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Cesare Fontanieri
CESARE
OTTAVIANO AUGUSTO
FU VERAMENTE UN
GRANDE?
Sopravvalutato dalla storia
ARMANDO
EDITORE
SOMMARIO
I. Importanza della biografia nello studio degli autori
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II. La fine troppo singolare del poeta latino P. Virgilio Marone
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III. Ottaviano e Virgilio: gli interessi si intrecciano
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IV. L’ascesa di Ottaviano: nascita di un impero
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V. Fatti e misfatti del primo imperatore. Marco V. Agrippa
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VI. La gloria si appoggia alle lettere. C. Mecenate
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VII. Si prepara l’Eneide
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VIII. Audizione ufficiale
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IX. Molta fantasia e scarsa fedeltà storica
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X. L’euforia vince ogni perplessità
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XI. Virgilio ci ripensa
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XII. Viaggi ad Atene: i dubbi diventano certezza
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XIII. Il pasticcio è rimediabile. Ce ne sarà il tempo?
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XIV. Augusto interviene, giudica, condanna
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XV. Esecuzione subdola
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XVI. Orazio Flacco e il “carme secolare”. L’ara pacis augustae
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XVII. Anno 9 d.C.: Q. Varo e Arminio. La selva di Teutoburgo
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XVIII. Il divo si riconsola scrivendo le sue Res gestae
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XIX. Il mito di Tito Livio. Storie scomparse nel nulla e
storielle di alari e attizzatoi
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XX. Anno 14 d.C.: morte di Augusto. Grande l’impero, efficiente
ma forse piccolo l’uomo
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XXI. Esame di maturità: voto politico. Governava Augusto
o Livia Drusilla?
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XXII. Altri esempi di sopravvalutati
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XXIII. Teoria dei “palloni gonfiati”
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I. IMPORTANZA DELLA BIOGRAFIA
NELLO STUDIO DEGLI AUTORI
I personaggi che in ogni tempo ed in ogni luogo hanno conseguito risultati eccellenti in qualunque ramo dello scibile, lasciando ai
posteri il retaggio di opere tangibili utili per il progresso culturale e
civile, oltre che in virtù delle loro doti intrinseche hanno spesso agito
al costo di un estremo impegno mentale e fisico, che li induceva perfino a sacrificare la propria salute.
Quindi si è verificato statisticamente che un’alta percentuale di
tali autori è morta prematuramente: nei casi estremi, molti di essi
sono scomparsi essendo affatto sconosciuti, in quanto la fama delle
loro opere si era divulgata postuma, alcuni sono morti suicidi, perché
l’enorme usura nervosa a lungo andare aveva sconvolto il loro naturale equilibrio psichico, altri invece, per le stesse cause, sono incorsi
nell’alienazione mentale, concludendo la propria vita in manicomio.
Vanno incluse anche quelle persone di chiara fama che per il loro
operato, non inteso a delinquere ma a favorire la conoscenza, sono
state perseguitate, imprigionate o giustiziate per volere dei rispettivi
governanti.
Infine, a noi preme distinguere una particolare categoria di tali
personaggi, la cui specialità si presta storicamente a soddisfare di
volta in volta gli interessi di importantissime classi di potere. Questi soggetti più fortunati vengono sopravvalutati e gratificati, in vita
o nella memoria, molto al di sopra del loro effettivo valore e delle
rispettive più rosee aspettative, dando così luogo al fenomeno dei
“palloni gonfiati”.
Complessivamente, è cosa ovvia concludere che le vicende esistenziali di tutta la varietà di personaggi di cui si è sopra accennato
hanno una valenza primaria nella genesi dei prodotti da loro lasciati
ai posteri; e pertanto ne sono intimamente connesse. Tuttavia, l’opinione pubblica dei posteri stessi manifesta la tendenza di prendere in
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considerazione esclusivamente le opere tangibili, trascurando a torto
le biografie dei rispettivi autori, quand’anche venissero menzionate,
alla stregua di noiosi atti dovuti, a sé stanti.
