipico dell’uomo
che agisce acraticamente.
Forse è meno noto che, come si deduce dalla Retorica, anche
per Aristotele un desiderio possa condizionare un giudizio. Per
Konstan la teoria degli affetti aristotelica, resta pur sempre una teoria
cognitivista, secondo cui gli affetti (o le emozioni) hanno sì una
funzione cognitiva, ma non possono essere definiti cause del
contenuto del giudizio per un soggetto. Questa prospettiva, tuttavia,
per lo studioso non esclude in Aristotele la possibilità di un sistema
dinamico circolare tra emozioni e credenze, e il fatto conseguente che
anche un’emozione possa influenzare una credenza. All’interno di una
teoria cognitivista delle emozioni come quella di Aristotele, un
giudizio non può correttamente nascere da un’emozione: mio figlio
Delio ha paura di farsi curare dal dentista, ma, pur piccolo, sa che è
bene farlo perché io, mamma, gli ho trasmesso questa idea che lui ha
poi fatto sua, cognitivamente e indipendentemente dalla sua
emozione.
Il giudizio di Delio circa la cura dei denti non nasce allora
dalla sua emozione di paura, ché questa gli suggerirebbe un giudizio
137 opposto a quello che lui ha; egli ha elaborato il suo giudizio in
contrasto con la sua emozione di paura. Una volta sottopostosi alla
cura del dentista, e sperimentato il dolore, Delio muta il suo giudizio
circa la bontà dell’atto di andare dal dentista. Egli non vuole più
andare dal dentista e pensa che non sia bene farlo. Il suo giudizio
questa volta è influenzato dalla sua emozione di dolore e di paura per
la possibile ripetizione dell’esperienza dolorosa. Questo è un esempio
di una possibile circolarità tra giudizio (corretto), emozione, e nuovo
giudizio (non corretto). Aristotele potrebbe obiettare che alla luce
dell’esempio fatto, l’emozione, se influenza un giudizio, lo fa
negativamente.
Non
sempre
è
così.
Un
giudizio
influenza
un’emozione anche positivamente: due coniugi molto innamorati
credono entrambi che sia bene occuparsi l’uno dell’altra. Entrambi
agiscono alla luce di questa credenza condivisa, adoperandosi perché
il proprio amato/a stia bene. Agendo in questo modo, entrambi i
coniugi provano emozioni di benessere, piacere, felicità, gioia. Queste
emozioni producono in entrambi nuovi giudizi, che possono essere
considerati un prodotto cognitivo dell’emozione: ad esempio,
entrambi possono pensare che concepire dei figli sia una buona cosa,
perché una progenie godrebbe fin dalla nascita di queste cure e di
questo benessere. In conclusione, una prospettiva cognitivista come
quella di Aristotele non esclude che le emozioni possano avere un
138 ruolo formativo epistemicamente sui giudizi—comunque che esse
possano influenzare un giudizio.
Al di là della novità interpretativa di Konstan, che comunque
getta una luce diversa sulla teoria aristotelica delle emozioni oggi
piuttosto dibattuta84, trovo molto interessante—da un punto di vista
squisitamente interpretativo—non solo il fatto che per Aristotele
un’emozione possa influenzare un giudizio, ma ritengo significativa
anche la nozione aristotelica del desiderio che ne consegue, molto
affine a quella di Spinoza, pur nelle rispettive differenze e peculiarità.
Da queste brevi osservazioni, risulta infatti un’affinità
filosofica di fondo tra Aristotele e Spinoza a riguardo dell’affettività e
del desiderio, e di come quest’ultimo influenzi il giudizio. Anche per
Aristotele, pur essendo l’essenza dell’uomo quella di un animale
razionale (e non principalmente desiderante, come lo è per Spinoza),
tuttavia anche per lo Stagirita il desiderio è una componente
essenziale dell’agire umano e il motore delle scelte individuali.
Nell’Etica Nicomachea il desiderio è illuminato dal logos e il logos
spinto dal desiderio, a tal punto che l’uomo è sì ragione che desidera,
ma è anche desiderio che pensa, desiderio senza il quale l’uomo
sarebbe vuoto e la scelta cieca (EN VI, 1139 b4-6). Senza il desiderio,
di per sé, il pensiero allora non muove nulla (EN VI, 1139 a36). Con
84
Si veda Knuuttila (2004), pp. 24-47.
139 più evidenza, leggiamo nel DA III, 9, 432 b26-433 a5, che il desiderio
è il motore dell’azione, è tendenza, è movimento; in nome di esso
l’uomo agisce, come ad esempio nel caso dell’uomo acratico.
Aristotele dice esplicitamente:
Ma nemmeno si può dire che ciò che muove sia la facoltà razionale e quello
che è chiamato intelletto. Infatti, l’intelletto teoretico non pensa nulla di ciò
che è oggetto dell’azione, e nulla dice su ciò che si deve evitare e perseguire,
mentre il movimento è sempre proprio di un essere che evita qualcosa e
persegue qualcosa. Ma neppure quando l’intelletto prende in considerazione
qualcosa di simile, per ciò stesso comanda di evitare o perseguire l’oggetto.
Ad esempio spesso pensa qualcosa di pauroso o di piacevole, e tuttavia non
comanda di temerlo, benchè il cuore si muova, o, se l’oggetto è piacevole,
qualche altra parte corporea. Inoltre, anche se l’intelletto ordina e la ragione
dice di evitare o di perseguire qualcosa, non ci si muove, ma si agisce in
conformità del desiderio, come avviene con l’acratico85
Da questo passo del De Anima si evince che non solo il desiderio è il
motore principale di un’azione rispetto alla parte razionale dell’uomo,
ma anche che l’uomo acratico è proprio colui che agisce in conformità
al desiderio. A conferma di quanto sto dicendo, Aristotele aggiunge
85
Si veda pure il libro VII, 1, sgg. dell’ Etica Nicomachea.
140 che la parte appetitiva è l’unico motore dell’azione umana, a tal punto
che l’intelletto (o volontà) non muove senza la tendenza (o desiderio).
Il desiderio – ricorda Aristotele – può muovere anche contro ragione,
come nel caso dell’acrasia. La volontà è sempre retta, mentre il
desiderio e l’immaginazione possono essere rette oppure non rette.
Alla luce di questo, è sempre l’oggetto del desiderio a muovere;
questo o è il bene o ciò che appare come bene. Ecco il passo di
Aristotele al riguardo: “Ora, mentre risulta che l’intelletto non muove
senza la tendenza (poiché la volontà è una tendenza, e quando ci si
muove in conformità della ragione, ci si muove anche in conformità
della volontà), la tendenza muove invece anche contro la ragione,
giacché il desiderio è una forma di tendenza” (DA III, 10, 433 a2227).
Sempre al De Anima (e forse anche alla Retorica) sembra
riferirsi Spinoza nel Breve Trattato II, 17, quando discute la
definizione aristotelica di desiderio e di volontà. A questo punto del
mio ragionamento, risulta allora inevitabile, oltre che essenziale,
riflettere sul possibile collegamento tra l’Aristotele del De Anima (e
del passo della Retorica) e l’interpretazione che ci fornisce Spinoza
nel Breve Trattato. In particolare, così facendo, intendo chiarire
meglio il nesso e la possibile affinità di Spinoza con Aristotele, circa
la nozione di desiderio e di come questo possa influenzare un
giudizio. A tal proposito, Franco Chiereghin si è occupato della
141 presenza aristotelica nel Breve Trattato, dove secondo lo studioso
testé citato Aristotele tocca livelli assai differenziati di “riferimenti
storici e rilevanza speculativa” e dove Spinoza steso riprenderebbe in
particolare, proprio da Aristotele, la nozione di “desiderio”86. E’ senza
dubbio vero, come ricorda anche Mignini nel suo noto studio sul B.T.,
che Spinoza non accetta in toto la teoria aristotelica del desiderio e
della volontà, ma è innegabile che Spinoza l’accetti—almeno in parte
a mio avviso—ed utilizzi la tesi di Aristotele per criticare e rifiutare la
dottrina cartesiana della volontà e del desiderio87.
Spinoza non può accettare del tutto la tesi di Aristotele, in
particolare perché, strettamente parlando, da un punto di vista
spinoziano la volontà come facoltà propria non esiste, ma si danno
solo volizioni e desideri particolari. Celebri, a tal proposito, sono le
proposizioni di EII, PP 48-49 (con le relative dimostrazioni e i relativi
scolii), in cui Spinoza si accinge a confutare il pregiudizio
volontaristico. Nella dimostrazione di P 48, Spinoza afferma: “La
Mente è un modo certo e determinato del pensare, e perciò non può
86
Chiereghin (1987), pp. 325-431.
87
Anche per Mignini (1986), pp. 674-675: “si può concludere che Spinoza
accetti questa tesi aristotelica così interpretata (con le riserve e le
precisazioni che verranno aggiunte nei paragrafi che seguono) e che se ne
serva come critica implicita della dottrina cartesiana e di quelle degli
scolastici moderni”.
142 essere causa libera delle sue azioni, ossia non può avere un’assoluta
facoltà di volere e di non volere; ma deve essere determinata da una
causa, che anch’essa è determinata da un’altra causa.” Stando così le
cose, Spinoza nello scolio a P 48 spiega: “In questo stesso modo si
dimostra che nella mente non si dà alcuna facoltà assoluta di
intendere, di desiderare, di amare, ecc. Donde segue che queste e
simili facoltà o sono del tutto fittizie o non sono altro che enti
metafisici, ossia universali che siamo soliti formare dai particolari.
Così che l’intelletto e la volontà stanno a questa e quella idea o a
questa e quella volizione nello stesso modo in cui la petreità sta a
questa e quella pietra o in cui l’uomo sta a Pietro e Paolo”.
In definitiva, Spinoza sostiene che esistono solo singole
volizioni e singoli desideri particolari: “Nella mente non si dà alcuna
assoluta facoltà di volere o di non volere ma soltanto volizioni
singolari, e cioè questa o quella affermazione, e questa e quella
negazione” (P 49). Tali dottrine erano anticipate nel BT: “Come nella
trattazione della volontà abbiamo detto che negli uomini essa non è
altro che questa o quella volontà, allo stesso modo non esiste in loro
nient’altro che questo e quel desiderio, che è causato da questo o quel
concetto. Infatti il desiderio non è qualcosa che esista realmente nella
Natura, ma è solo astratto da questo o quel particolare desiderare;
dunque il desiderio, non essendo qualcosa di reale, non può neppure
causare realmente alcunché” (BT II, 17, § 5).
143 Nonostante le differenza tra Aristotele e Spinoza circa volontà
e desiderio, esiste uno spazio di affinità tra di loro a proposito della
nozione stessa di desiderio che intendo approfondire ora, alla luce del
Breve Trattato (e del De Anima e della Retorica). Nel BT (II, 16),
prima di discutere la nozione aristotelica di desiderio e di volontà,
Spinoza critica la teoria cartesiana della volontà, secondo cui è il
desiderio che dipende dalla volontà (intesa come giudizio o ragione).
Per Cartesio la volontà precede il desiderio che, in quanto inclinazione
verso il bene, segue all’affermazione o negazione della volontà. Per
Spinoza, invece, nel processo decisionale il desiderio precede la
volontà: di qui le due note teorie spinoziane del desiderio e della
volontà, il primo inteso come inclinazione verso il bene, la seconda
come affermazione del bene e negazione del male.
Come è stato mostrato nelle righe precedenti, volontà e
desiderio non sono due facoltà astratte per Spinoza; esistono solo
volizioni e desideri particolari. Volontà e desiderio esprimono la
stessa identica idea secondo punti di vista diversi: in riferimento alla
sola mente (volontà) e in relazione alla mente e al corpo (desiderio)88.
Nel capitolo seguente (BT II, 17) Spinoza discute la teoria di
Aristotele, citandolo direttamente:
88
Si veda, EII, PP48-49; EIII, P9 S. Si veda anche il commentario di
Mignini (1987) al Breve Trattato, pp. 672 sgg.
144 Secondo la definizione di Aristotele, il desiderio sembra essere un genere
comprendente sotto di sé due specie; infatti egli dice che la volontà è
quell’appetito o attrazione che si prova sotto l’aspetto del bene. Perciò mi
sembra che egli pensi che desiderio (o cupiditas) siano tutte le inclinazioni,
sia al bene che al male. Se l’inclinazione è solo al bene, o se l’uomo prova
tale inclinazione sotto l’aspetto del bene, allora la chiama voluntas o buona
volontà; ma se è cattiva, cioè se vediamo in un altro un’inclinazione verso
qualcosa che è cattivo, egli la chiama voluptas o cattiva volontà. Pertanto
l’inclinazione della mente non ha lo scopo di affermare o negare, ma solo di
ottenere qualcosa sotto l’aspetto del bene e di fuggirlo sotto l’aspetto del
male.
In genere, si pensa che la definizione aristotelica cui Spinoza allude in
BT II, 17, sia proprio quella di DA III, 9 433a—di cui ho trattato
poc’anzi—oppure quella che si evince da un passo della Retorica I,
10. Nella Retorica, trattando delle azioni intenzionali delittuose,
Aristotele distingue l’appetito sensibile irrazionale (o desiderio)
dall’appetito razionale (o volontà), intendendo la volontà come un
impulso razionale verso il bene. Nel De Anima il desiderio e la
volontà sono considerate due parti—altrimenti dette funzioni—della
stessa facoltà appetitiva dell’anima, necessarie per condurre l’uomo a
decidere. Il desiderio rappresenta la parte irrazionale; la volontà
145 esprime quella razionale che determina i fini, mentre la deliberazione
preliminare aveva stabilito i mezzi per conseguire quanto la volontà
voleva89.
Il capitolo del Breve Trattato in esame è pertanto un testo
significativo come testimonianza della teoria aristotelica del desiderio
e della volontà. Più in particolare, il passo citato del Breve Trattato è
significativo per altre due ragioni importanti, soprattutto ai fini della
ricerca qui in atto: la prima ragione è che Spinoza, utilizzando
Aristotele per criticare Cartesio, conferma con la sua analisi che per
Aristotele il desiderio precede la volontà e comunque la determina—
come Spinoza stesso ritiene e come entrambi i filosofi pensano contro
Cartesio.
In secondo luogo, pur differenziandosi da Aristotele, Spinoza
elabora una teoria del desiderio molto affine concettualmente a quella
aristotelica, molto più affine di quello che a prima vista di possa
ritenere. Originale a questo riguardo rimane l’interpretazione di
Wolfson: lo studioso americano sostiene che la teoria del desiderio e
89
Per altri studiosi, ad esempio, Trendelenburg (1867), p. 346, in BT II, 17,
Spinoza si riferirebbe ad un passo di Metafisica XII, 7, dove Aristotele tratta
del Motore Immobile. Dopo aver precisato che ciò che muove senza essere
mosso è oggetto di appetizione e di intellezione, egli (Aristotele) sostiene
che oggetto di desiderio è ciò che appare buono, mentre oggetto di volontà è
ciò che è buono.
146 della volontà di Spinoza rappresenti un ampliamento e uno sviluppo
delle tesi aristoteliche. In entrambi i filosofi il desiderio condiziona
l’azione, ne è la matrice90. In secondo luogo, per entrambi i filosofi il
desiderio è quello sforzo di auto-conservazione che è tipico dell’essere
umano in quanto tale.91
In conclusione, un importante elemento di affinità tra Spinoza
e Aristotele a riguardo del desiderio è che il desiderio precede sempre
la volontà; in questa precedenza si possono rinvenire le tracce della
determinazione del primo sulla seconda. Questo punto è generalmente
assodato per quanto riguarda Spinoza, ma piuttosto innovativo per
quel che concerne Aristotele. Gli studi di Konstan ampiamente citati
in precedenza hanno aperto nuove strade interpretative circa il
rapporto tra desiderio, volontà e giudizio in Aristotele. Facendo leva
sull’innovazione esegetica di Konstan, ho fornito argomenti che
corroborino l’idea che per Aristotele il desiderio influenzi il giudizio e
90
Si veda Wolfson (1960), pp. 169-205, che si riferisce a EIII, P9 S e alla
Retorica di Aristotele. Per un approfondimento ulteriore del rapporto tra
Aristotele e Spinoza in generale (e in particolare circa la nozione di
desiderio) si vedano gli studi recenti di Manzini (2009); Chiereghin (1987);
Hampshire (1977).
91
Si veda ancora Wolfson (1960), pp. 204-207 circa la teoria del desiderio in
Spinoza in relazione agli Stoici, in particolare al nesso stoico tra
autoconservazione dell’individuo e piacere.
147 la stessa volontà. Alla luce di questa notevole affinità, sia Spinoza che
Aristotele intendono il desiderio come un elemento essenziale
dell’umano agire—Spinoza lo considera, come cupiditas, l’essenza
stessa dell’uomo, Aristotele un cardine fondamentale dell’azione92.
La differenza tra Aristotele e Spinoza si situa a livello non solo
dell’idea di volontà ma soprattutto a riguardo del ruolo che il desiderio
assume nel fenomeno acratico. È su questo terreno che i due si
distanziano molto e in questa distanza è possibile cogliere appieno
l’originalità della spiegazione spinoziana di acrasia. (2) Di qui
veniamo al secondo punto dei quattro elencati in precedenza,
riguardante il nesso tra acrasia e desiderio. Come ho già chiarito, in
Spinoza il desiderio è debole e l’acrasia è meglio intesa come una
debolezza appetitiva. Stando così le cose, l’acrasia non è una
92
A tal proposito, trovo interessante rilevare che Melantone traduce il
termine ‘desiderio’ (presente nell’EN, VII) con il termine latino cupiditas,
intendendo con questa l’orexis aristotelica. Egli traduce, inoltre, con
appetitus l’epithumia di Aristotele, il desiderio irrazionale; mentre con
voluptas traduce spesso la nozione di ‘piacere’ e con voluntas la volontà
(boulesis) aristotelica. Con adfectus viene invece tradotto il termine pathos.
Si veda anche l’interpretazione di Wolfson (1960), circa l’uso di questi
vocaboli in Aristotele e Spinoza.
148 debolezza di volontà, come invece viene spesso definita in Aristotele
da parte di molti studiosi93.
