Allegati - L`ospite ingrato
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Allegati - L`ospite ingrato
Allegati Di Vittorini Un garofano tra due poetiche Cesare Pavese Manifesto di solidarietà degli intellettuali italiani Omaggio a Elio Vittorini Le sette di sera “Il Politecnico”, un discorso aperto Da “Politecnico”a “Ragionamenti” 1954-1957 Ma esisteva Vittorini? In memoria di E.V. Bibliografia degli scritti di Fortini su Vittorini Che cosa può l’uomo: Uomini e no, “Milano Sera”, 30 agosto 1945; poi in Saggi italiani, Bari, De Donato, 1974, pp. 252-4, ma escluso da F. Fortini, Saggi italiani I, Milano, Garzanti, 1987. Allegria di affamati, “Avanti!”, 23 maggio 1947, p. 3. Un garofano tra due poetiche, “La Fiera letteraria”, 4 luglio 1948, p. 5. Elio Vittorini e “Le vie degli ex comunisti”, “Avanti!”, 15 settembre 1951, p. 3; poi in F. Fortini, Dieci inverni (1947-1957). Contributo ad un discorso socialista, Milano, Feltrinelli, 1957, pp. 174-9; II° ed.: Bari, De Donato, 1974, pp. 201-8. Che cosa è stato il “Politecnico”, “Nuovi Argomenti”, 1, marzo-aprile 1953, pp. 183-200; poi in F. Fortini, Dieci inverni cit., pp. 39-58; II° ed.: Bari, De Donato, 1974, pp. 59-79. Astuti come colombe, “Il Mondo”, 5, 1962, pp. 29-45; poi in “Verifica dei poteri”. Scritti di critica e di istituzioni letterarie, Milano, Il Saggiatore, 1965, pp. 65-89; 2° ed., Milano, Il saggiatore, 1969, pp. 66-86. Omaggio a Elio Vittorini, “Terzo Programma”, 3, 1966, pp. 143-152. Vittorini o dell’impegno, “Il confronto”, luglio-settembre 1966, pp. 12-4. Alla fine, “Rendiconti”, 15-16, luglio 1967, pp. 276-8. Le sette di sera, in Questo muro, Milano, Mondadori, 1973, p. 58; poi in F. Fortini, Una volta per sempre, Torino, Einaudi, 1978, p. 311. Per un mancato editoriale del “Politecnico”, “Studi novecenteschi”, 5, luglio 1973, pp. 275-81; poi in Questioni di frontiera, Torino, Einaudi, 1977, pp. 237-44. Rileggendo Uomini e no. Berta, Enne Due e Giacomo Noventa, “Il Ponte”, XXIX, 7-8, luglio-agosto 1973; poi in F. Fortini, Saggi italiani cit., pp 254-68, n.e.: Saggi italiani I, Milano, Garzanti, 1987, pp. 272-87. Elio Vittorini, in I classici italiani nella storia della critica, a cura di Walter Binni, III, Firenze, La Nuova Italia, 1974, pp.695-732; poi in I protagonisti della storia d’Italia, Milano, CEI, 1975, vol. II, pp. 177-90. “Il Politecnico”, un discorso aperto. Intervista di Corrado Stajano a Franco Fortini, “Libri Nuovi”, VIII, 1, gennaio 1975, pp. 1-2. Alla fine del “Politecnico”, “Il manifesto”, 28 settembre 1975, p. 3; poi raccolto in F. Fortini, Disobbedienze I. Gli anni dei movimenti, Roma, Manifestolibri, 1997, pp. 94-7. Da “Politecnico” a “Ragionamenti” 1954-1957, in Gli intellettuali in trincea. Politica e cultura nell’Italia del dopoguerra, a cura di S. Chemotti, Padova, Cleup, 1977, pp. 13-8. Tre ricordi per Vittorini, in Questioni di frontiera, Torino, Einaudi, 1977, p. 244-7 Ma esisteva Vittorini ?, “L’Espresso”, 4, 2 febbraio 1986, pp. 84-6. Una sponda a Parigi per “Il Politecnico” di Vittorini, “Il manifesto”, 23 novembre 1990, p. 6, poi in F. Fortini, Disobbedienze II. Gli anni della sconfitta, Roma, Manifestolibri, 1998, pp. 148-52. In memoria di E. V., in Composita solvantur, Torino, Einaudi, 1994, p. 18. Di Vittorini * I Uomini e no Ancora un altro contrasto tra il pessimismo cristiano che vede il lupo nel cuore dell’uomo, e l’ottimismo della lotta che spera vedere la vittoria. Enne 2 muore di questo contrasto. Almeno tre motivi: la guerra civile, Enne 2 e Berta, lo Spettro (lo “storico”) che dice “io” nei corsivi. Vittorini è forse un moralista lirico, che rapiscono ora le immagini ora gli interrogativi etici. Rapito in una concitazione dolente e profetica; il suo punto cruciale è quindi in quei monologhi lirici in corsivo, nell’impossibilità di staccarsi (di spengersi) nel personaggio, in un altro romanzesco. Il romanzesco è invece tra Enne 2 e Berta: l’antica storia di Tristano che crea a se stessa gli ostacoli e si distrugge, secondo lo schema d’una tradizione mitica che nega, col solo suo porsi, ogni psicologismo. Asociale: perché non ha altro esito che una catastrofe, e lima intanto le forze del combattente. È il simbolo di quel che in Enne 2 (e in Vittorini?) repugna alla realtà obiettiva: la sua disperazione, letteralmente il suo non sperare (non volere?) che Berta torni, che la lotta finisca e la liberazione sopraggiunga, qui e ora. La sua metafisica. “Perché ha lasciato la penna e presa in mano la pistola?”. E Vittorini risponde nella sua Nota: “C’è nel mio libro un personaggio che mette a servizio della propria fede la forza della propria disperazione d’uomo”. E aggiunge: “Si può considerarlo un comunista? Lo stesso interrogativo è sospeso sul suo resultato di scrittore”. Ora, a noi non importa, qui, rispondergli: benché ci sembri che marxismo sia dialettica e storia; altro, quindi, dall’eternità della passione, dall’eternità dell’inverno milanese; dalla “ fede” nella quale persuaso sprofonda Enne 2; e da quel chiedersi angoscioso se sia nell’uomo “quello che noi, di quanto essi (i fascisti) fanno, non faremmo”; in un uomo astratto, dunque. Si direbbe che Enne 2, da buon moderno, abbia letto un Marx interpretato da Sartre. Dal loro punto di vista hanno ragione i gappisti che vivono la cronaca della lotta, a dire: “Nessuno dei nostri deve lottare con disperazione”. Ma il terzo elemento, la guerra civile, gli attentati? Vittorini ha avuto la giusta preoccupazione di sfuggire alla cronaca e allora la lotta contro i tedeschi e i fascisti è diventata quasi una fantomatica eterna lotta, un eccidio impassibile, una quotidiana riprova della condizione umana. Pretesto tragico, contro il quale proiettare Enne 2, lo Spettro e i loro monologhi sulle brande degli alloggi * F. Fortini, Che cosa può l’uomo: Uomini e no, “Milano Sera”, 30 agosto, 1945; poi in F. Fortini, Saggi italiani, Bari, De Donato, 1974, pp. 252-4. 250 Fortini–Vittorini clandestini. La lotta in sé, la realtà della crudeltà, non pone questioni nel cuore dei personaggi, o appena di passaggio, tanto è accettata come inevitabile. Le domande (tutto il libro è un martellare di interiezioni e di interrogazioni) son poste dalla voce dello storico, che interviene, commento ad ogni quadro, antifona periodica. Persino il mondo dei nomi propri cede e sfuma di fronte ad una onomastica d’invenzione: lo Sbarbatello, eccetera. Perciò i tre elementi del libro faticano a comporsi in armonia; e siccome questa non può esser data, qui, né da una psicologia né da una vicenda romanzesca, ma solo da una concorde violenza di espressione, vi avranno questa funzione gli stilismi sintattici. Si tocca così la trama stessa di questa prosa. Ogni volta che le sarà demandato dall’autore il compito di coprire i passaggi incerti o di battere un tam-tam d’allucinazione, svelerà le sue debolezze, nell’andatura tra biblica e nietzschiana dei versetti, nelle litanie di ripetizioni, in certo procedere esclamativo, patetico o sentenzioso, dal fiato grosso. Ma quando, a soccorso di quegli stilismi, si pongono le potenti invenzioni di Vittorini; quando insomma il suo neo-espressionismo (o moralismo lirico, come abbiam detto) si concreta in verità visive (le più pure del libro) o in formulazioni tutte mentali come aforismi, allora queste pagine suonano come una musica d’alto compianto, un fermo canto funebre. Appartengono alle prime il fantasma invernale di una Milano di macerie e sole che è forse la più profonda e la più creata immagine del libro; i dialoghi dei cani; le ombre nel rifugio di San Vittore; tutto il bellissimo fugato finale, con la corsa delle due camionette sulla pianura; e soprattutto le pagine centrali, dal cap. LXIX al cap. LXXX, con Berta al parco, il vecchio e i poveri, il ritorno con Enne 2, e le montagne viste da corso Sempione. Alle seconde, le domande su che cos’è e che cosa può l’uomo, che fanno groppo al cap. CIX. In queste e in quelle, una scrittura gotica, mai allentata, faticosa semmai; un rovello puritano; una scrittura ben lontana dalla felicità di un mondo dove “ la vita degli uomini sia più seria e ognuno sia libero di fare che sia più seria”. C’è in Vittorini una passione, violenta e quasi fredda di violenza e volontà, che fa sí non sia possibile cavarsela, da questo libro, con la superiorità sufficiente di chi si limiti a denunciarne debolezze, disorganicità e diseguaglianze, né con l’effervescenza delle facili seduzioni; e vi vedremo volentieri un libro di passaggio, un liberarsi di motivi (e magari di ossessioni: ricordiamo un suo racconto di bestie notturne che pare prefigurare “Cane nero”) che han dovuto solo aspettare per defluire, certe sollecitazioni di pratica didascalica e un irresolubile caso di coscienza (dalla penna alla rivoltella). Se Conversazione in Sicilia aveva potuto far sospettare che Vittorini non ne sarebbe uscito, Uomini e no è una via di uscita e di sviluppo, se mai Enne 2 e lo Spettro giungano a parlare con una voce unica. Allegati 251 Un garofano tra due poetiche * Vittorini stampa ora, editrice Mondadori, un romanzo (Il garofano rosso) scritto undici anni fa, pubblicato in parte su “Solaria”, vietato allora dalla censura; e delle vicende esterne ed intime di quel suo libro discorre in una quarantina di pagine di prefazione. Lo storico o il cronista della nostra prosa contemporanea potrebbe esercitarsi a situare quest’opera nell’ambiente che l’ha vista nascere, quello di “Solaria”. Ma a noi, in verità, la data di nascita o di pubblicazione di questo libro non importa gran che. Ossia, importa soltanto come a lettori della bella e importante prefazione che appunto (annunzia un avviso) non può esser pubblicata separatamente dal romanzo. Certo, è gran cosa che un libro giovanile resista alla lettura dopo tanti anni e mutamenti. Perché il Garofano ci sembra un buon libro. Ci son dentro, tentati, i motivi del Vittorini che tutti conoscono, della Conversazione, di Uomini e No, del Sempione ( e dello Zio Agrippa che la “Rassegna d’Italia” finisce di stampare a puntate): la violenza dei dialoghi concitati, l’uso del tam-tam, l’onomastica e la toponomastica cifrate, la funzione leggendaria del paesaggio, l’ironia, la contingenza politica. Il romanzo è una storia d’adolescenza intorno a un nome (la fanciulla-ombra Giovanna) e l’amore di una prostituta (“signora” Zobeida), ma sbaglierebbe chi credesse perciò di trovarsi fra mano un saggio di psicologia romanzata dell’età ingrata, con relativa confusione di sentimenti. Direi che questo motivo è, anzi, il solo mutuato da un ambiente letterario imbrogliato di psicologismi, la Firenze dove Elio si rimescolava in quegli anni (questo l’ha ben detto Del Boca, su di un giornale di Torino). Sembra che l’autore abbia voluto far violenza al suo argomento: il libro é pieno di dialoghi in gergo scolastico, di paesaggi coloratissimi, di personaggi e figurine, di preoccupazioni e scarti innumerevoli. Ne vien fuori un centone bizzarro, scombinato e molto vivo. Si sente che Vittorini “parte” giusto, con un suo gusto del caos che è gusto di vita ricca, con la capacità di stonare audacemente fra comico e patetico, fra ragionamento e inno, e ha legato l’impasto dei suoi libri, fino a oggi. Naturalmente, in un libro come questo (che è davvero una grossa esercitazione, anzi una serie di esercitazioni a fuoco) non è possibile far restare in mente se non dei frammenti, alcuni dei quali fra i più belli di Vittorini, pagine di paesaggio fitte di ellissi e di ritmi stretti o quel visibile primo “andar in camera” con la Zobeida. Carlo Bo ha scritto che Vittorini, a ogni libro, riparte da zero; e, in un senso, è vero se si accetta (ossia se si sente) quel che dice nella prefazione: cioè che ogni libro è, per lui, il libro, l’assoluta scrittura della verità. Eppure questo Garofano dimostra quanta con- * F. Fortini, Un garofano tra due poetiche, “La Fiera Letteraria”, III, 26, 4 luglio 1948. 252 Fortini–Vittorini tinuità e coerenza ci sia nell’opera di questo nostro scrittore, in quell’accettare, senza false vergogne, formule tecniche, trucchi, falsetti, gerghi, pur di costruire una certa immagine della verità. Diversi i libri di Vittorini; ma, in ciascuno, è il massimo dei rischi che viene corso, il rischio della massima falsità della letteratura, (il “melodramma”), dei più astratti furori stilistici. Poi, siccome lo scrittore Vittorini è una “natura”, succede che il libro, se non tutto, almeno in gran parte, si salva trionfalmente e festosamente, sul filo della tangente. In nessun altro scrittore italiano d’oggi è possibile vedere a occhio nudo una tanto straordinaria barricata di ideologismi e di poetiche interposta fra temperamento e pagina e in nessun altro la riuscita è tanto esplosiva, proprio e appunto per quel rovello, per la sfrontata imprudenza di quei programmi, per la tensione, accesa in ogni frase, anche se non si debba dire (come taluno fa, polemicamente) che è il suo libro migliore tra calcolo e grido. Insomma il Garofano non ci sembra affatto un libro da dimenticar presto. Certe sue parti hanno l’aria e il sapore di tante pagine più recenti e accettate. E poi bisogna dire che, nella prefazione, Vittorini si sbaglia forte applicando ai propri libri quel giusto criterio selettivo fra romanzi psicologico-veristi (“recensione” di personaggi e di sentimenti) e romanzi-poesia ossia “opera in musica”. Che questi due atteggiamenti si siano in lui succeduti, come programma e anche come piacere o dispiacere dello scrivere, come premeditazione o abbandono alla scrittura ; e che per lui il Garofano e parte di Uomini e No e dello Zio Agrippa siano da considerarsi libri inclinati al primo atteggiamento e gli altri invece al secondo e perciò più amati, più validi, più tutto, più veri insomma – nessun dubbio. Ma, per chi legge, le differenze non sono così forti come paiono all’autore quando fa lo storico e il critico di se stesso. Le concessioni di Vittorini al “romanzume” nel senso di psicologia veristica sono assai meno avvertite dal lettore, tanto forte è il diavolo stilistico che deriva il nostro scrittore verso un certo suo bollire della fantasia e della invenzione melodrammatica. Fatta questa osservazione non resta che consigliare la lettura della prefazione. È un discorso sul romanzo, sul suo deviare e sperdersi della primitiva funzione di includere nella sua forma quanto rimaneva ormai fuori della poesia lirica tradizionale, sulle sue possibilità di essere ancora una congerie, una sintetica unità espressiva, un “ poema” come il Chisciotte e Le Anime Morte. Vittorini vi parla, appunto, della storia del romanzo e della sua decadenza odierna; e, di passaggio, giudica in poche parole, di autori italiani e stranieri, moderni e antichi. È uno di quei saggi che voglion essere e sono testimonianza di quanto afferrano; scritti perciò, con la medesima densità e voglia d’eco di una pagina di romanzo, senza l’ombra della pedanteria, come gli scritti sulla letteratura americana. Naturalmente, le pagine scritte in questo modo pagan pedaggio a una certa forma di personalismo, di esibizionismo, magari. Vittorini, così come dice Allegati 253 “io” in ogni libro, dice “io” anche in queste pagine, drammatizza i suoi casi, i suoi anni, le sue esperienze letterarie, con degli atteggiamenti da “puro folle” che possono seccare anche i suoi amici. Ma non è questo, davvero, che conta. Qui conta la verità delle cose che Vittorini si dice, la forza delle sue opinioni, tanto più penetranti delle prudenti certezze di molti critici. Le pagine sulla funzione dello scrittore e sulla sua responsabilità di fronte alla verità; quelle sul melodramma; quelle sulla propria personale felicità di autore, ci sembrano degne di essere lette con molto rispetto e considerate per quello che esse ci danno, di energia, di chiarezza. Ancora una volta un libro di Vittorini (romanzo e prefazione; ma sopratutto la prefazione) è carico di una profonda fiducia nella vitalità e ricchezza degli uomini, nella possibilità di moltiplicare in noi e fuori di noi l’esistenza màs hombre. Libri positivi, nei quali anche la disperazione ha un senso nuovo. Si capisce allora che Vittorini tenga tanto al suo Sempione che strizza l’occhio al Fréjus (chi scrive ne scrisse come di un libro importantissimo, veramente critico per la nostra prosa) e alle possibilità delle sue invenzioni subconscie. Possiamo allora non vedere, o dimenticare, i gesti e le bizze formali che urtano non pochi, per essere grati, come a franco consiglio di amico, a queste parole che certo non sono facili al loro autore e che sono, a tutt’oggi, la più energica rivincita sulle nostre ombre. Una rivincita e una energia “letterarie” che fanno davvero tutt’uno con le persuasioni “politiche” di Vittorini. E qui non è forse inutile notare come, quasi a dispetto dei suoi giovani imitatori (con quanta pena essi maneggiano le formule che egli ostenta con tanta strafottenza), la sua autorità non sia legata alla moda della resistenza o alle fortune delle “sinistre”. Chi voleva fare, del suo modo d’essere nella cultura, una escrescenza postbellica, deve ben ricredersi. Conversazione in Sicilia, Vittorini ha pur potuto scriverla “da solo”; ma prefazioni come questa al Garofano non si scrivono che in comune con degli amici e dei compagni, con un lembo, visibile o invisibile, di società volontariamente realizzata nella resistenza dei suoi componenti. 