leggi - Liceo Classico Dettori

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Fred
L'autunno a Londra non è dei più caldi, ma ci sono momenti in cui non si bada alla temperatura e si ha bisogno
di uscire di casa velocemente, prima di soffocare. Le manovre di emergenza, si sa, portano con loro delle
vittime. La spallina destra del vestito di Federica si era scucita, così come la maggior parte delle perline che ne
rivestivano il corpetto. Era successo tirandolo fuori dalla sacca che lo conteneva, che aveva giaciuto per più di
cinque mesi all'interno di una cabina armadio. Sarebbe stato impossibile sapere il numero delle tante cabine
armadio in cui era effettivamente stato conservato quel vestito negli anni precedenti, essendo esso stato
fabbricato negli anni venti o giù di lì. Era vintage, e uno dei preferiti dell'attuale proprietaria. Anche per questo
non le importava il fatto che si fosse un po' rovinato, ne aveva viste tante, e presto ago e filo avrebbero posto
rimedio al problema. Aveva davvero bisogno di uscire, in realtà. Si era svegliata di colpo quella mattina e un
cicalino le aveva cominciato a suonare per la testa, facendosi sempre più forte. Era, per l'appunto, frutto della
sua immaginazione. Era solita soffrire di attacchi di panico ma gli allarmi fantasma non erano (fino ad allora)
stati inclusi nel menù. Si era vestita e senza un filo di trucco o un colpo di spazzola, si era precipitata a
passeggiare a passo lento per i marciapiedi deserti. Le strade di Marble Arch le avevano sempre concesso un
rifugio sicuro per fuggire dalle sue paturnie, ma quel giorno sembrava ci volesse più tempo per digerire il brusco
risveglio. Federica veniva dalla Sardegna, e si era trasferita a Londra senza apparente motivo, inseguendo una
fantasia imprecisa e vaga che la ossessionava sin dall’infanzia. Il suo mestiere era scrivere libri per bambini,
storielle con una morale più o meno chiara che facessero sorridere, ricche di personaggi bizzarri frutto di deliri
momentanei. Il primo l’aveva pubblicato quando aveva diciassette anni e non si era più fermata. Era una
passione. A ventiquattro anni continuavano a fruttarle abbastanza da permettersi di pagare l’affitto, con l’aiuto
dei suoi genitori, ovviamente. Non le sembrava corretto affermare di essere una scrittrice, ma in fondo era
consapevole di esserlo, e di avere talento.
Era ormai a Londra da quattro mesi, e aveva già pubblicato una raccolta. Ne aveva pronte altre due, in realtà,
ma l’editore era ancora in cerca di qualche disegnatore a cui commissionare le illustrazioni. Federica aveva
molto tempo libero lì, e lo trascorreva per lo più scrivendo, o girando per i mercatini. Il primo giorno in cui era
arrivata si era sistemata nel suo appartamento, felice di essere là, piena di aspettative, di propositi. Il giorno
seguente aveva fatto colazione da Starbucks con un caffè extralarge, fatto un giro, scattato qualche fotografia
come una turista, consapevole di non esserlo. Aveva pranzato da McDonald’s, aveva usato una delle tipiche
cabine telefoniche, dato da mangiare agli scoiattoli del parco e comprato una custodia leopardata per il suo
iPod. Le settimane seguenti erano trascorse lentamente scandite da acquisti inutili, lunghe telefonate coi suoi
parenti e amici di Cagliari e giri a vuoto per la città, incontrando sguardi ostili e vaghi. Federica era
tremendamente timida. Era la sua pena, la sua tortura autoinflitta involontariamente dall'inizio della sua vita.