Nella serie sopra considerata va annoverato in via preliminare il caso singolare relativo a Publio Virgilio Marone, poeta latino
dell’epoca classica il quale, pur essendo vissuto nel contesto di una
civiltà arcaica e scomparsa, per la sua concezione di vita precorritrice
di nuove esigenze fu ritenuto attuale durante tutto il Medioevo. Le
sue vicende umane e artistiche furono strettamente dipendenti da
quelle riguardanti la vita pubblica di un assoluto mostro sacro della
storia, l’Imperatore Cesare Ottaviano Augusto. Quindi si tratta di
due personaggi considerati intoccabili dalla critica, due autentici palloni gonfiati.
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II. LA FINE TROPPO SINGOLARE
DEL POETA LATINO P. VIRGILIO MARONE
Virgilio morì il 22 settembre del 19 a.C., per l’appunto sotto l’impero di Augusto, prima di compiere il suo cinquantunesimo anno di età,
avendo già raggiunto la gloria e l’agiatezza per essere l’autore delle Bucoliche e delle Georgiche e quando stava per pubblicare il suo capolavoro,
il poema epico Eneide, intorno al quale aveva lavorato intensamente
per dieci anni. Si può anticipare che perì in modo tragico, moralmente
disperato, tanto per stabilire una connessione col tema proposto.
Narrano le ineffabili notizie biografiche riportate sui testi scolastici o nelle enciclopedie, che Virgilio aveva effettuato un viaggio in
Atene, il tempio della cultura dell’epoca, allo scopo di documentarsi
per le ultime rifiniture da apportare al predetto poema. Trovandosi
sulla nave durante il ritorno, fu còlto da un forte malore, aggravato
dalle cattive condizioni del mare. Sbarcato presso Brindisi quasi moribondo, manifestò la disposizione di bruciare tutti i suoi manoscritti
riguardanti l’Eneide; indi in quel luogo spirò dopo qualche giorno. In
alcune di tali biografie è aggiunto che in Atene Virgilio si era incontrato con l’Imperatore Augusto; quindi, per quanto riguarda le cause
della morte, nel gergo del noto gioco del rimpiattino, si può incominciare a dire: “fuochino”. In altre, è riportato che Augusto gli ingiunse
di ritornare a Roma, mentre invece Virgilio era deciso a proseguire il
viaggio verso l’Asia Minore. A questo punto c’è da esclamare apertamente: “fuoco!”. L’indovinello è pressoché risolto.
Appare evidente il tenore assurdo e demenziale di quelle scarne
note biografiche; eppure le stesse, stranamente, sono state tramandate per duemila anni immutate, come uno sciocco ritornello, accettate
supinamente dall’ambiente accademico mondiale e dall’esercito degli studiosi, senza che nessuno avesse mai mosso alcun accenno di
critica. In analogia col finale delle fiabe, Virgilio scende dalla nave
e muore; “e tutti vissero felici e contenti”, anche perché l’Eneide fu
pubblicata ugualmente, nonostante la volontà contraria del poeta.
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Il regista che aveva concepito il resoconto in questione lascia trapelare il giudizio subliminale che un Virgilio vivo fosse ormai inutile
e controproducente e perciò era un fatto normalissimo che dovesse
morire. Ebbene, l’unica autorità, neppure molto occulta, che poteva
essere pervenuta alla predetta conclusione, s’identifica con l’Imperatore Ottaviano Augusto.
Virgilio Marone, di stato civile celibe, per quanto si evince
dall’unica sua immagine esistente, era un uomo di robusta e notevole
corporatura, imbarcato come ospite di riguardo a bordo di una nave
sul finire dell’estate. Egli sicuramente era quello che oggi si dice un
salutista, privo di vizi, dato che, non per nulla, aveva scritto le Georgiche, poema inneggiante alla salubrità della vita campestre. Nonostante tutto, durante la navigazione fu còlto da quella esiziale e misteriosa malattia. Per quanto concerne la sua costernazione relativa
ad un errore di fondo nel quale era incorso nella stesura dell’Eneide,
accertato da lui stesso e di cui tratteremo in seguito, essa forse non
era sufficiente per indurre l’autore a disporre la distruzione dell’intera opera, compreso quanto di eccellente aveva composto. Se infatti
ordinò decisamente di bruciare l’Eneide, il suo scopo immediato era
quello di lanciare un preciso messaggio al monarca e fargli intendere
di avere compreso tutto del suo inganno.