254 Fortini–Vittorini Cesare Pavese * Le 27 août 1950, à Turin, dans la chambre d’un hôtel, l’écrivain Cesare Pavese se suicidait en absorbant une vingtaine de cachets de somnifère. La nouvelle fit une très forte impression. Les motifs du suicide et la personnalité de l’écrivain firent l’objet d’une longue polémique dans les journaux et les revues. Près du corps de Pavese on trouva un exemplaire des Dialoghi con Leucò, celui de ses livres qui avait suscité le moins d’interêt dans la critique. Sur la page de garde il avait tracé ces mots: “Je pardonne à tous, et je demande pardon à tous. Ça va comme ça? Ne faites pas trop d’histoires”. Pavese était né en 1908 dans un petit village du Piémont et appartenait à une famille modeste. Il fit ses études à Turin où, en dépit du fascisme, les milieux intellectuels et ouvriers maintenaient vivant le souvenir de Piero Gobetti (directeur de “Révolution libérale”), et d’Antonio Gramsci, le plus important des penseurs marxistes italiens, emprisonné en 1926 et mort en 1937. Pavese obtint son diplome de “laurea” en lettres en soutenant une thèse sur Whitman. Pendant quelque temps il enseigna dans les écoles du soir et fit des suppléances. N’étant pas inscrit au parti fasciste, il ne fut jamais nommé professeur titulaire. En 1930, il commença à collaborer à la revue “La Culture” dont il eut même la direction pendant un certain temps. Ses articles étaient des essais sur la littérature américaine: Lewis, Anderson, Lee Masters, Melville, Dos Passos, Dreiser, Faulkner. En même temps il commençait son travail de traducteur, s’attachant aux oeuvres de Lewis et Anderson; il donna entre autres une traduction magistrale de Moby Dick de Melville. C’est un travail qu’il ne devait plus abandonner: il traduisit successivement en italien deux romans de Dos Passos, le Benito Cereno de Melville, deux livres de Gertrude Stein, le Dedalus de Joyce, Moll Flanders de Defoe, David Copperfield di Dickens, Le Bourg de Faulkner. Durant ces années d’études marquées de quelques rares amitiés, il écrivit une série de poésies très éloignées par leur style de celles de ses contemporains: on y trouvait tous les thèmes qui allaient être par la suite ceux de son oeuvre de narrateur, enfance paysanne, rapport entre ville et campagne, ruse et ascèse virile, attrait et tout à la fois répulsion sacrée pour le sexe et le sang, amour rude et sympathie fraternelle pour les filles du peuple, les ouvriers, les maçons, les vagabonds, les prostituées, sentiment profond du paysage agricole et des mythes de la préhistoire. * “Les Temps Modernes”, 87, Janvier-Février 1953, p.1089-94. L’articolo di Fortini è seguito dalla traduzione di alcuni passi del Mestiere di vivere, dovuta a Michel Arnaud, pp.1095-1140. Nel testo qui pubblicato sono state omesse le traduzioni in francese dei titoli dei libri di Pavese. Allegati 255 En 1935, il fut arrêté pour antifascisme; il dut subir dix mois de confinement dans une bourgade de Calabre. L’année suivante il publia ses poésies sous le titre Lavorare stanca. Mais ce n’est qu’avec son premier roman Paesi tuoi, écrit en 1939 et publié en 1941, que la critique s’avisa qu’un nouvel écrivain était né. Depuis ces années-là, y compris durant la période de la guerre, il fut l’un des principaux animateurs et directeurs de la maison Einaudi qui se fonda alors à Turin. Fidèle à des recherches et à des lectures auxquelles il s’adonnait depuis de nombreuses années, il conçut et dirigea après la guerre une collection d’études religieuses ethnologiques et psychologiques (publication de textes de Frazer, Durkheim, Lévy-Bruhl, Kéreny, Jung, Propp, etc.). L’année qui précéda sa mort, il travailla longuement à une édition de l’Iliade, en collaborant avec le traducteur. Paesi tuoi est le bref récit, écrit à la première personne, d’un ouvrier turinois qui, à sa sortie de prison, va travailler à la campagne, où il assiste à une histoire trouble d’obscures jalousies et de mort. Le livre fit grande impression par l’intensité de la recherche stylistique – transcription en un langage haché et dense, d’un fond dialectal – et par l’énergie du raccourci. On y sentit la leçon des romanciers américains, mais plus encore celle de Verga. L’année suivante, un autre roman, bref lui aussi, La Spiaggia, puis plus rien, jusqu’en 1946, année où parurent un recueil de nouvelles et de textes divers, Feria d’Agosto, et un roman ouvertement politique, Il Compagno, où l’antithèse ville-campagne est transposée dans les termes Turin-Rome. La même année, Pavese publiait son livre le plus secret et le plus jalousement conçu, une série de dialogues entre personnages mythologiques Dialoghi con Leucò, où ses méditations sur le mythe, sur la mort et sur l’Éros sont traduites en une forme lucide et austère. On y devine l’homme qui indiquait comme ses narrateurs préférés Hérodote et Gianbattista Vico. La critique salua chaleureusement une autre de ses oeuvres, Prima che il gallo canti, éditée en 1949 et composée de deux récits, l’un écrit dix ans auparavant: Il carcere, sur le souvenir et l’expérience du “confino”; l’autre, La casa in collina, rédigé sous forme de journal d’un intellectuel pendant la Résistance. L’un et l’autre laissent apparaître le sentiment angoissant d’impuissance à l’action, sentiment que Pavese partagea avec grand nombre d’intellectuels de sa génération, et qu’il a eu le mérite d’amener à une implacable lucidité morale. Dix mois après la publication des deux récits de Prima che il gallo canti, Pavese publie trois courts romans groupés en un volume sous le titre La bella estate. Le premier qui donne son titre à l’ouvrage est un récit qui met en scène peintres et modèles; et une jeune femme s’y perd peu à peu et se corrompt profondément pour n’avoir aspiré qu’à une maturité faite de indifférence et de désespoir. Le second récit, qui est de 1948, Il diavolo sulle colline est un récit 256 Fortini–Vittorini complexe des rencontres et des heurts qui surviennent entre un groupe de jeunes étudiants de province et un milieu de la haute bourgeoisie qui s’infligent réciproquement d’amères expériences. Le troisième, Tra donne sole (1949) est certainement l’une des meilleures oeuvres de Pavese. Il se déroule dans la société bourgeoise de Turin après la guerre et fait vivre des intellectuels ambitieux et mondains, des peintres médiocres. Des jeunes femmes ayant une vie sexuelle ambiguë sont en quête de réalité et d’authenticité, partagées entre le cynisme et le besoin d’amour. C’est une femme d’origine populaire qui parle. Par son propre travail elle est arrivée à pénétrer dans ce milieu et le juge, hors de tout moralisme, du haut de sa fidelité à soi-meme. Le livre se conclut par le suicide d’une jeune fille dans un hôtel de Turin. Troublante préfiguration du suicide de l’auteur. La critique fit un accueil très favorable à ce livre. Le long travail littéraire de Pavese, tenace et poursuivi dans la réserve et la solitude, commençait à porter ses fruits. A ce moment même, un amour qui porte dès le debut les marques tragiques d’une grave épreuve, vient bouleverser ce travail acharné. Ce n’est pas par hasard qu’il s’agit d’une jeune Américaine, actrice de cinéma, qui semble être le symbole d’une réalité et d’un climat moral vers lequel l’auteur est attiré par des sentiments intenses et contradictoires. Le Journal permet de deviner les alternatives de cet amour, mais bien vite la passion aboutit à un échec que d’autres échecs sentimentaux avaient déjà annoncé et prefiguré. (Il aimait répéter: “Il n’y a pas de première fois – la première est toujours une seconde fois”). C’est la révélation d’une plaie inguérissable, et l’idée du suicide qu’il avait presque oubliée pendant ses années de travail plus assidu revient avec une extrême violence. Ce sont des mois de travail intense et fébrile. A ses préoccupations professionnelles et littéraires venait s’ajouter un engagement politique fort exigeant. Pavese avait reçu la formation libérale de l’antifascisme de Croce, éloignée du marxisme et de la tradition socialiste. Il entra au parti communiste après la guerre (bien qu’il n’ait pas pris part à la Résistance) parce que sa conception de la culture comme travail, de la technique comme moralité, rejoignait la lutte communiste des marxistes contre la spontanéité anarchiste et romantique de la culture bourgeoise. Mais bien qu’il accomplît ses devoirs de militant, il avait toujours affirmé, et particulièrement en matière de critique littéraire, une indépendance ouverte à l’égard des positions les plus orthodoxes de la politique soviétique; et il l’avait exprimé à plusieurs reprises jusque dans les colonnes de la presse du parti. Dans ce sens, ses écrits (rassemblés dans le volume posthume La Littérature américaine et autres Essais) contiennent des indications précieuses pour l’étude des devoirs qui incombent à l’intellectuel et à l’ecrivain dans une societé qui s’oriente vers le socialisme. Il n’était d’aucune façon homme public, mais précisément en raison Allegati 257 de cette ascèse de la volonté qui le faisait vivre, il n’avait pas participé à la débandade générale des intellectuels communistes italiens, bien qu’il ne fît aucun mystère des jugements sévères qu’il portait sur certains aspects de la vie du Parti. Il était en contact avec un groupe d’intellectuels qui avaient été parmi les dirigeants du mouvement de la gauche chrétienne, entrés ensuite au Parti communiste, et qui poursuivaient la voie toute particulière de leur spéculation philosophique destinée à aboutir en 1952 à une abjuration totale du marxisme et à une soumission au Pape. Une revue naquit: “Culture et Réalité”, après la longue période de vide qui avait succédé à la revue “Politecnico” de Vittorini, nous l’avons saluée comme une nouvelle possibilité de discussion dans le cadre de la culture des gauches italiennes. Le premier numéro de la revue sortait à Rome, en avril 1950, avec des articles de Pavese et son nom figurait parmi ceux du comité de rédaction. Simultanément paraissait un ouvrage qui est peut-être son chef- d’oeuvre: La luna e i falò. Nous lisions alors, le coeur serré, une prose transparente et déchirante, parcourue par une indicible désespérance. C’est l’histoire du retour symbolique au pays de son enfance de l’orphelin émigré tout jeune en Amérique, la lente découverte des événements de la guerre civile qui l’ont bouleversé et celle encore plus douloureuse de la vaine répétition des existences. La matière littéraire que Pavese avait longuement et douloureusement élaborée avait trouvé une expression achevée. Pavese se sentait “vidé”, “comme un fusil après le coup parti”, et plus atroce encore était l’absence de la personne aimée pour laquelle, surtout, l’oeuvre achevée aurait eu un sens. Il sentait qu’il avait atteint le faîte de son existence. Au début du livre figure une citation du Roi Lear, “Ripeness is all”, passée à Melville, et puis à l’American Renaissance de Mathiessen, le critique américain qui s’est donné la mort précisément en avril 1950, et sur lequel Pavese avait écrit un essai. Dès lors Pavese se prépare au suicide. En juin, il reçoit un témoignage littéraire et mondain de succès: le Prix Strega lui est attribué justement par les hommes de lettres de ce milieu romain qu’il connaissait bien, ayant vécu à Rome en 1943 et 1945. Mais la mort le talonne. Il écrit quelques poèmes d’amour émouvants, désespérés et naifs, adressés à la femme lointaine et publiés après sa mort. L’été vient, implacable été italien qui fait le désert dans les villes. La guerre de Corée éclate et avec elle le sentiment d’une catastrophe imminente. Vers la fin de juillet, dans “Rinascita”, revue mensuelle du Parti communiste, paraît un article anonyme, mais évidemment inspiré d’en haut, et qui tonne une condamnation méprisante de “Culture et Réalité”. Le conflit avec les autorités du Parti semble inévitable (bien que, pendant les mêmes journées, les rédacteurs turinois de la revue se soient consacrés avec zèle à la collecte des signatures pour la paix). Pavese a fermé son Journal, y a placé les dates (1935-1950). Il traverse 258 Fortini–Vittorini les plages encore grouillantes, se rend à Bocca di Magra où sont quelques-uns de ses amis, camarades de travail de la Maison Einaudi, et entre autres ce Vittorini avec lequel il lui est si difficile d’établir un rapport humain, mais qui, lors des lointaines années de leur découverte commune de la littérature américaine, avait commencé son oeuvre littéraire avec une passion analogue de nouveauté. Mais la gaîté distraite de ces vacances n’est pas faite pour lui. Il part, erre à Rome pendant quelques jours, revient à Turin, répond à un ami qui lui propose de l’emmener à la montagne: “Ceux qui m’aiment n’ont qu’à rester là où je suis”: Il quitte la maison de sa soeur avec laquelle il vit, monte les degrès d’un hôtel de sa chère ville de Turin. Dans le désir d’interpréter les mobiles du suicide, les communistes ont accentué le motif sentimental, les anticommunistes celui de la crise politique. D’autres ont vu en lui une victime de la “troisième guerre mondiale”, d’autres encore ont parlé de simple neurasthénie. Maintenant, à deux ans de distance, la lecture du Journal – quatre cents pages d’une écriture lucide où, tout en monologuant sans cesse avec soi-même, Pavese ne cite presque ni événements ni personnes – révèle le noeud psychologique: c’est surtout l’impossibilité essentielle de communication humaine qui est à l’origine du propos longuement délibéré de la mort volontaire. Cette volonté de ne pas exister et de se résumer en un geste n’était-elle pas, peut-être, à la base de la personnalité de Pavese? En 1936, à la gare de Turin, alors qu’il rentrait du “confino”, il tomba évanoui en apprenant la nouvelle du mariage d’une femme qu’il avait aimée: cet épisode ne semble-t-il pas avoir été son premier suicide symbolique? Ce journal, boudé par la critique italienne, nous impose une révision de la physionomie de Pavese. Les formules employées pour le definir, y compris celle qui a voulu faire de lui un stoique et un héros de la volonté, semblent inadéquates devant l’extreme lucidité critique dont témoignent ces pages. Si sa mort a résonné pour beaucoup comme l’écho d’un avertissement et d’un exemple, son oeuvre littéraire et sa figure sont maintenant étudiées et aimées en raison même de la richesse de ses contradictions et de l’énergie morale qu’il a déployée, aussi longtemps qu’il a pu, pour les dominer. Cesare Pavese Il 27 agosto 1950, a Torino, in una camera d’albergo, lo scrittore Cesare Pavese si suicidava ingerendo una ventina di pastiglie di sonnifero. La notizia fece un’impressione vivissima . I motivi del suicidio e la personalità dello scrittore furono oggetto d’una lunga polemica su giornali e riviste. Accanto al corpo di Pavese venne trovata una copia dei Dialoghi con Leucò, il libro che aveva suscitato meno interesse nella critica. Sul risguardo, Pavese aveva scritto queste parole: “Perdono tutti e chiedo perdono a tutti. Va a finire così? Non fate troppe storie”. Allegati 259 Pavese era nato nel 1908 in un piccolo paese del Piemonte e apparteneva a una famiglia modesta. Aveva studiato a Torino dove, malgrado il fascismo, gli ambienti intellettuali e operai tenevano vivo il ricordo di Piero Gobetti (direttore di “Rivoluzione Liberale”) e di Antonio Gramsci, il più importante pensatore marxista italiano, imprigionato nel 1926 e morto nel 1937. Pavese conseguì la laurea in lettere con una tesi su Whitman. Per qualche tempo insegnò nelle scuole serali e fece delle supplenze. Per mancanza d’iscrizione al partito fascista , non fu mai nominato professore di ruolo. Nel 1930 cominciò a collaborare