Aveva paura di essere di troppo, di risultare appiccicosa, di risultare distaccata, di risultare estrema, forse anche
noiosa. Paura di essere giudicata. Per questo aveva imparato a guardare oltre le etichette con qualunque
persona incontrasse, a rimuovere i giudizi. Per questo motivo non le importava se la sua migliore amica che
viveva in Italia si ubriacava e cominciava a raccontare storie senza senso, o forse con più senso di quanto si
potesse immaginare al momento. Alcune le aveva trascritte, ma una in particolare se la portava sempre in
borsa, o infilata sotto la manica della giacca. Parlava di una ragazza che sopravviveva bevendo solo limonata, e
se avesse smesso di berla sarebbe morta in poco tempo. Il ricordo della sua migliore amica seduta a terra che
raccontava incespicando la storiella più bizzarra che avesse mai sentito era ancora nitido, fresco come il vento
che le sferzava in faccia quella mattina e le gettava indietro i capelli biondi annodati fra loro. Nella fretta,
uscendo di casa, aveva fatto in tempo ad afferrare una pila di polaroid. Raffiguravano lunghe spiagge sabbiose,
persone che si tuffavano da alte scogliere verso acque limpide come poche altre, passeggiate sui ciottoli, palme,
sole. C'era lei con un vestito bianco attillato che si sistemava il sandalo rientrando alla villa al mare dei suoi
genitori dopo una notte in compagnia dei suoi amici. C'erano lei e sua madre che dipingevano le pareti della
stanza del suo fratellino, quando aveva quindici anni. La sua migliore amica e il suo ragazzo in posa davanti a un
nuraghe. Si sentiva così lontana da quelle memorie, in quel momento. Trasferitasi a Londra, aveva cominciato
presto a sentirsi inadeguata, a sentirsi di troppo. La testa le si era riempita di paranoie tanto che si era fatta
nuovamente sopraffare dalla timidezza. Si era aggrappata ai ricordi degli anni passati per convincersi di non
essere patetica. Si riproduceva in mente scene felici come fossero vecchi filmini di vacanze, e quelle fotografie la
aiutavano. Era sempre stata convinta, fino ad allora, di odiare l’isola in cui era cresciuta. Pensava che la macchia
mediterranea fosse solo un antiestetico misto di erbacce e fiori disgustosi, pensava che il caldo imperante fosse
fastidioso e che il dialetto fosse qualcosa di atrocemente villano. Ora non ne era per niente certa, anzi, sarebbe
stata pronta a sostenere tutto il contrario, ad ammettere il fascino della sua terra. Varcando i cancelli di Hyde
Park, si sentì un cliché. Una leggera ragazza che si rendeva conto della bellezza di qualcosa solo dopo averla
abbandonata. Avrebbe preferito che sotto i suoi sandali ci fosse la sottile sabbia bianca del Poetto, rispetto al
gelido asfalto inglese. Il paesaggio pareva ghiacciato, come se qualcuno c'avesse rovesciato sopra una granita
alla menta. Uno scoiattolo attraversò rapido il viale sfrecciando, in cerca di noccioline. Provò una certa empatia
per quella creatura. Non sapeva bene perché. Probabilmente era soltanto per la mancanza di sonno, oppure
aveva davvero bisogno di una clinica. Una di quelle dove si viene sottoposti a strane terapie di gruppo, dove ci si
siede in cerchio e si racconta ognuno qualcosa di sé. Decise che la sua passeggiata sarebbe finita lì, non perché
non le sarebbe piaciuto andare più avanti, ma soltanto perché i piedi cominciavano a dolerle. Improvvisamente
si sentì vuota e fragile, come un bicchiere di champagne dimenticato su un tavolo alla fine di una festa, solo
nella grande sala buia.
