TT Musica, linguaggio, escrizione

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TT Musica, linguaggio, escrizione
Tommaso Tuppini
Musica, linguaggio, escrizione
Epekeina, vol. 3, n. 2 (2013), pp. 231-257
ISSN: 2281-3209
DOI: 10.7408/epkn.v3i2.68
Published on-line by:
CRF – Centro Internazionale per la Ricerca Filosofica
Palermo (Italy)
www.ricercafilosofica.it/epekeina
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Musica, linguaggio, escrizione
Tommaso Tuppini
Nostra Signora degli insonni, custodisci queste vene
che furono marea, voce spartita in assemblea e
inchiostro, polvere di una gioia colpita ad altezza
d’uomo [...]
In un saggio comparso nel primo volume del progetto di ricerca, tutt’ora in corso, Decostruzione del cristianesimo Nancy cita il poeta Michel
Deguy che a sua volta cita un passo di Adorno: ogni composizione
musicale, scrive Adorno, in qualche modo anticipa «la forma del nome divino. È preghiera demitizzata, liberata dalla magia degli effetti;
tentativo umano, per quanto vano, di nominare il Nome stesso e di
non comunicare significati». 1 Deguy commenta così: «preghiera demitizzata? Ecco un potente ossimoro, un vortice in cui si affrontano
il movimento della credenza (il credo della preghiera) e il movimento
della miscredenza, discredenza o incredenza: se la demitizzazione si
ritira dalla credenza, dallo slancio della fiducia o della credulità in».
Preghiera, credo, mito, magia, musica, nome sono gli elementi chiamati
in causa da questa riflessione che Deguy consegna a Nancy attraverso
Adorno (e attraverso Benjamin e Bloch e tanti altri, ma per ragioni di
economia dobbiamo qui risparmiarci i passaggi intermedi). “Adorno”,
commenta Nancy, «è un filosofo, ma è anche un poeta, se non altro
perché un filosofo che non si accontenta di fare filosofia arriva inevitabilmente alla poesia, quale che sia la sua potenza speculativa o forse
proprio a misura di questa potenza».2 A cosa allude questo transito
dalla filosofia alla poesia? Forse all’abdicazione della fatica del concetto
di fronte a una sorta di dichterisches Denken? La (oggi tanto diffusa)
genuflessione del concetto della filosofia davanti all’affètto dell’arte?
In realtà, se leggiamo avanti, la questione diventa per lo meno ambigua.
Nancy infatti aggiunge:
diciamo che filosofia e poesia indicano entrambe qualcosa che chiamiamo ‘preghiera’. [...] Adorno fa un cenno in direzione della musica
1. Adorno 2003, 252. La citazione nella citazione si trova in Nancy 2008, 183.
2. Nancy 2008, 184.
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– dell’arte che considera sempre come la più vicina al linguaggio,
benché ostinatamente distante da esso. 3
Ora sembra, piuttosto, che sia la preghiera a essere inscritta, a essere
rappresentata in modo indiretto, nella dizione tanto filosofica, quanto
poetica e musicale. Che cosa vuol dire con questo Nancy? Si tratta di
un rovesciamento della gerarchia hegeliana delle forme dello spirito,
per il quale non è più la filosofia, e tanto meno l’arte, la forma più alta,
ma la religione (perché essa – come edizione della preghiera – sarebbe
il dato di riferimento comune sia della filosofia che dell’arte)? Non è
facile orientarsi dentro quest’intreccio di forme che il rigore – appunto
– della filosofia vorrebbe tenere ben distinte per poter salvaguardare a
ciascuna il suo specifico contenuto di senso. Fatto sta che nella dizione
tanto prosaico-filosofica, quanto poetico-musicale, secondo Adorno e
Nancy prende la parola una sorta di preghiera. Però anche la preghiera
dice in modo indiretto qualcosa, rimanda a qualche cosa di altro da sé.
Neppure la preghiera è dunque una forma di dizione autosufficiente,
perché essa tenta, senza riuscirci, di nominare il Nome. È appunto dal
fallimento di questo tentativo che possiamo riconoscere il carattere
indiretto della dizione orante: se la preghiera riuscisse a dire il Nome
allora sarebbe dizione diretta. Se non ci riesce – d’altra parte – non
significa ch’essa non lo dica, lo taccia, ma che lo dice indirettamente,
obliquamente, che non dicendolo lo dice.
Ma cos’è la preghiera? La preghiera incarna
lo sforzo di dire [...]. Perché ciò che essa dice, quello che vuol dire
è sempre questo: dire la cosa stessa, dire la cosa in se stessa, per
se stessa e da se stessa, e, per di più o consustanzialmente, dire la
medesimezza della cosa, mediante la quale essa è ciò che è. Questo
si chiama ora la ‘verità’, ora il ‘Nome’, ora la ‘manifestazione’, fra
le altre designazioni possibili. [...] [T]ensioni del dire che si sforza
e tende fino a rompersi, perché avvenga ciò (la cosa) di cui si dice
subito che resterà non detta, perché ciò che è da dire è proprio questo:
che c’è [...]. Il dire si adopera essenzialmente a lasciare che il reale
– res, la cosa – si realizzi, che sia ciò che è, e soprattutto che sia.
Questo ‘lasciar essere’ è il suo compito. [...] Questa realtà si riferisce
all’effettività di ciò che, nella preghiera, in quanto preghiera, è rivolto,
innalzato, messo in rilievo e insistenza – per opposizione a tutto il
3. Nancy 2008, 184.
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contenuto mitico e immaginario della religione. La preghiera è rivolta
verso un fuori e lo lascia accadere. Ed è ciò che originariamente fa
la parola. Questo fuori, questo reale, la parola non lo significa, non
lo categorizza né lo concepisce – non lo nomina neppure, a meno
che l’idea stessa del Nome non definisca il bordo finale in cui opera
in verità il ‘lasciar essere’, lo invoca e lo evoca [...]. La preghiera
è innanzitutto adorazione: apostrofe, omaggio, riconoscimento del
fatto che il suo dire si cancella andando verso ciò che dice (e non dirà
mai). 4
Tutte le intenzioni ‘linguistiche’ (filosofiche, poetiche od oranti
che siano) trovano poi un termine comune di riferimento e, dunque,
di commisurazione nella ‘voce’ della musica. D’altra parte, c’è qualcosa di linguistico nella musica: Adorno parla della musica in quanto
sprachähnlich, simile al linguaggio («Musik ist sprachähnlich. [...] Aber
Musik ist nicht Sprache»,5 la musica ha qualcosa del linguaggio, senza
però essere linguaggio), dunque, di ritorno, la musica può diventare
forma d’espressione paradigmatica per il linguaggio verbale. La preghiera è in qualche modo la forma linguistica più musicale, per questo
diventa termine di riferimento per le prassi comunicative non-musicali,
perché è la copia più simile e meno usurata del paradigma della musica.
Che cosa distingue la musica dall’atto di parola? Entrambe le forme
d’espressione hanno a che fare con la ‘cosa’, la vita, l’evento, l’assoluto.
Altrimenti non sarebbero né parola, né musica, ma semplici suoni,
rumori insensati, soffi e schiocchi di lingua. Però il carattere dell’intenzione è differente nell’uno e nell’altro caso, il che evidentemente non è
poco.
Non è importante il lemma che scegliamo per determinare l’identità
della cosa stessa: ‘cosa’, ‘Nome’, ‘vita’, ‘grido’, ‘assoluto’, ‘utopia’, ecc.
Ciascuno sceglierà il suo, secondo le proprie inclinazioni psicologiche
e la militanza intellettuale. Si tratta, in ogni caso, di ciò che sorpassa la
capacità di presa del linguaggio e quella evocativa della musica, perché
è l’ambito da cui l’uno e l’altra provengono, dunque si fa per forza di
cose imprendibile, come per il torrente lo è la polla da cui scaturisce.
Qual è però la differenza tra linguaggio e musica, pur nell’invocazione dello stesso Nome?
4. Nancy 2008, 185-186 e 190-1.
5. Adorno 2003, 254.
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Il linguaggio intenzionale cerca di dire l’assoluto in modo mediato,
e perciò gli sfugge in occasione di ogni singola intenzione, esso
viene abbandonato alla sua finitezza. La musica, invece, lo trova
immediatamente, ma soltanto per far sì che si oscuri, così come
accade che una luce troppo intensa accechi l’occhio e non permetta
di vedere ciò ch’è fin troppo evidente. 6
Si potrebbe pensare che per Adorno la differenza tra la parola e il
suono sia quella tra un’intenzione che fallisce il bersaglio e una musica
che paradossalmente, proprio perché non è fatta di gesti intenzionali,
trova ciò di cui è alla ricerca. La parola è un tentativo di presa che manca
il bersaglio perché vuole centrare intenzionalmente ciò che si sottrae
a ogni intenzione (e la parola non è nient’altro se non intenzione di
un significato, iterabilità dell’eidos oggettivo nel segno che lo intende).