alla rivista “La Cultura”, di cui ebbe anche la direzione per un po’di tempo, con saggi sulla letteratura americana, Lewis, Anderson, Lee Masters, Melville, Dos Passos, Dreiser, Faulkner. Contemporaneamente cominciava il lavoro di traduttore, con le opere di Lewis e Anderson; tra l’altro tradusse magistralmente Moby Dick di Melville. Era un lavoro che non avrebbe più abbandonato: tradusse poi due romanzi di Dos Passos, Benito Cereno di Melville, due libri di Gertrude Stein, Dedalus di Joyce, Moll Flanders di Defoe, David Copperfield di Dickens, Il Borgo di Faulkner. Durante questi anni di studi, segnati da rare amicizie, scrisse una serie di poesie di stile assai diverso dai suoi contemporanei; vi si ritrovano tutti i temi che sarebbero stati in seguito della sua opera di narratore: infanzia campestre, rapporto città campagna, scaltrezza e formazione virile, attrazione e repulsione sacra per il sesso e il sangue, amore rude e simpatia fraterna per le ragazze del popolo, gli operai, i muratori, i vagabondi, le prostitute, sentimento profondo del paesaggio agreste e dei miti della preistoria. Nel 1935 fu arrestato per antifascismo; dovette subire dieci mesi di confino in un paese della Calabria. L’anno seguente pubblicò le sue poesie dal titolo Lavorare stanca. Ma fu solo col suo primo romanzo, Paesi tuoi, scritto nel 1939 e pubblicato nel 1941, che la critica s’accorse che era nato un nuovo scrittore. Da quegli anni in poi, compreso il periodo della guerra, fu uno dei principali animatori e dirigenti della casa Einaudi, fondata allora a Torino. Fedele a ricerche e letture coltivate da parecchi anni, ideò e diresse dopo la guerra una collana di studi religiosi, etnologici e psicologici (edizione di testi di Frazer, Durkheim, Lévy-Bruhl, Kéreny, Jung, Propp, etc.). L’anno prima della morte aveva lavorato a lungo a un’edizione dell’Iliade, collaborando col traduttore. Paesi tuoi è il racconto breve, scritto in prima persona, d’un operaio torinese che, uscito di prigione, va a lavorare in campagna, dove assiste a una storia torbida di oscure gelosie e di morte. Il libro fece grande impressione per l’intensità della ricerca stilistica – trascrizione, in un linguaggio spezzato e denso, d’un fondo dialettale – e per l’energia dello scorcio. Vi si sentì la lezione degli americani ma più ancora quella di Verga. L’anno successivo un altro romanzo, anch’esso breve, La spiaggia, poi più nulla fino al 1946, quando uscirono una raccolta di racconti e prose varie, Feria d’Agosto, e un romanzo apertamente politico, Il compagno (1947), dove l’antitesi città-campagna è trasposta nei termini Torino-Roma. Lo stesso anno, Pavese pubblicò il suo libro più segreto e più gelosamente concepito, una serie di dialoghi tra personaggi mitologici, Dialoghi con Leucò, dove le sue meditazioni sul mito, la morte e l’Eros sono tradotte in forma lucida e austera. Vi si sente l’uomo che indicava come suoi narratori preferiti Erodoto e Gianbattista Vico. La critica salutò calorosamente un’altra sua opera, Prima che il gallo canti, pubblicata nel 1949 e composta di due racconti, l’uno scritto dieci anni prima, Il carcere, sul ricordo e l’esperienza del “confino”; l’altro, La casa in collina, steso sotto forma di dia- 260 Fortini–Vittorini rio d’un intellettuale durante la Resistenza. L’uno e l’altro lasciano trasparire il sentimento angoscioso d’impotenza all’azione, che Pavese condivise con molti intellettuali della sua generazione, e che ebbe il merito di condurre a una spietata lucidità morale. Dieci mesi dopo la pubblicazione dei due racconti di Prima che il gallo canti, Pavese pubblica tre romanzi brevi, raccolti in volume sotto il titolo La bella estate. Il primo, che dà il nome all’opera, è un racconto che mette in scena pittori e modelle; una giovane donna si perde poco a poco e si corrompe profondamente per aver aspirato solo a una maturità fatta di indifferenza e di disperazione. Il secondo, che è del 1948, Il diavolo sulle colline, è un racconto complesso degli incontri e scontri tra un gruppo di giovani studenti di provincia e un ambiente dell’alta borghesia, che s’infliggono reciprocamente delle amare esperienze. Il terzo, Tre donne sole (1949) è indubbiamente una delle migliori opere di Pavese. Si svolge nella società borghese di Torino dopo la guerra e mette in scena degli intellettuali ambiziosi e mondani, dei pittori mediocri. Alcune giovani donne dalla vita sessuale ambigua sono in cerca di realtà e di autenticità, divise tra il cinismo e il bisogno d’amore. È una donna d’origine popolare che parla. Grazie al suo lavoro è riuscita a penetrare in quell’ambiente e lo giudica, fuori da ogni moralismo, dall’alto della fedeltà a se stessa. Il libro si conclude col suicidio d’una ragazza in un albergo di Torino. Inquietante prefigurazione del suicidio dell’autore. La critica riservò un’accoglienza assai favorevole al libro. Il lungo lavoro letterario di Pavese, tenace e condotto avanti nel riserbo e nella solitudine, cominciava a dare i suoi frutti. Proprio in quel momento un amore che porta dall’inizio i tragici segni d’una dura prova, viene a sconvolgere quel lavoro ostinato. Non è un caso che si tratti d’una giovane americana, attrice di cinema, che sembra essere il simbolo d’una realtà e d’un clima morale verso il quale l’autore è attratto da sentimenti intensi e contraddittori. Il Diario permette d’intuire le alterne vicende di quell’amore, ma ben presto la passione finisce in uno scacco, che altri scacchi sentimentali avevano già annunciato e prefigurato (Pavese amava ripetere: “Non c’è una prima volta – la prima è sempre una seconda volta”). È la rivelazione d’una piaga inguaribile, e l’idea del suicidio, quasi dimenticata durante gli anni di lavoro più assiduo, ritorna con estrema violenza. Sono mesi di lavoro intenso e febbrile. Alle preoccupazioni professionali e letterarie s’aggiungeva un impegno politico molto esigente. Pavese aveva ricevuto la formazione liberale dell’antifascismo di Croce, lontana dal marxismo e dalla tradizione socialista. Era entrato nel partito comunista dopo la guerra (benchè non avesse preso parte alla Resistenza), perché la sua concezione della cultura come lavoro, della tecnica come moralità, s’incontrava con la lotta comunista dei marxisti contro la spontaneità anarchica e romantica della cultura borghese. Ma sebbene assolvesse ai suoi doveri di militante, Pavese aveva sempre affermato, soprattutto in materia di critica letteraria, un’indipendenza aperta rispetto alle posizioni più ortodosse della politica sovietica; e l’aveva espressa a più riprese sulle colonne della stampa di partito. In questo senso i suoi scritti (raccolti nel volume postumo La letteratura americana e altri saggi) contengono delle indicazioni precise per lo studio dei doveri che incombono all’intellettuale e allo scrittore in una società che s’orienta verso il socialismo. Pavese non era in nessun modo un uomo pubblico, ma proprio in virtù di quell’ascesi della volontà che lo faceva vivere, non aveva partecipato allo sbandamento generale degli intellettuali comunisti italiani, benchè non facesse mistero dei giudizi severi che dava di certi aspetti della vita del Partito. Era in contatto con un gruppo d’intellettuali che era- Allegati 261 no stati tra i dirigenti del movimento della sinistra cristiana e poi erano entrati nel Partito comunista, e che seguivano la via tutta particolare della loro speculazione filosofica, destinata a finire nel 1952 in una abiura totale del marxismo e in una sottomissione al papa. Nacque una rivista, “Cultura e realtà”; dopo il lungo periodo di vuoto subentrato alla rivista di Vittorini “Politecnico”, l’avevamo salutata come una nuova possibilità di discussione nell’ambito della cultura delle sinistre italiane. Il primo numero della rivista uscì a Roma, nell’aprile 1950, con articoli di Pavese, e il suo nome figurava tra quelli del comitato di redazione. Contemporaneamente usciva un’opera che è forse il suo capolavoro, La luna e i falò. Noi leggemmo allora (...), col cuore stretto, una prosa trasparente e lacerante, percorsa da un’indicibile disperazione. È la storia del ritorno simbolico al paese d’infanzia dell’orfanello emigrato da ragazzo in America, la lenta scoperta degli avvenimenti della guerra civile che l’hanno sconvolto e quella ancora più dolorosa della vana ripetizione delle esistenze. La materia letteraria lungamente e dolorosamente elaborata da Pavese aveva trovato un’espressione compiuta. Pavese si sentiva “svuotato”, “come un fucile dopo la partenza del colpo”, e ancora più atroce era l’assenza della persona amata, per la quale soprattutto l’opera compiuta avrebbe avuto un senso. Pavese sentiva di aver raggiunto il culmine della sua esistenza. All’inizio del libro figura una citazione di Re Lear, “La maturità è tutto”, passata in Melville e poi nell’American Renaissance di Matthiessen, il critico americano che si era dato la morte proprio nell’aprile 1950, e sul quale Pavese aveva scritto un saggio. Da quel momento Pavese si prepara al suicidio. In giugno, riceve una testimonianza mondana e letteraria di successo: gli è attribuito il Premio Strega proprio dai letterati di quell’ambiente romano che conosceva bene, per aver vissuto a Roma nel 1943 e nel 1945. Ma la morte lo incalza. Scrive delle poesie d’amore commoventi, disperate e ingenue, indirizzate alla donna lontana e pubblicate dopo la morte. Viene l’estate, l’implacabile estate italiana che fa il deserto nelle città. Scoppia la guerra di Corea e con essa il sentimento d’una catastrofe imminente. Verso la fine di luglio, su “Rinascita”, il mensile del Partito comunista, appare un articolo anonimo, ma chiaramente ispirato dall’alto, che fulmina una condanna sprezzante di “Cultura e Realtà”. Il conflitto con le autorità del Partito sembra inevitabile (sebbene, negli stessi giorni, i redattori torinesi della rivista si siano dedicati con zelo alla raccolta delle firme per la pace). Pavese ha chiuso il suo Diario, vi ha posto le date (1935-1938). Attraversa le spiagge ancora brulicanti, si reca a Bocca di Magra dove ci sono alcuni suoi amici, colleghi di lavoro della casa editrice Einaudi, fra cui quel Vittorini con il quale gli è così difficile stabilire un rapporto umano, ma che, dagli anni lontani della scoperta comune della letteratura americana, aveva cominciato il suo lavoro letterario con una passione analoga di novità. Ma l’allegria distratta di queste vacanze non è fatta per lui. Pavese parte, vaga per Roma qualche giorno, ritorna a Torino, risponde a un amico che gli propone di condurlo in montagna: “Quelli che mi vogliono bene non devono far altro che restare dove sono io”. Lascia la casa della sorella con cui vive, sale le scale d’un albergo dell’amata città di Torino. Nel desiderio d’interpretare i moventi del suicidio, i comunisti hanno privilegiato il motivo sentimentale, gli anticomunisti quello della crisi politica. Altri hanno visto in lui una vittima della “terza guerra mondiale”, altri ancora hanno parlato di semplice nevra- 262 Fortini–Vittorini stenia. Ora, a due anni di distanza, la lettura del Diario – quattrocento pagine d’una scrittura lucida dove, mentre monologa incessantemente con se stesso, Pavese non cita quasi fatti o persone – rivela il nodo psicologico: è soprattutto l’impossibilità fondamentale di comunicazione umana che è all’origine del proposito a lungo deliberato della morte volontaria. Questa volontà di non esistere e di riassumersi in un gesto, non era forse alla base della personalità di Pavese? Nel 1936, alla stazione di Torino, quando tornava dal “confino”, era svenuto alla notizia del matrimonio d’una donna che aveva amato: l’episodio non sembra il suo primo suicidio simbolico? Questo diario, accolto di malavoglia dalla critica italiana, ci impone una revisione della fisionomia di Pavese. Le formule usate per definirlo, compresa quella che ha voluto fare di lui uno stoico e un eroe della volontà, appaiono inadeguate dinanzi all’estrema lucidità critica testimoniata da queste pagine. Se la sua morte è suonata per molti come l’eco d’un avvertimento e d’un esempio, la sua opera letteraria e la sua figura sono ora studiate e amate in virtù della ricchezza delle sue contraddizioni e dell’energia morale impiegata, fino a che gli è stato possibile, per dominarle. Allegati 263 Manifesto di solidarietà degli intellettuali italiani * Negli ultimi tempi si è manifestato, in Francia, un grande movimento d’opinione che, partendo dalla protesta contro la guerra d’Algeria, ha finito col costituire un fatto morale e politico la cui importanza sorpassa i confini della Francia non solo perché ciò che accade in Francia importa molto dovunque, ma anche perché le opinioni espresse nel corso di tale movimento sollevano questioni di principio universalmente valide. Il fatto che promotori e protagonisti del movimento siano stati degli intellettuali è già nuovo e importante in un’epoca in cui poteva sembrare che le ragioni dell’intelligenza fossero condannate all’abdicazione o al silenzio di fronte a quelle del cosiddetto realismo politico. Il primo esempio che danno gli intellettuali francesi è dunque quello di un appello alla ragione fuori di ogni calcolo di opportunità. Il ripudio aperto della guerra d’Algeria, espresso attraverso manifesti, appelli e testimonianze individuali dalla parte più viva e valida dell’opinione pubblica francese (tra cui molti cristiani militanti), non significa solo il ripudio di una guerra ingiusta e barbara, ma anche la riaffermazione del principio che la ragion di Stato e quella del cosiddetto interesse nazionale possono valere, se valgono, finché non contraddicano le ragioni della coscienza e dell’umanità, e non oltre. Tale ripudio e tali riaffermazioni sono stati enunciate con particolare chiarezza nella Dichiarazione sul diritto all’insubordinazione, i cui promotori e firmatari sono attualmente vittime di procedimenti legali e illegali da parte dei Pubblici Poteri. Quando vediamo degli intellettuali perseguitati per aver proclamato il diritto del buon cittadino a rifiutare obbedienza a comandi ingiusti, noi non possiamo non ricordare che il fascismo, il nazismo, l’ultima guerra, il dopoguerra di molti paesi tanto di qua che di là dalla cosiddetta cortina di ferro e, per contrapposto, il giudizio di Norimberga, hanno abbondantemente dimostrato come l’esecuzione cieca degli ordini, l’obbedienza prona, il conformarsi all’autorità solo perché tale possono essere criminali, mentre il rifiuto d’obbedienza può diventare non solo un diritto, ma un dovere primo. La barbara norma che raccomandava di servire la patria sia che avesse ragione sia che avesse torto dovrebbe essere seppellita nei campi di sterminio insieme alle vittime di coloro che non seppero scegliere tra l’obbedienza nella follia e la disobbedienza nella ragione. Al di là del suo significato intrinseco e concreto, la Dichiarazione ne ha un altro che interessa tutti: in essa si leva chiara ed energica, dall’interno di un * “Tempo presente”, novembre 1960; poi in Philippe Cahier, La guerra d’Algeria e la Resistenza in Francia, vol. II, Milano, Il Saggiatore, 1964, pp. 104-6. 