La nozione di acrasia in Aristotele è molto—e vivacemente—
discussa ancora oggi e risulta anche problematica, nella misura in cui
dall’esame dei testi aristotelici emergono due definizioni di acrasia.
Come si evince dagli studi di Pierre Destrée, è possibile spiegare il
fenomeno acratico in Aristotele in maniera duplice: l’acrasia può
essere intesa così sia come debolezza di volontà che come mancanza
di conoscenza. Entrambe queste spiegazioni sono presenti nell’Etica
Nicomachea VII, e la prima, la debolezza della volontà, verrebbe
93
Il tema dell’acrasia sia, in generale, che, in particolare, in Aristotele è
molto studiato da sempre. Per una recentissima interpretazione dell’acrasia
in Aristotele, si veda il volume curato da C. Natali (2009), frutto di un
Simposio Aristotelico che si è tenuto a Venezia e pubblicato dalla Oxford
University
Press,
volume
interamente
dedicato
alla
lettura
ed
approfondimento del Libro VII dell’Etica Nicomachea. Per una panoramica
più generale (con un aggiornamento bibliografico), si vedano anche gli studi
di T. Hoffmann (2009) sulla debolezza di volontà da Platone al presente. Per
un ulteriore approfondimento del tema si vedano P. Destréè, M. Zingano, D.
Charles contenuti in un volume interamente dedicato all’acrasia nel mondo
greco, a cura di Destrée-Bobonich (2007). Recentissimi anche gli studi di A.
Price (2011), succesivi al famoso volume Mental conflict (1995). Da non
trascurare gli studi di Wiggins (1978), Kenny (1979), Lear (1988).
149 trattata da Aristotele anche nel DA III, 701 a31-32- III, 11, 434 a 1114, dove l’acrasia è presentata come un conflitto tra due desideri. Alla
luce dell’interpretazione che Destrée fornisce dei testi aristotelici,
l’acrasia è in primo luogo possibile perché la volontà diventa debole e
l’uomo manca di autocontrollo: l’agente acratico sa che mangiare una
fetta di torta per lui è male, ma egli tuttavia la mangia ugualmente
perché la propria capacità di non volerla mangiare viene meno sul
desiderio forte di mangiarla.
Di qui s’origina la prima spiegazione di acrasia come
debolezza di volontà. L’agente acratico è dunque debole nella volontà
perché è incapace dall’astenersi dal mangiare la torta; il conflitto
sarebbe tra la volontà di non mangiare la torta, perché ciò è male per
lui, e il desiderio forte di farlo ugualmente. (Anche nel De Anima un
desiderio forte ed irrazionale si oppone, vincendolo, ad un desiderio
razionale—o volontà. L’acrasia è anche qui spiegata come un
possibile conflitto tra due desideri opposti e, in quanto tale, come una
debolezza di volontà. Su questo punto tornerò più tardi con più
dovizia di particolari).
Alla luce invece della seconda spiegazione aristotelica—di tipo
intellettualistico o cognitivistico—l’acrasia è intesa come una
possibile mancanza di conoscenza: l’agente acratico decide di
mangiare la torta perché ha perduto la conoscenza che gli impediva di
farlo oppure, più semplicemente, egli non sa, quasi socraticamente,
150 che mangiare la torta rappresenti per lui un male94. L’agente acratico è
pertanto ignorante circa il suo bene. Destrée mostra come per molto
tempo gli studiosi si sono concentrati o sulla prima o sulla seconda
spiegazione di Aristotele dell’acrasia, mentre lui cerca di conciliarle
entrambe95. L’acrasia è, in definitiva, una debolezza del volere ma si
spiega anche come possibile errore cognitivo perché la ragione viene
comunque e sempre vinta dal desiderio.
Un recente simposio aristotelico, tenutosi a Venezia nel 2007,
si è interamente focalizzato sul libro VII dell’Etica Nicomachea, e, di
riflesso, sull’acrasia, tema fondamentale di quello stesso libro. Carlo
Natali ritiene più corretto—a proposito di Aristotele—definire
l’acrasia una mancanza di autocontrollo. Una tale mancanza di
autocontrollo si biforca in due possibili stati: la mancanza di
94
Si veda Destrée (2007), pp.140-141.
95
Si veda sempre Destrée (2007), per una cornice bibliografica di questi
studi. In particolare, per questa interpretazione intellettualistica dell’acrasia
in Aristotele, si vedano Robinson (1977); Joachim (1951); Gauthier-Jolif
(1970); Timmermann (2000); Bostock (2000); Grgic (2002); e infine
Vergnières (2002). Questa lettura era già presente, come osserva Destrée, nei
commentatori antichi, greci e latini. Per il primo tipo di interpretazione
(acrasia aristotelica come debolezza di volontà), invece, si vedano Dahl
(1984) e Charles (1984) e (2007); Burnet (1900).
151 autocontrollo per impetuosità e quella legata ai desideri96. Come ci
dice Aristotele: “Vedremo adesso che la mancanza di autocontrollo
per impetuosità è meno turpe di quella legata ai desideri” (1149 a 2325). In un passo vicino a quello testé citato, Aristotele specifica
ulteriormente che l’acrasia è sempre una mancanza di autocontrollo
che può avvenire “per precipitazione” (propeteia) o per debolezza
(astheneia): “Parte della mancanza di autocontrollo è precipitazione,
parte è debolezza.” (1150 b18-20). Alla luce di questi passi
aristotelici, è possibile identificare l’acrasia per impetuosità con quella
per precipitazione e l’acrasia legata ai desideri con quella per
debolezza, come ha sottolineato recentemente anche Bobonich e lo
stesso Natali.97
Un articolo recentissimo di Bruno Centrone illustra più
chiaramente i due possibili significati di acrasia presenti nell’ Etica
Nicomachea di Aristotele, confermando quanto asserito da Natali98.
Secondo l’analisi di Centrone, esiste in Aristotele un primo tipo di
acrasia che consiste in una debolezza della parte razionale dell’uomo.
Centrone identifica questo primo tipo di acrasia, che egli dice per
96
Melantone traduce l’acrasia per impetuosità con “incontinenza dell’ira”;
l’acrasia invece per debolezza del desiderio con “incontinenza della
cupiditas”.
97
Bobonich (2009); Natali (2009).
98
B. Centrone (2011), pp. 316 sgg.
152 natura, con l’acrasia per astheneia. L’acratico delibera, ma poi—in
quanto tale—non si attiene a ciò che ha deliberato; per debolezza egli
cede al desiderio. Un secondo tipo di acrasia in Aristotele è quella che
Centrone chiama per abitudine—vale a dire per precipitazione
(propeteia) o impetuosità—che esclude la deliberazione razionale
precedente un’azione e conduce l’uomo ad agire acraticamente perché
soverchiato dall’affezione. Per Aristotele: “Alcuni infatti, per
passione, deliberano e poi non si attengono saldamente alle cose che
hanno deliberato; altri invece sono spinti dalla passione perché non
hanno deliberato” (1150 b 20-22).
Centrone discute questi due tipi di acrasia in relazione alla
melanconia, mostrando come in verità l’acratico che può guarire è
solo quello precipitoso perché non delibera. Così facendo, viene
evidenziato
il
nesso
tra
acrasia/debolezza
del
desiderio/immaginazione. Alla luce di questo secondo tipo di acrasia,
l’acratico è colui che non ragiona e non delibera prima di agire;
debole
per
l’impetuosità
che
lo
caratterizza,
egli
segue
l’immaginazione perchè soverchiato dall’affezione99. Entrambi i tipi
di acrasia riferiti, tuttavia, rinviano al desiderio debole. L’agente
99
Qui non mi è possibile approfondire l’interessante nesso tra melanconia e
acrasia, già evidenziato da Centrone in Aristotele, anche in relazione a
Spinoza, dove la melanconia (o maestitia e aegritudo) è una dolce tristezza,
apparentemente sempre cattiva EIII, P11 e EIV, P42.
153 acratico, sia che deliberi sia che non lo faccia, in fondo rimane
soverchiato dal desiderio a cui cede—nel primo caso andando contro
la sua miglior ragione; nel secondo caso cedendo all’impeto e alla
debolezza del suo desiderare.
Il ruolo del desiderio nel fenomeno acratico e la conseguente
debolezza di questo, come caratteristica dell’acrasia, potrebbe
apparire, così, come un tratto comune sia all’acratico di Aristotele che
a quello di Spinoza: per entrambi l’acrasia può essere infatti spiegata
alla luce di una possibile debolezza del desiderio (come rilevato
poc’anzi, il desiderio è una componente essenziale dell’acrasia,
essendo esso motore dell’agire umano per Aristotele ed essenza stessa
dell’uomo per Spinoza). Nonostante questa apparente—e forse
secondaria—affinità tra Spinoza ed Aristotele, in verità sono le
differenze ad essere molto più rilevanti e significative. In primo luogo,
a differenza di Aristotele, per Spinoza l’acrasia non è mai una
debolezza della volontà. Nell’etica spinoziana la volontà non potrà
mai essere debole e essa non esiste così come la intendeva Aristotele,
vale a dire come facoltà astratta. L’acrasia in Spinoza, inoltre, non
rinvia mai a un conflitto tra ragione e passioni, ma presuppone un
conflitto tra soli appetiti opposti. Il primo tipo di acrasia aristotelica è
pertanto del tutto assente in Spinoza perché nessun desiderio forte si
oppone e vince sulla ragione, ma si dà il caso di un desiderio debole
che rende l’acratico impotente e passivo.
154 Alla luce delle teorie etiche spinoziane, non si darà mai,
dunque, il caso di un uomo che deliberi preliminarmente il meglio e
che poi non si attenga alle sue decisioni perché un desiderio forte
indebolisce la sua ragione. Esiste, invece, la possibilità che un uomo
elabori un giudizio circa il da farsi e il meglio per sé stesso, ma poi
segua il peggio perché il suo desiderio debole influenza anche il suo
giudizio. Il giudizio circa il meglio che l’acratico formula non è
veramente il suo bene bensì una falsa apparenza di bene, in quanto
frutto dell’immaginazione, non della vera ragione. In quanto tale, il
giudizio dell’acratico circa il suo meglio sarà così un giudizio
vacillante, confuso e parziale. Stando così le cose, l’uomo per Spinoza
agisce acraticamente e decide di seguire il corso peggiore nell’azione,
condizionato da un giudizio vacillante, a sua volta originato da un
appetito debole. Agendo in un tale modo, l’uomo acratico risulta
impotente dinanzi alle cause esterne e ai propri conflitti e
combattimenti affettivi interni, i due presupposti–come abbiamo avuto
modo di rilevare a lungo nel capitolo precedente—del fenomeno
acratico in Spinoza.
Alla luce di queste considerazioni, l’acrasia spinoziana risulta
più affine al secondo tipo di acrasia aristotelica, quello per
precipitazione. L’acrasia di Spinoza esclude, infatti, ogni tipo o forma
di deliberazione preliminare (e razionale) e rinvia invece sempre
all’immaginazione tipica dell’acratico precipitoso. Chi è debole e
155 impetuoso non si attiene che all’immaginazione, agendo così in modo
acratico. Nel mondo etico di Spinoza, però, l’acrasia non può essere
mai definita come debolezza di volontà, né come possibile conflitto
tra ragione e passioni: per Spinoza non esiste nessuna volontà astratta,
così come non esiste nessun conflitto, nessuna opposizione tra parte
razionale
e
desiderativa
dell’anima.
La
concezione
olistica
dell’individuo spinoziano, inteso come identità di corpo e mente,
come un unicum non diviso, non esclude, tuttavia, che in Spinoza ci
possa essere un conflitto tra appetiti.
(3) Veniamo così al terzo punto, il nesso tra acrasia e conflitto
appetitivo. Una tale riflessione—all’interno della teoria dell’affettività
di Spinoza—diventa di portata ancora maggiore qualora si consideri la
posizione che Aristotele difende nel De Anima, a proposito del
conflitto appetitivo. Pur ribadendo la possibilità di un’opposizione tra
parte appetitiva e razionale dell’anima, Aristotele tuttavia non esclude
la possibilità anche di un conflitto tra appetiti opposti all’interno della
stessa parte dell’anima (quella desiderativa). Dopo aver spiegato che è
il desiderio a muovere l’individuo e che è l’acratico che agisce in
conformità a questo (DA 433 a 2-5), Aristotele dice esplicitamente che
talvolta i desideri si oppongono e una tendenza muove contro l’altra
come una palla, a tal punto che talvolta la tendenza—il desiderio—
supera la stessa volontà. Egli poi precisa che questo è il caso
dell’acrasia 434 a 14-16: “Perciò la tendenza non comporta la facoltà
156 deliberativa; talvolta la tendenza (il desiderio) supera la volontà e
muove il soggetto; talvolta invece quella tendenza supera e muove
quest’altra come una palla, quando v’è incontinenza”100.
Se leggiamo il testo del De Anima alla luce di quanto
Aristotele ci suggerisce nella Retorica e di quanto lo stesso Spinoza ci
riferisce nel Breve Trattato II, 17 (testo che abbiamo già discusso),
emergerà che la volontà è un impulso o desiderio razionale e che il
desiderio è un impulso irrazionale. A una lettura attenta, allora, in
Aristotele il vero conflitto tra appetiti opposti è un conflitto tra
volontà—intesa come desiderio razionale—e desiderio in senso
stretto, vale a dire un desiderio irrazionale. In Spinoza, invece, il
conflitto è sempre tra appetiti o affetti opposti. Alla luce di questa mia
100
Anche poco prima, Aristotele aveva detto che i desideri possono essere
contrari gli uni agli altri, e che ciò avviene in relazione alla percezione del
tempo. Il desiderio comanda allora sulla base del tempo presente e in
relazione a questo, nella misura in cui un individuo, in conflitto tra due
desideri, sembra scegliere quello che è immediatamente piacevole, o che
almeno appare tale in assoluto, in quel momento. Il desiderio rinvia così al
piacere nel presente. Nel DA 431 b 7-10 Aristotele ricorda che “il soggetto
calcola e delibera circa le cose future in relazioni a quelle presenti; e quando
si dice, come lì, che un oggetto è piacevole o doloroso, così qui si evita o si
persegue; ed è ciò che generalmente avviene nell’azione”.
157 interpretazione dei testi, una significativa differenza tra i due filosofi
si registra a riguardo della natura del conflitto in questione. Per
Spinoza la volontà non solo non è mai una facoltà astratta, ma essa
neppure può essere un desiderio razionale, così come la intendeva
Aristotele. La volontà è intelletto e sforzo di autoconservazione
riferito alla sola mente, quello sforzo che riferito alla mente e al corpo
diventa appetito e poi cupidità, vale a dire appetito con
consapevolezza.
Se diverse, direi anche opposte, sono le definizioni di volontà
in Spinoza e Aristotele, è inevitabile che l’acrasia per Spinoza non
potrà mai essere una debolezza di volontà (dal momento che non può
essere debole l’intelletto). L’acrasia intesa come debolezza di volontà,
vale a dire come debolezza di un desiderio razionale soverchiato da un
desiderio irrazionale più forte non esiste in Spinoza, così come non
esiste nel suo sistema di pensiero la conseguente possibilità di
intendere l’acrasia come conflitto tra ragione (volontà) e desiderio.
Schematizzando il ragionamento di questo terzo passaggio
dell’argomentazione, si evince che in Aristotele si dà il seguente
schema:
1
Volontà= desiderio razionale
2
Desiderio =desiderio irrazionale
3
Debolezza di volontà=Debolezza di un desiderio razionale
158 4
Acrasia=debolezza di volontà=conflitto tra due desideri
5
Acrasia =conflitto tra due desideri
6
Conflitto tra due desideri=conflitto tra desierio razionale (o
volontà) e desiderio irrazionale (desiderio)
A Spinoza possiamo invece attribuire il seguente schema:
1
Volontà=conatus in relazione alla sola mente
2
Desiderio=Appetito=Cupiditas
3
Appetito=conatus in relazione alla mente e al corpo
4
Cupiditas=conatus=appetito+consapevolezza
5
Acrasia≠debolezza della volontà
6
Acrasia=debolezza dell’appetito
Alla luce di quanto schematizzato ora, anche in Aristotele il conflitto
affettivo è collegato all’acrasia, a tal punto che l’acrasia si identifica
con un conflitto affettivo o appetitivo, un conflitto tra desiderio
razionale (volontà) e desiderio irrazionale. Per Spinoza invece il
conflitto affettivo—o tra appetiti opposti—è uno dei presupposti
dell’acrasia. Il vero contrasto tra conoscenza e passioni in Spinoza non
è un contrasto tra emozioni e intelletto, bensì un vero e proprio
159 combattimento affettivo, dove i desideri dell’uomo sono in
competizione.101
Per riassumere: Aristotele e Spinoza sono affini circa la
nozione del desiderio in generale (punto 1) e differenti sui punti
essenziali testé illustrati (punti 2 e 3 dell’argomentazione), ma
registrano una distanza anche a riguardo della rispettiva concezione
dell’anima. (4) Notoriamente, Aristotele difende una concezione tripartita dell’anima (e in questo, pur con le dovute differenze, egli
tradisce il suo passato platonico) che gli permette di ritenere il
conflitto tra appetiti e ragione come uno dei conflitti essenziali che
muovono e agitano l’animo umano (pur ammettendo, come s’è appena
visto, un possibile ma particolare contrasto tra appetiti opposti).
D’altro canto, Spinoza esclude la possibilità che il contrasto tra
emozione e intelletto possa spiegarsi alla luce di un contrasto tra parte
razionale e parte appetitiva dell’anima (tra volontà e desiderio).
Spinoza, infatti, esclude la divisione aristotelica dell’anima in parti,
adottando invece una forma decisa di olismo psico-fisico, secondo la
quale l’individuo è un tutt’uno ed è meglio spiegato come unità di
corpo e mente. Questa concezione dell’individuo come un tutt’uno
101
Sul punto del combattimento affettivo (‘affective struggle’), si veda
Nadler (2006), pp. 223-224, secondo cui la lotta tra affetti opposti è la
spiegazione ultima del fenomeno acratico in Spinoza.