Tornò a casa e chiuse la porta a chiave. Il suo appartamento era delizioso, le pareti bianco avorio e i mobili
italiani. Non era quello che si definisce una reggia in fatto di grandezza, ma per contenere una sola persona,
benché con tanti libri, era ideale. Attraversò il salottino, facendo ingresso nella sua caotica camera. Al di sopra
della testiera del suo letto, sul muro, figurava una scritta, ed era la primissima cosa che si notava appena si
faceva ingresso in quella stanza, ancora prima dei bellissimi quadri dipinti da sua madre o della preziosa
macchina da scrivere antica sulla scrivania. Diceva “London is beautiful, and complicated”. Londra è bella, e
complicata. Era ciò che le aveva detto il suo ex ragazzo, prima che prendesse al decisione definitiva di partire. Si
erano lasciati da amici. Lui aveva sempre detto di condividere la sua curiosità e la sua voglia di viaggiare, ma
dentro di sé l’aveva odiata per averlo lasciato solo. Così per ricordarlo in modo vagamente tenero aveva scritto
la sua frase sul muro, l’aveva fotografata e gliel’aveva spedita. Da quel giorno intrapresero una fitta e frequente
corrispondenza, che sempre restava sull’amichevole e mai virava sul romantico. Federica serrò con foga ogni
tenda tanto da non far trapassare neppure il più sottile spiraglio della più pallida luce di Londra. La luce di
Londra. Si sarebbe ubriacata del sole della Sardegna, ne avrebbe abusato come una turista tedesca. Il cielo
grigio, invece, la riempiva di sconforto. Una volta che tutte le finestre furono sigillate, si spogliò e si infilò sotto
le coperte. Tirò fuori una mascherina per gli occhi dal suo comodino. Spense la luce, se la infilò e dormì. Venne
inglobata dal buio del suo appartamento, si sentì sprofondare dentro qualcosa di più grande, che la consolava e
la cullava. Si dimenticò perfino che se avesse tolto quella mascherina di Harrods, costatale venti sterline in
saldo, la vista del mondo reale le avrebbe fatto scattare di nuovo quel cicalino nella testa. Architettò ore di puri
e intensissimi sogni, vaghi quanto realistici. Riprovò sulla sua pelle il sole caldo della spiaggia di Santa
Margherita, sentì le labbra del suo ex sfiorare le sue, si innamorò di figure indistinte che profumavano di mare e
di argilla secca. Visitò luoghi che erano rimasti nascosti nell'anticamera della sua memoria per lungo tempo. Un
fresco e cupo bosco in montagna, la sensazione umida e granulosa insieme dei corbezzoli in mano. Infine sentì
le carezze dell'acqua che le scivolava trai capelli spostandoli avanti e indietro, senza fermarsi mai. Il ricordo si
mescolava all'estasi. Quando si svegliò si rese conto di essere asciutta nelle mani, sulla bocca e con la pelle del
viso secca. Si alzò in piedi e passò diversi minuti a fissare la sua immagine riflessa nello specchio. Aveva il viso
riposato ma triste, e un desiderio vorace di caffeina. Non si ricordava nulla dei suoi sogni, ma aveva tutte quelle
sensazioni ancora fresche in testa, come un tatuaggio appena fatto contornato da pelle arrossata. Come
quando abbiamo appena conosciuto una persona e ci è impossibile ricordare il suo viso, ma facile risalire alla
sensazione che provavamo parlando con lei. Si decise a uscire, erano le cinque del pomeriggio. Attraversò
nuovamente Hyde Park, stavolta con delle scarpe più comode, fino a raggiungere la sua caffetteria preferita, che
sicuramente avrebbe saputo assicurarle un risveglio al gusto di cioccolata calda e panna. Si era cambiata d’abito
prima di uscire, aveva lasciato sul letto il vestito della mattina, con la promessa di farlo sistemare al più presto, e
aveva indossato qualcosa di più caldo e pesante, ma comunque stravagante. Poggiò gli occhiali da sole sul
tavolo e chiese alla cameriera la cioccolata che prendeva sempre. Nonostante Federica mangiasse almeno una
volta al giorno in quel locale, l’oca che ci lavorava non si ricordava mai di lei e non le rivolgeva mai un sorriso.
