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Recensioni / Reviews
Luca Mencacci, Eclissi dell’utopia urbana
Città Nuova, Roma, 2009, 184 pp.
Antonio Riccio
Potrebbe sembrare
difficile
collocare questo libro di Luca Mencacci in
un definito frame teorico e di ricerca, per le
molte e diverse anime che sembrano abitarlo,
e che stimolano diverse ed immediate
domande. E’ un saggio di sociologia urbana o
di critica letteraria? di ricerca scientifica o
riflessione divulgativa? A quale opzione
metodologica si ispira? ed a chi si rivolge? E
soprattutto: qual’è la tesi di fondo che vuole
dimostrare e come? Probabilmente queste
domande nascono dalla mia curiosità di
lettore, sempre interessato ad “interrogare” il
testo ed i suoi impliciti piani di costruzione.
Le difficoltà a collocarlo in una collana di
studi sociali, invece,
viene dalla mia
formazione di etnografo, cioè di ricercatore
sul campo interessato a cogliere - dal vivo e
dal vero, per così dire - ipotesi interpretative
della realtà urbana a partire dai fenomeni
più ordinari e quotidiani della cultura
metropolitana: i suoi luoghi, le sue pratiche,
i suoi scenari minuti e minori, come gli
esercizi mattutini di Tai Chi a Piazza Vittorio
che trasformano il centro di Roma in uno
scorcio di Pechino, o i mercatini etnici che
riuniscono e rigenerano i legami dei gruppi di
migranti in un mix di odori, colori, lingue,
cibi, socialità, scambi, o le nuove e mutevoli
icone della mendicità
che abitano
metropolitane, marciapiedi, piazze e centri
commerciali. Mi trovo quindi impreparato –
lo confesso - di fronte ai grandi scenari
descritti da Luca Mencacci, come “il trend
globalizzante” che per l’autore sembra
incorniciare “la stagione della seconda
rivoluzione urbana” facendone la “naturale
antagonista dello Stato nazionale oggi in
crisi” letti, od interpretati , senza il sostegno
di fonti dirette o indirette (come nel caso
degli incendi delle banlieue parigine, ad
numero tre
esempio), o di una base documentaria che
sostenga la teoria universalizzante dell’eclissi
dell’ utopia urbana; come se fosse
autoevidente.
L’equivoco, come il testo rivela ben presto, è
dato dal fatto che la tesi dell’autore non è
basata su una ricerca empirica, cioè su una
analisi di
fatti sociali, o sulla loro
elaborazione
secondaria
(sociologica,
economica o storico-culturale),
ma
su
un’ampia, e direi appassionata, analisi critica
ed interpretativa della letteratura utopica e
fantastica. Il mio disorientamento viene
appunto da questa opzione dell’autore a
trascorrere
dalla letteratura socioantropologica (dai Nonluoghi di Augè a La
società sotto assedio di Bauman, a Modernità
in polvere di Appadurai) all’immaginazione
letteraria di una vasta rassegne di opere (da
Fahrenheit 451 di Bradbury, al Moby Dick di
Melville, da Le tour du Monde en Quatrevingts Jours, di Verne al Brave New World di
Huxley, ed al Ninenteen Eighty-Four di
Orwell, per citarne solo alcune) come se
fossero
sostanzialmente contigue e non
appartenenti a due diversi ordini di realtà:
quello
rappresentativo,
fantastico
ed
espressivo
(letterario),
“lontano
dall’esperienza”, come lo chiamo mutuando
una espressione in uso in antropologia, e
quello scientifico, euristico, empirico, “vicino
all’esperienza”.
La mia distinzione, non vuole
essere,
naturalmente,
una
critica
“positivistica” (lontana dalla mia sensibilità
e formazione) ma piuttosto una riflessione
(critica, ma costruttiva) sui livelli di realtà ( e
le corrispondenti forme di riflessione) che
sottendono le analisi critiche dell’autore sul
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“destino urbano” del nostro tempo. Ed è
appunto in questa chiave che vorrei
sviluppare una lettura riflessiva del testo, dei
suoi contributi creativi come dei suoi punti
critici.
un orizzonte critico e tragico, che segna il
rovesciamento ( tutto in progress) dell’utopia
urbana in distopia : ma - sembrerebbe –
come una reale e concreta eventualità
prossima, e non come espressione di un
certo immaginario contemporaneo. Questo
slittamento
dall’orizzonte
narrativo,
immaginativo e fantastico ad un pericolo
reale ed empirico,
consente al testo di
trascorrere con grande leggerezza tra piani
diversi del reale, come in un sostanziale
continuum che spazia e si sviluppa
liberamente
all’interno
di un’ ampia
letteratura, utopica e distopica, ispirata alla
dimensione culturale della vita urbana come
esperienza emblematica umana.
Il libro si muove tra contributi
diversi del pensiero socio-antropologico e
letterario per delineare, così mi sembra, una
parabola declinante del paradigma urbano
eletto ad emblema dell’hybris (tecnologica ed
atea) occidentale.