160 allontana Spinoza da Aristotele e lo avvicina da un lato a Socrate,
fervido sostenitore del monismo dell’anima, e dall’altro—più
significativamente—agli Stoici, citati spessissimo all’interno del
corpus spinoziano.
3. L’acrasia come possibile giudizio sbagliato: gli Stoici
In questo paragrafo mi concentro, in particolare, sul confronto tra
Spinoza e gli Stoici a riguardo della nozione di acrasia. La paucità
delle fonti e dei relativi studi circa questa tematica negli Stoici ha
scoraggiato, specie in passato, molti studiosi, i quali a fronte delle
eccessive difficoltà finivano per negare la rilevanza del fenomeno
acratico nello stoicismo. Secondo costoro l’acrasia non può
rappresentare un problema rilevante per l’etica stoica, così come lo era
per Aristotele, perché secondo questa interpretazione gli Stoici negano
la possibilità stessa di divisione in parti dell’anima e, di conseguenza,
il darsi di un conflitto tra le parti102. Essendo l’acrasia in principio
definibile anche come possibile conflitto tra le diverse parti
102
Inwood (1985), p.137; Come ricorda Gourinat (2007) p. 216, si veda
anche Plutarco, Virt. Mor., 7, 446F (SVF III 459=Long-Sedley 65G), circa la
possibilità, negata dagli Stoici, di ogni conflitto nell’anima. Si veda inoltre,
Dyroff (1897), p. 88.
161 dell’anima, poiché gli Stoici non concepivano l’anima come tripartita,
i suddetti studiosi concludevano che non esiste nell’etica stoica una
tematizzazione del fenomeno acratico.
Altri studiosi, invece, pur non trattandola in maniera
sistematica103, si occupano indirettamente di acrasia nella misura in
cui essi trattano della teoria stoica delle emozioni. Un esempio
classico e famoso di questo tipo di approccio è lo studio di Richard
Sorabji, Emotion and peace of mind. From Stoic Agitation to
Christian Tempation (Oxford 2000). Egli, cercando di studiare le
emozioni stoiche e il loro ruolo nell’etica della Stoà, discute
indirettamente di acrasia, che è strettamente congiunta a queste
emozioni.
Altri studi più recenti e autorevoli hanno restituito rilevanza
filosofica ad una tematica trascurata e in parte negletta, quale è stata
quella dell’acrasia negli Stoici, nella misura in cui si è scisso il
discutibile nesso concettuale tra partizione dell’anima e acrasia. Non
è, infatti, un mistero per il lettore di questa tesi che si può
legittimamente trattare di acrasia in assenza di una teoria mereologica
dell’anima, o addirittura in assenza di una qualsiasi teoria dell’anima.
103
Nonostante non esista una trattazione sistematica dell’acrasia negli Stoici,
specie se paragonata a quella aristotelica, in realtà già dal 1987 esistevano
degli studi al riguardo. Si veda Gosling (1987); Joyce (1995).
162 In particolare, come esempio significativo di questo approccio
innovatore all’intera questione dell’acrasia stoica, ricordo gli studi di
Christopher Gill, in particolare The Structured Self in Hellenistic and
Roman thought (Oxford 2006) e l’importante e quasi coevo lavoro di
Teun Tieleman, Chrysippus’ On Affections (Leiden 2003). Il libro IV
dell’opera di Crisippo, il ‘Terapeutico’, tratta in maniera notevole di
acrasia e non è mai stato adeguatamente interpretato e commentato,
meno che mai nel pregevole lavoro di raccolta delle fonti sugli Stoici
antichi, approntato da Hans von Arnim ad inizio del XX secolo (19031905). Mi riferisco principalmente a questi studi nel prosieguo del
lavoro e nel tentativo di rintracciare possibili influenze e analogie tra
la trattazione stoica di acrasia e quella spinoziana.
A questo punto della mia argomentazione, penso sia bene
anticipare i nuclei concettuali su cui fondo il ragionamento, per poter
confrontare Spinoza e gli Stoici sull’acrasia. I nuclei concettuali
dell’argomento sono i seguenti: (1) la concezione olistica dell’uomo e
il conseguente e possibile conflitto affettivo interno; (2) la nozione
stoica di emozione intesa come giudizio e di acrasia intesa come
giudizio sbagliato. (3) I testi di Cicerone e di Seneca come possibili
fonti sull’acrasia negli Stoici; e i recenti studi di Tieleman su
Crisippo. (4) La concezione stoica dell’acrasia intesa come un
possibile caso di ignoranza, e la conseguente affinità tra Spinoza e gli
Stoici sull’acrasia.
163 (1) Un notevole punto di concordanza tra gli Stoici e Spinoza
sta nella condivisione dell’olismo psico-fisico, alla luce del quale
l’individuo è meglio inteso come un unicum di corpo e mente (lontani
qui sia il dualismo di Cartesio che la barriera platonica tra corpo e
anima). L’olismo psico-fisico, tuttavia, in sé non esclude affatto la
possibilità di un conflitto affettivo all’interno dell’individuo, nella
misura in cui con l’unica anima indivisa di cui un individuo è
provvisto egli è in grado di desiderare, di giudicare e, al contempo, di
sperimentare un conflitto tra queste due attività.
E’ bene rilevare qui che il conflitto interno che gli Stoici
presuppongono alla base dell’acrasia non è un contrasto tra ragione e
passioni, bensì una lotta tra due possibili giudizi, o meglio tra due
insiemi di credenze-emozioni che si rivaleggiano e sono in
competizione tra loro104. Come ho già detto, anche per Spinoza il
conflitto presupposto dell’acrasia e dall’acrasia non è mai tra ragione
e passioni, ma un vero e proprio combattimento affettivo.
Secondo l’interpretazione molto autorevole di Christopher
Gill, è proprio questo conflitto uno dei presupposti dell’acrasia
secondo gli Stoici: il saggio stoico è proprio colui che, liberandosi
104
Questo punto richiama l’idea di Davidson secondo cui l’acrasia è meglio
spiegata come un contrasto tra due desideri, in qualche misura entrambi
razionali. Tornerò più chiaramente su questo nel capitolo conclusivo.
164 interamente dalle passioni, è immune dall’acrasia. Di converso, anche
colui che prova la minima passione è secondo gli Stoici passibile di
compiere atti acratici, poiché in ogni passione è potenzialmente
contenuta la spinta ad agire acraticamente105.
(2) Per gli Stoici le emozioni sono dei giudizi, come afferma
Cicerone: “Mentre alcuni filosofi antichi pensavano che le emozioni
fossero il prodotto della nostra natura non razionale e ascrivessero il
desiderio non razionale a una parte dell’anima e la ragione ad un’altra,
Zenone lo Stoico non concordava con queste dottrine. Egli pensava
che le emozioni fossero volontarie, vale a dire prodotte dal giudizio e
dall’opinione, e che la fonte di tutte le emozioni fosse una sorta di
selvaggia
mancanza
di
auto-controllo
(o
acrasia)
(omnium
perturbationum arbitrabatur materm esse immoderatam quamdam
intemperantiam)” (Accademica I, 1.39)106. La stessa dottrina stoica
delle emozioni viene attestata da Galeno: “Crisippo nel primo libro
del trattato sulle affezioni cerca di dimostrare che le emozioni sono
giudizi prodotti dalla ragione” (PHP 5.1.4).
105
Si veda Gill (2006), pp.75-99; pp.129-165; pp.238-265. Sul nesso tra
acrasia e conflitto negli Stoici, si veda anche Engberg-Pedersen (1990), in
particolare i suoi studi sul concetto di ‘persona’ nello stoicismo.
106
A tal proposito, si veda anche Cicerone, Le Tusculane IV, 14-15; III, 24-
25.
165 In particolare, Diogene Laerzio riferisce come, sin dal loro
primo insorgere, molte passioni per gli Stoici traggono origine dal
falso, da cui si genera la perversione del pensiero: “Dal falso si genera
le perversione del pensiero, da cui traggono origine molte passioni,
che sono anche causa di instabilità […]. Secondo gli Stoici le passioni
sono giudizi” (DL VII, 110-1).
Dai passi riportati, concettualmente si evince un nesso forte tra
emozioni e giudizi e la conseguente identificazione delle passioni
stoiche con i giudizi corrotti. Le emozioni così possono essere dei
giudizi sbagliati, come nel caso dell’acrasia. Tutti i tipi di pathos
implicano potenzialmente un certo tipo di acrasia, per cui coloro che
provano emozioni sono possibili vittime di acrasia. A tal proposito,
Cicerone ricorda che l’acrasia (intemperantia) è:
La causa prima di tutte le passioni, secondo loro (sc. gli Stoici), è
l’intemperantia, che è una ribellione totale dello spirito contro la retta
ragione, un movimento così contrario ai principi razionali, che non lascia
assolutamente modo di frenare e di contenere gli appetiti dell’anima. E
dunque, al modo stesso in cui la temperanza placa gli appetiti, li porta a
obbedire alla retta ragione, e mantiene intatti i giudizi illuminati della nostra
mente, così l’intemperanza, a lei nemica, infiamma, turba e sommuove ogni
stato regolare dell’anima: è da lei, quindi, che nascono le varie specie di
166 afflizione e di paura, ed anche tutte quante le altre passioni (Le Tusculane
IV, 22-23).
Qui ne Le Tusculane, così come negli Accademica (I, 1.39), Cicerone
riferisce come per gli Stoici la fonte di tutte le emozioni (o passioni)
fosse una sorta di mancanza di autocontrollo, vale a dire di acrasia
(intemperantia). Questo testo mostra, allora, che l’acrasia è la causa
prima di tutte le passioni, confermando quanto appena detto, vale a
dire che l’uomo che è in preda ad una passione è vittima di acrasia.
Cicerone conferma anche il nesso tra l’acrasia e un possibile giudizio
non illuminato, nella misura in cui l’uomo acratico è un individuo
turbato, infiammato che non segue quanto la retta ragione gli indica; il
suo animo è così mosso che non riesce a placare e frenare gli appetiti.
Da un punto di vista strettamente terminologico, Cicerone sia
negli Accademica che ne Le Tusculane, utilizza il termine
‘intemperantia’ per rendere il greco ‘akrasia’. In altri passi, egli usa il
termine ‘impotentia’ per riferirsi all’akrasia. Zeller stesso aveva
rilevato come per gli Stoici l’akrasia fosse l’intemperantia107.
Tuttavia, l’oscillazione terminologica che Cicerone mostra tra
107
Si veda Zeller (1909), III-1, 234, n. 4; Reid (1885) nel suo commento agli
Accademica (1.39 ad locum). Circa l’uso di ‘impotentia’ per akrasia si veda
in particolare Cicerone, Le Tusculane IV, 15.34; Seneca, De Ira.
167 intemperantia e impotentia, non deve essere interpretata come
un’ambiguità concettuale. Per gli Stoici, infatti, non esiste nessuna
distinzione essenziale tra akolasia e akrasia, vale a dire tra
intemperanza e acrasia, nella misura in cui tutte le passioni sono
riconducibili all’acrasia stessa. Nello stoicismo tutti i casi di passioni
o emozioni rappresentano una dipartita dalla virtù e dalla saggezza
che tutti gli esseri umani sono, costitutivamente, capaci di
raggiungere. In tal senso, tutti i casi di passione, inclusa quella che
Aristotele definisce akolasia, sono un tipo di acrasia, nella misura in
cui questa agisce contro la virtù. Come abbiamo già rilevato, per gli
Stoici tutte le passioni hanno una dimensione acratica, poiché le
passioni sono per natura fluttuanti e oscillanti108.
Anche Seneca offre una testimonianza importante circa la
nozione stoica di acrasia come giudizio sbagliato. Seneca ne L’ira
2.3.1-2 spiega che un uomo che prova un’emozione, per gli Stoici,
non ha solo una reazione fisica irrazionale, né è mosso da
un’impressione presente alla mente, ma che questo uomo si arrende
all’emozione, dando assenso all’impressione iniziale. “Nulla di ciò
che muove casualmente l’animo si deve chiamare passione (adfectus):
queste situazioni l’animo, per così dire, le subisce più che produrle.
Pertanto non è passione sentirsi sollecitato dall’aspetto che viene
108
Gill (2006), p. 318, chiarisce senza lasciare dubbi questo punto.
168 offerto delle cose, ma lasciarsi trascinare da esse e assecondare
quest’impulso casuale” (L’ira, 2.3.1-2). Anche alla luce di Seneca,
l’emozione è data, in generale, dall’insieme di un’impressione e di un
atto di assenso109. L’assenso dato ad un’impressione per gli Stoici si
traduce poi in una credenza, un giudizio che diventa, in ultima istanza,
azione110. Di qui la spiegazione di emozione come giudizio. In
particolare, Seneca poco più avanti, illustrando come le passioni
abbiano inizio, definisce l’impulso acratico (motus impotens) come un
impulso ormai sfrenato che ha debellato la ragione (rationem evicit).
E perché tu sappia come le passioni abbiano inizio, si sviluppino e si
esaltino, il primo impulso non è volontario, ma è per così dire preparazione e
minaccia di passione; il secondo è sorretto da volontà non ostinata, in quanto
è bene che io mi vendichi perché sono stato offeso, o che paghi il fio chi ha
commesso un delitto; il terzo impulso è ormai sfrenato, vuole vendicarsi in
ogni caso, prescindendo dall’opportunità, e ha debellato la ragione (2.4.1)
109
Per Cicerone, infatti, l’assenso è in un certo qual modo sempre imputabile
al soggetto che lo fornisce: si vedano Accademica I, 1.40; II, 37-39. Si può
anche avere una conferma di questo nel frammento di Zenone, in Zeno
fr.1.61 (SVF). Ho, infine, discusso e approfondito questo punto nel
paragrafo 1 del capitolo 2, quando ho parlato del nesso impressione-assenso
negli Stoici.
110
Sellars (2006), pp.64-65.
169 (3) Cicerone e Seneca sono considerati due possibili fonti per
ricostruire la filosofia di Crisippo. Integrando Galeno con Cicerone e
Seneca, Tieleman ricostruisce in maniera fondamentale il contesto
filosofico, e in parte testuale, del IV libro di Sulle passioni, il
cosiddetto Terapeutico. Per il suo carattere spiccatamente medico e
per l’insieme di prescrizioni comportamentali che vi compaiono, il
Terapeutico può essere considerato un libro a sé stante, come ci dice
Tieleman, “un libro che si leggeva prima di andare a dormire per la
saggezza che infondeva”.
Nel Terapeutico è presente una discussione sull’acrasia a
partire dal caso di Medea, acratica per eccellenza, la quale ha ucciso i
suoi figli per vendicare il marito. Galeno cita il famoso verso della
Medea di Euripide: “Io capisco quale tipo di male mi accingo a fare,
ma la mia ira è più forte dei miei buoni giudizi” (Medea, 1078-79).
Galeno, dopo aver riferito questo passo, cita direttamente la
spiegazione che Crisippo ne dà:
Ma Crisippo non nota la contraddizione qua ed egli scrive innumerevoli
affermazioni di questo genere, quando ad esempio dice: “Questo movimento
(sc. l’impeto che trascina Medea a compiere quell’atto tragico) è irrazionale
e volge le spalle alla ragione ed è, penso, qualcosa di molto comune,
170 riferendoci al quale diciamo, ad esempio, che le persone sono mosse dall’ira
(PHP, 4.6.23).
Era prassi interpretativa consolidata fino ai recenti studi di Tieleman e
di Gill, ritenere che Crisippo, spiegando sulla base del passo di Galeno
l’acrasia di Medea come il risultato di un contrasto tra ragione e
passioni, si distanziasse dalla teoria classica stoica delle emozioni
(quella espressa dal passo di Zenone riferito da Cicerone, Accademica
I, 1.39). Tieleman ha dimostrato con dovizia di particolari e con
ottime argomentazioni che Galeno riporta sì fedelmente le citazioni di
Crisippo, ma le male interpreta, alla luce della tripartizione dell’anima
che Galeno stesso mutua da Platone.
Svincolato dall’ortodossia tripartita che egli non sottoscrive,
Crisippo è in assoluta linea interpretativa con gli Stoici precedenti,
ritenendo l’acrasia un caso di, come dice significativamente Tieleman,
“turning one’s back to reason”, vale a dire un “girare le spalle alla
ragione”. Questa spiegazione dell’acrasia non implica alcun
riferimento al conflitto tra ragione e passioni ed è evidente dal passo
stesso di Crisippo che Galeno cita: Crisippo spiega l’impeto di Medea
come “irrazionale e contrario alla ragione”.
Negli altri passi di Crisippo che Galeno riporta è chiaro che il
filosofo stoico interpreta sempre l’acrasia come capovolgimento della
ragione:
171 Come si è detto la pazzia e l’uscire di senno non avvengono se non al
seguito di uno stravolgimento della ragione.
Tali solo le effusioni che gli innamorati pretendono dai loro amanti;
sconsiderati quali sono e senza alcun rispetto per la ragione hanno la
propensione a trasgredire i suoi dettami, anzi a non ascoltarli per niente
(PHP, 4.6.25-25).
I termini e le espressioni usate qui da Crisippo rinviano ad una
spiegazione del fenomeno acratico come prodotto dell’allontanamento
delle passioni dalla ragione, senza fare alcun riferimento a conflitti tra
passione e ragione, meno che mai a conflitti tra parti dell’anima.
Questa interpretazione dell’acrasia in Crisippo che Tieleman fornisce
sulla base di un’analisi corretta dei travisamenti galenici delle fonti, è
confermata magistralmente da Gill, sia nell’articolo pionieristico del
1983 su Crisippo e Medea (in cui egli mostrava come Crisippo avesse
veramente compreso il comportamento di Medea, contro l’analisi di
Galeno), che nel recente e già citato studio The Structured Self 111.
111
Gill (2006), parte 2, sezioni 4.1-4.6. Trovo interessante anche quanto Gill
sostiene circa il nesso tra le tragedie di Seneca e Crisippo. In particolare, per
Gill, pp. 421-435, la Medea di Seneca, nonostante le rispettive differenze,
sarebbe stata influenzata da Crisippo e dalla figura della Medea di Euripide
citata dal filosofo stoico.