Priva di distrazioni si mise a rivalutare tutti i motivi per i quali aveva desiderato trasferirsi in Inghilterra e ne
trovò parecchi buoni. Adorava tutto di Londra, e nonostante gli ultimi mesi fossero stati un disastro, la colpa
non era di quella città. Aspettando la sua cioccolata, pian piano realizzò quale fosse la ragione dietro a quel
cicalino che aveva fatto irruzione nella sua testa nel mezzo della notte.
Si era sempre immaginata, in tanti dei suoi sogni ad occhi aperti, seduta in un classico pub londinese con
poltrone di pelle bordeaux e boccali di birra altissimi, mangiando fish and chips, con un gruppo di amici
divertenti e vivaci dai tipici lineamenti britannici. Aveva quell'immagine chiara come se fosse un ricordo, invece
non era mai successo. Si sentiva sola. Si era attaccata, così, a delle frivolezze che una città come Londra poteva
offrirle. Aveva cominciato a collezionare oggetti vintage, a comprare vestiti su vestiti, a mettersi calze spaiate e
truccarsi un occhio in modo diverso dall'altro per non realizzare quanto si sentisse sola. Aveva fatto della
memoria degli anni precedenti, dei loro momenti felici, il suo scudo contro l’ostile nuovo mondo in cui si era
trapiantata. Nonostante la proteggesse, quella barriera di ricordi e di sensazioni impresse nella mente la isolava
completamente. Si era trasformata in una misantropa. E non era l’unico motivo delle sue paturnie: la verità era
che se si nasce e cresce in un posto stupendo come la Sardegna è difficile lasciarla andare del tutto, anche se si
pensa di odiarla.
Così, liberatasi di tutto ciò che la turbava e di tutte le sue piccole difficoltà di percorso, come si fa con un paio di
scarpe logore e vecchie, Federica aveva trovato una nuova strada. Quella cioccolata segnò un rito di passaggio.
La soluzione era portare un po’ del calore della Sardegna, in giro per i gelidi marciapiedi di Londra. Doveva
aprirsi, come era stata in grado di fare in passato. Doveva riprendere il controllo, scongelarsi, riscaldarsi e
asciugarsi, come si fa con un maglioncino che è stato a lungo sotto la pioggia e a cui dopo si passa sopra il getto
caldo del phon. La giornata seguente fu carica di eventi, come aveva sperato.
Amava la galleria d’arte TATE Modern come pochi altri luoghi di Londra. Non era mai capitato che nessun posto
la ispirasse così tanto. Trai quei corridoi e quegli ampi spazi che ospitavano quadri e sculture moderne e
contemporanee si articolavano e prendevano forma molte delle sue storie. Le piaceva scrivere lettere ai suoi
amici dal bar della galleria, era stimolante. Inoltre il lusso di aggiungere “Mi trovo al TATE Modern in questo
momento” a ogni sua lettera era irrinunciabile, così come quello di scrivere dalla caffetteria del museo delle
cere. In una delle tante lettere che riceveva dalla sua migliore amica, una in particolare le consigliava di
conversare con qualcuno al TATE perché supponeva potesse essere frequentato da disegnatori o illustratori, il
che avrebbe fatto al caso suo e del suo editore. Aveva procrastinato la sua missione in cerca di un artista fino a
quel giorno, quando ebbe la carica giusta per piastrarsi i capelli, indossare un nuovo vestito per la prima volta,
truccarsi decentemente e prendere un autobus sino alla sua galleria preferita. Ed eccola là, dandosi un tono
sofisticato, carica di speranze davanti a un impressionante scultura di vetro che occupava una stanza intera. Era
una domenica mattina e molti giovani avevano scelto il suo stesso passatempo. Prima di sfoderare alcune delle
battute che si era preparata per piantare il seme di un discorso con loro, decise che si sarebbe concessa una
colazione al bar. Scese al piano inferiore fino alla caffetteria e si sedette al bancone. Attirò l’attenzione di una
cameriera piccola e graziosa con la faccia farinosa a causa del troppo trucco che si era spennellata.