Pertanto, ai fini della ricostruzione delle cause della morte di Virgilio, ogni percorso logico conduce a lui, all’Imperatore Augusto, che
la storia ha immortalato quale il più grande, glorioso, magnanimo,
della romanità. Augusto aveva stabilito su quale nave doveva imbarcarsi Virgilio, ed anche impartito le opportune istruzioni a chi lo
avrebbe nutrito e dissetato durante la navigazione da Atene a Brindisi. Ovviamente, anche la versione dell’accaduto da riferire al pubblico, di cui abbiamo innanzi disquisito, fu dettata in seguito da lui
stesso e quindi è rimasta per sempre immodificabile.
Una volta pervenuti alle predette constatazioni, conviene riepilogare dal principio lo svolgimento cronologico dei fatti, rimpolpandoli secondo la logica nelle parti lacunose; ricostruzione che la critica
ha sempre volutamente omesso per non scalfire la prestigiosa fama di
due personaggi ritenuti al di sopra di ogni sospetto.
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III. OTTAVIANO E VIRGILIO:
GLI INTERESSI SI INTRECCIANO
Virgilio Marone era nato presso Mantova nell’ottobre del 70 a.C.
da famiglia di agiati agricoltori e fu avviato agli studi, prima a Cremona e Milano, poi a Roma. Lo scopo era quello di fargli intraprendere l’attività forense, ma gli studi di retorica a Roma rivelarono
che egli era negato per l’eloquenza, in quanto di carattere timido e
impacciato, nonché scadente parlatore. Quindi, si trasferì a Napoli, dove in principio studiò filosofia e successivamente si dedicò alla
composizione delle Bucoliche.
La fama conseguita col citato poemetto gli valse l’attenzione e
l’amicizia del Principe Ottaviano, non ancora Augusto, e dell’ex cavaliere Caio Cilnio Mecenate, suo fedelissimo della prima ora, creato
ministro, i quali dopo la vittoria di Filippi sui congiurati Bruto e
Cassio attirarono il poeta nell’orbita della loro comune politica.
Ottaviano, in origine Ottavio, di 7 anni più giovane di lui, Virgilio
lo aveva già notato nella scuola di retorica che frequentava a Roma:
era un ragazzo patrizio con i capelli color biondo sabbia, gli occhi
celesti e il volto triangolare, dall’aspetto gracile e delicato; per altro
era molto protetto per il suo alto lignaggio e raccomandato di ferro.
Ma ora Ottaviano, benché giovanissimo, era già il protagonista della
politica romana, un vero predestinato. Per sancire il sodalizio con
Virgilio gli donò, tra l’altro, una casa in Roma sull’Esquilino e un
podere a Nola, nel Napoletano, allo scopo di risarcirlo di quello che
gli era stato espropriato a suo tempo nei pressi di Mantova. Proprio
sull’Esquilino il Mecenate risiedeva e teneva i suoi vasti e lussuosi
possedimenti immobiliari.
Accettando con gratitudine tali favori, Virgilio entrò necessariamente a far parte del coro degli artisti adulatori del futuro Imperatore, divenendone il principale solista. Ottaviano si mostrava nei suoi
confronti sempre benevolo e accondiscendente, però l’amicizia tra i
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due era ovviamente soltanto formale, poiché l’uno era il Principe e
l’altro un semplice poeta, ossia un nullafacente e quindi doveva assolvere bene le sue speciali incombenze senza accampare alcuna pretesa.