172 In breve, per riassumere quanto sostenuto sino a qui: un primo
punto di concordanza tra gli Stoici e Spinoza sta nella concezione
olistica dell’uomo e nella conciliabilità di questa con la possibilità
stessa di un conflitto interno (1). L’uomo è pertanto un unicum
indiviso, capace di desiderare e di giudicare con l’unica anima di cui è
dotato e di sperimentare, al contempo, un conflitto interno tra queste
due attività, agendo così acraticamente. Il conflitto alla base
dell’acrasia non è mai però tra ragione e passioni: Medea non vive un
conflitto tra la ragione e la passione, ma agisce più essenzialmente in
maniera irrazionale, acratica, voltando le spalle alla ragione. In questo
Spinoza e gli Stoici si distanziano da Aristotele (e dall’interpretazione
di Galeno), ma si distanziano anche da Ovidio, secondo il quale il
contrasto acratico resta quello tra ragione e passione. Nelle
Metamorfosi VII, in particolare, Medea agisce acraticamente perché
vive un forte conflitto tra ciò che la mente (mens) le consiglia e ciò
verso cui la passione (cupido) la trascina.
Un secondo punto di affinità tra Spinoza e gli Stoici, pur nelle
dovute differenze, potrebbe essere rintracciato nella definizione stoica
di acrasia come possibile giudizio sbagliato (punti 2-3 dell’argomento
che qui sto riassumendo). Anche per Spinoza in un certo senso
l’acrasia rinvia ad un giudizio sbagliato, nella misura in cui
quest’ultimo è offuscato, confuso e inadeguato. Sia per gli Stoici che
per Spinoza l’acratico formula un giudizio errato circa il bene. Il
173 giudizio sul bene (o il meglio) formulato dall’acratico di Spinoza è, in
verità, una falsa idea di bene, un’idea inadeguata, perché derivante
dall’immaginazione, non dalla vera ragione. Nell’etica di Spinoza,
l’obnubilamento del giudizio acratico è determinato da un appetito
debole che rende l’uomo impotente e ne offusca la mente. Per gli
Stoici invece il giudizio sbagliato coincide con l’emozione
incontrollata, non deriva da questa.
La concezione stoica, dunque, di acrasia è una forma di
giudizio sbagliato e, in quanto tale, può essere definita un possibile
caso di ignoranza. Di qui veniamo all’ultimo punto del ragionamento,
il quarto (4), allo scopo di chiarire meglio l’affinità, nonché le
differenze, tra Spinoza e gli Stoici sull’acrasia. Così facendo, è
inevitabile ritornare alla teoria stoica delle emozioni ed approfondirla.
Come si è visto, ad esempio in Crisippo, la teoria stoica delle
emozioni è una teoria cognitivista, nella misura in cui le emozioni
sono dei giudizi, o meglio la combinazione di due giudizi o
combinazione di due insiemi di credenze-emozioni. Più in generale, le
emozioni sono dei giudizi in quanto esse sono delle reazioni psicofisiche, meglio dette contrazioni o espansioni nel lessico stoico,
correlate con dei giudizi. Alla luce di ciò, è possibile ritenere ‘primo’
il giudizio propriamente detto, la credenza che un uomo ha su
qualcosa: ad esempio il fatto di sapere che qualcosa sia bene o male
per me (primo giudizio). Il ‘secondo’ giudizio, invece, è la reazione
174 emotiva che un uomo prova in relazione al primo giudizio, ad
esempio, come io reagisco nei confronti del giudizio che ho formulato
circa quel qualcosa (secondo giudizio). Alla luce di ciò, io posso
ritenere bene per me il fatto di camminare ogni giorno per mezz’ora
almeno (primo giudizio), ma posso reagire a questa mia credenza o
correttamente (secondo giudizio corretto) e cammino così ogni giorno
per mezz’ora; oppure decido di non andare a camminare e reagisco,
dunque, in modo sbagliato al mio giudizio iniziale (secondo giudizio
sbagliato). Di qui l’identificazione stoica di emozioni e giudizi,
nonché la dottrina della combinazione di due giudizi (dove il secondo
giudizio in verità è la contrazione o espansione emotiva più o meno
appropriata al primo giudizio)112.
Più in particolare, per chiarire meglio l’originalità della teoria
stoica dei giudizi, può risultare utile riferirsi alla teoria stoica
dell’azione, specie in riferimento all’acrasia. Quando un uomo agisce,
112
Su questo punto, molto chiaro nel libro II di Sulle passioni di Crisippo, si
vedano Tieleman (2003), pp.114-121; Long-Sedley (=LS) 65 B = SVF
3.391. Si vedano inoltre Gill (2005) e Price (2005), per approfondire il
modello olistico a cui gli Stoici si ispirano, secondo cui un individuo è,
propriamente detto, il risultato dell’integrazione del mentale con il fisico, del
razionale con l’emotivo. L’essere umano per lo stoicismo non possiede
infatti una coscienza di tipo cartesiano; egli è invece un organismo integrato,
consapevole del carattere psico-fisico della propria vita organica.
175 per lo Stoico, riceve prima un’impressione a cui poi dà o rifiuta il
proprio assenso. Quest’ultimo si traduce in un giudizio o credenza in
risposta al quale l’uomo reagisce con un impulso per poi giungere ad
agire. L’impressione, l’assenso, l’impulso e l’azione, propriamente
detta, sono i quattro elementi dell’azione umana per gli Stoici.
L’emozione-giudizio è il risultato della combinazione di questi
elementi, o come dice Seneca, l’emozione e il giudizio sono due
aspetti dello stesso fenomeno.
Nel caso dell’acrasia, l’emozione è un giudizio sbagliato,
coincide con questo; in tal senso, è possibile definire l’acrasia un
possibile caso di ignoranza. Si comprende più chiaramente ora la
definizione stoica di acrasia come reazione emotiva incontrollata, un
vero e proprio impulso sfrenato, un’emozione sbagliata che, in quanto
tale, rigetta completamente la ragione. Va, invece, spiegato meglio in
che senso l’acrasia può essere intesa come caso di ignoranza.
Se le emozioni stoiche sono dei giudizi (in generale), e la
combinazione di due giudizi (in particolare), è bene sottolineare che
l’identificazione acratica di emozione con giudizio sbagliato rinvia ad
una sorta di contemporaneità nell’azione stessa dell’acratico. Per gli
Stoici non esiste la possibilità che un uomo possa elaborare un
giudizio corretto e poi reagire acraticamente contro questo. L’acrasia
non è mai un conflitto tra ragione corretta e passione smodata;
l’acratico non agisce e reagisce mai intenzionalmente contro il suo
176 giudizio migliore. L’acrasia stoica è, invece, un impulso sfrenato che
ha debellato la ragione e non reagisce contro questa. L’acratico stoico
ha così un giudizio sbagliato e agisce in modo irrazionale, voltando le
spalle alla ragione totalmente: ciò accade perché egli reagisce in modo
sbagliato, in quello stesso tempo, alla sua credenza o giudizio. Esiste
una correlazione stretta tra il giudizio sbagliato e l’emozione
incontrollata che questo suscita e con cui si reagisce allo stesso: un
individuo reagisce acraticamente, e immediatamente, ad un giudizio
perché quella stessa credenza (o giudizio) non era corretta sin da
subito. Esiste allora una forma di contemporaneità negli Stoici tra il
giudizio, l’emozione e l’azione: so che qualcosa è bene e lo compio;
se agisco acraticamente è perché non sapevo cosa fosse bene per me.
Diversamente, per Aristotele può accadere che un uomo sa che
qualcosa sia bene per lui, ma che egli, tuttavia, scelga il male. Di qui
la contrapposizione aristotelica tra ragione, che, preliminarmente,
formula un giudizio corretto circa il meglio e desiderio irrazionale, in
nome di cui si agisce. Per gli Stoici invece l’acratico è colui che
reagisce irrazionalmente ad un giudizio che lì, nel momento stesso in
cui viene formulato, è sbagliato113. Se sapesse cosa è bene fare,
l’individuo stoico lo farebbe. L’acratico è invece un ignorante, così
113
A tal proposito, si può vedere anche Salles (2007), sull’acrasia
precipitativa in Epitteto.
177 come l’acratico spinoziano è un immaginante. Nel prossimo
paragrafo, mostrerò con più chiarezza e più analiticamente le
differenze tra Spinoza e gli Stoici (su questo punto), e riprenderò il
confronto con Aristotele114. A partire infatti dal confronto tra Spinoza,
gli Stoici ed Aristotele sull’acrasia emergerà tutta l’originalità della
spiegazione spinoziana.
4. Spinoza, Aristotele e gli Stoici sull’acrasia: novità e prospettive
Nell’introduzione ho illustrato la differenza tra ‘diretto’ e ‘indiretto’ in
riferimento alla possibile presenza dei classici in Spinoza: per
‘diretto’, intendo una lettura di prima mano che Spinoza può aver fatto
di Aristotele e degli Stoici; per ‘indiretto’, invece, intendo una lettura
di seconda mano che Spinoza ha svolto di quegli stessi filosofi
attraverso la tradizione (sia scolastica che rinascimentale). Alla luce di
quanto mostrato nei paragrafi precedenti, si può con agio asserire che
nella filosofia spinoziana esiste una doppia analogia, aristotelica e
stoica, a riguardo della nozione di acrasia. Spinoza conserva concetti
114
Per un approfondimento ulteriore, si veda Boeri (2005), secondo cui è
possibile rintracciare nella definizione stoica di acrasia non solo la presenza
di Socrate ma anche di Aristotele.
178 della tradizione classica, quali ad esempio la nozione aristotelica di
desiderio e la possibile e reciproca influenza del desiderio sul
giudizio. Egli pare condividere anche la possibilità stoica che questo
giudizio circa il meglio sia in realtà una forma di ignoranza. I concetti
classici di ‘desiderio’, ‘giudizio sbagliato’ o ‘ignoranza’ e la loro
reciproca influenza, sono presenti in Spinoza direttamente (e a
Spinoza, in modo indiretto); egli li utilizza, tuttavia, all’interno del suo
sistema filosofico in maniera del tutto originale, riempiendoli dei suoi
contenuti. Nel prossimo capitolo, quello conclusivo, mostrerò meglio
in che senso la presenza dei classici, nonché la doppia e possibile
influenza aritostelico-stoica, fornisca le coordinate concettuali per
definire in maniera adeguata ed approfondita l’originalità di Spinoza
circa l’acrasia.
A proposito dell’acrasia, ritornando sulla doppia analogia con
Aristotele e gli Stoici, Spinoza è affine sia al primo che ai secondi, pur
non essendo egli né aristotelico, né stoico. E’ molto vicino ad
Aristotele circa la nozione generale di ‘desiderio’ e, in particolare, di
come questo influenzi e possa condizionare il giudizio. Il desiderio è
per entrambi i filosofi una caratteristica fondamentale dell’uomo,
essenza stessa o cupiditas per Spinoza; motore principale dell’agire
per Aristotele. Il ruolo, tuttavia, che il desiderio svolge all’interno
dell’acrasia allontana i due filosofi. Spinoza ed Aristotele registrano,
infatti, una distanza radicale sia sulla possibile definizione di acrasia
179 come debolezza della volontà, che sulla conseguente natura del
conflitto che caratterizza l’acrasia. Per la concezione filosofica
spinoziana di desiderio e di volontà, non è possibile ammettere
quest’ultima come facoltà astratta, così come la intendeva Aristotele, e
di conseguenza l’acrasia non può essere definita come una debolezza
del volere. Il conflitto acratico, inoltre, per Spinoza non è tra ragione e
passione (o desiderio irrazionale) come era in Aristotele: non si dà il
caso di un agente in Spinoza che delibera prima razionalmente circa il
meglio per sé stesso e poi agisce contro questo a causa di un soverchio
della passione sulla ragione. L’acratico spinoziano è debole in primis
nel suo appetito, mai nella volontà. Egli così vive un forte conflitto,
sia al proprio interno, tra appetiti opposti che lo inducono a vacillare;
sia all’esterno, con la fortuna che lo rende passivo e lo indebolisce. Il
conflitto in Spinoza, allora, non è mai tra volontà (o desiderio
razionale e, dunque, ragione per Aristotele) e passione, ma tra due
appetiti in competizione tra loro. Ciò si spiega alla luce della distanza
che c’è tra Spinoza ed Aristotele anche circa la nozione di anima: la
natura del conflitto affettivo e il ruolo che esso ha all’interno
dell’acrasia è diverso nei due filosofi perché antitetiche sono le
rispettive concezioni dell’animo umano. Per Aristotele l’anima rimane
comunque divisa in parti e il conflitto principale resta pur sempre
quello tra ragione-volontà e passioni-desiderio irrazionale; mentre per
Spinoza l’uomo è un tutt’uno, un unicum, olisticamente inteso,
180 prospettiva che tuttavia non esclude la possibilità del darsi di un
conflitto interno.
Spinoza allontanandosi da Aristotele per le ragioni ora
spiegate, sembra risultare più vicino agli Stoici, specie per quanto
riguarda la concezione di acrasia come giudizio sbagliato e, dunque,
come possibile caso di ignoranza. Infatti sia per Spinoza che per gli
Stoici, se un uomo agisce acraticamente contro il suo miglior giudizio,
lo fa perché egli non sa che quello che sta facendo sia effettivamente
male per lui, in quel momento. Il giudizio sul bene elaborato sia
dall’acratico stoico che da quello spinoziano è, in verità, una falsa idea
di bene, un giudizio sbagliato, vacillante, confuso, dettato
dall’immaginazione, non dalla vera ragione. Spinoza, tuttavia,
diversamente dagli Stoici, ritiene che il giudizio sul bene sia confuso,
parziale, sbagliato perché condizionato da un appetito debole.
L’acratico è pertanto ignorante circa il suo vero bene, perché egli
appetisce debolmente sia per le cause esterne che per gli infiniti
conflitti interni. Per gli Stoici la natura del giudizio sbagliato che
s’identifica con l’acrasia è del tutto diversa. Per il saggio stoico,
l’acratico è colui che, affatto debole nel suo desiderio, volta le spalle
alla ragione, inficiando così, in maniera decisiva, la razionalità stessa
delle emozioni. In altre parole, l’acratico è per gli Stoici colui che
interrompe il processo di crescita razionale ed emotiva (sfere
coincidenti nel pensiero stoico); una tale crescita dovrebbe in
181 principio portare alla saggezza e alla virtù, due obbiettivi teoricamente
raggiungibili da ogni essere umano.
Come già detto più volte, nell’ etica spinoziana è l’appetitocupidità ad essere determinante su ogni tipo di attività conoscitiva e,
dunque, anche sul giudizio. In EIII P9 S, Spinoza precisa che qualcosa
cosa è bene perché io lo desidero, e non desidero qualcosa perché è
bene per me. A riguardo del nesso tra giudizio-azione, esiste allora
una priorità concettuale oltre che temporale tra il desiderio che
precede il giudizio che, dunque, è determinato da quello stesso
desiderio. Per gli Stoici, invece, esiste una contemporaneità tra
giudizio-emozione-azione, a tal punto che le emozioni sono dei veri e
propri giudizi. Di qui la teoria cognitivista delle emozioni elaborata
dagli Stoici, in particolare da Crisippo.
A tal proposito, per gli Stoici le passioni (o emozioni) sono
estirpabili e l’uomo saggio è in grado nel tempo di sviluppare le sue
potenzialità in maniera del tutto naturale, in modo tale che egli giunge
alla saggezza, vale a dire alla piena realizzazione di sé come
individuo115. Il saggio stoico risulta così essere un organismo integrato
in armonia con una concezione naturalistica del mondo. Per Spinoza,
115
Per Sorabji (2000), al contrario, le emozioni stoiche possono essere solo
moderate, mai eliminate. Per Gill (1996), pp.443-455: diversamente, le
emozioni sono estirpabili secondo gli Stoici e in questo risiede la possibilità
stessa che l’individuo possa diventare pienamente umano, “fully human”.
182 invece, le passioni non possono essere estirpabili. L’uomo non può
avere un controllo assoluto su di esse, né può liberarsene totalmente.
Nella Prefazione alla parte III dell’Etica, pur riconoscendo loro dei
meriti, Spinoza critica Cartesio e gli Stoici, perché egli non pensa che
l’uomo abbia un potere assoluto o un dominio totale sulle passioni e
sugli affetti. Proprio alla luce di questa concezione, Spinoza elabora
una scienza degli affetti che, in quanto tali, sono dimostrabili e in
principio controllabili, ma mai eliminabili. Anche in questo risiede un
tratto dell’originalità di Spinoza nei confronti degli Stoici: “Tratterò
dunque della natura e delle forze degli Affetti, come anche del potere
della Mente su di essi con lo stesso Metodo con il quale nelle parti
precedenti ho trattato di Dio e della Mente, e considererò le azioni e
gli appetiti umani come fossero Questioni di linee, superfici o di
corpi”.
Per Spinoza gli affetti sono un corredo della natura e noi
possiamo indagarne le cause allo scopo di moderarli, mai di estirparli.
Se l’uomo ha un potere sui propri affetti, è ragionevole pensare che sia
possibile trovare soluzioni e vie d’uscita anche per un fenomeno
d’irrazionalità come quello dell’acrasia.
Di recente, Anthony Price, elabora un modello interpretativo
dell’acrasia, a mio avviso, illuminante ai fini di quello che sto
discutendo in queste pagine e che, in parte, offre una tassonomia
bipartita del fenomeno acratico. Egli distingue due tipi di acrasia: una
183 prima concezione di acrasia diacronica, secondo cui prima l’agente sa,
conosce, e formula un proprio giudizio sul bene e solo dopo agisce
contrariamente a questo. L’acratico in questo caso è debole
nell’azione, no nel giudizio. Questo tipo di acrasia diacronica è
attribuibile principalmente ad Aristotele, almeno stando ad una delle
sue possibili definizioni di acrasia presente nel libro VII dell’Etica
Nicomachea116.