- Un cappuccino medio, grazie. – le chiese sorridendo, e poi aggiunse – non è che per caso sei una disegnatrice?
Era la prima volta da mesi che riscopriva il piacere di fare domande agli sconosciuti. La cameriera rispose
gentilmente.
- No, mi dispiace. – ricambiò il sorriso – però, se ti può aiutare, ho servito il caffè a James Bailey pochi minuti fa.
E’ il disegnatore di vignette di NME Uk. Mi sembra che ora si sia diretto verso la sezione “Idee e Oggetti”.
Indossa una polo verde militare.
Il viso di Federica si illuminò di speranza e di gratitudine verso la più gentile londinese con cui avesse mai
parlato, che si era rivelata anche un’utile risorsa. Una volta consumato il suo ottimo cappuccino, si mise sulle
tracce di James Bailey. Nonostante non sapesse come era fatto e non conoscesse il suo nome, amava le vignette
del giornale per cui lavorava. Erano degli acquerelli divertenti e spiritosi che le capitava spesso di leggere. Salì
nuovamente le scale, di corsa questa volta, e cominciò a vagare con disinvoltura attraverso la sezione “Idee e
Oggetti”, come le era stato indicato. Prestò attenzione a ogni singola polo maschile che vedeva, anche se per il
momento non ne aveva notata nemmeno una color verde militare. D’un tratto la sua attenzione fu rapita da
una nuova opera che non aveva mai osservato prima di allora. Occupava un’intera stanza adiacente a quella in
cui si trovava in quel momento. Era composta di tanti piccoli oggetti metallici argentati: posate, piattini, ciotole,
piccole pentole, tazzine da tè. Erano stati pressati e appesi a sottilissimi fili invisibili che li facevano pendere dal
soffitto e ondeggiare impercettibilmente a poca distanza da terra, tutti allo stesso livello. Era talmente
d’impatto che la incantò, e non si rese conto che qualcuno alle sue spalle l’aveva sfiorata nel tentativo di leggere
il nome dell’artista. Si girò di scatto, colta di sorpresa dalla distrazione profonda in cui era immersa. Si trattava di
un bel ragazzo, capelli corti e scuri, molto più alto di lei, con un taccuino in mano, ma il dettaglio più
entusiasmante era la sua stropicciata polo verde militare. Cercò di mascherare lo stupore aggiustandosi con
noncuranza gli indomiti ciuffi di capelli che evadevano dal resto dell’acconciatura. Rivolse al ragazzo un sorriso
spigliato e lui ricambiò salutandola con la mano.
- Ti piace quest’opera? – chiese lui, con un tono di voce modulato per quando si parla ad una sconosciuta.
- Moltissimo, la trovo ipnotica. – rispose, senza smettere di guardarla.
Non sapeva perché avesse scelto proprio quell’aggettivo. Forse aveva fatto come i poeti, aveva usato la prima
parola che le suggeriva la mente. Da quel momento le sembrò di vivere la scena di un film.
- Non sei inglese, vero? – chiese, lui.
- No – ammise lei – in realtà sono Italiana, vengo dalla Sardegna.
Il ragazzo ci pensò un attimo e poi sembrò avere un lampo di genio.
- Oh, sì! Sardegna. Ho sentito che è un posto magnifico. Ci sono delle belle spiagge, giusto?
- Non soltanto – lo corresse lei, sorridendo.
- Sono James – proseguì lui, stringendole la mano.
- Mi chiamo Federica.
- Di cosa ti occupi, Fred?
Le piaceva come nomignolo. Le ricordava Colazione da Tiffany, la protagonista chiama Fred l’uomo di cui era
innamorata.
- Scrivo libri per bambini – rispose orgogliosamente – e tu, invece?
- Illustratore.
E soltanto in quel modo, le sembrò di non essere più a Londra. Le parve che dalle enormi finestre della stanza
filtrasse il caldo sole della Sardegna.