264 Fortini–Vittorini popolo, una voce che rivendica il dovere di non opprimere con la stessa forza con cui più o meno ogni popolo ha finora rivendicato il diritto a non essere oppresso. È da questo dovere che direttamente discende l’asserzione esplicita del diritto alla disobbedienza. Noi pensiamo che tale diritto esista e sia anzi connaturato al fondamento stesso della democrazia. Esso è un diritto estremo, e nessuno può pensare a farvi ricorso se non in circostanze estreme. Ma, quando tali circostanze esistano, tale diritto s’impone per forza propria; e noi sappiamo bene come tuttora esista, sia nei paesi dell’Occidente che in quelli dell’Oriente, la possibilità che, di fronte allo strapotere dello, Stato, il cittadino si trovi costretto a scegliere fra doveri grettamente nazionali e altri doveri più gravi e più alti, che sono quelli che ognuno ha verso la comunità viva degli uomini. Hanno firmato in Italia: Mario Ageno, fisico, dell’Istituto superiore di Sanità di Roma; Franco Albini, architetto; Edoardo Amaldi, fisico, dell’Università di Roma; Giulio Carlo Argan, critico d’arte, dell’Università di Roma; Riccardo Bauer, presidente della Society Umanitaria; Ludovico Belgioioso, architetto; Arrigo Benedetti, direttore dell’“Espresso”; Luciano Berio, compositore; Gilberto Bernardini, fisico, dell’organizzazione europea per la ricerca nucleare di Ginevra; Piero Bigongiari, poeta; Romano Bilenchi, scrittore; Carlo Bo, critico letterario, rettore dell’Università di Urbino; Lamberto Borghi, professore di pedagogia dell’Università di Firenze; Cesare Brandi, critico d’arte, direttore dell’Istituto del Restauro di Roma; Palma Bucarelli, direttrice della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma; Adriano Buzzati-Traverso, biologo, dell’Università di Roma; Italo Calvino, scrittore; Remo Cantoni, filosofo, dell’Università di Pavia; Aldo Capitini, scrittore; Carlo Cassola, scrittore; Nicola Chiaromonte, scrittore; Francesco Compagna, direttore di “Nord e Sud”; Marcello Conversi, fisico, dell’Università di Roma; Luigi Dallapiccola, compositore; Enrico Emanuelli, scrittore; Enzo Enriquez Agnoletti, direttore del “Ponte”; Federico Fellini, regista cinematografico; Giansiro Ferrata, critico letterario; Ennio Flaiano, scrittore; Franco Fortini, scrittore; Ignazio Gardella, architetto; Eugenio Garin, filosofo, dell’Università di Firenze; Vittorio Gassmann, attore; Paolo Grassi, direttore del “Piccolo Teatro” di Milano; Gustavo Herling, scrittore; Alberto Lattuada, regista cinematografico; Giorgio Levi della Vida, orientalista, accademico dei Lincei; Roberto Longhi, critico d’arte, dell’Università di Firenze; Mario Luzi, poeta; Oreste Macrì, ispanista, dell’Università di Firenze; Lavinia Mazzucchetti, germanista, dell’Università di Milano; Massimo Mila, musicologo; Paolo Milano, scrittore; Alberto Mondadori, editore e scrittore; Giuseppe Montalenti, professore di genetica all’Università di Roma; Angelo Monteverdi, filologo, accademico dei Lincei; Elsa Morante, scrittrice: Alberto Allegati 265 Moravia, scrittore; Ennio Morlotti, pittore; Cesare Musatti, psicologo, dell’Università di Milano; Costantino Nivola, scultore; Enzo Paci, filosofo, dell’Università di Milano; Mario Pannunzio, direttore del “Mondo”; Enrico Peressutti, architetto; Guido Piovene, scrittore; Vasco Pratolini, scrittore; Salvatore Quasimodo, poeta, premio Nobel 1959; Carlo Ludovico Ragghianti, critico d’arte, dell’Università di Pisa; Guglielmo Righini, professore di astrofisica all’Università di Firenze; Ernesto N. Rogers, architetto; Luigi Rognoni, musicologo, dell’Università di Palermo; Ernesto Rossi, scrittore; Giorgio Salvini, fisico, dell’Università di Roma; Giuseppe Santornaso, pittore; Toti Scialoja, pittore; Vittorio Sereni, poeta; Ignazio Silone, scrittore; Altiero Spinelli, scrittore; Giorgio Strehler, regista teatrale; Giuliano Toraldo di Francia, professore di ottica all’Università di Firenze; Giuseppe Ungaretti, poeta; Alida Valli, attrice; Emilio Vedova, pittore; Lionello Venturi, critico d’arte; Elio Vittorini, scrittore; Bruno Zevi, architetto. 266 Fortini–Vittorini Omaggio a Elio Vittorini * CARLO BO Alla notizia della morte di Vittorini tutta la cultura italiana e non soltanto italiana, ma anche quella francese – ha reagito in modo particolare. E questo perché Vittorini era, se possiamo dire così, una creatura di eccezione. Non è stato soltanto uno scrittore di grandissimo ingegno, come ne compaiono raramente in un secolo, ma egli è stato proprio per la gentilezza, per la particolarità della sua natura, una specie di guida nel senso buono; è stato una guida attiva. E sin dai primi anni della sua apparizione nella letteratura, vale a dire dagli anni fiorentini, il Vittorini ha esercitato una specie di fascino sui giovani e su quelli che erano, anzi, piu vecchi di lui; possiamo citare ad esempio Montale, Loria e tutti gli amici di“ Solaria”. È un po’ difficile in poche parole riassumere quello che è stato Vittorini per la letteratura, per la cultura italiana; diciamo pure, anche per la vita della nazione, in questi ultimi 35-40 anni. Siamo qui, oggi, convenuti per un dibattito; e accanto a me c’è uno dei suoi più vecchi amici, Giansiro Ferrata che l’ha conosciuto, appunto, quando Vittorini è passato per la prima volta da Firenze; c’è Franco Fortini, che appartiene a un’altra generazione, ad una generazione piu giovane, che ha avuto modo di conoscere Vittorini a Milano, negli anni della guerra, e di collaborare poi con lui a quella che è stata una rivista molto importante, “Il Politecnico”; e infine c’è anche Raffaele Crovi, che è il più giovane di tutti noi che siamo qui e che è stato vicino, giorno per giorno, a Vittorini, dal 1955 al 1966. Io penso che convenga subito sentire da questi amici che cosa è stato Vittorini per queste tre generazioni. Siamo naturalmente una specie di campionario, intorno a questo tavolo infatti potrebbero sedersi moltissime altre persone, perché Vittorini è stato veramente un sollecitatore di tutta la gioventù italiana, possiamo dire, dal 1936 in poi. E scelgo appunto questa data, perché è l’anno della guerra di Spagna, quando Vittorini prende veramente coscienza della sua personalità, della sua figura, della sua forza. Ed ha, come dicevo prima, guidato, ha accompagnato tutti i giovani italiani con un senso di partecipazione, con quella sorta di ottimismo che aveva e quella fiducia nell’uomo che è stata una cosa rarissima, soprattutto nell’ambito della nostra cultura. E, cominciamo, appunto, con Giansiro Ferrata, perché egli ha assistito da vicino Vittorini, ha dialogato con lui. È partito per questa amicizia dal 1928-29. * Dibattito fra Carlo Bo, Raffaele Crovi, Giansiro Ferrata, Franco Fortini in “Terzo Programma”, 3, luglio-settembre 1966, pp. 143-51. Allegati 267 FERRATA Dal ’29. Nel 1929, quando incontrai Elio per la prima volta, “Solaria” svolgeva il suo lavoro da due o tre anni. Egli aveva collaborato a “Solaria” già con alcuni racconti. Noi lo vedemmo passare nei primi mesi del 1929, Vittorini, che allora aveva 21 anni soltanto, ed era ammogliato con la sorella di Salvatore Quasimodo ed aveva un figlio, Giusto, che aveva un anno, credo. Era lui stesso, Vittorini, quasi un ragazzino, nel fisico; estremamente magro, sottile, già con una grazia, già con un fascino, come diceva appunto Bo. Un carattere del tutto singolare, che nasceva, insieme, dalla sua grande forza intellettuale, dalla sua libertà, in tutti i sensi, dal suo ingegno letterario, dal suo impegno civile, nel senso in cui poteva sin da allora sentirlo, e da tutto un insieme di cose che ne facevano, oltre che uno scrittore tra i più interessanti, subito, nella sua generazione, uno tra gli uomini di più singolari attrattive. E noi rimpiangemmo – dico noi dicendo Montale, Bonsanti, Loria, Gadda, eccetera; quelli che erano più legati, come me, all’ambiente di “ Solaria” – che questa specie di enfant prodige estremamente simpatico ed estremamente semplice, non potesse fermarsi con noi a vivere e a lavorare nel nostro stesso ambiente, perché stava, appunto, andando a Gorizia, dove gli era stato offerto un posto di assistente ai lavori pubblici. E lui, per spirito di avventura, in parte, e in parte perché aveva pochissime fonti di guadagno, andava lassù a svolgere questo lavoro. Lui siracusano, figlio di ferroviere, uomo di estrazione piuttosto modesta, che aveva stentato sempre moltissimo a vivere, come i suoi fratelli. Vittorini arrivò, dunque, a Gorizia, e poco dopo ci scrisse lettere desolate, dalle quali appariva chiaro che gli era stato giocato un brutto tiro, perché lui che era andato appunto dall’estremo Sud d’Italia all’estremo Nord per occupare questo posto di lavoro, trovò invece lassù che il posto di lavoro non era a sua disposizione. Poté svolgere una parte, così, di questa attività, e dopo non sapeva piu come fare, anche perché per le proteste dei lettori meno intelligenti de “La Stampa”, allora, nel 1929, in piena epoca fascista, contro gli articoli che Vittorini scriveva su Stendhal, su Proust, sul sinistro De La Chambre, come allora diceva Elio, e che erano articoli in parte a chiave, il direttore di allora della “Stampa”, Curzio Malaparte, che era amico di Vittorini, e lo aveva anche in alcune occasioni protetto, essendo divenuto anche lui, forse in quel momento, inviso a parecchi fascisti (poco dopo dovette lasciare, infatti, il posto di direttore), scrisse un letterino rapido a Vittorini, in cui gli comunicava che la sua collaborazione a “La Stampa” doveva ritenersi troncata. Vittorini si trovava, quindi, nella situazione piu tragica, nella quale possa trovarsi un uomo giovane al quale fanno già capo delle persone che devono vivere di lui. Poté però ottenere, grazie ad alcuni amici, un appoggio per vivere a Firenze; s’impiegò come correttore di bozze a “La Nazione” in un primo tempo; poi in un settimanale fiorentino svolse un lavoro critico e cominciò, 268 Fortini–Vittorini soprattutto, quel lavoro di traduzione, che gli venne trovato in particolare da Montale e da alcuni amici di Montale, quel lavoro di traduzione dall’inglese che lui intanto stava studiando, e che gli permise di diventare in breve uno dei più attivi importatori di cultura nuova, giovane, che si sia avuto in Italia. Ed io ricordo subito il suo ingresso in “Solaria” come un intervento animatore, nel senso, appunto, di una cultura internazionale. Mentre “Solaria” era una rivista già aperta, ma piuttosto portata a guardare, semmai, verso Parigi, oltre che verso Firenze e Roma, Elio – che guardava moltissimo a Parigi e guardava moltissimo a Firenze, a Roma, a Milano, – portò anche subito qualcosa di più ricco, cioè un guardare non soltanto a Parigi, ma un cercare semmai a Parigi anche quello che confluiva da altre zone, anche lontane. E tutto il suo occuparsi di cultura, non soltanto in senso letterario, ma anche per i più vari problemi – subito si vide che in lui c’era un elemento culturale ricco, complesso, che gli interessava quanto la letteratura, nella quale cominciava già a segnalarsi con forza – diede indubbiamente alla rivista una spinta fondamentale. Io vidi poi nascere, nel periodo “solariano”, essendo molto amico a Elio, le sue prime opere, i suoi primi libri, da quella Piccola Borghesia ancora così piena di freschezza, a quello che è il suo primo libro compiuto, Il garofano rosso, romanzo al quale lui premise, poi, una prefazione nuova, dopo l’ultima guerra, e che quindi lui sostenne ancora come un’opera importante della sua adolescenza, della sua giovinezza; e poi, infine, il libro che forse per primo segna il passaggio al Vittorini maturo, Il viaggio in Sardegna. Dal Viaggio in Sardegna in poi venne veramente, circa nel 1935, come accennava Bo poco fa, il periodo fondamentale per lo sviluppo letterario di Elio. E fu il periodo della guerra di Spagna; periodo in cui “Solaria” aveva già cessato le sue pubblicazioni, da poco tempo, e cominciava a venire sostituita, come lo sarebbe stata poi nel ’37, dalla nuova rivista “Letteratura”, che continua su una scala più vasta quello che era stato, in parte, il lavoro di “ Solaria”, prima. Vittorini pubblicò proprio in “Letteratura” l’opera che secondo me, secondo moltissimi, rimane ancora la sua maggiore, il suo capolavoro si può ben dire, cioè quella Conversazione in Sicilia che riguarda, per una parte vivissima, la stessa Sicilia, come riguarda l’Italia in genere; ma che riguarda certamente, per una parte altrettanto viva, la Spagna. Perché è molto facile leggere, come attraverso l’inchiostro simpatico, attraverso un foglio trasparente, in molte delle notizie che si danno in quel libro – che non è soltanto un libro di alta poesia narrativa, ma è anche un libro di dialogo, e di profonda ricerca spirituale – quale era veramente il tema che turbava anche Vittorini : e cioè il suo “ sinistrismo”; e non ho nessun falso pudore nel dire che si trattava anche di un fascismo di sinistra, allora, per il giovanissimo Vittorini. Allegati 269 Vittorini aveva portato da Siracusa una sua polemica antiliberalistica, anticonservatrice, che, in determinate circostanze, lo aveva reso ancora vicino a certi ambienti fascisti di sinistra. E fu appunto, come poi per parecchi altri, quello, il periodo della guerra di Spagna, che fece maturare in lui una rottura netta. E tutto il libro, tutta la Conversazione in Sicilia, è in funzione di quel dibattito. BO Se permetti, ti vorrei interrompere, appunto per dire che se si prendesse la collezione di un giornale fascista, che era il giornale della Federazione di Firenze, “II Bargello”, lì si potrebbe vedere come è avvenuta questa trasformazione dall’interno, di Vittorini. Mancavano infatti notizie sull’atteggiamento ufficiale dell’Italia, cioè nei primi tempi non si sapeva da che parte si era schierata l’Italia; e Vittorini e i suoi amici – mi pare che ci fosse anche Pasolini, allora – hanno avuto, quindi, mano libera, almeno per due mesi, per i mesi del luglio e dell’agosto del ’36. Appunto, se si andasse andasse a tirare fuori questo giornale dimenticato, si vedrebbe come Vittorini ha preso coscienza dell’importanza della guerra di Spagna. E a questo proposito vorrei aggiungere un’altra cosa. Io avevo tradotto due o tre poesie di Lorca, le avevo tradotte da letterato, non essendo informato della situazione reale della Spagna e della posizione che aveva assunto Lorca; ed è stato appunto Vittorini, al tempo di “Letteratura”, a farmi incontrare con un inglese che aveva portato dalla Spagna, dove aveva combattuto, delle poesie di Lorca. Sono, appunto, le poesie che ho tradotto in maggior numero per la rivista “Letteratura”. È questo un debito che voglio riconoscere qui, pubblicamente, a Vittorini. Negli stessi anni era avvenuto il passaggio, se non sbaglio, da Firenze a Milano dove Vittorini aveva preso a tradurre per una casa editrice e dove a un certo punto si era trasferito, anche perché aveva una forte simpatia per Milano, che è sempre poi rimasta la sua città. Tante volte ha dichiarato, appunto, che Milano era l’unica città italiana che avesse un carattere europeo. Giunto a Milano, non solo ha continuato a tradurre, ma ha iniziato quell’altra sua attività di consigliere, di suggeritore della vita editoriale. Ecco, ora io penso che Ferrata potrebbe dire... FERRATA Molto in breve, per passare la parola a Franco Fortini, che ci parlerà di un’altra fase... Io vidi Vittorini venire a Milano, allora; anzi, stavamo facendo, allora, un libro insieme, che è La tragica vicenda di Carlo III, un libro storico. E voglio dire che allora tutti gli studi storici importavano a Vittorini moltissimo; Michele Amari, e altri storici, anche viventi, lo interessavano per i suoi studi personali e poi entrarono a far parte di questa prima collezione che lui diresse per la casa Bompiani, la collezione “Corona”, che fu, tra le sue attività editoriali, una delle passioni di Vittorini. Uno dei motivi della nostra amicizia iniziale anzi fu il ricordo che tutti e due avevamo della piccola Collezione 270 Fortini–Vittorini Universale Sonzogno... E Vittorini ebbe subito questa passione di realizzare una nuova Collezione Universale Sonzogno, dandole però, come lui faceva sempre, un carattere del tutto nuovo. E qui vorrei dire solo due cose, per poter poi concludere: la prima è che “Corona” si inizia proprio con degli scritti di Carlo Cattaneo: India, Messico, Cina. E l’interesse per Cattaneo che fin da allora, per Vittorini e per me, era stato anche uno dei motivi del nostro dialogo continuo, stabiliva già il passaggio, in un certo senso, verso il “Politecnico”, perché, come tutti sanno, il “Politecnico”, il vecchio “Politecnico” del Secolo XIX, era stato creato da Cattaneo. Un’altra cosa che voglio dire su un altro piano – e qui la metto come ipotesi, girandola appunto a Fortini – è che contribuirono enormemente allo sviluppo delle idee di Vittorini verso il “Politecnico”, così come lo realizzò subito dopo il ’45, cioè subito dopo la Liberazione, due altre persone che purtroppo morirono durante la guerra in circostanze, tutte e due, estremamente tragiche, Giaime Pintor ed Eugenio Curiel. Giaime Pintor amicissimo a Vittorini già prima della guerra e che gli era vicino in tutti i sensi, anche per la collaborazione a riviste letterarie, per il modo con cui appunto cultura, letteratura, politica per loro si incrociavano, sarebbe stato certamente, se fosse sopravvissuto al salto su una mina mentre andava dal Nord al Sud durante la guerra, da partigiano, uno dei fondatori, e tra i piu autorevoli, del “Politecnico” . E poi l’altro, Eugenio Curiel, la cui importanza sta proprio nell’essere stato il primo ad orientare Vittorini, che già vi si era portato in un modo però forse un po’ patetico e letterario, verso le scienze. E qui vorrei che Fortini, che fu redattore del “Politecnico”, ci parlasse, appunto, di questa esperienza alla quale io stesso ho partecipato. FORTINI