La musica, invece, trova ciò di cui è alla ricerca per il fatto che il suo
movimento verso la cosa non è intenzionale: a rigore la musica non
vuole dire nulla. Dopo l’ascolto di un pezzo per pianoforte è difficile
chiedere: qual è il senso di questa musica? Ovvero, come si faceva una
volta nei cineforum di provincia: qual è il messaggio che ci ha voluto
dare l’autore? Tutti quanti comprendiamo la risposta di Schumann, il
quale, dopo che gli fu chiesto che cosa aveva voluto dire con la fantasia
che aveva eseguito, si rimise al pianoforte e suonò di nuovo lo stesso
pezzo. Eppure questa mancanza d’intenzione non è sufficiente per fare
della musica un’espressione adeguata del Nome. In realtà neanche
la musica centra troppo bene il suo bersaglio. Perché ciò accada la
musicale mancanza d’intenzione dovrebbe essere una chiarezza che
non abbaglia, un’apertura intenzionale che permette di mettere a fuoco
un assoluto che arde invece di un’evidenza eccessiva, e per questo
rimane sconosciuto. Quindi, anche se per ragioni opposte, la musica
condivide con il linguaggio un comune destino fallimentare: tanto
il linguaggio, quanto la musica sono coinvolti in una «Irrfahrt»,7 un
cammino erratico, un vagabondaggio intorno alla cosa del proprio
desiderio.
La differenza non sta nel fatto che la musica troverebbe la cosa che
il linguaggio fallisce, ma nei modi non comparabili del loro fallimento.
L’uno, il linguaggio, attraverso tutti gli sforzi intenzionali di cui è
6. Adorno 2003, 254.
7. Adorno 2003, 254.
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capace, si ritrova infine con la mani vuote di quella stessa sostanza
che l’altra, la musica, afferra in modo cieco. Per via di questa cecità ed
eccesso di vicinanza la musica non ‘è’ la verità della propria scrittura,
non s’identifica con ciò ch’essa pur comprende – che comprende in
modo fin troppo intimo, senza dunque conoscerlo.
Adorno poi sembra correggere ulteriormente il tiro. Non è esatto dire che la musica non è fatta di momenti intenzionali. Piuttosto:
l’intenzione della musica è differente da quella del linguaggio. Quella
musicale è un’intenzione al limite tra intenzione e non-intenzione. La
musica sviluppa un percorso paradossale dell’intenzione; esso s’infrange, s’interrompe e deve nuovamente cominciare, fino a che la sua
Irrfahrt si realizza come risultato di tutte le intenzioni interrotte anziché, così come accade al linguaggio, come somma omogenea di tutte
le intenzioni attuate. La musica è un prodotto di negazioni, di affermazioni soltanto potenziali, e non un’addizione dei termini raggiunti.
«La musica tende a un linguaggio senza intenzione. [...] Le intenzioni
sono essenziali per essa, ma solo nel modo della loro intermittenza.
[...] Il loro insieme non è dello stesso genere che si produce procedendo secondo l’intenzione linguistica. L’intero si realizza contro le
intenzioni»: 8 il dipanarsi del ‘discorso’ musicale, dunque, è anch’esso
intenzionale (è anintenzionale, in realtà, solo in modo liminare), ma
non segue i criteri dell’intenzionalità linguistica. Esso, infatti, non si
sviluppa «secondo quei significati che rimandano senza sosta gli uni
agli altri, ma solo attraverso il loro mortale prosciugamento dentro
l’insieme, il quale salva il significato soltanto allontanandosi di volta
in volta via da esso». 9 Il lampeggiamento, l’interrompersi delle molteplici intenzioni, l’intenzionalità appena abbozzata, e subito sottratta,
della musica prende il posto delle intenzioni positive del linguaggio.
Se quest’ultimo procede secondo il criterio estensivo, cioè in ultima
analisi scritturale, dell’1+1+n, la musica precipita ogni volta l’enticità
di ciascun ‘1’ dentro un insieme, una specie di ‘totalità’ delle funzioni
intenzionali, che agisce immediatamente come negazione di ciascuna
intenzione particolare. Secondo questo tracciato fulmineo, gotico, sempre di nuovo interrotto e ripreso, la musica diventa «configurazione
8. Adorno 2003, 252 e 254.
9. Adorno 2003, 254.
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del Nome»,10 «Anruf des Intentionslosen»,11 appello dell’anintenzionale,
al contrario del linguaggio che è condannato a restare presa inadeguata. L’‘appello’ è il termine che indica la ‘totalità’ in cui le intenzioni
musicali naufragano e, in ragione di questo disastro, pre-sentono il
senza-intenzione del Nome.
C’è un corpo a corpo con la cosa più drammatico e urgente nella
prefigurazione, nel presentimento musicale, di quanto non accada
nell’intenzione linguistica. Potremmo dire – interpretando il pensiero
di Adorno – che la musica è sì, come il linguaggio, intenzionale, ma la
sua intenzionalità non è di tipo corresponsivo, veritativo, non segue
il criterio metafisico della adaequatio. La musica non vuole diventare
forma di corrispondenza alla cosa. Lo spirito della musica capisce fin da
subito che non c’è adeguazione possibile alla cosa per via intenzionale.
Il linguaggio vuole corrispondere alla cosa e non ci riesce. La musica,
invece, non ha mai cercato di corrispondervi, e preferisce configurare,
prefigurare, presentire il Nome attraverso il fallimento di tutte le sue
intenzioni parziali.
Il linguaggio, dicevamo, rimane vuoto della figura del Nome, la
musica, invece, è cieca su di esso. Adorno però sembra non considerare
del tutto simmetriche queste due situazioni. In qualche modo la musica
‘dà più’ del linguaggio. Proprio perché rimane maggiormente passiva
rispetto allo stesso oggetto luminoso, essa è più capace di trascriverne
le radiazioni, è più attiva nel suo risultato. La sua cecità fa sì che il
gesto musicale si lasci invadere dalla marea del Nome meglio di quanto
accada al linguaggio, il quale cerca di compitarlo in modo ‘adeguato’
attraverso l’intenzione e la narrazione.
Ma, insomma, che cos’è mai il ‘Nome’, la ‘cosa stessa’? Che tipo di
fisionomia assegnare – se mai è possibile farlo – all’assoluto dell’utopia,
all’esistenza anintenzionale che noi ‘intendiamo’ (più o meno con
successo)? Senza andare alla ricerca di definizioni troppo squadrate
negli scritti di Adorno – che probabilmente non si troverebbero –
chiediamolo all’adornologo più accreditato, se non altro per il fatto
di essere stato per anni suo persönlicher Assistent a Francoforte, Rolf
Tiedemann. Ecco una definizione sintetica e, mi sembra, precisa:
10. Adorno 2003, 254.
11. Adorno 2003, 255.
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Adorno trova la forza dell’utopia nell’idea di un linguaggio nel quale
le parole e le cose si uniscono senza violenza o riduzione. [...] Una
conoscenza siffatta non assimilerebbe la cosa a sé; [...] essa cercherebbe semmai di farsi simile alla cosa, in un certo senso di imitarla;
di contro al linguaggio intenzionale, significativo, essa dovrebbe far
proprie certe possibilità della mimesi. 12
Il Nome dell’utopia, l’utopia come Nome, è una specie di nome
‘proprio’, un concetto perfettamente adeguato alla particolarità della
cosa, una morphé individuale, una generalità singolare. È soprattutto la
musica a muoversi a tastoni verso questa condizione utopica universalsingolare. Tale capacità configurativa, prefigurativa, della musica non
si capisce appieno se non si colgono alcune caratteristiche della musica
moderna (da Schönberg in poi). Quest’ultima infatti non fa che portare
all’ennesima potenza le possibilità di ‘nominazione’ che appartengono
alla musica in quanto tale. Se la musica è di per sé una trama di intenzioni negative che si tesse come unico Anruf dell’inintenzionabile, nella
modernità tutto ciò si radicalizza, «il linguaggio musicale si polarizza
verso gli estremi: da una parte produce gesti di choc, simili a brividi corporei, dall’altra trattiene in sé, vitreo, ciò che l’angoscia fa irrigidire». 13
Gli choc della musica moderna sono i residui delle intenzioni interrotte
di cui ogni musica è fatta, mortalmente prosciugate dentro un progetto
compositivo che ha ora la qualità della Erstarrung, ovvero dell’irrigidimento angoscioso. L’Anruf della musica diventa nel Novecento il
grido di un’angoscia minerale. Adorno, per definire questo stato di
cose, dice: «la musica spezza le sue sparse intenzioni per mezzo della
stessa forza di quelle, e fa sì ch’esse procedano verso la configurazione
del Nome». 14 La modernità sfrutta la tendenza autodistruttiva delle
intenzioni musicali per sondare il fondo della loro negatività. Più si
prende sul serio la negatività intrinseca delle intenzioni musicali, più
questa negatività diventa esplicito strumento di composizione.