Insomma, per sentirsi con le spalle al sicuro, Virgilio si era impaniato
in un ingranaggio più grande di lui.
Di fatto, il nostro era ormai un poeta di corte: libero di realizzare
la propria elaborazione artistica, però i relativi soggetti da sviluppare li stabiliva Ottaviano, col tramite dell’abilissima e subdola mediazione dell’esperto ministro Mecenate, il quale infatti gli impose
l’edizione del poema didascalico Georgiche, allo scopo di invogliare
l’enorme massa di ex combattenti sbandati e frustrati, a dedicarsi alla
coltivazione dei campi. Virgilio, imperturbabile, dopo sette anni di
composizione sfornò il poema, dove si avvalse del consueto strumento dell’esametro dattilico, nella cui naturale sonorità e scorrevolezza
egli infondeva come sempre il marchio della propria alta sensibilità:
il pathos.
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IV. L’ASCESA DI OTTAVIANO:
NASCITA DI UN IMPERO
Per quanto riguarda Ottaviano, nato nel 63 a.C., il futuro Principe
alle prime armi, ancora adolescente, aveva subito dimostrato le proprie doti durante la campagna di Spagna al seguito del suo padrino
e prozio Giulio Cesare. Frugalissimo nel mangiare, anche perché il
suo delicato apparato digerente non gli consentiva trasgressioni di
quel genere, palesava attaccamento al dovere e notevoli versatilità e
capacità di apprendimento nell’applicarsi in qualunque impegno.
In questa sede è superfluo riportare la successione delle gesta
compiute dal predestinato Imperatore, immortalate dalla storia; però,
è piuttosto interessante desumere alcune sintetiche osservazioni di
carattere generale e psicologico.
Delle scadenti doti fisiche di Ottaviano da ragazzo si è già accennato, ma evidentemente dopo l’adolescenza si era irrobustito, specialmente per quanto concerne l’energia psicofisica, visti l’instancabile
animosità e l’accanimento da lui mostrati negli avvenimenti degli
anni 44 e seguenti.
Assatanato dal desiderio di conquista del potere, si gettò nella
mischia della guerra civile, durante il caos politico creatosi in seguito
all’uccisione del suo padrino Giulio Cesare. Ottaviano in quei frangenti si mostrò capace di tutto, cambiando schieramento politico a
seconda delle opportunità, senza osservare alcuna regola di coerenza
o di correttezza e affondando anche dei colpi proibiti: quando ad
esempio, nel corso dei combattimenti dell’assedio di Modena, probabilmente fu l’autore dell’uccisione a tradimento di entrambi i consoli
Irzio e Pansa, suoi alleati, facendo apparire che fossero morti nella
battaglia. Insomma, a partire dai suoi esordi il ventenne Ottaviano
rivelò un’indole sanguinaria di spietato e vile massacratore, distinguendosi tra gli altri contendenti per la sua efferata crudeltà nel far
giustiziare centinaia di avversari catturati. Dopo la vittoria di Filippi,
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in Tracia (42 a.C.), sui congiurati Bruto e Cassio, si fece parte diligente nello spedire la testa di Bruto a Roma; e fra i triumviri fu l’unico che volle far eseguire fino in fondo con implacabile ostinazione le
proscrizioni dei nemici politici. S’ingentilì apparentemente soltanto
dopo avere raggiunto il potere assoluto, instaurando l’era della pace a
sua insindacabile misura.
Ottaviano era di statura appena media e in età adulta divenne
cagionevole di salute, costantemente alle prese con le cure mediche e
termali; leggermente claudicante, pare che avesse anche un impedimento di tipo artritico alla mano destra. Di conseguenza, per quanto
concerne i successi militari ascritti a suo nome dalla indulgente storiografia, si presume che in quelle circostanze nel caso più benevolo,
avesse diretto le sue soverchianti forze armate stando in carrozza
nelle retrovie, ma più abitualmente portato in lettiga; anche perché
la pratica palesò che egli aveva doti di generale meno che mediocri.