Ho conosciuto Vittorini a Firenze sulle pagine di “Letteratura”, dove compariva Conversazione in Sicilia, ma non ho avuto occasione di incontrarlo di persona fino al ’43, proprio nei giorni di Badoglio; in uniforme da sottotenente di fanteria mi recai nella sede, sconquassata dalle bombe, della casa editrice Bompiani, per parlargli di una traduzione che volevo fare per la collezione “Corona” che egli curava per Bompiani. In occasione di questo primo incontro, rammento benissimo che Elio mi parlò della possibilità, una volta finita la guerra (e la fine sembrava imminente) di creare una rivista, una pubblicazione culturale destinata a giovani di tutte le classi sociali ma che si rivolgesse anche e soprattutto ai giovani lavoratori in quell’età (diceva) nella quale tutti sono intellettuali. Era il primo germe del “ Politecnico”. Dovevano passare quei venti mesi e dovevamo venire nell’estate del ’45, perché incontrassi di nuovo Vittorini. Nei miei confronti Vittorini è stato quello che poi è stato per moltissimi altri; ha aiutato la mia nascita d’autore. Perché proprio durante quell’estate feci leggere a Elio i miei primi versi che Elio poi mi aiutò a pubblicare presso l’editore Einaudi. Allegati 271 Dopo la breve permanenza sua come direttore, e mia come redattore, a un giornale (“Milano Sera”) che comparve quell’estate, dovevamo ritrovarci ancora, agli inizi del settembre ’45, presso una sede Einaudi, in viale Tunisia, dove – con modi che a me sembravano misteriosi, perché Elio era riservato – si stava preparando la pubblicazione settimanale che si sarebbe chiamata “Il Politecnico”. Quello che è stato “Il Politecnico” è oggi difficile a dirsi, perché bisogna ricollocarlo nell’atmosfera estremamente tesa, drammatica, convulsa, di quei mesi. Certo è stato, per Elio e per noi che gli eravamo vicini, un impegno totale. Il “Politecnico” era un foglio settimanale che non soltanto si rivolgeva ai ceti intellettuali, ma ai nuovi italiani. Non posso dimenticare l’emozione che dava il vedere “Il Politecnico” affisso, impastato, sui muri di Milano come uno dei tanti manifesti politici di allora; vedere, dicevo, nell’aria aperta, pubblica, di quell’inverno di miseria e di speranza, una pagina con i testi di poeti e di scrittori che avevamo considerato fino ad allora riservati a pochi e che per molti anni ci avevano accompagnato in una condizione di semiclandestinità. Era qualcosa – lo sapevamo – che era successo solo nella Russia della guerra civile e nella Spagna rivoluzionaria. Elio era circondato da un affetto e da una fama che non teneva soltanto alla sua arte di scrittore, ma anche alla figura assunta nel corso della Resistenza; e al libro che di quella Resistenza parlava – Uomini e no – pubblicato proprio in quel periodo. Quindi ci accadeva spesso di vedere Elio circondato da quei “non addetti ai lavori” che allora egli preferiva certamente agli “addetti”. Fin da allora si poteva notare quella energica insofferenza di Vittorini nei confronti del letterato propriamente detto che lo ha accompagnato per tutta la vita. Non è qui il caso di rifare la storia interna della rivista “II Politecnico”, delle sue contraddizioni, delle tensioni che essa determinava. E la testimonianza dell’importanza del lavoro svolto da Elio (e, in una minore misura, da noi) sta nel fatto che tutta una generazione di italiani, si può dire, ha scoperto verità sulle pagine di quel settimanale. C’era, naturalmente, l’aspetto propriamente politico della rivista, che a persone come me, per esempio, rimaneva in penombra, in quanto Vittorini non ne parlava gran che. Solo quando, nel 1947, si determinò la crisi con il Partito Comunista, in occasione della famosa polemica con Togliatti, la redazione prese aperta posizione a favore di Vittorini. Il lavoro si svolgeva in condizioni molto dure. L’inverno 1945-46 è stato in tutta Europa un inverno particolarmente terribile. La lotta – ché si trattava veramente di lotta – per fare uscire quella rivista e per farla come noi volevamo si fondava su una visione della situazione europea che potremmo oggi dire apocalittica. Era l’anno zero non solo della Germania, in quel momento. Si aveva l’impressione che gli strumenti tradizionali della cultura fossero distrutti; che 272 Fortini–Vittorini tutti dovessero far tutto, in una certa misura. Questo era anche uno dei significati della parola “Politecnico”. Quindi c’era una sorta di volontariato culturale che oggi può essere incomprensibile a molti giovani che quell’esperienza non abbiano vissuta. Sono stati due anni nei quali ho avuto contatto quotidiano e continuo con Vittorini. È molto importante notare che Vittorini non era solo. C’era una evidente diffidenza da una parte, la più tradizionalista, delle nostre lettere. Ma egli ricevette subito, a partire dal primo numero del “Politecnico”, l’appoggio di alcuni uomini di cultura che noi, più giovani o meno scaltriti di lui, potevamo ritenere abbastanza lontani allora dalle posizioni di una rivista come “Il Politecnico”. Penso in particolare a Carlo Bo, che fin dal secondo numero della rivista è intervenuto in quella che è stata la discussione sul tema stesso del “Politecnico”, sulla “ nuova cultura”. In quella occasione Bo è intervenuto in modo che ha animato tutto il primo periodo del “ Politecnico”, fino alla sua trasformazione in mensile. Forse Bo ce ne può dire qualcosa. BO Beh, insomma, sì, io ero intervenuto soltanto sulla polemica... Mi pare che Vittorini avesse incluso tra i rappresentanti della cultura anche Cristo; e allora io avevo risposto in modo, così, un po’ risentito, ma sempre affettuoso. Per me Cristo non era cultura. Ma questo mi serve per tratteggiare nuovamente quello che per me era il fondo religioso dell’anima di Vittorini. Aveva questa curiosa aspirazione all’ottimismo. Lui credeva veramente nel Progresso dell’uomo, nella possibilità che l’uomo fosse suscettibile di correzione e di miglioramento. E, quindi, veniva a scontrarsi, caso mai, con la mia visione pessimistica che derivava dal cattolicesimo; ma Vittorini mi aveva insegnato, allora, anche questo, che è un punto molto importante: voglio dire che anche la fede deve essere verificata nell’ambito stesso della vita e deve cominciare dalla partecipazione alla vita degli uomini, a quello che è il riconoscimento della vita quotidiana, degli sforzi dell’uomo della strada. E vorrei chiudere questa parentesi invitando Fortini a dire quello che ha rappresentato per la cultura italiana, per la vita dell’intelligenza italiana, “Il Politecnico”, prima di passare la parola al Crovi, il quale ha assistito quotidianamente all’evoluzione dell’ultimo Vittorini. FORTINI Quello che Bo ha detto sulla “fede” di Vittorini mi sembra verissimo. Mi è accaduto anni fa di scrivere di lui che “credeva alla giovinezza come ad una giustizia”. Era uno dei suoi modi di credere nella giustizia, come una partecipazione immediata e diretta alle cose. “Il Politecnico” ha avuto, a mio avviso, una doppia funzione. Per un verso, la funzione che ci proponevamo, cioè di svegliare a un certo ordine di problemi un largo numero di persone che, più tardi, avrebbero avuto altri strumenti per accedere ad altre nozioni, ad altri ele- Allegati 273 menti di cultura. Per un altro verso ha avuto certamente una notevole importanza – penso soprattutto al secondo “ Politecnico”, a quello mensile – nei confronti degli uomini di cultura italiani. In questo senso: che se oggi noi scorriamo l’indice del “Politecnico” mensile, vi troviamo trattati o toccati quasi tutti gli argomenti` che sono stati oggetto di discussione nei quindici anni seguenti, una gamma vastissima di problemi, che non sono soltanto quelli del rapporto fra politica e cultura, ma che si estendono ai campi piu diversi. Se si guardano gli autori che sono stati pubblicati in quelle pagine, spesso ci stupiamo di vedere che per la prima volta certi nomi, certi autori – penso a Lukács, ad esempio – compaiono per la prima volta in Italia sul “Politecnico”. Ma non si tratta solo di autori e nomi; si tratta di problemi. Ed è interessante notare come nel “Politecnico” mensile si iniziasse (forse sulla scorta di quel programma iniziale del settimanale, che è stato recentemente pubblicato e che fu elaborato da Vittorini e probabilmente da Eugenio Curiel) una collaborazione di tipo scientifico e filosofico che necessariamente era stata assente o quasi dalla fase del settimanale. Non bruscamente ma attraverso una serie di sussulti e di successi, nel 1947, si chiudeva “ Il Politecnico”. BO Ecco, sentiamo un po’ che cosa ne pensa Ferrata; potrà dirci qualche cosa. FERRATA Apprezzo molto che Bo e Fortini abbiano insistito su questo elemento religioso che io chiamerei anche elemento morale; in proposito vorrei ricordare come quelli fossero gli anni in cui si veniva scoprendo Gramsci, che fu una scoperta fondamentale per lo sviluppo del “Politecnico”. Antonio Gramsci, uomo che considerava il rapporto tra elementi politici, culturali, letterari, come legato sempre ad un concetto, anche per lui essenziale, quello di attività etico-politica, era stato, in questo senso, estremamente vicino a tutti noi; e fu a un certo momento il nucleo ordinatore di un certo spirito del “Politecnico”, anche nel senso scientifico. Perché, a un certo momento, il “Politecnico” trovò proprio nei comunisti una difficoltà fondamentale al proprio sviluppo? Si è molto insistito sulla parte che avrebbe svolto Togliatti in questo senso; io posso dire nel modo più fermo ed assoluto che Vittorini avrebbe continuato a fare, nel “Politecnico”, la sua polemica con Palmiro Togliatti, perché non la sentì mai come una polemica contraddittoria con l’essenza del “Politecnico”; si trattava sempre di una polemica che avrebbe potuto riportarsi a Gramsci, come a un termine di riferimento e di possibile discussione. A un certo momento, invece, vennero internamente al Partito Comunista altre forze, le quali svolgevano un’azione polemica, che credevano in parte benevola verso “Il Politecnico” stesso; lo volevano insomma correggere, lo volevano migliorare, sembravano voler dire: “ Si, voi siete dei bravi ragazzi ingenui, ma non vi sie- 274 Fortini–Vittorini te accorti che il marxismo è un’altra cosa...”. A questo Vittorini si ribellò. Si ribellò come si ribellava sempre ad ogni attività educativa nei suoi riguardi; quando aveva il senso che fosse un’attività falsamente educativa e pedagogica nel senso peggiore dei termini. FORTINI Ne so qualcosa io. FERRATA Lo sa Fortini... Ed io posso dire nel modo piu modesto e occasionale di aver assistito, in una casa di amici, all’ultimo atto, in un certo senso, della vita del “ Politecnico”, che fu il tentativo in buona fede, da parte di una personalità comunista, di dimostrare a Vittorini che se lui fosse stato presente nella prima fase del “Politecnico”, certi errori non sarebbero stati commessi. La discussione che avvenne in quel momento rese Vittorini così malcontento di certe situazioni che erano venute formandosi (e unendosi a ragioni economiche, editoriali e altre molte difficoltà, e alla sua volontà di lavorare piu direttamente come scrittore) da indurlo a chiudere il “Politecnico”. BO Ringrazio Ferrata della sua precisazione e chiudiamo pregando l’amico Crovi di dirci che cosa è stato l’ultimo Vittorini, il Vittorini degli ultimi dieci anni. CROVI Prima di coinvolgermi nel racconto sul Vittorini degli ultimi anni, in quanto gli sono stato vicino come collaboratore, vorrei dire, a proposito di “Politecnico”, che una delle ragioni che può averne determinato la crisi, che è stata personale di Vittorini ma anche dell’ equipe della rivista, una crisi della cultura italiana che aveva espresso, nell’immediato dopoguerra, “Il Politecnico”, può essere rintracciata nella congiuntura politica di quel momento; Vittorini diceva che “ Il Politecnico” è stato una delle prime vittime della guerra fredda. Vittorini io l’ho conosciuto da studente universitario. Ero matricola all’Università Cattolica e andai da lui per intervistarlo. Avevamo in progetto di fare un giornale di ateneo, che si chiamò “Dialoghi”, e per il primo numero avevamo pensato di fare un articolo su Vittorini; un articolo su Vittorini e i giovani. Andai da lui per intervistarlo e il discorso si sviluppò, in una serie di incontri, in ufficio e a casa sua : diventò amicizia e l’inizio di un rapporto di collaborazione su cui si è fondata la mia educazione professionale. Anche l’inizio dei nostri rapporti, episodio minimo di una ricerca culturale intesa come dialogo, è indicativo, credo, per giudicare Vittorini. Mi diceva suo fratello Ugo, due giorni dopo la sua morte: “Se Elio avesse vissuto ai tempi di Francesco d’Assisi non sarebbe stato uno scrittore, sarebbe stato un predicatore ed avrebbe espresso il suo slancio etico-politico in quelle forme di educazione. Io sono stato vicino a Vittorini dal ’55 al ’66, nel periodo in cui Vittorini è stato, per sua scelta, più che uno scrittore un animatore culturale. Credo che come scrittore Allegati 275 Vittorini si sottovalutasse: era portato ad accentuare il proprio impegno di animatore culturale che lo portava a partecipare agli altri una sua idea della cultura come un fatto collettivo. Delle esperienze vittoriniane di “Solaria” e di “Politecnico” la mia conoscenza è indiretta. Le prime volte che ci incontravamo, Vittorini, nella conversazione che pur riguardava abitualmente problemi semplici, familiari, suggerendomi lo studio di scrittori come Gadda, Montale, Landolfi, Palazzeschi, Svevo, Proust, Faulkner, Joyce, mi proponeva la prospettiva di cultura europea che era stata di “ Solaria” e che fu di “Politecnico”. È questa la strada di ricerca verso la quale mi ha indirizzato ed è in questa prospettiva che ha cercato di animare il discorso tra lui e i giovani, anche mediante l’esperienza editoriale della collana “Gettoni” in cui ha rivelato tanti giovani scrittori: scrittori come Lalla Romano, Fenoglio, Lucentini, Calvino. Si dice che Vittorini abbia instaurato, nell’ambito delle ricerche della giovane letteratura, la pratica dell’editing, impostando il lavoro di certi narratori, aiutandoli a correggere i propri testi, a tagliarli, ecc. Questo non è esatto. Il suo era un intervento di analisi critica. Non ha mai imposto tagli di testi. Preciso il fatto, per ribadire quale discrezione e umiltà abbia avuto nel suo lavoro di animatore culturale. Uno scrupolo che lo portava a pubblicare testi di autori in cui, sotto il profilo etico – morale, sotto il profilo ideologico, non credeva con perfetta convinzione. Pubblicava opere, magari discutendole negli stessi testi con cui le presentava. Era un altro modo per stabilire il dialogo, per renderlo necessario, per provocarne l’inevitabilità: amava definirsi un rompiscatole. Ha svolto un’attività culturale polemica, provocatoria, ma sempre profondamente onesta: la sua poetica, ad esempio, non è mai stata prevaricante nelle sue scelte di giovani autori. Questo tipo di onestà è, mi pare, ciò che contraddistingue anche l’esperienza successiva, alla quale ho partecipato, cioè quella della rivista “Il Menabò”, dove il lavoro di analisi e di ricerca letteraria, indirizzato soprattutto verso la giovanissima letteratura, è continuato fino a ieri. Quello che Vittorini mi ha insegnato è, quindi, che la cultura non è un fatto didascalico, né un fatto celebrativo, ma un atto di conoscenza: la cultura non è mai, non deve mai essere, cultura nazionalistica, sciovinistica, settoriale, altrimenti non è cultura; la cultura è democratica e quindi un lavoro collettivo. BO Con questo intervento di Crovi chiudiamo il nostro dibattito. Ma è inutile dire che si tratta di un dibattito campione. Abbiamo toccato solo alcuni punti della personalità di Vittorini. Eravamo oggi in quattro ma, come ho detto prima, potremmo essere stati in cento, in mille, tutti quelli che pensano e che scrivono e che porteranno nei loro discorsi, nei loro dibattiti, nelle loro preoccupazioni, l’immagine di quel che Vittorini è stato, di quello che ha voluto e ha rappresentato. 