I colpi atonali della musica moderna sono le tracce più evidenti
dell’azione annichilente che la soggettività del compositore fa subire
a ogni intenzionalità significativa. La serie degli choc rappresenta i
traumi dell’esistenza offesa che rovinano la bella consistenza della par12. Tiedemann 1985, 18 e 24.
13. Adorno 1975, 49.
14. Adorno 2003, 254.
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titura, l’opera compiuta, la totalità ‘riuscita’, l’immagine dell’assoluto
già presente, spacciato per un dato positivo:
l’elemento traumatico dell’Espressionismo consiste nella rottura delle cornici armoniche, nell’emergenza immediata del soggetto, che
manifesta musicalmente la propria reale condizione senza coperture
concilianti e senza censure. 15
Il trauma del soggetto reale, portato alla luce, riconosciuto nella
sua serietà e drammaticità, non più censurato dietro l’imperativo alla
conciliazione apparente, disarticola il corpo armonico animato da buone intenzioni. L’organico Klangleib, il corpo-di-suono tutto-senso, il
corpo pieno di intenzioni adeguate ai significati del mondo, esplode
nelle proprie giunture, e a raccoglierne i brandelli rimane la cavità
di un cielo grigio. 16 Possiamo pensare a una superficie dura e liscia
sulla quale scivolano delle gocce. Questa superficie rigata prende il
posto del corpus harmonicum stratificato e in bell’ordine della musica
pre-moderna.17 La superficie è l’angoscia, il piano della composizione, le gocce sono invece i colpi parziali, gli choc sonori che a quella
superficie restano aggrappati. Nella musica pre-moderna l’impianto
armonico funziona come una forma predisposta in cui l’effettività della
materia musicale si dà all’ascolto del proprio riconoscimento, in una
serie di moduli e strutture che riproducono il piano compositivo da cui
discendono. Invece, nella musica moderna la superficie dell’angoscia
(cioè il piano totale della composizione) non è niente di diverso dalla
singolarità dei colpi, dai momenti singolari e dispersi, dai suoni perce15. Serravezza 1976, 221.
16. Lo spazio cavo dell’angoscia può abitare anche la musica pre-moderna, fin nel
materiale musicale apparentemente più conciliato. I primi accordi dell’ouverture
del Freischütz sono un esempio di come la più semplice affermazione della tonalità
di Do maggiore può funzionare in modo più inquietante di come ci aspetteremmo:
«la tonalità di Do maggiore può essere limpida, ma anche neutra: può suggerire
trasparenza, ma anche assenza di ogni colore, una potenzialità di nero. Il salto di
ottava ascendente, da Do a Do, apre un’immensa cavità vuota, in cui tutto è possibile»
(Principe 1998, 101). Nello spazio neutro dell’ottava la limpida integrità del possibile
musicale si confonde con la nerezza del suo impossibile.
17. Corpo il cui fragile equilibrio rischia fin dall’inizio di precipitare in una condizione
di conflitto e nella scomposizione che porta al disordine: «[...] sicut corpus harmonicum
mox destruitur, ubi vehemens humorum discrasia suas habenas laxaverit» (Athanasius
Kircher, Magnes, sive de arte magnetica, cit. in Stefani 1974, 227).
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piti. Questi ultimi si raccolgono in uno spazio che non è stato assegnato
in precedenza (spazio già allestito, rassicurante principio d’ordine che
anticipa il materiale da ordinare, forma a priori, spazio puro, spazio
senza materia, leggi ‘naturali’ dell’armonia). I colpi formano da soli lo
spazio in cui accadono: uno spazio, dunque, il quale non è altro se non
la tensione che esiste tra i momenti parziali e rispetto ai quali esso non
ha alcuna ulteriorità. Nella musica moderna gli «atomi musicali» 18
fluttuano tenuti assieme soltanto dal clinamen dell’angoscia, il quale
non è dunque un elemento terzo, mediatore (un’‘idea’) tra gli atomi,
ma soltanto l’esposizione di ciascuno verso tutti gli altri, il turbinare
atomico stesso.
Il corpo lacerato della musica moderna è uno spettacolo che si
lascia sopportare meglio da un occhio di “freddezza disumana”.19 Ma
questa disumanità rifiuta la vecchia umanità solo perché è speranzosa
in un’umanità nuova. La distruzione degli schemi armonici capaci di
risolvere le dissonanze e preparare ogni passaggio libera la singolarità
degli atomi di suono. Il principio della composizione di cui la musica
moderna è fatta prefigura in questo modo la conciliazione utopica del
particolare e dell’universale, cioè la dizione del Nome. La disumanità
della nuova musica, quella disumanità che, alla distanza di parecchi
decenni, ancora svuota le sale da concerto o i festival, ha in realtà il
significato del cinismo che alle volte si affètta per mascherare il troppo
buon cuore. La vera e propria catastrofe dell’intenzione e della semantica rappresentata dall’avvento della musica moderna, il suo rifiuto di
ogni principio armonico sovraordinato alla singolarità del suono, dice
il contrario di ciò che sembra affermare, è il sintomo dell’urgenza della
conciliazione. La musica moderna pre-sente la conciliazione proprio
nella condizione dell’angoscia.
La coagulazione libera del suono (vera e propria pietra d’inciampo
per i nostri orecchi ‘tonali’, in cammino almeno fin da Wagner e dalla
variazione infinita di Mahler) 20 produce la scomparsa della dinamica
18. Adorno 1975, 39.
19. Adorno 1975, 112.
20. Lo sviluppo continuo, il Durchkomponieren è «il vero principio della musica. [...]
Nelle mie composizioni, sin dall’inizio non si trova nessuna ripetizione al cambiare
delle strofe, proprio perché nella musica è insita la legge dell’eterno divenire, dell’eterno sviluppo; come il mondo: è sempre nello stesso posto, ma sempre diverso, in
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musicale, cioè del pezzo musicale inteso come ‘storia’, vicenda, narrazione che mette in scena un inizio, uno sviluppo e una fine: è qui
che si può cominciare ad apprezzare la distanza sempre maggiore che
la musica prende dai modi del linguaggio verbale. La condizione di
frantumazione cui sono ridotti i singoli ‘colpi’ della musica, il loro
legame incerto, rovina il sicuro dipanarsi del filo del tempo:
il rovesciamento della dinamica musicale in statica [...] spiega il
carattere singolarmente irrigidito che la scrittura di Schönberg ha acquistato nella sua fase più matura in virtù della tecnica dodecafonica.
La variazione, strumento della dinamica compositiva, diventa totale,
mettendo così fuori servizio la dinamica, e il fenomeno musicale non
si presenta più come fatto di evoluzione. 21
La musica moderna rimane forse sprachähnlich, ma sicuramente della Sprache non trattiene la capacità narrativa. L’intenzionalità
propriamente linguistica, per quanto franta e sperimentale, poetica e
dadaizzante possa essere, sviluppa sempre, almeno in embrione, una
qualche funzione narrativa: non solo le parole ‘lago’, ‘cielo’, ‘strada’, i
verbi, gli aggettivi, ma anche le parti del discorso apparentemente più
asemantiche come gli avverbi e le congiunzioni ci predispongono all’attesa di altre parti capaci di corrispondere, di completarle. Preparano
alla tessitura di una coerenza sintattica, nonostante tutte le frustrazioni
in cui l’attesa può incorrere. La dizione musicale moderna, invece,
riesce a essere non solo asemantica, ma anche asintattica. Non dispone
più i suoi elementi secondo quell’ordine che si propone di circondare
la ‘cosa stessa’ per potersene appropriare secondo l’intenzione narrativa. Il principio della variazione ha saturato l’intera composizione.