Ad esempio, nella contingenza di Filippi, Ottaviano si trovava ad
agire in sintonia con Marco Antonio, del quale ancora oggi è proverbiale la prestanza fisica. La coppia era bene assortita: “Crik e Crok”,
la mente e il braccio; e difatti toccò prevalentemente ad Antonio
sbrigare la fase esecutiva. Undici anni più tardi, nel 31 a.C., nella
famosa battaglia navale di Azio, da lui voluta per eliminare lo stesso
Antonio diventato suo antagonista ed ottenere il potere assoluto,
Ottaviano ovviamente avrà seguito la propria poderosa flotta stando al sicuro su di una nave di riserva, poiché la battaglia la diresse
Marco Vipsanio Agrippa; così come si era verificato in occasione
del precedente scontro navale di Nauloco (36 a.C.) contro la flotta
di Sesto Pompeo, in cui lo stesso Ottaviano se ne stava letteralmente a dormire a bordo di una nave quando fu costretto qualcuno a
destarlo, per rammentargli che doveva dare il segnale d’inizio del
combattimento!
È significativo rilevare che l’anno successivo alla vittoria di Azio,
per inaugurare l’imminente glorioso inizio della nuova era imperiale,
faceva uccidere come un cane il diciassettenne Cesarione, suo consanguineo in quanto figlio naturale del prozio Giulio Cesare e della
regina Cleopatra appena defunta, per il motivo formale che quest’ultima se lo era associato al trono d’Egitto. Ciò, per sottolineare la
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fredda e zelante pervicacia che lo induceva a soprassedere ad ogni
presunto sentimento personale.
Si sorvola, per ora, sul disastro militare della Selva di Teutoburgo,
subito in Germania, che merita una considerazione a parte, per poter
emettere un giudizio consuntivo sull’Imperatore.
Comunque sia, Ottaviano a soli venti anni d’età era già triumviro
dello Stato con poteri illimitati, senza avere svolto nessun adeguato
apprendistato. Governava insieme al nominato Marco Antonio e al
meno famoso Emilio Lepido. In effetti, egli era l’asso nella manica
degli ottimati, l’aristocrazia dell’epoca detentrice di enormi ricchezze,
che esercitava una oligarchia plutocratica ed i cui esponenti avevano
atteso che il predetto diventasse adulto, avendolo da tempo designato
come proprio uomo di punta: le sue doti mentali e caratteriali erano
già note. Il medesimo corrispose in pieno a tale aspettativa, rimanendo fedele alla classe oligarchica lungo tutta la luminosa carriera,
pur avendo attuato in modo drastico le impellenti riforme sociali, in
apparente favore del popolo.
Per altro, Ottaviano sin da giovane era stato assillato dalla necessità di generare un erede maschio. All’uopo, dopo due matrimoni falliti, con Claudia (non consumato) e Scribonia, nel 39 a.C. indispettito dalla nascita di una figlia femmina, Giulia, da parte della seconda
moglie, aveva sottratto d’autorità al legittimo marito la diciannovenne Livia Drusilla, imponendole di sposarlo, malgrado fosse incinta
del secondo figlio, Druso. Per la cronaca, l’ex marito di Livia, Tiberio
Claudio Nerone, morì opportunamente dopo circa sei anni, a scanso
di equivoci. Evidentemente, Ottaviano avrà calcolato, tra l’altro, di
scegliere una donna prolifica che partoriva figli maschi, dato che Livia era già madre di Tiberio Nerone; forse non sospettava che il sesso
dei nascituri dipende piuttosto dal genitore che non dalla genitrice.
Comunque, la questione è oziosa, poiché con la nuova moglie, alla
quale sarebbe poi rimasto unito fino alla morte, egli non riuscì ad ottenere prole di alcun genere. Per giunta, molti anni dopo fu costretto
a confinare nell’isola di Pandataria (Ventotene) l’unica figlia Giulia,
per la sua condotta scandalosamente dissoluta.