Esiste anche una seconda concezione di acrasia, da Price
definita sincronica, secondo cui conoscenza ed azione si danno
appunto sincronicamente o contemporaneamente. L’acratico sa che
qualcosa è bene per lui e tuttavia agisce contemporaneamente male
contro questo giudizio. Questo tipo di acrasia sincronica è attribuibile
sia a Socrate che agli Stoici: costoro negano infatti l’acrasia
diacronica perché dal loro punto di vista giudizio e azione sono
sincronici. L’agente che agisce male, lo fa perché è ignorante circa il
bene; egli ha un giudizio sbagliato e non sa quello che sta facendo.
Agisce male perché, nello stesso momento, è informato male.
Rebus sic stantibus, secondo una concezione diacronica di
acrasia un uomo è debole nell’agire e non nel giudizio che
preliminarmente è stato formulato; per una concezione invece
116
Price (2011). Si veda Charles (2009), sulle varietà dell’acrasia in
Aristotele.
184 sincronica, l’uomo è debole sia nel giudizio che nell’azione, nello
stesso medesimo tempo, perché egli agisce male in quanto è
ignorante. Rispetto a queste due concezioni la soluzione di Spinoza è
innovativa in quanto questa non è né diacronica né sincronica.
Per Spinoza l’uomo acratico è debole sia nel giudizio che
nell’appetito, ma non sincronicamente perché l’appetito viene prima
del giudizio e, precedendolo, lo condiziona e lo determina. Parimenti
l’acrasia non è neppure diacronica perché il giudizio dell’acratico non
è preliminarmente formulato in maniera corretta, come era per
Aristotele, ma è debole, confuso e inadeguato. Secondo la prospettiva
spinoziana, non c’è nessun giudizio corretto, dunque, contro cui agire.
Concludendo, l’acrasia per Spinoza non è un semplice giudizio
sbagliato, né un puro caso di ignoranza; essa non è neppure una
debolezza del desiderio sulla ragione e meno che mai una debolezza
della volontà. L’acrasia non è, allora né un giudizio sbagliato né
semplicemente espressione di un desiderio irrazionale. Tra desiderio e
ignoranza l’acrasia è una forma di debolezza dell’appetito che
richiama per un verso il desiderio come suo tratto dominante, e per
l’altro il giudizio, dettato dall’immaginazione, come prodotto della
debolezza del desiderio.
185 Capitolo 4
Tra desiderio e ignoranza: l’originalità di Spinoza
1. L’acrasia nella storia del pensiero: modelli teorici a confronto
In questo capitolo conclusivo della tesi, mi pare lecito iniziare con una
panoramica concettuale del fenomeno acratico all’interno della storia
del pensiero, pur senza indugiare nei dettagli di una tematica che fin
dal mondo antico—e con insospettata vivacità nel dibattito
contemporaneo, soprattutto di matrice analitica e in lingua inglese—
ha interessato i più importati filosofi morali.
Si è parlato spesso fino ad ora in questa tesi di una originalità
per quanto riguarda la possibile formulazione e conseguente
spiegazione che Spinoza ha dato del fenomeno acratico; si è anche
fornito qualche dettaglio sul reale spessore di tale originalità.
Quest’ultima, tuttavia, emerge a pieno titolo solo se considerata in
controluce con le trattazioni e le soluzioni che gli altri filosofi hanno
inteso fornire dell’acrasia. È proprio questo che qui mi accingo a fare.
Nella storia del pensiero filosofico emergono due grandi
modelli interpretativi dell’acrasia, che poi hanno significative varianti:
uno è il modello socratico, l’altro quello platonico (di Repubblica IV,
186 per intenderci). Nella loro paradigmaticità, entrambi i modelli sono
stati un faro filosofico per i pensatori successivi che si sono occupati
di acrasia. Per Socrate, come si è accennato altre volte nel corso di
questo lavoro, l’acrasia è un semplice e schietto caso di ignoranza:
colui che agisce acraticamente è l’individuo che non sa, che non è in
possesso della vera conoscenza circa il bene. Ai molti—come dice
Socrate nel Protagora di Platone, dialogo su cui torniamo fra qualche
riga e su cui abbiamo speso qualche parola nel corso di questa
ricerca—la spiegazione di Socrate sembra assurda, parendo negare
questa un dato di fatto, all’apparenza incontrovertibile, che sta sotto
gli occhi di tutti: molti individui agiscono acraticamente perché, pur
sapendo quello che è bene fare, vengono soverchiati dai loro desideri.
Ma Socrate insiste sulla sua posizione, obiettando che quello
che appare un caso di soverchio del desiderio sulla conoscenza è in
realtà un caso di ignoranza. Gli individui non sanno veramente cosa
sia bene e, pertanto, agiscono male; essi agiscono cioè in base al
potere delle apparenze e non alla luce di un’arte oggettiva, quella
metretica, la quale, se adoperata adeguatamente, permette loro di
raggiungere la piena conoscenza. Gli individui privi di un mezzo
oggettivo che consenta loro di sapere—e di valutare la percorribilità
delle loro azioni alla luce della conoscenza—diventano facile terreno
di conquista da parte delle apparenze. Pertanto, il fenomeno di
‘lasciarsi vincere dai piaceri’ (caso emblematico di acrasia, sia per gli
187 antichi che per i moderni) è per Socrate un caso in cui l’individuo
erroneamente valuta il piacere, misurandolo dal punto di vista del
presente; così facendo, egli preferisce un piacere immediato proprio
perché più vicino nel tempo, trascurando un piacere migliore solo
perché più lontano nel tempo.
Se l’individuo valutasse oggettivamente il piacere, secondo
un’arte delle misurazione che rifugga le apparenze e dia il giusto peso
al fattore temporale, allora egli agirebbe diversamente, preferendo il
piacere migliore, anche se più lontano nel tempo. In ultima istanza,
quindi, il lasciarsi vincere dai piaceri (immediati) è un semplice caso
di ignoranza, il risultato di una valutazione soggettiva che non
raggiunge la conoscenza delle cose per come esse veramente sono,
fermandosi a come appaiono. Nessun altro fattore è coinvolto nella
spiegazione di Socrate del lasciarsi vincere dai piaceri se non la
dicotomia
conoscenza/apparenza
errata
(ignoranza).
Socrate
rimprovera proprio al senso comune l’idea che il fenomeno acratico
sia spiegabile alla luce di un prevalere di elementi desiderativi su
quelli conoscitivi.117
117
Ho qui riassunto, nelle sue linee generali, l’argomento di Socrate sul
piacere e sull’arte della misurazione che si può leggere in Platone,
Protagora, 351b – 357e. Per gli studiosi, pur nella differenza delle legittime
e diverse interpretazioni di questa sezione del Protagora, si ha qui
un’esposizione importante del cosiddetto intellettualismo socratico. Per
188 Ben altra spiegazione è quella che ci dà Platone nella
Repubblica, libro IV. Leonzio, salendo al Pireo seguendo le mura
settentrionali di Atene, accortosi che vicino al luogo in cui il boia
eseguiva le sue esecuzioni stavano cadaveri non ancora rimossi, fu
preso da un forte desiderio di guardarli. A questo desiderio se ne
opponeva un altro, antitetico, quello di procedere per la propria strada
e non guardare quello spettacolo riprovevole. Come ci dice Platone,
Leonzio “per un po’ combatté contro sé stesso, e si coprì gli occhi, ma
poi, vinto dal desiderio, li riaprì e, correndo verso i cadaveri, se ne
uscì con questa affermazione (rivolgendosi ai suoi occhi): ‘ecco,
disgraziati, riempitivi di questa bella visione” (Repubblica IV, 439e 440a). Alla luce di quanto dice Platone, l’acrasia è meglio spiegabile
come un fenomeno in cui l’agente opera contro il suo miglior giudizio
poiché egli viene vinto dal desiderio. Un desiderio, a volte irrazionale,
agisce contro il giudizio migliore dell’individuo, mettendolo in
condizione di agire acraticamente. Assai diversamente da Socrate,
un’interpretazione tradizionale dell’intellettualismo socratico, si vedano:
Irwin (1995) e prima (1977); Vlastos (1991); Reshotko (1992); Nehamas
(1999). Per un’interpretazione, invece, alternativa a queste, si vedano gli
studi di T.C. Brickhouse & N.D. Smith (2007) sull’acrasia, e (2010) sulla
psicologia morale di Socrate più in generale. A tal proposito, più originali e
significativi sono gli studi di Terry Penner che discuterò in dettaglio fra
breve.
189 l’ignoranza non ha nessun ruolo all’interno della spiegazione che
Platone ci fornisce del caso di Leonzio: Leonzio ha una credenza su
come dovrebbe agire, ma agisce contrariamente a questa credenza
perché vinto da un desiderio nefasto118.
Notoriamente, questa spiegazione dell’acrasia ha la sua radice
più profonda nella tripartizione dell’anima, che Platone illustra per la
prima volta in dettaglio proprio nel libro IV della Repubblica. Essendo
l’anima divisa in tre parti, razionale, irascibile e concupiscibile, essa
ha un equilibrio precario, proprio alla luce di una possibile
predominanza di una sua parte inferiore su quella razionale. Alla luce
di questo, l’acrasia è proprio il risultato del predominio della parte
desiderativa su quella razionale.
Ecco allora spiegati i due estremi verso i quali oscilla la
spiegazione dell’acrasia all’interno della storia del pensiero: caso di
ignoranza oppure caso di predominio del desiderio sulla ragione. Le
altre spiegazioni possibili, dal punto di vista filosofico, oscillano tra
questi due estremi, o sono variazioni di queste due spiegazioni
118
Per l’acrasia in Platone, si vedano: Price (1995) e (2011); Bobonich
(2007); Shields (2007); Weiss (2007); Dorion (2007) e Carone (2007). Per
una diversa interpretazione, invece, di Repubblica IV, così come dell’acrasia
in Platone, si veda: Rowe (2007), pp. 170-174.
190 limite119. Donald Davidson ha etichettato questi due opposti principi
esplicativi come, rispettivamente, ‘Principio di Platone’ e ‘Principio di
Medea’, fornendo una ripresa contemporanea, in termini filosofici
nuovi120, di un dibattito antico. Al di là della legittimità delle etichette
(il ‘Principio di Platone’ dovrebbe essere in realtà quello di Socrate e
quello di Medea quello di Platone—visto il quadro concettuale testé
delineato), Davidson stesso spiega il fenomeno acratico alla luce di un
conflitto tra due desideri, in parte razionali, ma diversamente tali.
Partendo da una concezione della mente che richiama in parte il
monismo socratico (pur in modo anomalo: di qui l’espressione
‘monismo anomalo’ per definire la concezione psico-fisica della
mente in Davidson), Davidson amplia la soluzione socratica al
problema dell’acrasia, dilatando la ragione fino a includere desideri
che, pur essendo in principio razionali, possono deviare dalla loro
natura in modo deciso. Per Davidson, l’acrasia risulterebbe così essere
un conflitto tra due desideri più o meno razionali.
È bene e utile qui sottolineare che sia la soluzione stoica che
quella aristotelica al problema dell’acrasia rientrano appieno nella
119
Si veda Boeri (2005), in particolare per quanto concerne la possibilità di
una continuità e affinità filosofica tra le diverse varianti. Boeri sostiene una
presenza di Socrate e di Aristotele nella dottrina stoica dell’acrasia.
120
Per gli studi di Davidson sui paradossi dell’irrazionalità (1982) e
sull’acrasia (1969), si veda in Davidson (2006).
191 tassonomia esplicativa illustrata: gli Stoici attualizzano la soluzione
socratica come caso di ignoranza, trattando in maniera più decisa e
significativa di quanto avesse fatto Socrate la questione del desiderio e
delle affezioni. Per costoro le emozioni sono dei giudizi e l’acrasia un
giudizio sbagliato. Aristotele, dal canto suo, integra le due soluzioni in
un quadro organico, parlando a proposito dell’acrasia sia di deficienza
conoscitiva che di turbamento del desiderio. In più, egli tratta anche
della possibilità che l’acrasia sia una debolezza di volontà121.
In un famoso articolo del 1990, infine, Terry Penner sintetizza
i diversi modelli teorici appena illustrati e muove delle critiche
vincenti, e a mio avviso corrette, sia alla spiegazione platonica che a
quella di Davidson122. Penner chiarisce, senza lasciare dubbi, i punti di
forza della risposta socratica al problema dell’acrasia. Così facendo,
egli anticipa alcuni dei punti su cui si fonderebbe, alla luce della mia
121
Nel precedente capitolo, mi sono già dilungata più analiticamente
sull’acrasia in Aristotele e negli Stoici, in particolare in relazione a Spinoza.
122
Si vedano in particolare gli studi di Penner (1990) sull’acrasia e Penner
(1996) sulla distinzione tra conoscenza e credenza vera nella psicologia
socratica dell’azione. Infine, anche Penner (1997), su Socrate e il potere
della conoscenza, in riferimento alla sezione del Protagora appena discussa.
192 analisi, anche la soluzione di Spinoza all’acrasia, da un punto di vista
squisitamente concettuale123.
Sia Spinoza che Socrate ritengono che non si dà il caso di un
individuo che agisca intenzionalmente contro ragione, né che questi
venga trascinato da desideri irrazionali in conflitto con la sua
conoscenza o vera ragione. Se un individuo conosce razionalmente ciò
che è bene fare, non può che farlo; diversamente, se agisce in maniera
acratica, ciò accade perché quella credenza (e non la conoscenza)
circa il meglio era falsa. Per questa ragione, secondo Penner, per
Spinoza e Socrate non esiste l’acrasia sincronica (degli Stoici) perché
nessuno sbaglia volontariamente.
La credenza (mai la conoscenza) è, dunque, vinta dal piacere e
dal desiderio: agire contro ciò che credi sia la miglior opzione è altro
dall’agire contro ciò che sai essere la miglior opzione. Se desidero
allora qualcosa che mi nuoce e agisco conformemente a questo
desiderio, ciò accade socraticamente perché sono un ignorante circa il
giudizio e spinozianamente perché sono un immaginante-ignorante.
123
Penner (1990). Ringrazio Penner con cui sono stata in contatto epistolare,
in questa fase finale della ricerca, anche per le sue riflessioni su Spinoza e
l’acrasia. I suoi suggerimenti e indicazioni mi hanno aiutata a fondare
meglio filosoficamente la mia comprensione della risposta spinoziana
all’acrasia.
193 A riguardo, tuttavia, delle ragioni più profonde del perché
questo accada, le strade di Spinoza e Socrate si dividono qui, in
particolare sia in merito al concetto di bene oggettivamente e
soggettivamente inteso; alla priorità socratica della conoscenza sul
desiderio; e rispetto, infine, al rapporto tra credenza o giudizio
sbagliato e desiderio.
Vediamo ora di valutare la soluzione all’acrasia che Spinoza
offre alla luce dei due principi esplicativi indicati, desiderio e
ignoranza, al fine di verificarne, con più ampia capacità, l’originalità.
2. L’originalità di Spinoza sull’ acrasia
Alla luce dell’analisi dei testi spinoziani sino a qui svolta, la
spiegazione dell’acrasia che attribuisco a Spinoza risulta essere non
solo nuova, ma anche molto originale, sia rispetto alle soluzioni
teoriche
elaborate
nel
pensiero
classico
greco,
sia
rispetto
all’interpretazione di Davidson. Diversamente da queste, per Spinoza
l’acrasia non è un puro caso di ignoranza o giudizio sbagliato (come
lo è per Socrate e per gli Stoici); né un semplice caso di soverchio
della passione sulla ragione o conflitto tra una parte razionale e una
irrazionale dell’anima (come per Platone e per Aristotele); meno che
mai essa è una debolezza di volontà (Aristotele). L’acrasia non è
194 neppure un possibile conflitto tra due desideri più o meno razionali
(come ci suggerisce Davidson).
Spinoza, tuttavia, mantiene alcuni dei presupposti concettuali
della tradizione classica, riempiendoli dei suoi contenuti, giungendo a
delineare una soluzione a mio avviso molto interessante che, nuova,
ancora oggi contribuisce a rendere vivace il dibattito su questo tema.
La spiegazione di Spinoza dell’acrasia, inoltre, non è solo nuova e
originale, ma anche più esaustiva, nella misura in cui essa chiarisce ed
approfondisce le motivazioni filosofiche del fenomeno acratico (cause
esterne ed interne dell’agire acratico) e offre una possibile via d’uscita
dall’impasse acratica (come mostrerò nel paragrafo finale).
Per corroborare quanto ho appena detto circa l’originalità di
Spinoza sull’acrasia, trovo utile riprendere e approfondire la citazione
ovidiana da cui sono partita in questa indagine, riflettendo ancora sul
suo significato. Da questo riesame risulterà più chiaramente la tesi che
intendo sostenere, vale a dire in che senso asserisco che la lettura
spinoziana dell’acrasia può essere, per un verso, stoicamente ed
aristotelicamente orientata, pur non essendo essa né stoica né
aristotelica124.
124
Come ho già precisato, rammento che con l’aggettivo ‘aristotelico’ e
‘stoico’, in riferimento a Spinoza, intendo indicare un’affinità concettuale e
non, necessariamente, un’influenza diretta.
195 Video meliora, proboque, deteriora sequor: vedo il meglio e
l’approvo, ma seguo il peggio. Vedo che A è meglio di B, e lo accetto,
ma tuttavia decido di seguire B. Come ho più volte ripetuto, in
generale, questa citazione sintetizza in una frase il nucleo filosofico
del fenomeno acratico, inteso come un possibile conflitto tra un
giudizio circa il meglio e un’azione verso il peggio. In questa mia
ricostruzione, ritengo che la prima parte della citazione, il video
meliora, proboque, esprima, in generale, il giudizio formulato
dall’individuo circa il meglio per sé. In particolare, sostengo che in
Spinoza questo giudizio (video meliora, proboque) è, per certi aspetti,
sia aristotelicamente che stoicamente orientato, con le dovute
differenze. Questa è, in sintesi, la tesi che sostengo: vediamo ora in
che senso e come intendo argomentarla.