La variazione non è più la forma di un contenuto, variazione di un
tema, ma è diventata la forma di se stessa, variazione di variazione,
cancellando così il tempo dello svolgimento, distruggendo la sintassi
e la storia. Non c’è più un sostrato tematico cui fare riferimento per
dare un ‘senso’ al susseguirsi delle variazioni. L’ascolto immediato
non avverte più le complicità orizzontali e verticali della partitura.
eterno mutamento e sempre nuovo. (Gustav Mahler, lettera del giugno 1899, cit. in
Fournier-Facio 2010, 623).
21. Adorno 1975, 66.
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Paradossalmente lo sforzo compositivo totale produce all’ascolto un
effetto di non-composizione:
la razionalizzazione integrale di tutti i momenti compositivi, a cominciare dal ritmo, sostituisce l’atto compositivo vero e proprio e
con ciò la libertà del soggetto. In questo senso iniziano anche a somigliarsi musica aleatoria e musica seriale; l’organizzazione assoluta e
l’assolutezza del caso, alla fine, coincidono. 22
L’agitazione furiosa del musicista, la danza un po’ folle della mano
sul pentagramma, fa l’impressione di un gesto paralizzato. L’effervescenza della soggettività utopica precipita in un grado zero dell’intensità. Tutte le possibilità del suono si inscrivono sulla superficie di una
tensione nulla.
Se è vero che uno degli impulsi fondamentali che ci spingono
a parlare è appunto quello di raccontare (raccontare noi agli altri,
raccontare gli altri a noi e a loro stessi), la musica moderna, a fronte di
questa esigenza molto adulta, prende partito per una specie d’infantile
disfonia. La narrazione è una possibilità di frequentare l’utopia (il
modo addizionale-estensivo dell’1+1+n → Nome) di cui la musica
moderna sceglie di non appropriarsi. Alla «promessa narrativa del non
ancora» 23 la musica moderna sostituisce un altro tipo di promessa,
per la quale il pre-sentito diventa non-raccontabile. Scelta che ci può
insospettire, e che difatti perlopiù suscita in noi un rifiuto del tutto
pregiudiziale, se è vero che anzitutto noi affidiamo al dipanarsi di una
narrazione la possibile realizzazione delle nostre speranze e il ‘non
ancora’ ha oggigiorno per noi l’aspetto di un happy ending romanzesco
o cinematografico. Chi può sentirsi raccontato dai Cinque pezzi per
pianoforte op. 23 di Schönberg o dai Cinque pezzi per orchestra op.
10 di Webern? A chi parla questa musica? Di chi parla? In realtà,
così facendo, de nobis ipsis silendo, la musica moderna punta molto
più in alto, sviluppa una super-intenzionalità che trascende il calore
domestico di tutti i nostri racconti. Essa, con la sua anti-narrativa
intersezione di choc e angoscia, sta infatti per dire il Nome, cioè anticipa
la figura senza figura dell’utopia, l’umanità nuova, un’umanità non
raccontabile, oggetto soltanto di presentimento. Anziché affaticarsi a
22. Ophälders 2008, 78.
23. Coupe 2005, 61.
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raccogliere i cocci della biografia la musica compone l’atmosfera in cui
tutte le fiammelle della speranza possano trovare un nuovo spazio per
danzare.
Ciò che tutte le singolarità sonore condividono è soltanto il fatto
di distinguersi, di insularizzarsi le une dalle altre. La generalità diffusa
dell’angoscia coincide con l’assoluta singolarità dello choc. Il differenziarsi di ciascuna singolarità da ciascun’altra diventa la comunità di
tutte. La domanda non è più allora «che cosa la musica mi vuol dire,
ma che cosa mi fa sentire».24 La musica esce dal gioco della rappresentazione e della finzione, non si mette più al posto di qualcosa di assente,
non finge più qualcosa. La musica, piuttosto, diventa quel qualcosa:
la cosa stessa («nicht Noten, Fleisch», diceva ai professori d’orchestra
Carlos Kleiber durante una prova), la cosa dell’utopia. La musica lo è, o
meglio: lo quasi-è, lo pre-sente, lo anticipa. Appunto perché la musica
moderna non è ancora l’utopia. Infatti ciò che tiene insieme i momenti
singolari è esclusivamente il fatto dell’insularizzazione. Le singolarità
stanno assieme in quanto sole. Lo spazio irrigidito dell’angoscia è sì
la forma che non si distingue dalle membra sonore, ma non è vero
spazio comune, non è ancora tò xynòn in cui le singolarità comunicano.
«Comune a tutti è la terra», dice Posidone nell’Iliade, intendendo così
contestare il dominio celeste, ‘trascendentale’, di Zeus.25 La musica
moderna non è sufficientemente ‘terrestre’, non è ancora spartizione
di una comunanza tra le parti, ma soltanto rifiuto della conciliazione
finta, ‘uranica’, tra il singolare e l’universale.
Alla fine anche il glaciale Adorno riconosce le ragioni per le quali
le composizioni della musica moderna non sono soddisfacenti per il
nostro orecchio:
è lecito pensare che la sproporzione dell’espressione, la frattura tra
questa e la costruzione resti ancora determinabile come una deficienza di quest’ultima, come irrazionalità della tecnica razionale: per
la propria cieca legge individuale essa rinuncia all’espressione e la
24. Incisa della Rocchetta e Quarti 2012, 224.
25. Cfr. Fusillo 1986, 141: «ciò che è comune non è l’Uno, non è il divino stesso, che
è piuttosto l’identità, la coincidenza delle cose che l’uomo non può cogliere, ma è il
terreno in comune tra le parti in conflitto, che rende possibile un accordo che non sia
il mero prevalere dell’uno sull’altro. È qui che l’uomo deve stabilirsi, è questo il luogo
della vita pubblica, della polis».
242
Musica, linguaggio, escrizione
traspone nell’immagine mnestica del passato, dove ritiene che si trovi
l’immagine onirica del futuro. Di fronte alla serietà di questo sogno
il costruttivismo dodecafonico si dimostra troppo poco costruttivo,
poiché esso impera solo sul susseguirsi di momenti, senza schiuderli
l’uno all’altro: mentre il nuovo che esso proibisce è la conciliazione
dei momenti singoli, che non gli riesce. 26
Ecco ciò che ancora manca alla musica moderna per poter diventare
Nome, dunque essere l’utopia realizzata: la comunicazione tra i momenti. La musica moderna ha saputo liberare i momenti dall’intenzionalità
totalizzante degli schemi armonici e li ha prodotti in quanto segmenti
staccati, solitari, particolari. Lo spazio irrigidito dell’angoscia in cui
i momenti fluttuano non è nulla di differente dai momenti, ma esso
rimane soltanto spazio d’insularizzazione, campo di macerie. L’unica
espressione che abita la musica moderna è quella dell’angoscia, e si
tratta per forza di cose di un’espressione insufficiente, perché ancora
incapace di dire ciò di fronte a cui l’angoscia è angoscia: l’avvento
dell’utopia. La prassi della musica moderna rimane ferma alla pars
destruens dell’utopia, quella per cui essa spazza via le nostre abitudini
percettive ed esistenziali più inveterate.
I momenti atomici della musica moderna, dunque, non sono ancora aperti gli uni agli altri, non comunicano orizzontalmente. Paradossalmente la superficie irrigidita della composizione, che sta a
significare l’assenza di ogni principio di mediazione, funziona ancora
come una mediazione, una barriera affermata contro l’utopia ch’essa
pre-sente. D’altra parte la sua esistenza è la sola ragione per la quale la composizione non esplode in un naturalistico puntillismo delle
sensazioni.
La comunicazione orizzontale tra i momenti musicali sparsi è l’ipotetica forma adeguata alla singolarità di tutti e di ciascuno. Ma per
ora questa forma manca. La comunicazione orizzontale tra i momenti
diventerebbe immediatamente la conciliazione con la verticalità dell’universale. Appunto perché in quell’istante la dimensione sussuntiva,
verticale-generale, non sarebbe niente di diverso dalla tensione che
vive in quella orizzontale-particolare. Ciascun momento particolare sarebbe allora conciliato con ciascun altro come con la propria legge, e la
26. Adorno 1975, 107.
243
Tommaso Tuppini
legge non avrebbe più nulla di angoscioso. In questo spazio rinnovato,
come diceva Eckhart, «wer ohne Zahl und ohne Menge unterscheiden
könnte, dem wäre hundert wie eins»: le differenze particolari sarebbero
‘uno’, formerebbero un insieme senza bisogno della trascendentalità del
numero, proprio insistendo ciascuna nella sua irriducibile singolarità.