276 Fortini–Vittorini Le sette di sera * Elio, come va? gli dissi. Mi guardò spaventato. Aveva in mano le chiavi della “Giulia”. Forse non mi riconosceva per la bruma delle sette. O forse ero davvero mutato come un morto. M’abbracciò affettuoso, come pungevano i suoi baffi. Ma strinse l’aria. “Perché non ti fai mai vedere?”, disse, tremando e fingendo di nulla. * In F. Fortini, Questo muro, Milano, Mondadori, 1973, p. 58; poi in F. Fortini, Una volta per sempre, Torino, Einaudi, 1978, p. 311. Allegati 277 “Il Politecnico”, un discorso aperto Intervista di Corrado Stajano a Franco Fortini * Nell’estate del ’43 io ero sottotenente di fanteria e dalla Toscana ero stato trasferito a Milano in servizio di ordine pubblico. Non conoscevo Vittorini, avevo avuto con lui solo un brevissimo scambio di lettere a proposito di una traduzione, la vita di Carlo XII di Voltaire. Andai alla sede della Bompiani, in corso di Porta Nuova, la città era distrutta, si tossiva per il fumo delle macerie. Elio era appena uscito dal carcere di San Vittore e appoggiato al davanzale di una finestra ricordo che mi disse: “Guarda, appena questa faccenda della guerra sarà finita, tanto durerà ancora poco, dobbiamo fare una pubblicazione, una rivista destinata ai giovani operai e agli studenti, quelli che sono nell’età nella quale tutti sono intellettuali”. Vittorini, dunque, pensava al “Politecnico” fin dall’agosto del ’431. Franco Fortini, che fu uno dei redattori, ricorda in questa intervista il settimanale, e poi la rivista di Elio Vittorini, la nascita del “Politecnico”, le ragioni culturali e politiche, il contrasto con Togliatti, la chiusura, le polemiche. Gli interessa mettere in rilievo che la storia del “ Politecnico” è la storia delle interpretazioni successive più di quanto non sia la storia del suo testo. Gli interessa discutere e far discutere su ciò che fu “Il Politecnico”, dice alcune cose nuove sulla sua posizione all’interno della rivista, sull’itinerario umano e culturale di Vittorini, sulla politica ufficiale del PCI di allora e di oggi. Dopo la guerra, dunque, Fortini e Vittorini si ritrovarono sui banconi delle tipografie, in quel clima di Milano che Fortini racconta nel suo Dieci inverni: In agosto avevo finito di ricopiare le mie poesie che uscirono da Einaudi col titolo Foglio di via, gliele portai da leggere e lui mi disse: “Faccio un settimanale, se vuoi venire, vieni”. E a metà settembre andai in viale Tunisia, si stava preparando il numero che uscì alla fine del mese. Marina Zancan sul “Ponte” (luglio-agosto ’73) afferma che durante la Resistenza il PCI aveva pensato, per la fine della guerra, a una pubblicazione che si chiamasse “Politecnico” e che apparisse come Fronte della cultura, organizzazione di massa ispirata da Curiel e da Antonio Banfi, controllata dal partito. In questa fase c’erano stati degli scambi di opinione tra Curiel e Vittorini ed era stato formulato un abbozzo di programma che, con il permesso di Vittorini, è stato pubblicato sui “Quaderni piacentini”. Sono appunti del ’44: quando nel primo numero del settimanale si dice “Noi scriviamo ciò che i morti ci hanno dettato”, si capisce che questa frase che provocò le ire filistee di alcuni, si riferiva proprio a questi morti, a Curiel, a Labò. La Zancan, nel suo saggio, riporta una testimonianza su Banfi che * Intervista a cura di Corrado Stajano, in “Libri Nuovi”, VIII, 1, gennaio 1975, pp. 1-2. È in corso di preparazione, a cura di Velio Abati, un volume che raccoglie un’ampia scelta delle interviste di Fortini. 1 F. Fortini, Dieci inverni (1947-1957). Contributi ad un discorso socialista, Milano, Feltrinelli, 1957; 2° ed. Bari, De Donato, 1974, pp. 39-58. 278 Fortini–Vittorini nel ’55 parlò di preparazione di progetti e di rapporti per il lavoro che, poi, fu continuato nella libertà e rovinato dal “Politecnico” vittoriniano . Il che significa che vi fu una scelta diversa del partito, il quale non volle impegnare se stesso completamente e delegò Vittorini. E questo significa anche un disaccordo tra quella parte che potremmo chiamare accademico-autorevole e Vittorini e spiega anche la profonda antipatia votata contro di lui dalle sfere universitarie. Non solo a Milano, ma in tutta Italia: non è un caso che l’attacco a Vittorini parta da ambienti universitari, perché in quel momento c’erano i Concetto Marchesi, i Bianchi Bandinelli, i Delio Cantimori, c’era Banfi che erano le eminenti figure della cultura italiana e della cultura comunista. Si aggiunga il fatto che quell’operazione che si potrebbe chiamare di crocegramscismo in anticipo aveva avuto tutto il tempo per maturare nell’Italia meridionale dove, con un anno di sfasatura sulla Liberazione al Nord, era avvenuta la saldatura tra la tradizione dell’antifascismo idealistico e la svolta di Salerno. Questo dei professori era un sospetto di tipo accademico nei confronti dell’autodidatta o di tipo politico? Ho avuto sempre l’impressione che si trattasse di un sospetto non politico nei confronti dell’autodidatta. Insomma, l’idea che Vittorini incarnasse il pressappochismo, questa era la parola che correva. E questo mi spiega una cosa che allora non capivo: io insistevo, per una ingenua fiducia negli addetti ai lavori, perché la collaborazione dei filosofi, Preti, Cantoni, Paci fosse più assidua. La resistenza di Elio era fortissima: li accusava, in un certo senso, di non saper scrivere, di non avere nei confronti della scrittura del testo, quell’atteggiamento che lui aveva e rappresentava, secondo lui, la cosa più importante del “Politecnico”. Vittorini ebbe cattiva stampa anche da parte dei critici militanti e di buon numero dei letterati, soprattutto a Roma. Un’ostilità antica che comincia magari con una mezza stroncatura siglata A.M. (Alberto Moravia) a Conversazione in Sicilia. Vittorini fu quasi sempre trattato da parvenu della letteratura. Come furono le discussioni all’interno della redazione? Eravate persone abbastanza diverse. Si, e io ero il più diverso di tutti. Vittorini, a parte la personalità, la fama, la genialità personale e il fascino straordinario, aveva dei contatti con la città e anche con il mondo della cultura non solo milanese. Le discussioni con Vittorini erano sempre difficili perché era insofferente, era uno a cui non piaceva discutere, gli davano noia i discorsi filati, procedeva per silenzi e frasi violente, giudizi lampeggianti non dialettici. Non avvennero discussioni vere e proprie, anche perché, quando c’erano discorsi importanti, io non vi partecipavo, era cosa un po’ riservata, era una cosa di partito e io non appartenevo al Pci. Questo si sentì molto e subito, tanto che qualche volta in redazione si dovevano fare veri Allegati 279 e propri sforzi per costringere Vittorini a essere presente, per parlarne poi. Io ho una lettera, un documento, specie di papiro, piuttosto duro e risentito che è stato letto in una riunione del “Politecnico” su queste faccende, perché Vittorini sfuggiva alle discussioni. C’erano insomma delle regole di partito. Come ti sei trovato dentro una regola? Non è che mi trovassi male, ma me ne stavo in un angolo, in un certo senso. Non mi rendevo conto del peso reale di quel che facevo: viene fuori adesso Marida Tancredi che scrive, due o tre anni fa, un saggio sul “Politecnico” di Fortini2 dove, attraverso una serie di schemi, identifica una linea Fortini che probabilmente c’era, ma io non me ne rendevo conto. Da che cosa nascevano le differenze? Dal fatto che nei venti mesi passati in Svizzera avevo avuto dei contatti, visto gente, letto libri che gli altri non avevano avuto. Quando Vittorini diceva “Ma io Marx non l’avevo letto” forse è vero, ma certo, qualcosa io avevo letto, avevo parlato con gli antifascisti della vecchia generazione, avevo capito certe cose e, soprattutto, avevo afferrato, credo, con l’aiuto dei libri di Serge, di Malraux, un nodo capitale, decisivo, quello dei processi di Mosca. Ci fu, poi, qualche fatto culturale importante per Vittorini? Quello che poi si è chiamato il sartrismo. Sartre venne a Milano nell’estate del ’46, pochi numeri dopo il passaggio dal settimanale alla rivista. Le cose che ebbero importanza per me, e penso anche per gli altri, furono le rivelazioni sui campi nazisti, la problematica connessa alla guerra, i rapporti tra le cellule comuniste e le SS all’interno dei lager; il problema delle scelte tragiche, lo scritto di Sartre che diceva ai comunisti, però un po’ di angoscia non vi farebbe male contro il vostro trionfalismo. Il dubbio ha cambiato il modo di affrontare un certo tipo di problema? Secondo me sì, per quello che mi riguarda ha contato. Qui, poi, entravano in gioco questioni di personalità diverse. Io tendevo in modo puritano e calvinista ad accentuare gli aspetti tragici delle situazioni, Elio era invece l’espressione del vitalismo bianco, lucente, tendeva piuttosto a mettere in evidenza l’oltranza, il momento della speranza, diciamo. Per Elio contarono anche altri incontri, nell’estate del ’46, quando conobbe Marguerite Duras, Robert Antelme e poi Mascolo, di formazione surrealista, molto vicino a Bataille, espressione di un elemento sado-crudelista divenuto ora moda. Elio andò a Parigi nel marzo2 Marida Tancredi, Il “Politecnico” di Fortini, “Ideologie”, 7, 1969, pp. 17-30. 280 Fortini–Vittorini aprile ’47 su invito di Aragon e dell’Unione degli scrittori ufficiali, si trovò malissimo, disse che se ne andava, si fermò invece con Antelme e fu un incontro decisivo. Conobbe comunisti che avevano il senso della conflittualità, vivevano ancora il dramma del patto Hitler-Ribbentrop, lo scontro tra PC e trotskismo, ebbe cognizione della Gauche Communiste Internationaliste, dei transfughi del movimento operaio. Si ruppero gli equilibri e si incrinarono le certezze? Sì, si ruppero gli equilibri e fu una cosa molto importante. Elio capì insomma delle cose che io in Svizzera avevo già annusato, non soltanto politiche, anche se, e questo va a suo onore, non ha mai avuto simpatia per certi aspetti di estremismo letterario nero . Va bene, ma questo che cosa ha contato nell’atteggiamento di Vittorini e del “Politecnico” nei confronti del Pci e di Togliatti? Si svegliò la coscienza delle differenze e del dramma della linea politica. Capì che non c’era più nulla da fare e che quindi era meglio tentare di fare una rivista culturale e per far questo cercò di aprire la rivista a nomi diversi, alla collaborazione di Noventa, per esempio, la persona più antitetica che potesse esistere rispetto a quel che Vittorini era, e di Giacomino Debenedetti. Altrimenti diventiamo settari, disse, e a Noventa scrisse: “Mi raccomando perché la nostra situazione è delicata”. Non tornano ugualmente i conti. Vittorini sapeva che la rottura era consumata, pensava a un genere di impostazione più tradizionale ed allargata e si riferiva a personaggi e a trattazioni di problemi diversi. Ma perché, visto che non aveva più speranza? Ci fu cioè in quel periodo, un ripiegamento di Vittorini di tipo personale, politico o culturale, che potrebbe far da spiegazione? No, se mai questo avvenne più tardi. Allora lo escludo. Elio pensa a continuare, è diventato più cosciente delle implicazioni politiche, pensa di dover essere meno condizionato. Nei confronti del PCI aveva allora un’assoluta fedeltà. Posso raccontarti questo episodio. Un giorno, non so chi mi disse che Elio era stato espulso dal partito – era l’autunno del ’47 – e io corsi a casa sua, su per le scale di quell’incredibile casa tutta fracassata dalle bombe di via Borghetto numero 5. Elio si affacciò al ballatoio, glielo dissi, lo vidi sconvolto, in uno stato di estrema agitazione. Era una falsa notizia. Il cambiamento avvenne dopo: durante il Convegno culturale organizzato a Firenze dal Fronte democratico popolare nel ’48, nel Allegati 281 quale furono trattati i problemi dell’organizzazione della cultura. In quell’occasione, come ha riferito Bilenchi3, Elio era furibondo: “Secchia e poco fa Emilio Sereni parlano come parlava Alessandro Pavolini”, urlava. Qual è la tua opinione sulla fine del “Politecnico”? Nel ’61, quando Marco Forti e Sergio Pautasso pubblicarono da Lerici l’Antologia del Politecnico, ci fu una presentazione alla Casa della cultura, presente un pubblico strabocchevole. C’erano Mario Alicata, i due autori, Giansiro Ferrata, Albe Steiner e, mi pare, Paci e Cases. Vittorini era presente, defilato, in modo da non poter essere visto dal banco della presidenza. La versione autentica fu raccontata da Steiner il quale dichiarò di avere assistito, in casa sua, in via Canova, nella stessa casa dove abitava Vittorini, alla conclusione della discussione, d’altronde molto pacata, tra Vittorini ed Emilio Sereni. Quest’ultimo disse che Elio era liberissimo di continuare la pubblicazione del “Politecnico”, ma in questo caso non ci sarebbe più stato il placet indiretto del partito che, si faceva notare, corrisponde a una questione di “stato della distribuzione”. La cosa ha avuto del resto una conferma più tardi. A questo punto qualcuno ha chiesto a Vittorini di confermare o di smentire. Vittorini si è rifiutato di parlare. Come hai reagito al momento della polemica tra Vittorini e Togliatti? Ero tutto dalla parte di Vittorini. Cercavo di limitare il mio entusiasmo perché poteva essere sospetto allo stesso Vittorini, mi dava solo un po’ noia quello che adesso non mi dà affatto noia, lo stile garibaldino usato da Elio. E adesso che cosa ne pensi? Adesso mi rendo conto che aveva ragione Togliatti. Allora sentivo il ’45 come un grande avvenimento di libertà. Non potevamo capire quello che maturava nell’Unione Sovietica, col nome di zdanovismo, vedevamo solo alcune cose visibili del gusto sovietico, ma nella guerra fredda noi ci siamo entrati a poco a poco, per arrivare cioè a capire che si stava preparando l’aggressione all’Unione Sovietica, il suo isolamento, la minaccia atomica, l’inizio delle persecuzioni ai partigiani. Ci abbiamo messo del tempo per capire, mentre Togliatti, evidentemente, aveva tutti gli strumenti per poterlo fare. Tutto quello che veniva messo in evidenza sul “Politecnico” riguardava gli anni ’20 nell’Urss, non gli anni ’30. Scopo di Togliatti 3 Cfr. Romano Bilenchi, Amici. Vittorini, Rosai e altri incontri, Torino, Einaudi, 1976; n. ed.: Amici, prefazione di Gianfranco Contini, Milano, Rizzoli, 1988, pp. 112-60 (ora in R. Bilenchi, Opere, a cura di Benedetta Centovalli, Massimo Depaoli, Cristina Nesi, Milano, Rizzoli, 1997). 282 Fortini–Vittorini era garantire, in un periodo che cominciava ad essere di guerra fredda, un certo tipo di compattezza. Occorreva preservare il partito dal pericolo che potessero nascere dei gruppi politici alla sua sinistra, facendo riferimento a un certo tipo di informazioni più che agli uomini del “Politecnico” che certo non erano all’altezza di far questo. Togliatti aveva l’ossessione di una dissidenza di sinistra. Ora, a parte l’antipatia personale per Togliatti e per il togliattismo, questo misto di cinismo e di disprezzo per le idee da un lato e nello stesso tempo di doppiopetto, di citazioni del Duecento, bisogna cedere all’evidente successo di un certo tipo di operazione. Lo capii negli ultimi anni di Togliatti, i politici si misurano sul successo. Non m’importa niente che non sia un teorico, ma il partito lo ha fatto e lo ha fatto come voleva lui. L’eventuale formazione sulla sinistra del Pci in una fase di compressione dei salari, con il materiale umano di una generazione massacrata dal lavoro della ricostruzione, avrebbe compromesso il suo disegno politico. Qual è la storia del “Politecnico” dalla chiusura a oggi nelle diverse interpretazioni e nei diversi periodi? Il primo periodo occupa il primo decennio, vi è una sorta di mitizzazione dello scontro Vittorini-Togliatti. Generalmente si fa di Vittorini un martire, di Togliatti un oppressore. Il secondo va dal ’58 al ’65, cala l’interesse di quel conflitto e Vittorini stesso, che fa “Il Menabò”, non vuol più sentir parlare del “Politecnico”. Il terzo arriva a oggi, con una coda finale che riguarda la politica del Pci e i suoi recuperi. La terza fase, dunque, nasce attorno al ’65, con le interpretazioni della nuova sinistra, dei futuri o già imminenti extraparlamentari, in particolare di Asor Rosa, il quale, con la formula del populismo, critica non solo l’opera di Vittorini, ma vede nel “Politecnico” la pubblicazione che fiancheggia la cosiddetta ideologia della ricostruzione. Gli studiosi più agguerriti di Vittorini a livello filologico, come Anna Panicali4 , sottolineano la continuità tra il fascismo di sinistra di Vittorini e di Pratolini e il periodo successivo, oltre a notare un appoggio sostanziale alla politica della ricostruzione. In sostanza la vulgata extraparlamentare è questa: Vittorini era un letterato come tutti gli altri che non riesce ad abbandonare il proprio ruolo, che continua ad attribuire primato e privilegi alla letteratura. Togliatti, come sappiamo, è un riformista, complice della borghesia e quindi li mettiamo assieme, non vediamo più alcuna contrapposizione tra di loro, li identifichiamo anzi. 4 Anna Panicali, Il primo Vittorini, Milano, CELUC, 1974. Allegati 283 Qual è la tua opinione? Non la penso affatto così, né allora né adesso. Non sono d’accordo, eccetto che su qualche particolare. Si rimproverano i contenuti della rivista con una intenzionale mancanza di Storicismo. Si rimprovera al ’45 di non essere il ’65 o il ’68. Si dice chiaramente: non ce ne importa niente e si gioca su due piani, da un lato sul piano filologico, sull’analisi storica; dall’altro si rifiuta quest’analisi storica. Elio, sul letto di morte, non aveva parole gentili nei confronti di questi interpreti. Adesso, in una ultimissima fase, parte di coloro che hanno sostenuto questa posizione, tendono a rivederla e uno dei punti della politica culturale del Pci ambisce a recuperare proprio gli anni ’50 contro gli anni ’60 che sono evidentemente i più scabrosi. Gli anni ’50 si presentano come gli anni di “Officina”e del “Politecnico”; anni di una situazione egemonica culturale del Pci e di qui nasce la posizione più sfumata oggi, nei confronti del “Politecnico”, l’autocritica, la parola d’ordine “Abbiamo sbagliato”, eccetera. Ripeto, secondo me è un errore credere che si possa, se non per scopi di tipo filologico o accademico, vedere “Il Politecnico” come quello che nel “Politecnico” è scritto. Una rivista non è un romanzo, è un atto pratico, un’operazione pratico – politica, insomma. 