Il giudizio formulato dall’agente acratico prima di agire può
essere aristotelicamente inteso solo rispetto al nesso giudiziodesiderio, vale a dire, nella misura in cui un desiderio può
condizionare ed influenzare il giudizio. Nella forma, dunque, il
giudizio è aristotelico, ma lo è solo in questo, perché nel contenuto in
verità esso risulta più stoico. Per Spinoza il fatto che un desiderio
possa orientare un giudizio (e il ‘come’ ciò avviene, in definitiva, il
video meliora, proboque), è aristotelico, non stoico, in quanto giudizio
e desiderio non sono sincronici (così come accadeva invece per gli
Stoici). L’agente acratico spinoziano appetisce debolmente prima e,
196 così facendo, il suo giudizio, subordinato all’affetto provato, sarà
altrettanto debole e confuso. Il nesso desiderio-giudizio si traduce,
infine, in un atto acratico.
Anche per Aristotele, pur essendo l’uomo un animale razionale
e non desiderante come per Spinoza, tuttavia, è il desiderio a
muoverlo. Il desiderio è una componente essenziale dell’agire umano,
e delle scelte in genere, e, come abbiamo visto, influenza i giudizi. E’
il desiderio inteso come tendenza o movimento, in generale, che
muove gli uomini all’azione, tanto che nell’Etica Nicomachea
leggiamo che l’uomo è pensiero che desidera e desiderio che ragiona.
Circa, invece, il contenuto del giudizio, il video meliora,
proboque è più stoico. Per Spinoza, così come era per gli Stoici e per
Socrate, il giudizio circa il meglio o il bene è in verità una falsa idea
di bene, una forma di ignoranza o un giudizio sbagliato, dettato
dall’immaginazione, non dalla vera ragione. E’ possibile, tuttavia,
intendere il nesso stoico impressione-assenso (video meliora,
proboque), in maniera differente in Spinoza e negli Stoici. Per questi
ultimi, infatti, i giudizi coincidono con le emozioni. Diversamente da
loro, per Spinoza il giudizio circa il meglio è sbagliato e confuso
perché deriva da un appetito debole, non perché coincide con esso.
Nell’etica spinoziana, infatti, come ho già detto più volte, ogni
giudizio, o attività conoscitiva in genere, dipende dall’affetto provato.
E’ per debolezza del suo appetito che l’uomo giudica mediante
197 l’opinione (che spinozianamente è immaginazione o primo genere di
conoscenza), e, così facendo, egli non ha una vera conoscenza del
bene, ma una falsa apparenza di bene.
Concludendo, il giudizio circa il meglio della citazione
ovidiana (video meliora, proboque) è in Spinoza una falsa idea di
bene, o una forma di ignoranza, in quanto tale giudizio è dettato
dall’immaginazione e da una distorta visione temporale che
costituisce un ulteriore elemento di obnubilamento del giudizio stesso.
La prospettiva temporale, vale a dire il fatto che l’affetto verso una
cosa che immaginiamo futura è più debole dell’affetto provato, con
piacere, per una cosa presente (EIV, PP16-18; P62 S), rinvia
all’azione, e, dunque, al deteriora sequor.
Veniamo così alla seconda parte della citazione, il deteriora
sequor. Questo indica l’azione compiuta dall’agente acratico che
segue il peggio perché, passivo e coatto, subisce le cause esterne, e,
fluttuando in direzioni opposte, vive molti conflitti interni con sé
stesso che lo conducono ad agire acraticamente. L’atto di seguire il
peggio potrebbe essere inteso come un tipo di azione doxastica,
usando le parole di Olli Koistinen nel suo studio sulla teoria
dell’azione in Spinoza125. Circa l’azione, allora, definita in senso
stretto acratica, vale a dire circa quella possibilità di seguire il male,
125
Koistinen (2009).
198 penso che Spinoza sia più stoicamente orientato, in particolare quando
egli ricorda che l’uomo subisce l’azione delle cause esterne da cui non
può svincolarsi, per il fatto che è parte di una natura dove tutto ciò che
è e agisce, è e agisce necessariamente.
L’acratico segue il peggio perché, per debolezza del suo
appetito, egli subisce l’azione delle cause esterne e vive molti conflitti
al proprio interno, vacillando ed oscillando sul da farsi. Così facendo,
mosso da un desiderio debole, egli è causa inadeguata delle proprie
azioni, e in quanto tale, l’acratico sarà dunque passivo e impotente. La
nozione di acrasia è pertanto una questione non secondaria all’interno
della filosofia spinoziana, e si comprende ora meglio anche alla luce
del determinismo di Spinoza e della radice ontologica delle passioni
che caratterizzato la sua etica.
La radice ontologica delle passioni risiede proprio nel fatto che
l’uomo è parte della natura e soggetto al suo ordine. Alla luce della
concezione deterministica, infatti, tutto accade secondo leggi di
natura. Ogni avvenimento è determinato da una serie di nessi causali.
Rebus sic stantibus, per Spinoza le nostre azioni non sono libere, ma
sono determinate da ciò che precede e gli effetti sono parti ineluttabili
del corso della Natura. L’uomo non è per questo libero, ma trascinato
da determinismi costringenti. Se l’uomo, spinozianamente, può non
conoscere le cause delle proprie azioni e dei propri appetiti, egli
tuttavia è cosciente delle proprie azioni e dei propri appetiti. Gli stessi
199 affetti sono dimostrabili per Spinoza, tanto che egli cerca di elaborare
una scienza degli affetti nella parte III dell’Etica. Come mostrerò nel
paragrafo finale, è anche possibile trovare una via d’uscita
dall’acrasia, alla luce della quale un uomo può non agire
acraticamente e in modo irrazionale, rafforzando il potere della mente
sugli affetti.
Se l’uomo è parte della natura e questa è determinata da una
serie di nessi causali; se le passioni per Spinoza hanno una radice
ontologica; anche l’atto acratico è spiegabile alla luce di ciò. É per
rispondere, allora, ad una passione presente, e debole, che l’acratico
agisce in maniera irrazionale. Per Spinoza, la cupidità derivante
dall’esperienza di cose sentite nel presente più forte, con piacere, è
appunto più potente di quella rivolte al futuro (EIV, PP16-17).
L’affetto verso una cosa presente è decisamente più forte e intenso
rispetto a quello provato per una cosa futura. Quel male così che
l’acratico segue è il suo desiderio più forte nel presente, in quel
momento, benché esso sia male. La distorsione temporale è, dunque,
un ulteriore elemento di obnubilamento non solo del giudizio, come
ho già detto, ma anche dell’azione. Così come il piacere, in quanto
modificazione o affezione che accompagna l’affetto verso una cosa
presente, è un altro elemento importante e da non trascurare,
all’interno dell’azione acratica. A tal proposito, nella sua introduzione
all’Etica di Spinoza, a riguardo del possibile piacere provato
200 dall’acratico, Nadler ricorda una situazione particolare, vale a dire il
caso di un uomo che sa che qualcosa sia bene per lui, ma egli esita a
farlo, è combattuto, perché non prova piacere in quell’azione. Ad
esempio, prendiamo il caso di un malato che dovrebbe assumere una
medicina sapendo che è molto amara, egli non vuole farlo perché
quest’azione non è gradevole, non è piacevole.
Con piacere, in generale (e in breve), si può intendere in
Spinoza quella sensazione con cui si percepisce il rafforzamento della
proporzione moto-quiete del corpo affetto da un altro corpo. A
seconda che questa sensazione rafforzi o distrugga tale proporzione
costitutiva del corpo, la sensazione viene percepita come piacevole o
spiacevole. In tal senso il piacere o, più in generale sensazione, può
essere una possibile causa che induce a giudicare buono l’oggetto
afficiente (BT II, 19). Nel Breve Trattato II, 17 (§4), Spinoza ritiene
che il piacere possa addirittura causare un desiderio126. Il piacere può
rendere pertanto più gradevole e intenso l’affetto stesso in nome di cui
si agisce127.
126
A tal proposito, si veda EIV, P44 S e quanto Mignini (2007) scrive in
merito al piacere e alla sensazione, pp. 1865-1870.
127
Nadler (2006), pp. 224-225. Non mi dilungo ora sul tema del piacere,
perché per farlo dovrei allargare l’orizzonte alla psicologia e forse alla
psicoanalisi, ma faccio solo presente che il piacere è, in un certo qual modo,
intrinseco all’acrasia stessa, nella psicologia dell’atto acratico. Basti solo
201 Per riassumere, in particolare, quanto sostenuto in riferimento
all’azione, al deteriora sequor, leggiamo ciò che Spinoza scrive in
Etica IV, P62:
Se potessimo avere una conoscenza adeguata della durata delle cose, e
determinare con la ragione i tempi di esistenza, contempleremo con lo stesso
affetto le cose future, come le presenti, e il bene che la Mente concepirebbe
come futuro, lo appetiremo come se fosse presente, e conseguentemente
trascurerebbe necessariamente un bene presente minore per un bene
maggiore futuro e, come dimostreremo subito, non appetirebbe affatto quel
che fosse al presente buono ma causa di un male futuro. Ma noi possiamo
avere della durata delle cose (per la Prop. 31 p.II) soltanto una conoscenza
inadeguata, e con la sola immaginazione determinare i tempi di esistenza
delle cose (per lo Scolio della Prop. 44 p.II), immaginazione che non è
affetta egualmente dall’immagine di una cosa presente, come da quella di
una cosa futura; onde accade, che la vera conoscenza del bene e del male che
pensare agli studi sulla libido di Freud. Per un’analisi più filosofica del
concetto di libido, nonché del rapporto tra ‘desiderio’ e ‘credenza’ in Freud,
si veda: Wollheim (1993). Un uomo può così decidere di seguire il male
perché prova un certo piacere nel farlo. Ad esempio, il caso di un fumatore
rientra pienamente in questa situazione: chi fuma sa che è bene non farlo e
che è sbagliato fumare, tuttavia egli fuma lo stesso perché prova piacere nel
farlo.
202 abbiamo non è se non astratta ossia universale, e che il giudizio che
formuliamo sull’ordine delle cose e sul nesso delle cause, per poter
determinare che cosa sia al presente buono o cattivo è piuttosto immaginario
che reale, e perciò non c’è da meravigliarsi se la Cupidità che nasce dalla
conoscenza del bene e del male, in quanto questa riguarda il futuro, può
essere più facilmente repressa dalla Cupidità delle cose che sono al presente
gradite, cosa sulla quale vedi la Proposizione 16 di questa parte”.
Ognuno, dunque, giudica secondo il proprio affetto, per cui la
conoscenza del bene e del male durante l’atto acratico è condizionata
dalla propria individuale cupiditas che sappiamo essere in quel mentre
debole.
Per concludere, pur mostrando delle affinità concettuali sia con
Aristotele che con gli Stoici (e Socrate, sopra spiegate), Spinoza offre
una spiegazione dell’acrasia nuova e originale. Nuova la definizione,
perché per Spinoza l’acrasia non è solo un caso d’ignoranza, né un
conflitto tra parte razionale e irrazionale dell’anima né una debolezza
di volontà, ma è una debolezza dell’appetito. Originale la spiegazione,
perché, diversamente dai classici e da Davidson, per Spinoza l’acrasia
è tra ignoranza e desiderio, vale a dire l’ignoranza o credenza
immaginativa falsa (video meliora, proboque) è determinata e spiegata
a partire dal desiderio che, debole, la condiziona e la rende altrettanto
debole e confusa. Il desiderio debole e il giudizio falso si traducono in
203 un’azione acratica (deteriora sequor). Per Spinoza la conoscenza del
bene e del male è affetto di gioia e tristezza in quanto ne siamo
consapevoli (EIV, P8), ma questa conoscenza del bene e del male non
è altro che l’idea della gioia e della tristezza che segue
necessariamente dallo stesso affetto di gioia e tristezza. Ognuno
giudica o stima secondo il proprio affetto quel che è bene e quel che è
male, così come il meglio e il peggio (EIII, P39 S). Prima di
approfondire la novità della risposta spinoziana al problema acratico,
vale a dire la definizione stessa di acrasia come debolezza
dell’appetito (riassumendo quanto ho sostenuto sino a qui circa la
nozione spinoziana di acrasia), penso possa essere utile fornire al
lettore il seguente schema riassuntivo. Schematizzo così qui di seguito
la tesi sostenuta e appena argomentata circa l’originalità di Spinoza
rispetto ai classici sull’acrasia:
SPINOZA
↓
TRA
Desiderio
Ignoranza
ARISTOTELE
STOICI
↓
↓
(nesso desiderio-giudizio)
(giudizio sbagliato)
↓
204 SOCRATE
↓
(Conoscenza e desiderio del bene)
↓
SPINOZA
↓
Acrasia = tra ignoranza e desiderio = impotenza
3. La novità di Spinoza: l’acrasia, una debolezza dell’appetito
Dopo aver motivato la mia tesi circa l’originalità della risposta
spinoziana all’acrasia, mi accingo ora a chiarire meglio la novità della
definizione di acrasia che attribuisco a Spinoza. Così dicendo, ritengo
sia utile approfondire la nozione di acrasia, così come questa risulta
presente a partire dai testi esaminati, in particolare dall’analisi della
citazione di Ovidio.
Lontana, dunque, dall’essere un fenomeno inspiegabile (meno
che mai un paradosso autocontraddittorio), l’acrasia è concettualmente
presente nell’etica di Spinoza e costituisce una questione rilevante,
contigua a temi e problemi centrali della filosofia spinoziana. É degno
di nota, e significativo a mio parere, il fatto che l’acrasia non venga
mai esposta geometricamente da Spinoza. E se è vero che, come
205 ritiene Piet Steenbakkers, per Spinoza l’ordo geometricus non è solo
una forma esterna, ma è intimamente connesso alla sua filosofia, o
come ricorda Gagnon l’ordine geometrico è una possibile via d’uscita
dall’impasse acratica, sarà altrettanto vero che anche un’esposizione
non geometrica, come quella dell’acrasia, può essere intimamente
connessa alla sua filosofia128. La modalità di esporre in maniera non
geometrica, vale a dire mediante scolii, prefazioni ed epistole, è
infatti, e comunque, essenziale per Spinoza affinché egli possa
spiegare
meglio,
mediante
l’esperienza,
quanto
esposto
geometricamente129. A tal proposito, trovo significativo che tutte e
quattro le citazioni della frase di Ovidio, cifra dell’acrasia nei testi
spinoziani, non sono mai esposte in maniera geometrica, ma vengono
riferite in una prefazione, in due scolii ed in un’epistola. A mio
giudizio, Spinoza non tratta mai degli atti acratici in maniera
geometrica perché egli non può geometricamente dimostrare la
possibilità o la presenza di atteggiamenti irrazionali nella sua etica.
128
Steenbakkers (2009), p. 43; Gagnon (2002).
129
Circa la funzione esplicativa o storica dello scolio nell’Etica di Spinoza,
si veda l’introduzione alla lettura di Mignini (1995), p. 30 nota 9, secondo
cui lo scolio servirebbe o a spiegare meglio, mediante l’esperienza, quanto
dimostrato geometricamente; oppure serve storicamente a citare le fonti che
Spinoza critica o comunque discute nel corso della sua argomentazione. La
nota rinvia pure a Deleuze (1968) e Macherey (1983).
206 Spinoza così presenta e discute di acrasia mediante esempi
tratti dall’esperienza (come accade in tutti gli altri testi non
geometricamente esposti), perché questi fenomeni o atti acratici sono
condizioni tipiche dell’irrazionalità e perché essi nella stessa
esperienza
risiedono.
dell’immaginazione,
Ed
nella
è
lì,
nel
possibilità
mondo
delle
dell’opinione,
cause
esterne
e
dell’affettività umana (più in generale) che bisogna andare a
rintracciarli.
L’acrasia, dunque, sebbene non sia geometricamente esposta,
rimane pur sempre un fenomeno spiegabile. Come ho già lungamente
mostrato, è infatti possibile sia darne una definizione che spiegarne i
suoi presupposti e le sue caratteristiche concettuali.
Come e perché, allora, video meliora, proboque, deteriora
sequor? Per Spinoza perché un individuo, dopo aver approvato il
meglio,
segue
il
peggio?
Per
riassumere,
schematizzo
l’argomentazione ricostruita sino a qui, elencando gli interrogativi su
cui l’ho fondata e in risposta ai quali ho definito la nozione spinoziana
di acrasia. Gli interrogativi sono i seguenti:
1 che cosa s’intende per acrasia in Spinoza: che cos’è? (sua
definizione)
2 Quali sono le motivazioni, le cause di questa: quali i suoi
presupposti?
207 3 Natura e caratteri dell’acrasia stessa: come si manifesta?
4 Novità e prospettiva di soluzione: originalità rispetto ai classici
e come sia possibile uscire dall’impasse dell’acrasia130.
1 Definizione di acrasia = debolezza dell’appetito
In primo luogo, per acrasia in Spinoza s’intende quel fenomeno
secondo cui l’uomo, per debolezza dei suoi appetiti, pur vedendo e
approvando il meglio, segue tuttavia il peggio. L’acrasia, dunque in
generale, è intesa e definita come una debolezza dell’appetito. Di qui
la novità della definizione spinoziana di acrasia rispetto a quella
classica e contemporanea.
2 Presupposti o cause dell’acrasia
Le due cause principali degli stati di acrasia sono:
a) lo stato di passività o coazione in cui versa l’uomo nelle
mani della fortuna, della serie cioè di cause esterne, per cui
non è padrone di sé, e diventa passivo e di conseguenza
impotente. Ciò, infatti, che accade all’uomo di male per
130
Rendo noto che gli interrogativi 1. e 2. sono stati oggetto d’indagine nel
secondo e terzo capitolo; mentre gli interrogativi 3. e 4. vengono discussi, in
particolare, in questo capitolo.
208 Spinoza può derivare solo dalle cause esterne da cui è
difficile (ma non impossibile in assoluto) “liberarsi”.
b) Il conflitto affettivo, il conflitto cioè tra affetti contrari,
conduce l’uomo dall’interno ad agire in modo irrazionale
(causa interna). Questo conflitto può condurre l’uomo
anche ad uno stato di fluttuazione tale che, inconsapevole
del suo destino, viene spinto di qua e di là, in opposte
direzioni, e, proprio come le onde del mare, egli è agitato
da venti contrari, giungendo ad essere acratico. La
fluttuazione tuttavia non va confusa con l’acrasia, ma è un
suo possibile presupposto. Di qui la concomitanza e
interazione delle cause esterne con quelle interne
nell’acrasia, da cui segue non solo l’originalità, ma anche
l’esaustività della spiegazione spinoziana del problema
acratico.