Questa musica inaudita, nella quale i momenti singoli si aprono gli uni
agli altri, è la vera identità del singolare e del comune, il tempo in cui
lo eins è lo eins dell’unterscheiden, l’unità è l’unità della differenza in
quanto differenza. Una prassi compositiva che attraversi il trauma della
musica moderna per farne uscire qualche cosa di nuovo, che realizzi
le speranze della musica, che sappia distillare nuova umanità dalla
propria angosciosa disumanità, tornerebbe a suonarci nuovamente
‘espressiva’. Non certo per via di quel patetismo che ancora cerchiamo,
e senz’altro troviamo, nella musica ficta del passato, nella musica dello
«stile rappresentativo» 27 che simula la gioia, il rancore, l’amore, l’odio,
i moti nascosti della psiche individuale e collettiva, ma per la forza di
un’espressione in cui il suono non finge, ma è ciò che esprime, non rappresenta, ma partecipa del proprio evento. Si tratterebbe di una musica
post-moderna che tornerebbe a farsi ascoltare con qualche misura di
piacere.
È rimesso dunque a una musica dell’avvenire di fare il balzo da
tigre verso una forma dell’espressione in cui la cosa stessa non sia
più la cavità dell’angoscia, ma l’oggetto pieno di cui l’angoscia è l’anticipazione. Nella desertificazione di ogni contenuto, esperienza ed
espressione, di cui la musica moderna si fa testimonianza e, insieme,
diventa responsabile, nella sua angoscia irrigidita dorme pur sempre la
felicità: la «negatività tien fede all’utopia e racchiude in sé la consonanza che vien sottaciuta».28 Quello della musica moderna è anzitutto
un «linguaggio della rinunzia», 29 passo indietro, esercizio ascetico,
presa di distanza dallo spettacolo della conciliazione, che è il preferito oggetto di chiacchiera della distopia reale. Appunto per questo la
musica è preghiera, come dice Adorno, demitizzata, cioè ineffettuale,
anti-magica, senza effetti salvifici immediati: ascoltare questa musica
non rende felici. Tutt’al più prepara alla felicità. La musica moderna
27. Adorno 2003, 252.
28. Adorno 1975, 89.
29. Serravezza 1976, 208.
244
Musica, linguaggio, escrizione
cammina sul crinale tra ciò che le parole dicono abitualmente, nella
loro intenzionalità soddisfatta, che funziona fin troppo bene, con buona
coscienza, e «was die Worte mehr sagen als sie sagen» 30 , ciò che le
parole – senza volerlo – dicono in eccesso rispetto a se stesse: «come
la musica non può garantire l’esistenza dell’altro [das Andere], così il
suono non può dispensarsi dal prometterla».31
Tra i numerosi concetti che Nancy ha creato in questo circa mezzo
secolo di produzione filosofica quello che meglio corrisponde al crinale
utopico su cui Adorno cerca di gettare luce è forse quello di ‘escrizione’
(exscription). Il termine un po’ fa il verso alla Eksistenz di Heidegger,
un po’ alla inscription di Derrida. Ma queste sono osservazioni ‘dotte’ e
poco significative dal punto di vista in cui ci vogliamo collocare adesso.
Non m’interessa fare un’analisi del sangue del lemma. Vorrei invece
vederlo adoperato da Nancy e capire quali possibilità apre all’esperienza
della scrittura. Esso fa la sua prima comparsa nel saggio L’escrizione,
composto nel 1981, compreso nel volume Une pensée finie, e dedicato a
Bataille. 32 Il fenomeno che Nancy chiama ‘escrizione’ significa l’assedio
che la scrittura subisce da parte dello stesso evento cui si rivolge la
preghiera demitizzata di Adorno: «l’eccesso, che tende a spezzare
la scrittura, di ciò che fa la scrittura: vale a dire, di ciò che insieme
l’inscrive e la escrive».33
Nancy mette sullo stesso piano la scrittura e l’eccesso. L’una corrisponde all’altro. Dobbiamo cercare di capire quali sono i fili che
tengono insieme queste due entità che in apparenza hanno ben poco
da spartire. La scrittura infatti, checché ne possano pensare certi professori d’oltralpe, nonostante l’aureola d’eroismo che le è stata data nei
cenacoli decostruzionistici, è qualche cosa di ben poco ‘eccessivo’. La
scrittura ‘ha corso’, racconta storie, si dà e ci dà tempo, ci intrattiene
30. Adorno 1964, 13.
31. Adorno 2004, 154.
32. Non mi occupo qui in modo tematico del rapporto tra Nancy e Bataille. Esso
rimane comunque lo snodo teorico fondamentale per mettere a fuoco in modo adeguato
l’intero pensiero di Nancy. Si capisce ben poco di Nancy se non si leggono i suoi saggi
come un confronto ininterrotto con la speculazione di Bataille (il libro a tutt’oggi più
fortunato di Nancy, La comunità inoperosa, è il corollario di un seminario tenuto su
Bataille filosofo della politica). Ho cercato di dire qualcosa su questo testa-a-testa della
filosofia francese in Tuppini 2012, 175-212 e 305-311.
33. Nancy 1982, 57.
245
Tommaso Tuppini
e non di rado ci dà anche il pane. Non è che si rischi poi molto a
mettersi a scrivere, almeno il più delle volte. Dentro la scrittura spesso
e volentieri ci chiudiamo come in un bozzolo. La scrittura ci fascia e
ci protegge da quei fantasmi che attraverso lo schermo della pagina
riusciamo a esorcizzare e su cui possiamo così cominciare a ‘speculare’.
Però, rispetto al ‘linguaggio’ la ‘scrittura’ riconosce forse con maggiore onestà il destino fallimentare del proprio percorso, la frustrazione
della sua intenzionalità. Il percorso della scrittura si svolge attorno a
degli eccessi, a spazi o tempi che la disorientano, ne mettono in pericolo
la conservazione, che ne sono, insieme, l’origine e il possibile destino
di catastrofe. La scrittura, infatti, muove sempre dalla non-scrittura
verso la non-scrittura. Il filo della scrittura non si dipana senza anche
interrompersi, interrompendosi sullo stesso punto critico da cui viene
fatto svolgere.
Il punto critico ‘inscrive’ la scrittura, cioè permette che essa abbia
una qualche coerenza interna, che abbia corso, che sia ciò che è: tessuto
compatto. Ma allo stesso tempo esso la ‘escrive’, la smaglia, la ‘scrive
fuori’, la manda fuori percorso, la fa uscire dai binari, la manda, in
poche parole, in malora, perché una scrittura che ‘salta’, inciampa, è
già diventata scarabocchio, non-scrittura. La scrittura, ogni volta che si
realizza come scrittura, «comunica immediatamente il piacere e la pena
che riguardano l’impossibilità di comunicare checchessia senza che si
tocchi il limite in cui tutto il senso si rovescia al di fuori di sé, come una
semplicissima macchia d’inchiostro attraverso una parola».34 L’escritto
– ciò che sta fuori dalla scrittura – è infatti quel perimetro di fuoco che
necessariamente circonda la scrittura, la segna, perché diventi possibile
parlare di un testo, di un tessuto integro, di un qualche-cosa di scritto,
anziché di nulla.
Il deragliamento, gl’incidenti di scrittura accadono per il fatto stesso
che si scrive, anche quando si scrive bene, con la massima naturalezza,
semplicità e quiete dello spirito. Però è innegabile che in certe scritture
il fatto dell’interruzione si percepisce con maggior chiarezza: per esempio quando abbiamo fretta, quando avvertiamo con tale urgenza le cose
da dire che, se non ci scoraggiamo anzitempo, se vogliamo comunque
dare corso al tempo della scrittura, finiamo per accumulare le parole in
34. Nancy 1982, 55.
246
Musica, linguaggio, escrizione
modo meno ordinato di come dovremmo. Oppure scriviamo con una
velocità che sorprende noi stessi, perché in realtà vorremmo liberarci
dello strumento della scrittura, vorremmo precipitare tutte le parole di
cui ci serviamo in un gran crogiolo e farle fondere. Fretta, malumore
molto ingenui, senz’altro, perché non prenderemmo notizia di quei
buchi o quei crogioli o quegl’incidenti o quelle ‘cose’ da dire senza i
tracciati ordinati della scrittura. Però si tratta di una fretta e di un malumore incancellabili, che avvertiamo in filigrana dentro tutte le scritture
appassionanti, quelle che davvero ci seducono, e di cui sentiamo la
mancanza in tutta la messe delle scritture accademiche, d’occasione,
pazienti, troppo pazienti, che non hanno saputo farci vedere nient’altro
se non la fede idiota nella propria riuscita. La scrittura che ci interessa
è quella che rischia a ogni passo di confondersi con il fallimento. Ci
interessa la performance della mano che si muove sul foglio come un
equilibrista sulla fune, la scrittura che «procede senza sapere, essa apre
il libro come un taglio ingiustificato nel supposto continuum del senso.