284 Fortini–Vittorini Da “Politecnico”a “Ragionamenti” 1954-1957 * 1. Ho scritto recentemente contro la tendenza a riesumare gli anni ’50. Ho detto e credo che l’interesse per gli anni ’50 quale si esprime soprattutto attraverso numerose pubblicazioni, ristampe e antologie di riviste sia una più o meno intenzionale rimozione degli anni ’60, di quello che essi hanno voluto significare nel nostro paese, soprattutto per la lotta delle forze di sinistra. Gli anni ’50 sembrano, tutto sommato, qualcosa di concluso, qualcosa che si chiuse all’incirca intorno al ’57 e che permise, in mezzo a tensioni molto dure, di godere di una sorta di isolamento. Pensate che in quegli anni non era sentita o era pochissimo sentita la dimensione intercontinentale dei problemi. L’Asia, l’Africa, per esempio, e l’America Latina, erano relativamente fuori della nostra portata, il conflitto cino-sovietico non era in corso, il monolitismo dei partiti comunisti internazionali sembrava fuori discussione e per di più fino circa al ’56-’57 non era realmente messa in discussione quella sorta di formula progressista che si chiamò da noi crocio-gramscismo. Ad una condizione reale, voglio dire, della vita delle masse e anche dei ceti intellettuali, ad una condizione durissima (per la quale si è potuto parlare di tensioni tragiche o, con una metafora che è il titolo del mio libro, di Dieci inverni) corrispondeva tutta una sorta di solidità delle coscienze. Voglio dire: gli urti, i conflitti che si verificarono all’interno delle sinistre si fondavano ancora sull’unità antifascista, che è qualcosa di ben diverso, anzi di radicalmente diverso dall’unità antifascista di questi ultimi anni dove la parola antifascista suona molto diversa da allora. Allora fascismo e antifascismo dicevano qualcosa di chiaramente riconoscibile perché ricollegabile agli esiti della guerra civile. Anzi, un elemento che mi sembra poco considerato da coloro che parlano di questo periodo è l’importanza negativa assunta da tutta quella parte di italiani che possiamo considerare, in una certa misura, reduci della guerra e della guerra di liberazione, della guerra civile e dell’età partigiana; la liquidazione, la distruzione, la demolizione fisica di decine di migliaia di italiani che erano scampati alla guerra, accompagnata alla distruzione compiuta dalle condizioni di lavoro durante il primo decennio dopo la liberazione. Diciamo: un’intera generazione. Le condizioni nelle quali si è svolta la ricostruzione condotta nel segno di De Gasperi e di Einaudi nei termini paleoliberali in gran parte hanno avuto a che fare con metodi efferati ma diversi dal capitalismo d’azzardo degli anni ’60. Quel che gli italiani hanno pagato in termini di energie muscolari e nervose nei primi dieci anni dopo la liberazione è cosa di cui di solito non si tiene conto. In genere ci si limita ad accennare al fatto che * Franco Fortini, Da “Politecnico” a “Ragionamenti” 1954-1957, in Gli intellettuali in trincea. Politica e cultura nell’Italia del dopoguerra, a cura di S. Chemotti, Padova, Cleup, 1977, pp. 13-8. Allegati 285 intorno al ’53 comincia l’introduzione di nuovi metodi di lavorazione nelle fabbriche avanzate. Ma si dimentica la distruzione fisica di una generazione di italiani compiuta attraverso le condizioni materiali di lavoro del primo decennio. Sono dunque abbastanza contrario, in linea di principio, a una ripresa generica dell’interpretazione degli anni ’50. Pensate per esempio alla vicenda del “Politecnico” sulla quale sono corsi fiumi di chiacchiere e di tesi di laurea nel corso degli ultimi dieci anni. Per un discorso serio mancano ancora troppi elementi. Possiamo fare delle interpretazioni relativamente poco attendibili come quelle di chi ha vissuto le cose in prima persona. Darò qualche esempio. Si è accennato all’importanza del Fronte della Gioventù, promosso da Curiel, nella nascita di “Politecnico”. In realtà la cosa risale all’anno precedente, si accompagna con lo sviluppo della lotta di Liberazione ed emerge un conflitto tra quello che si poteva riferire a nome di Antonio Banfi e quello che è stato poi il Direttore del “Politecnico”, cioè Vittorini. Questo conflitto, probabilmente, preludeva già al futuro conflitto Togliatti-Vittorini. Quando Banfi lamenta, (secondo una testimonianza che Marina Zancan ha messo in evidenza) che sciaguratamente o purtroppo, la direzione del “Politecnico” era stata affidata a Vittorini, laddove il “Politecnico”, nato in origine come pubblicazione del Fronte della Cultura, avrebbe dovuto essere controllato da una autorità intellettuale come Banfi, questo prova che già esisteva, per dir così, un Partito Comunista della cattedra. Si pensi a nomi come quelli di Marchesi, di Banfi, di Cantimori, di Bianchi Bandinelli. Esisteva un comunismo della cattedra che avrebbe fatto quadrato intorno a Togliatti e avrebbe giustificato l’atteggiamento di distacco, di autonomia, di sufficienza, nei confronti di “Politecnico”, la tendenza ad accusare Vittorini di pressapochismo, di confusionarismo. Tendenza che avrebbe avuto tanto rilievo attraverso pubblicazioni come la rivista “Società”. Solo adesso si comincia a studiare il blocco di potere culturale, fondato a partire dalle Università, che ha avuto tanta importanza nel corso degli anni ’50. Quel che ne sappiamo ci consente fin d’ora di non accollare soltanto a Togliatti le responsabilità di certe scelte politiche. È vero che quando si pensa alla discussione Togliatti-Vittorini bisogna mettere in evidenza che Togliatti rappresenta l’ltalia che si sentiva – non senza ragione – più vicina a Croce che non a Vittorini. Ma per “Politecnico” ci sono altri aspetti ancora oscuri. Per esempio che cosa accade in tutto il semestre che va dalla fine del settimanale (marzo-aprile del ’46) sino alla fine del mensile (cioè con 1a fine del ’47), quando cioè la polemica del Pci nei confronti del settimanale è stata tanto forte da farlo finire, ma non ancora tanto forte da far finire l’ipotesi del mensile? Tutta la discussione Togliatti-Vittorini quale noi la vediamo documentata nella rivista (e cioè nel mensile) sembra essere un’unica discussione mentre in realtà vi è stata più di una discussione, ognuna cominciata in modo relativamente non documentabile, a 286 Fortini–Vittorini cominciare da due o tre mesi al massimo dall’inizio del settimanale. Ancora: resta da documentare realmente tutto quello che è accaduto tra l’ultimo numero della rivista che è del dicembre ’47 e la decisione di non fare più nulla, decisione venuta da Vittorini, la quale coincide in realtà con quel congresso dell’alleanza della Cultura cui ha accennato Brunetta e che è, se non mi sbaglio, del marzo ’48. Nel corso di quella grande e importantissima manifestazione si formò nel segno del Fronte Democratico-Popolare (cioè dell’unione politica dei comunisti e socialisti che si apprestavano ad affrontare le funeste elezioni del 18 aprile ’48), uno schieramento di intellettuali molto ampio. Si ebbe, a Firenze, una settimana di dibattiti. In quella occasione è documentato che Vittorini ebbe degli scontri e dei giudizi piuttosto vivaci nei confronti di alcune tesi portate avanti da dirigenti comunisti come Emilio Sereni, che due mesi prima era stato delegato a trattare con Vittorini per la chiusura di “Politecnico”. E ancora: restano oscuri gli esiti ideologici del viaggio di Vittorini a Parigi; che si svolse appunto l’anno prima, nella primavera del ’47 e che lo mise in rapporti non cordialissimi col gruppo che dirigeva l’Unione degli Scrittori controllato da Aragon e dal Partito Comunista mentre egli entrava in relazione anche con alcuni intellettuali appartenenti a dissidenze di sinistra quali in Italia allora non esistevano né si concepivano e la cosa ebbe un notevole riflesso evidentemente sia sulle posizioni assunte dal Partito Comunista nei confronti di Vittorini nella seconda metà del ’47, sia poi sulle posizioni successive di Vittorini. Altro e ultimo punto che resta da chiarire, per il quale non ho nessun elemento: passano quasi tre anni e forse più tra la rottura aperta di Vittorini con quelle che erano state le sue posizioni precedenti, rottura che si manifesta in due occasioni nel corso dell’anno ’48, e l’attacco beffardo di Togliatti su “Rinascita”: Vittorini se n’è ghiuto e soli ci ha lasciati dice il titolo. Che cosa è accaduto in tutto questo periodo? Né torno a insistere, come più volte ho fatto, sulla scomparsa dell’archivio della rivista. Ultimo piccolo mistero aggiuntivo: finito il settimanale nell’aprile del ’46, per tutta la durata del mensile (cioè la seconda metà del ’46 e tutto il ’47) non c’è stata una redazione. Quando si scrive “la redazione del ‘Politecnico’” ci si riferisce alla prima redazione, cioè a quella che effettivamente fu una redazione stipendiata (male). Nei mesi del mensile, successivamente, non c’è più la redazione; c’è solo Vittorini. Egli si giova del consiglio, dell’aiuto e della collaborazione naturalmente di amici del vecchio gruppo e di altri nuovi, ma in modo informale, non ci sono sedute redazionali vere e proprie. Se si passava alla sede del “Politecnico” in via Filodrammatici 5 a Milano, si potevano sentire le urla di Alfonso Gatto che stava litigando con Stefano Terra, o con, mettiamo, Giansiro Ferrata; ma questa non era una redazione. Non esisteva più quel minimo di istituzione organizzata che c’era stata precedentemente. Quindi l’elemento di libera creatività di Vittorini è sempre presente. Allegati 287 2. A questo punto sarebbe assurdo tracciarvi linee storiche della cultura italiana del decennio successivo. Mi limiterò a un punto: giustamente Asor Rosa, in un intervento a Milano, faceva rilevare che nel suo libro non aveva tenuto abbastanza presente certe attività intellettuali non propriamente letterarie o filosofiche e che per esempio, negli anni ’30 un architetto come Terragni avrebbe dovuto essere considerato molto più importante che non tutti i poeti italiani di quel decennio. La cosa mi trova non del tutto consenziente ma intendo benissimo che cosa Asor Rosa vuol dire. Chi volesse veramente capire cosa è successo nel primo decennio del dopoguerra, dovrebbe occuparsi della grande sconfitta storica degli architetti italiani. Oggi piangiamo periodicamente sullo scempio delle nostre città, ma esso non è stato compiuto negli anni ’60. È stato compiuto negli anni ’50, e non già nei termini di un’architettura neocapitalistica, bensì nella ricostruzione più piattamente paleoborghese delle città italiane. Ed è stato allora il corpo dei nostri architetti d’avanguardia che aveva rappresentato un gruppo culturalmente importantissimo nell’Italia degli anni ’30 (e a metà degli anni ’30), gli uomini che si erano formati sulle parole di Persico nell’ambito milanese, sono quelli che nel giro di pochi anni capitolano rapidamente e in un certo senso sono l’esempio visivo del crollo di un ceto di operatori intellettuali 3. Nel libro di Asor Rosa si accenna all’esistenza di una pubblicazione che nessuno oggi conosce finché qualche zelante editore non ne farà una reprint. Si chiamò “Ragionamenti”, e se ne suole parlare in relazione al ’56. Le cose non stanno precisamente cosi. Il “Politecnico” aveva lasciato una sorta di vuoto e questo vuoto si era aperto non tanto in coloro che erano stati legati, come era avvenuto nell’Italia del nord, dall’esperienza partigiana, non quindi negli uomini che erano stati vicini a Vittorini o in qualche modo avevano rapporti con le sfere dell’università, non i giovani, per esempio, votati a carriera accademica e usciti dalla scuola di Banfi, come Enzo Paci, Remo Cantoni, Giulio Preti; quanto nei più giovani ancora, i ventenni, per intenderci, che avevano in qualche modo e confusamente partecipato all’atmosfera della “funzione ‘Politecnico’” irraggiata al di là del settimanale e estesa a tante altre pubblicazioni e riviste. Per costoro si era veramente creato un vuoto. E quel vuoto si era accompagnato con la caduta della sinistra alle elezioni del 1948 e con l’inizio della guerra fredda. Era l’inizio della guerra fredda, la restaurazione della destra cattolica, l’arroccarsi della cultura che si rifaceva al socialismo su una linea che era quella che sarebbe stata chiamata del crocio-gramscismo, non senza le forti influenze che venivano dal costume sovietico ispirato in quegli anni ai progetti di Zdanov. Dello zdanovismo si è poi negata l’importanza per il nostro paese. Secondo me, esso ha avuto invece una rilevantissima influenza non tanto perché si accet- 288 Fortini–Vittorini tassero le sue prescrizioni nel campo delle lettere e delle arti, della musica eccetera, quanto perché dietro queste prescrizioni, al di là della volontà di indicare e di prescrivere determinati comportamenti stava un atteggiamento generale nei confronti della funzione intellettuale che può essere sintetizzato nella sinistra battuta attribuita, credo, a Stalin: “La carta sopporta tutto”. Se “la carta sopporta tutto”, la funzione degli intellettuali non è più, a partire dal ’47-’48 (e questo lo dice molto bene Asor Rosa), non è più quella che aveva potuto essere nei tre, quattro anni immediatamente precedenti. In quella situazione di vuoto e di dispersione avviene che in varie parti d’Italia si coagulino dei minuscoli gruppi. Uno si forma a Milano, e lo conobbi bene. Erano dei giovani laureati o ancora universitari con i quali mi trovavo casualmente in rapporto e considerato da loro un vecchio, una specie di reduce, un reduce del “Politecnico”. Si trattava di giovani che preferivano ignorare il fascino della letteratura, si occupavano soprattutto di economia e di filosofia, e che in modo ancora liceale comunicavano tra loro con un bollettino poligrafato (“Discussioni”),vi si trattavano argomenti che oggi lasciano a bocca aperta. Tutta la tematica che è stata ripresa all’inizio degli anni ’60, cioè tutti i temi di fondo riguardanti l’Unione Sovietica, il significato della guerra di Spagna, i problemi teorici connessi con l’uso della violenza proletaria, li vediamo discussi in quel poligrafato, fra il 1949 e il 1954. Fra quelli che scrivevano su “Discussioni”, i nomi di Delfino Insolera, Renato Solmi, Roberto Guiducci, Claudio Pavone, Luciano Amodio. Alcuni di loro avevano avuto una esperienza partigiana. Altri sono troppo giovani per averla potuta avere. Alcuni sono legati a partiti, pochissimi; iscritto al Partito Comunista, il solo Luciano Amodio, iscritto al Partito Socialista, uno solo ed ero io. Gli altri non avevano disciplina di partito. Scrive Asor Rosa1: “In questo passaggio critico (qui lui si riferisce al ’56, mentre io mi sto riferendo al ’51, cioè esattamente cinque anni prima) approfittando oltretutto di certe debolezze della linea culturale comunista (come se la linea culturale comunista fosse una timida vergine) riprende forza una cultura che si muove sia pure con molta libertà, all’interno dell’area socialista”. Si fosse detto allora a quei giovani che la loro attività si svolgeva nell’area socialista, essi si sarebbero messi a ridere, sia per la scarsissima