3 Natura e caratteri dell’acrasia
A partire da questi presupposti, l’acrasia intesa come una forma di
debolezza appetitiva dell’uomo, è caratterizzata da un conseguente
conflitto tra il giudizio circa il bene o il meglio per l’agente acratico e
l’azione invece di seguire il male o peggio per sé stesso. Il giudizio
deriva dall’immaginazione (o opinione), non dalla vera ragione, ed è
subordinato all’affetto-emozione provato. L’acrasia, inoltre, si
209 manifesta come un caso di impotentia. Di qui il suo legame con la
nozione di ‘libertà’.
Prima di esaminare il nesso impotenza-libertà in riferimento
all’acrasia, mi preme sottolineare che, pur annebbiato che sia, il
momento di elaborazione del giudizio è essenziale affinché ci sia
acrasia. Il giudizio risulterà allora debole, dal momento che debole è
lo stesso affetto o appetito-cupidità che lo muove. Sempre per
l’appetito debole, sotto la pressione delle cause esterne per un verso, e
a causa degli affetti contrari per l’altro, l’uomo cederà a ogni genere di
libidine. Se l’uomo ha pertanto una conoscenza inadeguata del bene
(EIV P64), egli giunge a formulare un giudizio circa il meglio per sé
dettato dall’opinione o immaginazione. Un tale giudizio è un giudizio
doxastico-immaginativo sulle cose e inevitabilmente condiziona le
nozioni, le idee di bene e di male che di per sé, in assoluto, neppure
esistono, ma esprimono solo modi di pensare relativi al soggetto. Il
momento tuttavia dell’elaborazione del giudizio, per quanto confuso
sia, è un momento imprescindibile dell’acrasia stessa. Un atto è
acratico quando si agisce contro un miglior giudizio, anche qualora
questo sia formulato inadeguatamente. Come ricorda Lin, esistono
casi in cui la ragione soccombe alle passioni che però non sono casi di
acrasia perché la passione impedisce di arrivare anche al giudizio131.
131
Lin (2006), pp. 416-417.
210 In breve, dunque, l’acrasia è una debolezza dell’appetito
caratterizzata da un conflitto tra un giudizio circa il meglio e
un’azione verso il peggio. Essa, infine, si manifesta come un possibile
caso di impotenza (impotentia).
4 Novità e prospettiva di soluzione
Come detto poc’anzi, la portata della novità spinoziana circa il tema
dell’acrasia è significativa perché diversamente dalla lettura classica
di acrasia come caso di ignoranza o conflitto tra ragione e passioni, o
debolezza di volontà, per Spinoza l’acrasia è intesa come debolezza
dell’appetito. A partire da questo, sarà interessante chiarire come sia
possibile guarire dall’acrasia o evitarla (paragrafo successivo e finale).
Alla luce di quanto detto sino a qui, se è vero che l’acratico,
debole nel suo appetito, è mosso da affetti opposti e, in conflitto con
sé stesso, subisce l’azione delle cause esterne, agendo così in maniera
acratica, egli giunge persino a non sapere bene che cosa vuole, a fare
ciò che non vuole e a non volere ciò che desidera (EIII, P39 S)132.
L’acratico giunge ad essere impotens, impotente. L’acrasia in Spinoza
si manifesta e si caratterizza allora come un caso di impotenza
132
Questa è per Spinoza la condizione propria di chi ha paura, di chi prova
timore, di chi si pente. E chi si pente è misero due volte e impotente. Il
pentimento non nasce da ragione, non è virtù (EIV, P54).
211 (impotentia). Mi accingo ora a riflettere sul nesso che esiste tra acrasia
e impotentia, che è lo scopo del prossimo paragrafo, così come ad
approfondire la possibile via d’uscita dall’acrasia in relazione alla
nozione di ‘libertà’. L’uomo libero non è acratico, l’uomo schiavo sì.
4. Tra impotenza e libertà: il fenomeno acratico
Nel paragrafo precedente, e più a lungo prima, ho definito e spiegato
l’acrasia come una possibile condizione irrazionale dell’individuo che
rientra nel modo di pensare, giudicare (con l’immaginazione) e di
agire (sotto la pressione di cause esterne e conflitti interni) dell’uomo.
Una tale condizione è presente in maniera rilevante nell’etica di
Spinoza, tanto da richiamare temi e problemi centrali e affatto
secondari della sua filosofia.
Ora, in conclusione, ritengo utile chiarire due questioni ancora,
riflettendo sui seguenti punti: (1) in primo luogo, vorrei soffermarmi
sulla natura stessa del fenomeno acratico, così come esso appare in
relazione all’impotenza o impotentia spinoziana. (2) A partire dal
nesso dell’acrasia con l’impotenza, vorrei collegare quest’ultimo con
la nozione di libertà, giungendo ad ipotizzare una possibile via
d’uscita dall’acrasia, o un modo di evitarla, così come si può dedurre
dall’etica spinoziana. In questo, infine, risiederà un ulteriore elemento
212 di originalità della spiegazione di Spinoza rispetto alla trattazione
classica (conclusioni).
Ma l’acrasia è l’impotenza, coincide con essa, come pensa
Pinheiro, o è un tipo particolare di schiavitù? A livello etimologico, i
termini akrasia ed impotentia mostrano delle affinità: per akrasia, in
una delle due possibili accezioni, infatti, s’intende una mancanza di
forza, e dunque di autodominio, da cui il significato classico di acrasia
come
mancanza
di
autocontrollo,
incapacità
di
dominarsi,
incontinenza. Anche impotentia, da in-potentia, indica una mancanza
di potenza, tipica di colui che non si sa dominare e che non è padrone
di sé. Talvolta l’impotens è così incapace di controllarsi che giunge ad
essere violento e l’impotentia diventa una sorta di smoderatezza, un
impulso sfrenato e violento, come nel De Ira di Seneca. Ne Le
Tusculane,
infine,
l’impotentia
(di
cui
ho
già
trattato),
è
quell’incapacità o mancanza di autodominio tipica di chi è vinto dai
piaceri, al pari dell’intemperante o dell’acratico133. Come ho già
mostrato, per Cicerone e Seneca l’acrasia è una forma di impotentia.
Per
Spinoza,
tuttavia,
non
è
propriamente
così:
concettualmente, l’acrasia non coincide pienamente con l’impotenza.
133
Si veda Lewis and Short, Latin Dictionary, s.v. “impotentia”, da cui
traggo sia il riferimento a Seneca, De Ira I, 1.2 che a Cicerone, Le
Tusculane, IV, 15.34; IV, 16.35.
213 L’acrasia non è, infatti, solo una semplice forma di schiavitù, vale a
dire non è solo “quell’impotenza umana nel frenare e dominare gli
affetti”; essa non è neppure, più in generale, solo una coazione o
costrizione a causa della quale l’uomo è schiacciato dalle cause
esterne. L’acrasia è tutto questo, ma è anche molto di più. Pur essendo
una forma di impotenza, l’acrasia è un fenomeno più complesso: è una
debolezza dell’appetito che presuppone diversi fattori concomitanti,
sia una causa interna che le cause esterne. Dall’interno, l’uomo vive
un forte conflitto tra appetiti opposti a causa del quale è combattuto; e
dall’esterno egli subisce l’azione della fortuna nei confronti della
quale non può svincolarsi. L’interazione di questi fattori, vale a dire la
lotta dentro sé stesso e con le cause esterne, caratterizza l’acrasia
spinoziana, che in quanto tale è, dunque, un conflitto tra un giudizio
circa il meglio e un’azione verso il peggio. Alla luce di ciò, essa si
manifesta come un tipo di impotenza ed è anche impotenza.
A partire, infine, da un controllo attento dei diversi passi, nel
corpus delle opere di Spinoza (passi ove sono presenti le varie
occorrenze
dei
termini
‘impotentia’
e
‘impotens’),
posso
ragionevolmente asserire che l’acrasia non coincide con l’impotentia,
nel senso che non tutte le volte che Spinoza parla di impotentia si
riferisce a situazioni di acrasia, mentre l’acrasia è un tipo particolare
di impotentia, e in quanto tale, essa è anche un possibile difetto della
214 potentia (anche se non è solo semplicemente questo)134. Non tutti gli
impotenti sono allora acratici, mentre tutti gli acratici sono impotenti.
In particolare, alla luce dell’esame svolto delle occorrenze di
impotens e di impotentia, si evince che la maggior parte delle volte
che Spinoza usa il termine “impotenza” o “impotente” si sta riferendo
a possibili situazioni di acrasia. Nove occorrenze su dieci del termine
impotens e quattordici su ventidue di impotentia sono, infatti,
concentrate nella Parte III e prima sezione della parte IV dell’Etica,
ove è possibile rintracciare la spiegazione e descrizione del fenomeno
acratico. Ciò nonostante, non è possibile identificare compiutamente
l’impotenza con l’acrasia.
Negli altri passi, tuttavia, dove non è possibile ricondurre il
significato dell’impotenza all’acrasia, Spinoza collega l’impotenza al
concetto di libertà: a partire da quest’ultimo, allora, sarà possibile
rintracciare e dedurre una possibile via d’uscita dall’impasse acratica,
nella misura in cui l’acratico-impotente non è un uomo libero.
I passi a cui mi riferisco sono quelli di EI, P11 A2 e di EII, P3
S, dove l’impotenza umana è trattata in relazione alla potenza divina,
e alla possibilità che solo Dio può esistere necessariamente. In questi
testi, l’impotenza è definita come un poter non esistere, diversamente
134
Circa l’esame delle occorrenze dei termini impotens e impotentia, mi
sono valsa del Lexicon Spinozanum di Giancotti Boscherini (1970).
215 dalla potenza che è poter esistere. In EIII, inoltre, nella Definizione
degli Affetti XXVI, definendo l’umiltà, Spinoza avvicina l’impotenza
all’imbecillitas: “L’Umiltà è tristezza nata dal fatto che l’uomo
contempla la propria impotenza, o debolezza”135.
Nel TPII, 6, 7, 22, infine, l’impotente è descritto come colui
che è trascinato dal piacere, che è possibile “preda degli affetti” e che,
in quanto tale, non è libero. Di qui deriva il nesso acrasia-impotenzalibertà. L’impotenza non è così un difetto o peccato di natura:
l’impotente non è, infatti, libero nel senso che suggerisce Agostino,
secondo cui l’uomo era prima libero, e in quanto tale, ha scelto il
peccato; l’uomo dopo è diventato schiavo, o acratico-impotente,
perché è stato soffocato da forze esterne. Diversamente, per Spinoza
se l’uomo fosse stato libero, questi non avrebbe scelto il peccato.
L’uomo è pertanto libero solo in quanto ha il potere di esistere e agire
135
Trovo questo collegamento tra impotentia e imbecillitas significativo,
nella misura in cui pensiamo all’imbecillitas come ad una debolezza anche
dell’animo o morale, una debolezza intellettuale o della mente.
L’imbecillitas sarebbe, dunque, una sorta di fragilità intesa come impotenza
o incapacità di difendersi. Si veda a tal proposito la nozione ciceroniana di
infirmitas in Le Tusculane, V, 1; Sull’Amicizia, 8; Sulla Repubblica., 1.25;
Bruto, 55.202. Per un ulteriore approfondimento della nozione di
imbecillitas in Spinoza, si vedano: EI, Appendice; EIII, P55 S; III,
Definizione degli Affetti XXVIII; EV, Prefazione.
216 secondo le leggi della natura; la libertà è infatti una virtù, una
perfezione. “Quanto più dunque consideriamo l’uomo come libero,
tanto meno ci è lecito dire che possa non usare la ragione e scegliere i
mali in luogo dei beni” (TPII, 7). Così facendo, l’uomo impotente non
solo non è libero, ma può giungere ad agire anche acraticamente. In
conclusione, l’uomo non ha pertanto il potere di usare sempre la
ragione e di essere sempre al culmine dell’umana libertà. Potendo non
avvalersi della ragione, egli può decidere di agire in maniera acratica e
di seguire il male. In questi paragrafi in esame del TPII, Spinoza non
definisce l’impotenza all’interno di una trattazione del problema
acratico, ma in relazione alla libertà. Pur non richiamando la frase di
Ovidio (secondo cui è possibile seguire il peggio, dopo aver visto e
approvato il meglio), tuttavia, la definizione dell’impotente che
Spinoza fornisce è attribuibile in toto all’acratico, nella misura in cui
chi agisce acraticamente è impotente e dunque servo, non libero.
L’impotenza definisce la servitù dell’uomo, non certo la sua
libertà: “tutto ciò che rimanda all’impotenza dell’uomo non rimanda
quindi alla sua libertà”. In tal senso asserisco che l’acrasia è un
fenomeno che s’inserisce tra la nozione spinoziana di impotenza e
quella di libertà.
Tornerò fra breve su questo punto del ragionamento, ma per
riassumere questa mia prima riflessione, concludo che (1) l’impotenza
spinoziana non coincide né s’identifica con l’acrasia, bensì
217 quest’ultima è una forma di impotenza, un caso specifico di
impotentia (così come si evince sia dall’esame delle occorrenze in
Spinoza che dagli usi di questi termini in Cicerone e Seneca), così che
è possibile asserire che non tutti gli impotenti sono necessariamente
acratici, ma tutti gli acratici sono impotenti. Negli scritti spinoziani,
tuttavia, anche laddove la trattazione dell’impotenza non rinvia agli
atti acratici, essa richiama e si collega inevitabilmente alla nozione di
libertà, dal momento che per Spinoza sempre un impotente, così come
un acratico, è un uomo servo, dunque non libero (come abbiamo visto
dai passi del Trattato Politico e come è concettualmente legittimo
ritenere).
Di qui veniamo alla seconda riflessione (2), al chiarimento
cioè del possibile nesso dell’acrasia con la libertà. Alla luce di ciò,
sarà possibile dedurre e rintracciare una via d’uscita all’acrasia, o un
possibile modo di evitarla, fermo restando che essa non è del tutto
eliminabile, come invece pensavano gli Stoici (cosa che intendo
trattare nelle pagine conclusive).
Da due dei quattro testi esaminati per definire e spiegare
l’acrasia in Spinoza (in due delle quattro citazioni della frase di
Ovidio), in particolare in EIII, P2 S e nella lettera a Schuller (n .74 =
58 G), emerge con evidenza testuale che l’acrasia è intimamente
connessa al problema della libertà. Spinoza qui, dopo aver stabilito
una totale assenza di reciprocità causale tra mente e corpo (a partire
218 dalla quale la mente non determina il corpo ad agire, né il corpo la
mente a pensare), vuole dimostrare una reciproca dipendenza di mente
e corpo mediante l’esperienza, pur rimanendo comunque mente e
corpo una sola ed identica cosa. La mente allora non potrà mai essere
libera senza il corpo o contro di esso ma solo con il corpo: laddove la
mente decide, il corpo dispone. Non è possibile così determinare la
relazione moto-quiete nel corpo, né i decreti o volizioni della mente
singolarmente, ma corpo e mente risultano simultaneamente attivi o
passivi136. Ciò nonostante, l’esperienza insegna che gli uomini non
possono controllare i loro appetiti, così come frenare la loro lingua.
Non facciamo dunque nulla liberamente, anzi, facciamo molte cose di
cui ci pentiamo e quando siamo agitati da affetti contrari vediamo il
meglio e seguiamo il peggio, agiamo cioè acraticamente. Di qui viene
spiegato il nesso tra l’acrasia e la libertà.
L’uomo che agisce in modo acratico non è pertanto in grado di
scegliere il bene liberamente. Egli segue invece il male dopo aver
visto e approvato il bene. Come ho già chiarito, ciò accade per una
sorta di debolezza degli appetiti che egli non è capace di controllare,
giungendo così a seguire le cose peggiori, combattuto da affetti
136
Macherey (2005); p. 64; Giancotti Boscherini (1993), pp. 398-399, la
quale ritiene che così dicendo, vale a dire che mente e corpo sono così uniti,
si sottolinea la potentia del corpo.
219 contrari. Così facendo, l’uomo che pensa di agire liberamente, agisce
in realtà acraticamente.
Per Spinoza, tuttavia, la libertà umana è veramente finta? Se è
infatti vero che all’uomo non è dato conoscere le cause delle proprie
azioni, dei propri appetiti, non è altrettanto vero che egli è
consapevole dei suoi appetiti e delle sue azioni? E queste azioni sono
o non possono essere libere?
Se pensiamo alla libertà come libera necessità, dal momento
che libero per Spinoza è solo ciò che esiste e agisce per necessità della
sua sola natura (EI, def. 7), pienamente e veramente libero è solo Dio.
L’uomo è, invece, coatto, se è vero che tale è ciò che è determinato ad
esistere e agire secondo una certa determinata ragione (o modo). A
partire dalle definizioni di ‘libero’ e ‘coatto’, libera è pertanto solo la
libera necessità (res libera), da cui consegue che la nozione di libertà
non si oppone a quella di necessità, ma al concetto di coazione.
Ontologicamente le cose finite sono così determinate da altro a
esistere e agire, e in quanto tali, esse sono coatte (EI, P28).
Alla luce di ciò, anche l’uomo allora è sì coatto,
ontologicamente parlando, e, in quanto modo finito, è determinato da
altro a esistere e agire; ma egli può anche essere libero nel senso però
della libertà spinozianamente intesa, come suggerisce anche Emilia
220 Giancotti Boscherini137. A partire da questa seconda riflessione sul
nesso acrasia-libertà (dopo quello acrasia-impotenza), in conclusione,
mi preme chiarire in che senso ritengo che sia possibile ammettere la
libertà umana in Spinoza, alla luce della quale sarà anche possibile
accettare e comprendere meglio il fenomeno dell’acrasia qui indagato.