È necessario ch’essa si smarrisca davanti a questo taglio».35
L’interruzione, la non-scrittura, è dunque necessaria all’esistenza
della scrittura, è l’ultima risorsa della scrittura. Ma è certo possibile, in
tanti, tantissimi modi, cicatrizzare troppo in fretta questa ferita, mettere
a tacere la seduzione per la scrittura pericolosa, incidentata, fallimentare, amante del proprio disastro. Ci cauteliamo contro il trauma e le
ferite per esempio dicendo che sono delle finzioni, percezioni isteriche
di un corpo in realtà sano. Accusiamo chi scrive in modo pericoloso di fare come l’apprendista stregone che fa mostra di credere nella
presenza di una realtà esterna davanti agli ectoplasmi ch’egli si finge.
Conclusione molto precipitosa, e alla fine sbagliata. Infatti la scrittura
può essere la ratio cognoscendi della cosa stessa, della smagliatura reale
intorno alla quale si tesse, ma non ne è in alcun modo la ratio essendi:
la ratio nei cui termini la cosa stessa è, non è la medesima ratio nei
cui termini essa è conosciuta. Purtroppo noi tendiamo molto spesso
a sovrapporre i due ordini di realtà. Per questo pensiamo pigramente
che se si prende notizia della ‘cosa stessa’ solo scritturalmente, ciò
vuol dire né più né meno che la cosa è un effetto di scrittura. O tutt’al
più cerchiamo di ‘complicare’ il rapporto tra i due termini parlando
35. Nancy 1982, 60.
247
Tommaso Tuppini
di una fondazione reciproca, per cui non c’è cosa senza scrittura e
viceversa. Oppure crediamo in modo ‘idealistico’ al parallelismo delle
due rationes, senza arrivare a concepire la necessaria divergenza.
Il dialetticismo della quiete (non perché la dialettica sia di per sé
una forma di quietismo, ma perché è possibile declinare la dialettica
in modo quietistico) sostiene l’assoluta equivalenza dell’escritto e dell’inscritto, il parallelismo del dentro e del fuori, dei significati che la
scrittura comunica e delle ragioni extra-scrittuali, non-significative,
che producono i significati: per questo hegelismo accademico non c’è
nessuna differenza tra l’uno e l’altro, l’inscritto e l’escritto, la preghiera e ciò per cui si prega perché comunque – l’evidenza è lampante –
l’escritto è soltanto l’escritto dell’inscritto e l’inscritto è certamente
l’inscritto dell’escritto. Ma alla fine questi giochetti logici non persuadono nessuno: vediamo tutti la sobria verità di quello che abbiamo
appena detto (in ultima analisi non viene detto nient’altro se non che i
processi primari sono un effetto dei processi secondari), eppure la voce
dell’eccesso reclama il proprio diritto a essere ascoltata e non si lascia
zittire dalla nostra logica ‘stringente’. Una differenza, dunque, c’è. La
scrittura:
escrive il senso, essa cioè mostra che ciò di cui ne va, la cosa stessa, la
‘vita’ o il ‘grido’, dunque l’esistenza di ogni cosa di cui si ‘fa questione’
nel testo (ivi compresa, ed è la cosa più singolare, anche l’esistenza
della scrittura) è fuori dal testo, ha luogo fuori dalla scrittura. 36
Per non accomodarci le cose troppo presto e non tradire la nostra
inquietudine va detto che questo fuori-testo, se certo non è qualche
cosa di assolutamente irrelato con l’esperienza della testualità, è comunque un fuori-testo, non un effetto interno del testo, oppure – come
sembrerebbe facile di concludere in modo ancor più perverso e gesuitico – qualcosa come la testualità ‘stessa’, l’infinita dicibilità della
cosa, ecc. L’eccesso di cui parla Nancy non è per nulla un contenuto
scrittorio, e neppure il gesto dello scrivente ‘in quanto tale’: è proprio
non-scrittura. La nozione di ‘non-scrittura’ potrà anche essere un effetto della scrittura, ma la ‘cosa’ della non-scrittura, la ‘cosa’ non-scritta,
non è un effetto, una fantasmagoria dello scrivere.
36. Nancy 1982, 61.
248
Musica, linguaggio, escrizione
L’eccesso extra-scrittorio si rassegna di buon grado a precipitare
dentro la scrittura, cioè si inscrive. Però, se in un certo tempo ho cominciato a scrivere e in futuro smetterò, ciò vuol dire che al contempo
qualcosa si e-scrive, cioè si esenta dal mio gesto di scrittura (non solo
dalle tracce scritte, ma anche dalla gestualità attuale, ‘energica’ dello
scrivere). Escrizione e inscrizione accadono sempre insieme, ma sono direzioni divergenti, non commensurabili dell’esperienza. Bisogna
chiedersi se la complicità, l’equilibrio tra l’escrizione e l’inscrizione, il
dentro e il fuori del testo, la misura e la dismisura possono darsi se,
insieme, non vengono profondamente sentiti lo squilibrio, la discrasia,
la seduzione rovinosa per l’eccesso, e se non è piuttosto questa seduzione, questo squilibrio una condizione di possibilità per l’esistenza
dell’equilibrio e dell’inclusione. Cerchiamo di comprendere come.
Se vogliamo interpretare in modo ‘adorniano’ l’equivalenza tra inscrizione ed escrizione, testo e fuori-testo, misura ed eccesso, dobbiamo
concludere che quest’equivalenza – che si vuole assiomatica – ha un carattere utopico. L’utopia realizzata è fatta dell’assoluta equivalenza tra
il dentro e il fuori, il singolare e l’universale, la presenza discreta, inappariscente del fuori eccessivo nella misura del dentro, l’inclusione già
sempre accaduta di ciò ch’è escluso. Ma spacciare l’utopia per qualcosa
di già realizzato, per una ‘struttura ontologica’, un principio, o cose
simili, è mistificazione. La fede idealistico-accademica nell’equivalenza
tra scrittura e non-scrittura, intenzione e non-intenzione, significatività
ed evento del significato, pretende di aver scovato la realtà del mondo
una volta che ha rivelato la necessità teorica del rimando tra l’uno e
l’altro termine. Invece produce soltanto l’apologia dell’esistente. Essa
dice: là dove pensate a un non-ancora-esistente lo pensate a partire
da ciò che esiste, quindi non vi muovete di un millimetro dal luogo
dell’esistenza già data. In ciò che fate e che dite c’è già tutta la virtù
evenemenziale che potete immaginare. Solo che non la vedete, perché
effettivamente non c’è niente da vedere. Essa già abita la bassura della
nostra esperienza come un dio vestito da mendicante. Se la volete anche vedere ‘in persona’ siete solo degl’ingenui ‘metafisici’. Ma dicendo
così si dimentica che la possibilità dell’esistente, l’esistente in quanto
possibilità integrale, richiede l’eventualità della sua distruzione come
lo sfondo sul quale quell’integrità si disegna. Non è possibile pensare
un tutto senza lo sfondo di vuoto su cui il tutto si rivela. Dunque
l’esistente rimanda necessariamente alla propria non-esistenza, a ciò
249
Tommaso Tuppini
che esso ancora non è: la sua nientificazione e ciò che a essa seguirà in
quanto incomparabile con l’esistente.