considerazione che avevano del partito socialista sia per il fatto che si ritenevano in genere marxisti, ma molto più vicini, comunque, alle posizioni del Partito Comunista che non al Partito Socialista. Riferirli, oggi, all’“area socialista” è un modo elegante di sbarazzarsene. Il loro problema centrale era il discorso sull’Unione Sovietica cioè la realtà dell’Unione Sovietica, il Comunismo. I rapporti col Partito Socialista erano inesistenti. Posso ricordare per esempio, di aver partecipato, nel 1951 per con1 Alberto Asor Rosa, La cultura. Dall’Unità a oggi, in Storia d’Italia, vol. 2°, Torino, Einaudi, 1975, pp. 1625-26. Allegati 289 to della Federazione Socialista milanese, ad un convegno con una lunga relazione sullo stato delle attività culturali del Psi. La mia relazione fu in realtà una relazione sulle attività culturali del Partito Comunista, l’unico che in quel momento svolgesse un’attività culturale. Il gruppo di cui sto parlando più di una volta si pose il problema di passare ad una vera e propria pubblicazione. Se tale pubblicazione non c’è stata e solo nel ’55 abbiamo deciso di passare alla stampa, ciò fu perché avevamo tutti una ben chiara preoccupazione: di non indebolire in nessun modo il blocco delle sinistre che in quel momento era esposto ad una pressione molto violenta. Indipendentemente dalla nostra militanza politica, indipendentemente dalla tessera che avevamo o non avevamo in tasca, ognuno di noi era cosciente che non si doveva passare ad una pubblicazione perché ciò avrebbe potuto danneggiare l’unità delle forze di sinistra in quel momento, anche se in quel momento, proprio dal punto di vista culturale, il Partito Comunista aveva la tetra faccia dei decreti di Zdanov. In quel periodo, attraverso articoli, collaborazioni varie (per esempio, le mie) ad un giornale, come l’“Avanti”, e rapporti personali anche di lavoro, si determinarono dei contatti con una zona di attività intellettuali tra la sociologia e l’urbanistica e fra l’attenzione a problemi sindacali e manageriali, in un’area che andava da Torino a Milano passando per Ivrea. Da non dimenticare l’importanza che aveva in quel momento Ivrea, Adriano Olivetti, le sue attività soprattutto architettoniche ed editoriali. In quel periodo si svolse una attività intensa di scambi intellettuali sotto forma di lettere private e aperte, una parte delle quali, non so con quali criteri, sarà probabilmente pubblicata da Carlo Doglio. Vi parteciparono studiosi, come, appunto, Carlo Doglio, di formazione anarchica, degli economisti come Franco Momigliano, sociologi destinati ad operare nell’ambito del Partito Socialista come Roberto Guiducci e sua moglie Armanda; e molti altri. La discussione si svolse apparentemente in vaso chiuso ma quando poi si considera quanti e quali vi sono stati coinvolti, si vede che essa ebbe una rilevanza notevole soprattutto perché molti di coloro che si rifanno a quei problemi appaiono come i portatori di una visione e di una tematica europea, legata ai temi del neopositivismo, alle scienze umane, alla psicologia e psicanalisi contemporanea, ai temi dell’urbanistica, ecc., molto più di quanto non avvenisse nell’ambito della cultura comunista allora dominata da quello che fu una sorta di neomeridionalismo. Se voi leggete le riviste comuniste dell’epoca, “Rinascita” o “Società”, voi vedete quanto spesso vengano scherniti come vittime o agenti delle ideologie borghesi quelli che si occupavano, che so, della moderna urbanistica, dell’industrial design o di quello che cominciava ad essere il meccanismo di manipolazione delle opinioni, la sociologia della cultura. La bandiera De Sanctis-Croce-Gramsci veniva agitata contro questa corruttela neopositivistica del “nord”. Era l’esatto rove- 290 Fortini–Vittorini scio di quanto accade oggi. Nel libro di Asor Rosa si dà grande importanza all’attività di un filosofo come era Giulio Preti. Si scrive che fu una delle colonne del “Politecnico” quando invece Giulio Preti nel “Politecnico” non contò nulla. Non perché non fosse un uomo di eccezionali capacità, ma perché Vittorini non aveva particolare simpatia per quel tipo di scrittura e riflessione. Preti fu radicalmente respinto dalle correnti dominanti del PCI e si isolò del tutto, quando il suo libro Praxis ed empirismo venne pubblicato, ossia nel 1957, la situazione era già cambiata. Gran parte degli interessi del gruppo cui ho fatto allusione vengono recepiti (con sette o otto anni di ritardo) dalle dirigenze culturali del PCI, all’indomani del fatale anno 1956 (conosco gente che in venti anni non si è mai rimessa dall’esaurimento nervoso preso in quell’annata). 4. Fra il 1953 e il 1955 si cominciò a vedere la fine del tunnel della guerra fredda. Nel ’55 un gruppo di alcuni amici, quello che aveva comunicato per anni col ciclostilato “Discussioni”, decise di fare una piccola pubblicazione che si chiamò “Ragionamenti”. Presto si prese contatto con un gruppo francese di cui facevano parte Edgar Morin e Roland Barthes, e si decise di fare una edizione francese e di chiamarla “Arguments”. La pubblicazione durerà appena due anni, pagata con i nostri soldi, avversata da tutti, totalmente ignorata dalla stampa ufficiale di partito e destinata a concludersi, in pratica, col tempestoso anno ’56. La rivista tirava cinquecento copie e non veniva venduta, ma spedita a degli amici. Era rivolta quasi esclusivamente ed esplicitamente ai quadri intellettuali del Partito Comunista. La sua conclusione si accompagna con gli sconvolgimenti successivi. Con i fatti di Ungheria e Polonia e col successivo congresso del Pci, si ebbe per la prima volta una fuoriuscita dal Pci di alcuni intellettuali e studiosi, almeno apparentemente su posizioni che oggi potremmo chiamare di sinistra. Fra i nomi che rammento uno fa una strana impressione alla luce delle vicende successive: è quello di Antonio Giolitti. Nella primavera del 1957 ci consideravamo dei vincitori, le cose erano andate come avevamo pensato dovessero andare, e cioè che si dovesse arrivare a rompere sul piano intellettuale, sul piano ideologico soprattutto, l’assurda unità che era stata necessaria (o era sembrata necessaria) negli anni più duri della guerra fredda ma che adesso era diventata un cadavere sulla strada del comunismo. Quindi, come dice anche Asor Rosa, non c’era più il marxismo, c’erano più marxismi; non solo, ma (cosa ben più importante) avveniva il recupero di esperienze socialiste che nel ventennio precedente erano state considerate i “rami secchi”. Cominciava a disegnarsi il senso della rivoluzione cinese. Allegati 291 Ma esisteva Vittorini? * “Uno degli anni in cui noi uomini d’oggi si era ragazzi o bambini…”. Con questo “c’era una volta” comincia l’ultima opera, postuma, di Vittorini Le città del mondo. E vuol dire nell’infanzia del mondo e in quella nostra. È un universo adamitico, Sicilia che un Icaro sorvola, veduta celestiale dal “Balcone delle Madonie”. Sono proprio queste o altre simili pagine di Vittorini, lucidi idillii piscatorii o favole silvestri, a farci intendere quale spietata metamorfosi il secolo abbia apparecchiata a tutti noi, non solo a quel poeta bucolico. Negli anni Venti e Trenta, più vicino agli ermetici, Bilenchi cercava un suo nudo disegno attonito. Vittorini, come certamente Montale, dai divieti del Ventennio trovava fomento ad un uso dei simboli, delle mitologie delle origini e dei poteri tellúrici o magici, quali aveva letti in Lawrence e in tanti altri inglesi, anche più che negli americani, che tutti sempre rammentano. Di quelle contaminazioni culturali, avventurose e spesso rovinose per gli autodidatti, elaborò il suo miele. Ma, per riuscirvi, ebbe bisogno di strafare; tanto col faticoso sistema di iterazioni ed ecolalie che fu la più riconoscibile delle sue sigle, quanto col manierismo sottilissimo del suo maggiore esito; che, poco ascoltata, Maria Corti aveva fin dal 1974 indicato proprio in Le città del mondo. Come i suoi amati arabi o l’Ariosto o gli spagnoli d’oro o il Marino, sbagliando, errando, riesce fino a verdi radure luminosissime dove si ode il canto delle fenìci. Mentre sono piuttosto le figure e le situazioni da Garofano a Sempione a Erica a Le donne di Messina e La Garibaldina, a parere oggi più remote di quanto non sarebbero ad una lettura meno prevenuta. Fa eccezione il nero meteorite psichico di Conversazione proprio pochi giorni or sono ripubblicata da Rizzoli con disegni di Guttuso, e al centro di un convegno che si svolge a Viareggio l’1 e il 2 febbraio. Per parte mia credo che la sua opera abbia raggiunto vittoria solo in due momenti, opposti fra loro. Il primo è quello lirico, che si suddivide a sua volta in due parti, tenebrosa la prima (discesa alle Madri, di Conversazione), lucente la seconda (e rapita di stupefazione onirica, in Le città), l’altro è un libro a torto ritenuto macchinazione propagandistica, errore e fallimento: Uomini e no. Intendo, nella sua prima versione, 1945. Unico fra i lettori e i critici italiani, Noventa vide fin da allora che Vittorini si sporgeva in quel libro al di là di sé medesimo, in una situazione “russa”, dove l’episodio resistenziale e terroristico è, a un tempo, tutto convenzionale ma anche tutto – oggi lo sappiamo bene – profetico. Berta è il solo personaggio vittoriniano che (in termini non ignoti a un Cernicevskij) contesti radicalmente, con pochissimi gesti e parole, l’eroi* Franco Fortini, Ma esisteva Vittorini ?, “L’Espresso”, 4, 2 febbraio 1986, pp. 84-6. 292 Fortini–Vittorini cismo letterario dell’autore. Pragmatismo e comportamentismo che per poco più di un decennio egli aveva potuto credere marxistico avevano reso Vittorini (e il suo sosia) diffidente di ogni comunicazione soprattutto verbale. Ed è invece a parole che Berta vuole chiarire la sua situazione di donna di due uomini; dove la parola non è in funzione di letteratura o di melodia ma di scelte etiche. Enne Due, posto di fronte a una donna che è anche linguaggio comunicativo, fugge allora verso l’infanzia, manca il rapporto erotico; e la sua volontà di purezza e tensione, verginale e asessuata, si rovescia in virilismo e durezza. Lo straordinario esito del libro, nel suo apparente scacco romanzesco, è di darci uno dei più inattesi e profondi autoritratti dell’autore (e di molti, di allora e di oggi), del suo arcangelismo, segnato da una crepa o ferita occulta che gli amici avvertirono sotto l’apparenza integra di Elio. Tanto che Vittorini è tornato ad apparire loro in sogno o visione e sempre come figura di profilo o di fuga; a segno da farli dubitare avesse mai avuta realtà. Ci siamo urtati, spesso e a lungo, caratteri irreconciliabili. Lui “contatto passionale con le cose”, come scrisse, e col particolare e il concreto, io, con l’astratto, il negativo, e l’invisibile. Non mancò chi speculasse su quei contrasti, attizzandoli. Distanti, ne abbiamo sofferto. Ma Elio non aveva dimenticato, né io, il primo quinquennio del dopoguerra. Dopo di allora gli ho sentito pronunciare parole cattive; (anche contro di me); meschine mai. Sfavillava d’ira contro i pedanti, i professori, gli esangui. Odiava tenebre e pietà... Una volta, ammalato, in casa sua (penombra, un letto basso) disse, con quel suo affetto irato: “In punto di morte vorrei ancora guardare laggiù, dalla finestra” – e verso le persiane voltava di scatto la mascella e la gran bocca saracena, immobili le spalle e le mani piantate sul lenzuolo. Nome e opera di Vittorini dimorano oggi nella medesima luce d’eclisse che già aveva avvilito Pavese. E, credo, per le medesime ragioni; pessime ma irresistibili. Che il suo nome non torni mai se non per ironia sulle pagine dei nostri attuali maestri del non – pensiero non dovrebbe però troppo deporre a suo favore: quel che è mutato è proprio quel che egli perseguì con maggiore coerenza e cioè l’idea di una letteratura vivente che avesse il compito di evitare l’invecchiamento del mondo. Si è adempiuto uno dei voti di Asor Rosa: che la letteratura smettesse di pretendere di essere tutto, augurandosi proprio per questo di poter essere qualcosa. E lo è, infatti, quanto basta perché si sorrida come di ingenui ragazzi di coloro che ancora venti o trenta anni fa, pensavano di poter dire, nella tradizione romantica rianimata dalle avanguardie, qualcosa sulle “verità ultime” nelle forme della lingua nazionale Certo, se torno a leggere i tormentosi appunti che una pietà forse ingiusta di studiosi e di amici volle pubblicare poco più di venti mesi dopo la morte di Vittorini, col titolo di Le due tensioni, ritrovo lo scoramento che me ne venne Allegati 293 allora, di fronte a quell’ininterrotto accumulo di affermazioni esasperate e di razionalizzazioni incalzanti, dove si leggeva il meglio e il peggio della sua intelligenza. Il peggio, che era presunzione di onnipotenza intellettuale; il meglio, che era fede in valori verificabili potenzialmente da tutti. Da quel peggio gli era sempre venuta la scarsissima attenzione a idee che, contraddicendolo, richiedessero alla sua mente la pazienza, virtù a lui sempre nemica, e quindi la orgogliosa disperazione del rovello autocritico, fatta di rovesciamenti radicali e perciò infruttuosi. Da quel meglio traeva invece una sovrabbondante passione per i moti innovatori degli individui e della storia che, nella oratoria della sua prosa saggistica, non si dispiegava soltanto ma coraggiosamente proponeva a modello di un possibile altro; e comune linguaggio della comunicazione, di un “volgare” di genti liberate. Diario in pubblico, titolo perfetto, fu l’ultimo gesto di scrittura italiana rivolto in quella direzione, dove si cercasse ancora equilibrio fra il narcisismo della letteratura che parla di se stesso e l’altruismo di un linguaggio che si vuole di relazione. L’ultimo; perché se Vittorini aveva saputo superare e conservare l’estetismo della sua educazione nell’ampiezza di una letteratura internazionale di grandi miti e di catastrofi atroci e generose, non aveva retto ai trionfi del nuovo Capitale, nella cui “scienza” aveva pur continuato a credere fino alla fine. Era infatti un “progressista”; e le contraddizioni del progresso lo ammutolirono. Lavorava ancora al progetto d’una rivista internazionale quando s’accorse che l’età dei viaggi, ossia del suo più amato mito e simbolo, era finita. Volse in odio l’amore per la propria giovinezza. Delirò di industria come luogo della ricerca innovatrice e rivoluzionaria. Eppure nel suo ospedale, poco prima della morte, lette le accuse di populismo rivolte alla sua opera passata, lo sentii rivendicare, da amico quale era, le radici della propria e mia natura e difenderle da quelle che vedeva come imminenti esaltazioni tecnocratiche. Chissà che anno era. Forse la prima manifestazione di studenti attaccata dalla polizia. Contro la Spagna di Franco. Una carica, alcuni arresti. Con altri vidi Vittorini venire avanti; sceso dalla sua casa di via Gorizia. Non gli andai incontro, anzi mi allontanai. Due carabinieri mi fermano e fra di loro, come Pinocchio, mi avvio al cellulare. La strada sgombra sotto le lampade; la folla, in un silenzio improvviso, premuta sui marciapiedi. Alta, gridando, la voce di Elio: “Arrestate anche me, sono uno degli organizzatori!”. Detto fatto. Agguantano anche lui ed eccoci fra i giovani arrestati. Il giorno dopo lasciai alla portineria di Elio un esemplare della prima edizione italiana dei Miserabili, con un biglietto, per farlo ridere, alla pagina celebre “Ci sono anch’io”, quando la guardia nazionale fucila gli insorti. 294 Fortini–Vittorini Siamo stati insieme, in questo senso, molto a lungo, fino al comune modo di vivere il XX Congresso sovietico e l’Ungheria del 1956, fino alle comuni amicizie francesi negli anni d’Algeria, 1958-1960, e fino a quella mattina dell’ottobre del ’62, crisi di Cuba, quando ognuno con i propri fiori in braccio, ci si incontrò nel punto dove la sera prima una camionetta della Celere aveva ammazzato il suo primo studente, Ardizzone. Bisogna rileggere le prose non narrative di Vittorini per capire che cos’è, quando c’è, il coraggio mentale. E dovessi rispondere a un giovane “Leggi Diario in pubblico”, direi, “tutto”. Allegati In memoria di E. V.* In forma di preziosa pietra opale ti hanno visto converso stupiti gli amici o tu che i sogni nostri percuoterai orrore lasciando e scompiglio. Piccolo oggetto chiaro era la faccia nella cassa, fra i libri. Domandi ora chi era? Risponderò: da vivo lo avevo conosciuto poi chiuso chiuso così l’ho veduto. * In F. Fortini, Composita solvantur, Torino, Einaudi, 1994, p. 18. 295