Questa parabola
discendente, che investe emblematicamente le
città, viene descritta soprattutto attraverso
un’ampia rassegna della letteratura dell’
utopia, intesa come sogno sociale da
realizzare,
che diventa eterotopia, cioè
realizzazione compiuta e normativa di quel
sogno, fino alla sua radicale metamorfosi in
distopia, il rovesciamento del sogno in
incubo. E’ questa una delle ricorrenti e
pessimistiche rappresentazioni
letterarie
dell’urbanizzazione (luogo emblematico
della stessa modernizzazione, tra loro infatti
spesso con-fuse) come fenomeno culturale,
tutto occidentale, che la globalizzazione
sembra voler estendere all’intero pianeta e
che appare suscettibile di molte, diverse e
contrastanti interpretazioni. Tra queste, quella
di Mencacci
propende per la teoria
dell’eclissi
che,
com’è noto, ha una
consolidata tradizione nella letteratura delle
scienze sociali moderne e contemporanee,
con ritornanti previsioni di “tramonto
dell’Occidente”, “fine della storia”, ed altri
orizzonti
apocalittici,
peraltro
(fortunatamente)
ancora distanti dal
realizzarsi.
Gli antropologi culturali
interpretano questo genere letterario come
una produzione intellettuale di tipo
esorcistico più che profetico; cioè come una
denuncia sociale radicale, che impiega il
registro drammatico della fine della cultura
per dar vita a (o auspicare) nuova cultura.
Che mobilita risorse
straordinarie per
riscattare il pericolo della crisi incombente.
Anche lo scenario del rinascimento urbano
contemporaneo, ispirato “ad un umanesimo
ateo”, abissalmente distante (oltre che
temporalmente) dall’umanesimo medievale
cristiano, sembra apparire a Mencacci come
numero tre
Questo tipo di approccio sembra
conferire al testo una decisa vocazione
divulgativa per una storia dell’utopia come
ideale occidentale della perfettibilità del
vivere sociale, che ha trovato nella città , cioè
una costruzione
integralmente culturale
(antropologicamente contrapposta alla natura
del mondo rurale), il suo topos privilegiato.
Ed è proprio quest’ampia analisi della
letteratura utopica, che costituisce, a mio
parere,
il primo, rilevante contribuito
dell’autore. In questo senso mi sembra
possibile ipotizzare dei destinatari ideali di
riferimento,
giovanili e studenteschi,
interessati tanto alle problematiche urbane
che alla loro trattazione letteraria, più che
sociologica, o se volete ad una sociologia
urbana
“mostrata”
o
proposta
(in
un’interessante contaminazione) attraverso la
chiave narrativa. Ma quest’ampio apparato
critico-letterario mi spinge ad ipotizzare
anche un secondo, e più implicito, contributo
dell’autore. Il quale, probabilmente, non ha
inteso pronosticare crisi apocalittiche
imminenti o incombenti su una realtà urbana
planetaria avviata verso destini e sviluppi
assai più diversificati ed imprevedibili
quanto, piuttosto, portarci a riflettere sulla
rappresentazione critica e problematica
contemporanea
del fenomeno urbano,
costantementente in trasformazione.
Mi
spiego meglio: la
vasta rassegna del
panorama letterario proposto da Mencacci,
appare anzitutto un interessante contributo
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divulgativo delle rappresentazioni urbane
che la cultura occidentale ha prodotto e
costantemente produce. Attraverso la erudita
ed approfondita ricognizione di questa
letteratura, infatti, Mencacci
descrive,
mostra, commenta l’immaginario urbano,
moderno e contemporaneo, nelle sue diverse e
contrastanti facce, come esercizio critico ed
autocritico per riflettere sulle forme storiche
del
nostro vivere sociale, commentarle,
tradurle in fantasmi di pericolo e di minaccia
o, al contrario, in immagini di salvezza e di
speranza. In tal modo la letteratura utopica e
distopica funge da campo di prefigurazione,
denuncia, riflessione e sperimentazione di un
vivere sociale, sempre critico, che per
l’occidente è stato storicamente segnato dalla
missione
civilizzatrice
cristiana
di
“redenzione” delle campagne (si pensi alle
“missioni” dei Padri Passionisti) e che oggi
numero tre
propone ai credenti un nuovo ed impegnativo
campo (anche personale) di rinnovamento
per costruire un nuovo orizzonte
di
umanesimo cristiano
che non sia
l’impossibile riproposizione di un passato
idealizzato ma l’elaborazione,
viva ed
originale, di una nuova visione del mondo da
contrapporre all’umanesimo laico ed ateo. Ed
è forse in tal senso che va interpretata la
mancanza di una
riflessione,
anche
provvisoria, che comunemente “conclude”
un testo, magari nella forma (più appropriata)
di un lampo d’utopia, cristiana questa volta,
capace di rischiarare il buio pessimistico
dell’eclissi urbana atea con un messaggio di
speranza e di ricerca (cioè di impegno
scientifico, attivo) che, credo, ogni lettore
partecipe avverte ed attende, come bisogno
cognitivo ed orizzonte culturale di riscatto.
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