Come ogni altra forma d’arte, anche la musica
all’esistenza [...] presta attenzione solo in quanto è in grado di mostrarla nella sua inadeguatezza, di negarne l’assetto immediato, di
far trasparire, dietro la superficie sconvolta del mondo, il suo poter
essere altro. Rappresentando l’esistente l’arte fa così emergere ciò
che attualmente non è, ciò che la realtà dovrebbe diventare. In questo
senso l’arte è utopia, ma utopia che rinuncia a porsi come un positivo:
utopia come luogo dell’assenza, di ciò che dovrebbe essere e non è,
di cui sarebbe blasfemo affermare la presenza. 37
La bella discorsività di un linguaggio sicuro di se stesso – cioè
sicuro che ogni eccesso extra-linguistico non sia altro che una fisima di
cui il linguaggio porta l’intera responsabilità –, il dogma che l’1+1+n
della scrittura esaurisca tutte le possibilità date, ricorda dappresso
il langsam, eins nach dem andern del capitano del Wozzeck, il feroce
compiacimento per il proprio buon senso e il rifiuto sistematico di
ogni accelerazione dell’esistenza. Perché darsi pena per ciò che eccede
la legge scrittoria della successione? Non è possibile distinguere tra
inscrizione ed escrizione, eccesso e misura, passato e futuro. Quindi
abbandoniamo a loro stessi i grilli dell’extra-testualità!
Invece, il grido escritto è ciò che va riconosciuto nella sua polemica
e virulenta non-testualità come la sola culla dell’utopia: «il nuovo è
anelito del nuovo e non il nuovo stesso: questa è la malattia di cui soffre
tutto il nuovo. [...] Il nuovo, quale crittogramma, è l’immagine della
catastrofe [...]. Attraverso un’irreconciliabile rinuncia all’apparenza
della conciliazione l’arte la mantiene salda in mezzo all’inconciliato,
quale giusta coscienza di un’epoca in cui la reale possibilità di un’utopia [...] si unisce, ad un estremo, con la possibilità della catastrofe
totale». 38 Il crittogramma è la scrittura che non dice in modo diretto l’eccesso di cui è inscrizione. D’altra parte, se l’eccesso in quanto
utopia viene crittogrammato (cioè in parte nascosto), esso brilla di
una luce chiarissima come possibilità della catastrofe, come negazione
dell’apparenza della felicità, come assalto distruttore ai monumenti
37. Perlini 2005, 270.
38. Adorno 1977, 56-57 (traduzione leggermente modificata).
250
Musica, linguaggio, escrizione
dell’esistente. L’eccesso escrivibile presenta sempre questi due aspetti:
quello positivo di un’utopia sperata, e quello negativo nei confronti del
presente. La critica del presente distrugge la falsa apparenza della conciliazione, la reversibilità inscritto/escritto spacciata per dato naturale.
Proprio grazie alla sua esibita negatività la musica moderna è utopica
e iconoclasta. Scott Fitzgerald scrisse una volta dei thin tunes, holding
lost times and future hopes in liaison, quelle tenui melodie che fanno
comunicare il tempo perduto e la speranza del futuro. La complicità
tra catastrofe del presente, rifiuto del dato di fatto, tempo che si è
perduto e luminoso destino, futuro della conciliazione, è più stretta di
quanto siamo disposti ad accordare: il secondo, infatti, altro non è che
l’immagine allo specchio del primo.
L’assalto furioso contro gl’idoli della felicità spettacolare e fittizia
è forse troppo amante della ‘cosa stessa’ per saper farne esperienza
in modo adeguato. È senz’altro ingenuo, infantile, poco preparato e
accorto, perché non sa aspettare che la felicità gli piova addosso da
altrove, e preferisce andarsela a prendere. Si tratta però di capire se è
possibile raggiungere la misura e l’equilibrio dell’utopia senza passare attraverso questa dismisura. Anche il Bataille cui Nancy dedica il
saggio L’excrit diceva che non si può fare esperienza della chance (la
sua parola per dire l’evento, la cosa stessa) senza un po’ di malchance,
cioè di hybris, che consiste nella pretesa di portarsi all’altezza di ciò
che accade, acciuffare l’opportunità. Chiamarla, anziché aspettarla.
La malchance è la condizione emotiva di chi non si accontenta della
presenza ‘larvata’ dell’eccesso nel contesto della significatività, ma
vorrebbe presentificare l’eccesso. Atteggiamento senz’altro incongruo,
inadeguato – come si suol dire – perché l’eccesso dell’evento per definizione non può essere schiacciato sulla dimensione del presente, non
può essere appropriato. Atteggiamento che però, al contempo, mostra
una profonda verità utopica: la volontà dell’eccesso-qui-e-ora contesta
il fatto che ogni urgenza si è volatilizzata, che la trafila dell’1+1+n
è l’unica realtà prospettata, che niente mai spezzerà le catene della
necessità, e che va bene così. L’impazienza per l’evento risponde in
modo polemico all’autocompiacimento di un presente senza allarmi
e senza sorprese. Quindi esso è utile da un punto di vista strategico.
Senza un’impazienza quasi programmatica, capace di mettersi in caccia
di ciò che sfugge a ogni presa o trappola, restiamo condannati all’indiscussa e indiscutibile «essenza dell’esistente (ciclo, destino, dominio
251
Tommaso Tuppini
del mondo)», per cui «è confermata l’eternità di ciò che è fatto e la
bruta realtà è proclamata il significato che essa occlude». 39
È un atteggiamento un po’ troppo altezzoso quello di chi si aspetta
una salvezza che gli cada tra i piedi come un frutto maturo. Sicuramente
gli eventi che rompono il continuum dell’esistenza smentiscono le
nostre attese e ci danno sempre più di quanto siamo capaci di chiedere.
Però la sorpresa non sembra essere un fatto neutro, che se ne sta
in panciolle, in posizione di perfetta indifferenza tra il suo possibile
eventuarsi e il suo nascondersi e sottrarsi. Cercandola troppo rischiamo
di farcela scappare, di soffocarla nella nostra presa. Ma chi pratica
l’attesa troppo passivamente, con abbandono, distacco e fiducia nel ciel
che aiuta è, come dice il coro degli anziani nell’Agamennone, «come
fanciullo che insegue un uccello che vola»: alla fine egli stringe fra le
mani l’aria nella quale la sua chance si libra, anziché la chance stessa.
Certo, possiamo già immaginare l’obiezione che può venir mossa a
questo punto en bon déconstructionnisme?: non esiste la chance ‘stessa’,
la chance non ha identità, essa è anonima, clandestina, arriva come il
ladro di notte quando uno meno se lo aspetta, ecc. ecc. ecc. Quindi a che
pro darsi pena sul come poterla effettivamente afferrare? Già il pensiero
di poterla stringere nel pugno è il modo migliore per farsela scappare.
Tutto ciò è molto edificante, pedagogicamente avvertito, lucido, sobrio
e poi è utilissimo per scartare in anticipo ogni pericolosa Schwärmerei.
Insomma: attenzione perché quando si confonde la chance con un
oggetto di volizione il fanatismo sta orecchiando speranzoso, e rischia
di far capolino dietro le migliori intenzioni d’utopia, di essere lui a
sorprenderci, e non l’evento, non la sorpresa, che finisce per essere
super-sorpresa da parte di qualcosa come una presa fascista e suicidaria:
il fascismo, infatti, in tutte le sue forme, comporta in maniera determinante la trasformazione della preghiera e dell’omaggio in un’esaltazione e in un trionfo, in cui si deve elevare e glorificare la totalità
di un corpo collettivo letteralmente invasato e trasportato alla distanza e nella sostanza della cosa adorata. Il fanatismo non è altro che
l’abolizione della distanza intrattabile del reale, e, di conseguenza,
l’estinzione della preghiera e della parola a favore dell’effusione, del
chiasso e della vociferazione. 40
39. Horkheimer e Adorno 1996, 35.
40. Nancy 2008, 193.
252
Musica, linguaggio, escrizione
Il fascismo è il fanatismo dell’eccesso e come eccesso, l’eccesso
dell’eccesso, l’eccesso che non si è già reso equivalente alla misura, il
fanatismo dell’apocalisse: «mit äußerstem Fanatismus diesen schweren
Kampf für die Zukunft unseres Volkes durchzufechten», fu una delle
ultime consegne di Hitler ai tedeschi, che già intravedevano il baratro.
Il fanatismo fascista è la preghiera fin troppo fiduciosa, la preghiera che
non può essere tradita, che non permette al dio cui si rivolge ch’egli
non l’ascolti, la preghiera che crede: ein Credo fu la dichiarazione di
fede del poeta Paul Ernst (lo si ricorda di solito come dedicatario del
saggio del giovane Lukàcs Metafisica della tragedia), il quale nel 1915
chiamava l’avvento di un ‘dio tedesco’ nel quale l’umanità «troverebbe
una religione del solo spirito, che non ha più bisogno dei corpi, delle
forme e dell’espressione, tutta sentimento». (Con queste premesse
non sorprende che, socialdemocratico in gioventù, Ernst abbia aderito
ormai settuagenario al nazionalsocialismo, perché in esso credeva di
riconoscere la venuta del terzo regno, cioè la salvifica scomparsa delle
istituzioni, l’affratellamento in cui l’imposizione delle mani sostituisce
la mediazione dei sacramenti, la preghiera esaudita).