Conclusioni
Non posso dilungarmi, qui ed ora, in queste pagine conclusive, sul
tema della libertà, che meriterebbe in sé una trattazione a parte e
molto più analitica (a tal punto da poter costituire un oggetto
d’indagine per un’altra ricerca), ma vorrei concentrarmi solo su alcune
questioni alla luce delle quali è ancora più evidente il legame della
nozione di libertà umana con quello di acrasia. Così facendo, spero di
chiarire e liberare il campo da alcune obiezioni possibili alla tesi che
ho sostenuto sull’acrasia in Spinoza.
137
Giancotti Boscherini (1993), pp. 328 ss. Confronta anche quanto
leggiamo nella definizione VII della parte I dell’Etica. Mignini (2007), p.
1741 nota n. 37, ricorda la distinzione spinoziana tra la coazione o
costrizione esterna (contraria alla libertà) e la necessità di un’azione
derivante dall’agente ed esprimente libertà.
221 Premesso che pienamente libero per Spinoza è solamente Dio,
sostanza assolutamente infinita, spesso a partire da ciò si è ritenuto in
maniera riduttiva che l’uomo non potesse essere mai libero,
collegando
questa
teoria
ad
un’interpretazione
errata
del
determinismo, secondo cui l’uomo non è libero perché tutto è
predeterminato quasi fatalisticamente. Il concetto di determinazione e
dunque di determinismo, come ricorda anche Giancotti Boscherini,
ricollegandosi ad una distinzione di Robinson, è molto più elaborato.
Abbiamo almeno tre significati di determinazione in Spinoza: una
determinazione qualitativa, una quantitativa e una causale. Solo i modi
finiti, tra cui l’uomo, sono determinati in tutti i tre i sensi138. È vero
che tutto è determinato nel senso che tutto procede secondo nessi
causali per legge di natura, ciò tuttavia non pregiudica da un punto di
vista filosofico uno spazio di libertà per l’uomo, come dimostra Peter
Van Inwagen, in suo famoso saggio sul free will139.
Stando ad un’altra possibile lettura della libertà umana in
Spinoza, una concezione deterministica della realtà può non escludere
la possibilità della libertà per l’uomo, ma, ciò nonostante, solo Dio
resterebbe veramente libero in Spinoza e l’uomo no. Notoriamente gli
studiosi che hanno aderito a questa interpretazione riduttiva della
138
Si veda Giancotti Boscherini (1993), p. 328.
139
Van Inwagen (1983), per un approfondimento di questa interpretazione.
222 libertà in Spinoza, spesso ( ma non necessariamente), hanno condiviso
una lettura dell’etica di tipo terapeutico, secondo cui la libertà
dell’uomo a cui ci si riferisce nell’Etica è un modello di natura umana
da perseguire. In una tale interpretazione, il modello di natura umana
così delineato diventerebbe una meta irraggiungibile, al pari di quello
che pensavano gli Stoici, secondo cui solo il saggio stoico poteva
raggiungere la perfezione umana e la vera virtù140.
Contro questa visione standard, Matthew Kisner propone una
nuova e più interessante interpretazione della libertà in Spinoza,
interpretazione che a suo dire sarebbe molto affine a quanto riteneva
Emilia Giancotti Boscherini, in un suo articolo sulla teoria e la pratica
della libertà141. Secondo Kisner, in breve, la libertà umana sarebbe una
condizione essenziale entro cui e a partire da cui l’uomo elabora la sua
deliberazione pratica per l’azione. Per lo studioso, più in particolare,
la nozione spinoziana di libertà è collocabile tra una teoria
incompatibilista e una compatibilista della stessa. In generale, secondo
una concezione incompatibilista, la libertà è quell’abilità di fare
altrimenti, per cui un individuo è libero sempre di fare diversamente
da come sta facendo; secondo invece una teoria compatibilista, che
140
Circa questo approccio terapeutico dell’etica di Spinoza, si vedano: Le
Buffe (2010); Bennett (1984).
141
Kisner (2011); Giancotti Boscherini (1990).
223 Kisner attribuisce a Hobbes, la libertà è quell’assenza di costrizioni
nel perseguire i propri desideri. Per lo studioso, Spinoza oscillerebbe
tra queste due concezioni di libertà, intesa come forma di
indipendenza dalle determinazioni esterne e al contempo dai fattori
interni.
Se allora esistono degli ostacoli anche interni alla libertà, cioè
delle forze psicologiche irrazionali, si comprende meglio a mio avviso
il suo nesso con l’acrasia qui investigato. Quando siamo acratici, non
possiamo essere liberi; se fossimo liberi, per Spinoza, non saremmo
acratici. Alla luce di ciò, nell’etica spinoziana, come è possibile allora
uscire dall’impasse acratica o evitare atti acratici?
Se essere liberi non vuol dire solamente cercare di dominare le
proprie individuali passioni (lettura terapeutica dell’etica), ma, come
ho già detto, se essere liberi vuol dire cercare di raggiungere la libertà,
esercitando la deliberazione pratica nell’azione (come suggerisce
Kisner); gli esseri umani, in quanto esseri autodeterminati e
autocausati, non possono essere pienamente liberi nel senso della
libera necessità, ma possono esserlo, cercando di raggiungere la
libertà umana mediante l’uso della ragione che è data all’uomo. La
libertà rinvia allora alla ragione e la possibilità di avere idee adeguate;
la schiavitù e l’acrasia richiamano l’immaginazione e le idee
inadeguate. La libertà umana non è pertanto solo una nozione teorica,
ma la si raggiunge con la pratica, è una pratica. Di qui deriva con
224 cognizione di causa la lettura dell’etica di Spinoza in termini di una
filosofia pratica che in definitiva per Kisner è una filosofia della
libertà.
Così dicendo, l’etica è un mezzo per pianificare la nostra vita
in vista del bene, del bene più alto, cioè del Sommo Bene (la
conoscenza di Dio). Cercando di perseguire il nostro bene,
potenziamo il nostro individuale conatus e sviluppiamo la nostra
natura, raggiungendo la libertà. La libertà coincide con la virtù, con
l’agire cioè per il proprio potere. In EIV, PP 20-24, Spinoza identifica
la virtù con la potenza e con il conatus, con quello sforzo di
conservazione dell’esistenza di ciascuno, che rappresenta il nostro
bene e il nostro supremo utile: “La virtù è la stessa potenza umana che
è definita dalla sola essenza dell’uomo, cioè che è definita dal solo
sforzo con il quale l’uomo si sforza di perseverare nel proprio essere”
(EIV, P20 D). “Lo sforzo di conservare se stessi è il primo e unico
fondamento della virtù” (EIV, P22 C). “Agire, dunque, secondo virtù
non è altro in noi che agire, vivere e conservare il proprio essere
secondo la guida della ragione” (EIV, P24 D). E chi vive sotto la
guida della ragione sarà libero (EV, P54 S; P66 S).
Se l’uomo allora per diventare libero deve agire cercando di
rafforzare il proprio potere, la propria individuale potentia, la libertà
diventa una forma di autonomia che chiede responsabilità all’agente.
Essa è autonomia perché è in virtù di quest’ultima che l’agente agisce:
225 l’uomo diventa autonomo mediante l’uso della ragione e la
conoscenza adeguata. Quest’ultima, in quanto è una forma di
conoscenza sicura e vera, garantisce autonomia all’uomo stesso. La
conoscenza adeguata infatti esprime la sola potenza della natura
umana e l’unica condizione per cercare la conservazione di sé e
l’attuazione della virtù (EIV, PP 23-25). L’autonomia dell’uomo
dunque è garantita dalla conoscenza adeguata.
A riguardo, invece, del problema della responsabilità, la
questione è più delicata, nella misura in cui in genere gli studiosi
tendono a negare in Spinoza una qualunque forma di responsabilità
umana nell’azione. Come tuttavia ho cercato di mostrare, il
determinismo causale di Spinoza non minaccia l’attribuzione di
responsabilità morale all’agente. Non è possibile rintracciare negli
scritti spinoziani una spiegazione di come noi esseri umani possiamo
essere responsabili delle nostre azioni in senso stretto, ma è possibile
ammettere che noi siamo responsabili delle nostre azioni in nome
dell’attività conoscitiva che abbiamo, in quanto esseri umani, proprio
nell’agire.
Di qui veniamo agli atti acratici. Come avevo spiegato anche
circa il nesso giudizio-azione nell’atto acratico, il video meliora,
proboque, deteriora sequor, la responsabilità dell’agente non è tanto
nell’azione strettamente intesa, vale a dire quando egli decide di
seguire il male, ma è nel giudizio, quando egli formula un giudizio
226 circa il meglio. Questo tipo di responsabilità è da intendersi in un
senso “debole”, vale a dire non come un’intenzionalità morale e
consapevole,
dal
momento
che
interagiscono
diversi
fattori
concomitanti nell’atto acratico, sia dall’interno che dall’esterno.
Tuttavia nell’etica di Spinoza c’è ed esiste uno spazio di
responsabilità dell’uomo, pur piccolo che sia, ed esso è affine al
concetto di responsabilità che Cicerone attribuisce agli Stoici negli
Accademica I, 1.40. Ho infatti già mostrato come anche per gli Stoici
l’assenso che viene dato all’impressione iniziale che colpisce un uomo
non è propriamente una scelta deliberata, ma è imputabile in qualche
modo al soggetto che riceve l’impressione. Il nesso impressioneassenso, simile al nostro video meliora proboque dell’atto acratico, si
traduce in un giudizio prima e poi di fatto in azione (deteriora
sequor).
Alla luce di ciò, ritengo di poter asserire che le azioni umane,
anche quelle acratiche, così come le decisioni e volizioni, pur non
essendo pienamente libere nel senso della libera necessità, esse
tuttavia, in qualche modo, possono essere determinate da noi esseri
umani. Le azioni sono causalmente determinate dall’esterno e sono al
contempo determinate da noi, dall’interno, vale a dire dalle nostre
credenze, i nostri pensieri e i nostri desideri (di qui l’affinità con gli
Stoici). Quando questi desideri sono deboli, appetiamo debolmente e
giungiamo ad agire in maniera acratica. Si può comprendere ora
227 meglio in che senso le cause delle azioni umane in Spinoza sono il
risultato del determinismo causale ma sono anche determinate dai
nostri poteri particolari, dall’interno. Esistono allora dei processi
psicologici mediante cui è possibile per l’uomo determinare le proprie
azioni a partire dalle quali promuovere la libertà e il raggiungimento
del bene.
A tal proposito, Kisner dedica un lungo capitolo alla
deliberazione pratica in Spinoza, definendola un possibile intreccio di
idee che spingono gli uomini ad agire, intreccio che conduce a far sì
che le azioni umane ultime siano determinate dalle idee più forti142.
L’uomo che delibera (per agire) sperimenta l’aumento o la
diminuzione della propria potenza a seconda dell’interazione di idee
adeguate e inadeguate. Durante il processo psicologico della
deliberazione, interagiscono dunque idee adeguate e inadeguate, e
come la deliberazione si sviluppa dipende dall’adeguatezza stessa
delle idee. Per Kisner, infatti, se le idee sono adeguate, la
deliberazione pratica si baserà su certe rappresentazioni che
conducono l’uomo ad atti razionali. Al contrario, come ho mostrato
nell’azione acratica, se le idee sono inadeguate la deliberazione
pratica si baserà sull’immaginazione, a partire dalla quale l’agente
agirà in modo irrazionale e dunque acratico. Se si delibera con le idee
142
Kisner (2011), pp. 179-197.
228 inadeguate, la deliberazione stessa è infatti basata su rappresentazioni
meno certe che direzionano i nostri pensieri alla luce dell’opinione o
dell’immaginazione, conducendoci ad atti meno benefici. In tal caso, i
processi deliberativi mediante cui decidiamo le nostre azioni non sono
razionali, altrettanto deboli saranno i responsi emozionali e come
veniamo affetti dalle cause esterne.
Per concludere, se (come suggerisce Kisner) la libertà umana
rinvia inevitabilmente alla passività e alla possibile inadeguatezza
umana, il giudizio o una deliberazione pratica corretta risiede in un
buon equilibrio tra ragione e immaginazione. La ragione ci indica gli
obiettivi generali, mentre l’immaginazione ha un ruolo strumentale nel
raggiungerli. Siamo dunque liberi non solo perché obbediamo alle
leggi pratiche della ragione, ma perché siamo in grado di negoziare
situazioni pratiche sulla base di queste leggi, impiegando un tipo di
saggezza pratica che include l’inadeguatezza delle idee. Di qui
consegue la novità dell’interpretazione di Kisner, secondo cui la
libertà in Spinoza è quella condizione essenziale entro cui l’uomo
elabora la sua deliberazione pratica per l’azione.
Alla luce di ciò, ritengo altrettanto nuova la possibile soluzione
all’acrasia che attribuisco a Spinoza. Secondo una concezione
terapeutica dell’etica e della libertà, l’acrasia è un fenomeno da tenere
a freno, da moderare nella misura in cui è dato all’uomo dominare le
sue passioni. L’uomo non può essere mai pienamente libero e dunque
229 è potenzialmente acratico. A partire invece dalla nozione di libertà e
di deliberazione pratica di Kisner, l’acrasia non è tanto un fenomeno
da evitare o tenere a freno. Non si possono rintracciare modi certi per
uscire allora dall’impasse acratica, ma questa va solo accettata come
tale. L’acrasia è una condizione radicata potenzialmente in ogni essere
umano: piuttosto allora che cercare invano di sradicarla con la terapia
delle passioni (tanto comunque necessariamente libero è solo Dio), è
meglio accettarla.
Alla luce dell’etica di Spinoza, il fatto di accettare l’acrasia
come un fenomeno imprescindibile dell’essere umani non esclude la
possibilità di tentare di migliorare, di cercare cioè di diventare sempre
più immuni dall’acrasia e dunque più liberi. Una possibile arma contro
l’acrasia potrebbe forse essere quella Fortitudo di EIII, P59 S, una
sorta di fermezza d’animo.
Spinoza allora anche nella possibile via d’uscita all’acrasia,
che è poi accettazione dell’acrasia stessa, risulta originale.
Diversamente dagli Stoici che delineano un modello di natura umana
irraggiungibile per l’uomo, concesso al solo saggio stoico, Spinoza ci
offre un percorso di libertà che è una specie di esperienza della mente,
vale a dire di come la ragione si coniuga alle emozioni irrazionali
degli esseri umani. Spinoza accetta il malore della passività umana,
accetta le passioni, non estirpabili (come invece volevano gli Stoici),
accetta la possibilità di atti irrazionali come l’acrasia. Così come non
230 vuole sradicare le passioni umane, Spinoza non vuole sradicare
l’acrasia. Anzi, le passioni sono essenziali all’uomo perché gli
forniscono un tipo di conoscenza importante per il ragionamento
etico: la consapevolezza di come raggiungere la perfezione e la virtù.
Le passioni indicano il grado della maggior o minore potenza e come
siamo affetti dagli oggetti esterni. A partire da questo, è possibile
sforzarci di diventare sempre più umanamente liberi, affermando il
nostro individuale bene. Del resto, anche se per legge di natura si
cerca il bene e si fugge il male (EIV, P19), ci formiamo i concetti di
bene e di male in quanto non nasciamo liberi, ma possiamo diventarlo,
umanamente parlando. Senza il male non può esistere il bene, perché
bene e male per Spinoza sono correlativi (e male è la conoscenza
inadeguata, EIV, P58 D).
A tal proposito, Spinoza distingue l’uomo dominato solo
dall’affetto e dall’opinione, come è l’agente acratico, da quello
guidato dalla ragione. Nello scolio di EIV, P66, egli precisa che:
“Quello, infatti (lo schiavo) vuole, non vuole e fa le cose che
massimamente ignora; questo invece (l’uomo libero) non obbedisce
ad altri che a sé stesso e fa soltanto quelle cose che ha imparato essere
le più importanti nella vita e che perciò massimamente desidera; e
perciò chiamo quello servo, questo invece libero, della cui indole e del
cui modo di vita mi è gradito dire adesso poche cose”. La libertà
umana possibile all’individuo è, dunque, equiparata alla vita
231 razionale: come suggerisce Emilia Giancotti Boscherini, “questa
autonomia e indipendenza dell’uomo libero non toglie, tuttavia, il
condizionamento ontologico al quale non può sottrarsi in quanto
essere finito, ma la conoscenza razionale di cui è capace lo rende
consapevole di questa sua condizione e, pertanto meno soggetto alle
passioni”143.
Per concludere, in quanto esseri finiti, giungiamo ad agire
anche acraticamente e irrazionalmente, ma possiamo, mediante la
ragione, cercare di diventare umanamente liberi per essere felici, se è
vero che per Spinoza possiamo essere determinati dalla sola ragione a
compiere tutte quelle azioni a cui siamo determinati da una passione o
appetito (EIV, P59 D). Questa, in fondo, è la sfida all’acrasia, una
sfida della nostra stessa vita per raggiungere quella tranquillità
dell’animo di cui parla Spinoza, per mezzo della quale si giunge alla
vera Beatitudine: “La Beatitudine non è premio alla virtù, ma la virtù
stessa; né godiamo di essa perché teniamo a freno le libidini; ma al
contrario, poiché godiamo di essa, possiamo tenere a freno le libidini”
(EV, P42). L’umana potenza allora con cui si tengono a freno gli
143
Giancotti Boscherini (1993), p. 414, nota n. 66. La studiosa, inoltre,
osserva che questa equiparazione di libertà e vita razionale era stata già fatta,
incidentalmente, nello scolio della P54.
232 affetti consiste solo nell’intelletto. Così facendo, si giunge alla
tranquillità dell’animo.
“La via che ho mostrato condurre a questo, pur se appare
molto difficile, può tuttavia essere trovata. E d’altra parte deve essere
difficile, ciò che si trova così raramente. Ma tutte le cose eccellenti
sono tanto difficili quanto rare” (EV, P42 S).
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2. Sull’acrasia in Spinoza
Avvertenza al lettore:
La traduzione dell’Etica di Spinoza a cui mi riferisco è di Giancotti E.
(1993)
La traduzione del Breve Trattato è di Mignini F. (1986)
La traduzione delle Epistole è di Mignini-Proietti, in Mignini (2007)
La traduzione del Trattato Politico è di Proietti O. in Mignini (2007)
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