Dunque, per quanto attiene ai vizi più comuni che solitamente
possono distrarre anche i grandi uomini, Ottaviano Augusto ne era
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preservato. Non la crapula, poiché era tenuto a osservare una dieta
rigorosa; riguardo alle donne, Svetonio Tranquillo tramanda che i
suoi amici facevano a gara nel procurargli ragazze vergini e lui ne
approfittva a suo comodo, con la compiacenza della stessa Livia. Non
curava l’eleganza, perché era quasi sempre costretto ad infagottarsi di indumenti supplementari per difendersi dal freddo e dal sole.
Pertanto, egli era spinto a indirizzare l’ambizione e la vanità smisurate insite nella sua personalità, nonché l’enorme potenziale della sua
sagacia e capacità organizzativa, esclusivamente negli impegni della
vita pubblica che si erano accentrati progressivamente. Di fatto, agiva
in una sfera superiore contrassegnata dalla legge dei grandi numeri,
mentre per lui gli individui avevano la stessa importanza delle formiche: se davano fastidio oppure si rendevano soltanto inutili, egli li
faceva scomparire con assoluta noncuranza.
Lo zelo spronava Augusto al fine di ottenere, oltre al potere assoluto, addirittura anche la venerazione del popolo. È indiscutibile che
per raggiungere i relativi traguardi agiva con assoluta spregiudicatezza, non essendo trattenuto da qualunque scrupolo.
All’inizio della sua carriera politica i virtuali avversari intuivano
che quello strano giovane dai capelli color sabbia e dal volto emaciato,
figlioccio di Giulio Cesare, non era alla loro portata e ne restavano
interdetti e soggiogati; cessata la perplessità, convinti anche dal danaro che profondeva a piene mani, preferivano passare dalla sua parte e
collaborare con lui. Non era solo questione di magnetismo personale,
poiché in primo luogo Ottaviano, come già accennato, aveva l’accortezza di tenersi sempre con le spalle al sicuro nello schieramento politico dominante; d’altronde, per principio non provocava mai nessun
avversario, mostrandosi verso tutti di indole apparentemente mite e
accondiscendente. Soltanto quando aveva ridotto i rivali nelle condizioni di non nuocere, li faceva eliminare. Egli in effetti non arrischiò
quasi mai la propria incolumità, perché alla minima mossa sospetta
da parte di chiunque fosse, lo faceva uccidere sul posto dalle guardie,
oppure dopo tortura. Inoltre, tutte le persone con cui aveva avuto a
che fare, le quali in seguito avrebbero potuto lamentarsi o sparlare
di lui o avanzare pretese, come già detto, prima o poi preferiva farle
scomparire, poiché voleva sentirsi libero da ogni eventuale pendenza.
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Senza dubbio nel subcosciente di Ottaviano Augusto era rimasto
scolpito il vivido ricordo della tragica morte di Giulio Cesare, uomo
di superiore valore e statura morale, il quale per essere troppo aperto
e generoso, ad un certo momento era finito inopinatamente crivellato da colpi di stiletto. Di conseguenza, improntò il suo modo di agire
alla diffidenza ed alla prevenzione di ogni rischio.
Nell’anno 29 a.C. Ottaviano, dopo il suicidio di Antonio ed essendo già da tempo scomparsa ogni altra fazione interna, assunse saldamente il potere assoluto; e di fatto iniziò l’Impero. Il Senato nel 27
gli conferì l’appellativo di Augusto, fino ad allora attribuito solo alle
divinità. Indi, una dopo l’altra, colse indisturbato, come frutti maturi,
la completa acquisizione delle cariche pubbliche esistenti nell’ordinamento tradizionale di Roma. Nel 23 egli, aristocratico, si fece eleggere tribuno della plebe a vita, nel 12 a.C. pontefice massimo e censore:
ad ognuno di tali successi, conseguiti con precisione matematica, si
poteva recitare per l’appunto la formula in uso per la risoluzione dei
teoremi di quella disciplina, “come volevasi dimostrare”.
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