Se nell’intenzione negata della musica c’è sempre un «theologischer Aspekt»,41 bisogna capire di che tipo di teologia si tratta. Adorno
identifica la musica con una forma di preghiera demitizzata, dunque
senz’altro si tratta della forma teopatica dell’invocazione. La teopatia è,
appunto, la forma della preghiera più rispettosa, l’adorazione passiva
che aspetta che la luce del Nome le arrivi ‘da tergo’, che non s’azzarda
una nominazione capace di ‘cattura’ nei confronti del proprio oggetto.
Eppure abbiamo visto che la musica tenta di dire il Nome («tentativo
umano, per quanto vano, di nominare il Nome stesso»), lo vuole configurare, lo prefigura. L’atteggiamento religioso polarmente opposto
a quello teopatico, cioè la teurgia, non prega, ma comanda il dio cui
si rivolge. Bataille distingueva a questo proposito fra malchance (la
cattiva chance, cioè l’hybris teurgica) e divinazione (la buona preghiera
teopatica). Ma è davvero possibile pregare senza la benché minima
traccia di speranza teurgica e congiurante? Se la preghiera – come
sostiene Adorno – è pur sempre un Versuch, ciò non significa forse
che il Nome divino è tentato dalla preghiera proprio mentre essa si
41. Adorno 2003, 252.
253
Tommaso Tuppini
proibisce la sua dizione? E non è la tentazione del Nome divino la
quintessenza dell’atteggiamento teurgico? «Un giorno tenterò la chance», 42 è il proposito disperato di qualcuno che certamente non troverà
in questo modo la chance del Nome, perché la chance è proprio ciò che
non può essere ‘tentato’. Eppure nessuno troverà la chance se almeno
una volta non avrà fatto questo tentativo fallimentare, non avrà cercato
di prendere in contropiede la teopatia dell’attesa.
A un mondo che ha completamente perso la seduzione dell’eccesso
nessun evento potrà ‘capitare’. Di nuovo: la sorpresa non è un fatto
neutro, equidistante tra il possesso e l’abbandono, tra l’atteggiamento
blasé di chi sa che prima o poi tanto la sorpresa verrà, e quindi neppure
la vuole o la cerca, e l’impazienza di coloro che soffrono della sua
siderale lontananza. La sorpresa non se ne sta in inerte equilibrio tra
l’una e l’altra condizione. Essa si è già sempre decisa per una di queste
eventualità: scomparire asfaltata nell’ordinarietà dell’esistente, oppure
esplodere per distruggere l’esistente, e così preparare il nuovo. Il fatto
è che se si colloca la sorpresa, il nuovo, a una distanza uguale dalla
presa e dalla Gelassenheit, pazienza, dall’impazienza e dall’attesa, in
realtà la si è già assegnata all’attesa. Le due metà che si spartiscono il
‘bene’ dell’utopia non sono equivalenti. Come quando si dice che chi
si considera equidistante tra destra e sinistra in realtà sta parlando da
posizioni di destra, allo stesso modo l’equivalenza asserita tra attesa e
impazienza denuncia già una scelta attendista. Invece, per esperire in
modo autenticamente ‘passivo’ la chance, cioè per riconoscerle la sua
eccedenza non misurabile, è pur necessario:
us[are] la cattiva chance [...]. In altri termini, il logorarsi della chance
prodotto dalla cattiva chance, è a volte una chance nell’origine e nel
risultato. Senza dubbio è il segreto della chance: nessuno può trovarla
se non la mette in gioco, nessuno la gioca bene se non la perde..43
La chance sorprende soltanto chi ha vanamente cercato di prenderla. Non c’è pazienza nell’attesa della chance, inscrizione dell’eccesso,
teopatia, preghiera demitizzata, senza l’impazienza della malchance, la
teurgia, la congiura del Nome.
42. Bataille 1989, 102.
43. Bataille 1989, 114.
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Musica, linguaggio, escrizione
Senz’altro la chance va aspettata, non va congiurata, perché la congiura o l’adorcismo della chance hanno la stessa possibilità di successo
dell’imperativo ‘amami!’, cioè nessuna. La chance va attesa. Si tratta
però di capire quale sia il modo adeguato dell’attesa. Un’attesa assoluta non è attesa, ma indifferenza. Essa si è già trasformata – al di là
di ogni intenzione – in apologia dell’arido vero. Un po’ poco per la
filosofia! Dov’è l’eros, dov’è la philia in questa prudenza da artrosi in
stato avanzato? Perché attendere significa appunto sporgersi-verso,
fare la posta, consumarsi dell’intensità dell’attesa, essere improvvidi.
Confondere l’attesa con la quiete vuol dire spacciare un vago lucore
per la combustione del fuoco. Il nuovo sorprende soltanto chi l’aspetta
e – dunque – lo cerca, in qualche modo lo vuole produrre. Un’attesa
adeguata, teopatica, è appunto inscritta nei modi di una teurgia fallimentare, di un utopismo disperato: solo il fallimento della volontà
d’eccesso è capace di produrre la vera pazienza dell’attesa. La pazienza
dell’attesa è il contraccolpo di una congiura teurgica fallita.
Se il tentativo della nominazione del Nome è vano (perché il Nome
non si lascia tentare), ciò significa paradossalmente che la tentazione
dev’essere tentata. Il tentativo è vano, ma è appunto questa vanità a
produrre la distanza dal Nome, dalla sua realtà intrattabile, la distanza
che permette di aspettarlo. Dove si dà a vedere l’intrattabilità della
distanza se non nel vuoto scavato dal fallimento della tentazione?
Non è questa tentazione infelice necessaria anche solo per il potersi
verificare di un’attesa? Dove si darebbe a riconoscere l’impossibilità
della tentazione se non nel destino catastrofico del suo attuarsi, nel
suo verificarsi come fallimentare? L’attesa del Nome, il rispetto della
sua distanza intrattabile, sono misure che si prendono solo a partire
dall’insuccesso dell’assalto teurgico. Cioè dopo le disavventure della
malchance. Solo se questo tentativo ingenuo ha corso, solo se si nutre
la speranza più folle di poter comandare alla chance, la frustrazione di
questa speranza apre al tempo dell’attesa che si dispone a ricevere la
chance da altrove.
Il tentativo di dire il Nome, il lasciarsi sedurre nella maniera più immediata dalla vicinanza del Nome, proprio nella consapevolezza della
propria vanità, produce la giusta distanza di ciò che si scrive, si dice, si
canta, si danza, dal Nome non pronunciato, non cantato, non danzato
proprio perché lo si vuole scrivere, dire, cantare, danzare, qui e ora, con
le nostre labbra, mani e piedi. Alla scrittura – anche alla scrittura della
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Tommaso Tuppini
filosofia – può dover appartenere qualcosa della tentazione luciferina
di cui è fatta una musica non-orante, ma imperativa e congiurante. Se
torniamo con il pensiero al paradigma del confronto tra linguaggio e
musica con cui avevamo aperto quest’intervento, potremmo concludere sostenendo che il linguaggio può essere qualcosa di vitale non
certo perché si fa ‘musicale’, (attraverso chissà quali espedienti d’onomatopea), ma, semmai, perché imita il modo di fallire della musica, il
suo mancare il bersaglio per eccesso di vicinanza e di eros, perché solo
questo fallimento (lo stravolgimento eccessivo dello sguardo verso il
lato eventuale della realtà) prepara una nuova esistenza per la quale
l’equivalenza tra singolare e universale, evento e significato, singolarità e singolarità, può essere una realtà, e non più il sottoprodotto di
un’ideologia filosofica. Il linguaggio non deve correggere lo specifico
carattere fallimentare della propria intenzione, cioè ‘fallire di meno’,
ma, se possibile, fallire di più, cioè appropriarsi anche del fallimento
dell’intenzione musicale, provocato dalla seduzione eccessiva del Nome. Questo fallimento ‘doppio’ è la contrazione sistolica che prepara
la diastole dell’utopia realizzata.
Tommaso Tuppini
Università degli Studi di Verona
Dipartimento di Filosofia, Pedagogia e Psicologia
[email protected]
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