La principessa di Clèves

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La principessa di Clèves
Madame de La Fayette
La principessa di Clèves
Traduzione di
Renata Debenedetti
PARTE PRIMA
La magnificenza e la galanteria non sono mai apparse in Francia con tanto splendore come
negli ultimi anni del regno di Enrico II. Questo principe era galante, di bella persona e innamorato;
e benché la sua passione per Diana di Poitiers, duchessa del Valentinois, durasse da più di venti
anni, non per questo era meno violenta e meno manifesti i segni che egli ne dava.
Abile in ogni esercizio fisico, egli ne faceva una delle sue principali occupazioni. Ogni
giorno erano partite di caccia, di pallacorda, balletti, corse agli anelli o divertimenti analoghi; i
colori e le cifre di madama del Valentinois ricorrevano ovunque, ed ella stessa appariva in pubblico
con tutti i vezzi che poteva avere madamigella della Marck, sua nipote, allora in età da marito. La
presenza della regina autorizzava la sua; per quanto avesse passato la prima giovinezza, la regina
era ancora bella e amava la magnificenza, lo sfarzo, i piaceri. Il re l'aveva sposata quando era ancora
duca di Orléans, e aveva per fratello maggiore il delfino, quello che doveva poi morire a Tournon, e
che nascita e grandi doti personali destinavano a succedere degnamente a Francesco I, suo padre.
L'indole ambiziosa della regina le rendeva dolce il regnare: e pareva sopportare senza
soffrire l'attaccamento del re per la duchessa del Valentinois e non se ne mostrava affatto gelosa;
ma tale era la sua abitudine a dissimulare che era difficile indovinare i suoi sentimenti, e le necessità
politiche la costringevano a non allontanare da sé la duchessa se non voleva allontanare anche il re.
Questi amava la compagnia delle donne, anche di quelle di cui non era innamorato. E ogni
giorno all'ora della conversazione rimaneva con la regina dove sempre si dava convegno quanto la
corte avesse di più leggiadro e di più bello sia dell'uno che dell'altro sesso.
Mai corte ebbe tale profusione di splendide donne e di magnifici uomini; si sarebbe detto
che la natura si fosse compiaciuta di collocare nelle principesse e nei principi di più alto lignaggio
tutto quello che aveva di più bello. Madama Elisabetta di Francia, che fu poi regina di Spagna, già
mostrava uno spirito sorprendente e quella incomparabile bellezza che doveva un giorno riuscirle
tanto funesta. Maria Stuarda, regina di Scozia, che aveva da poco sposato il delfino e veniva
chiamata la regina delfina, creatura perfetta di mente e di corpo, era stata educata alla corte di
Francia e ne aveva acquisita tutta la raffinatezza; tanta era la sua inclinazione per tutte le cose belle
che, nonostante la sua giovane età, ne godeva e se ne intendeva più di chiunque altro. La regina sua
suocera e Madama sorella del re amavano anch'esse i versi, la commedia e la musica. In Francia era
ancora vivo l'amore che il re Francesco I aveva avuto per la poesia e per le lettere; e poiché il re suo
figlio amava tutti gli esercizi del corpo v'era a corte ogni sorta di divertimento. Ma ciò che
veramente dava bellezza e maestà a quella corte era lo stuolo infinito di principi e di grandi signori
di straordinario valore. E questi, di cui farò il nome, erano in vari modi l'ammirazione e l'ornamento
del loro secolo.
Il re di Navarra attirava il rispetto di tutti per l'altissimo suo rango e per la nobiltà della sua
persona; egli eccelleva nella guerra e il desiderio di emulazione che il duca di Guisa gli ispirava lo
aveva condotto più di una volta ad abbandonare il posto di generale per andare a combattere nei
luoghi di maggior pericolo, al suo fianco, come semplice soldato. È anche vero che questo duca
aveva dato prove ammirevoli di valore e aveva veduto le sue imprese coronate da così grande
successo che non c'era guerriero il quale non guardasse a lui con invidia. Il suo valore era sorretto
dalle migliori qualità: spirito vasto e profondo, animo nobile ed eletto, pari abilità sia in guerra che
negli affari. Il cardinale di Lorena, suo fratello, aveva sortito da natura, insieme ad uno spirito vivo
e ad una straordinaria eloquenza, una smisurata ambizione e aveva acquisito un profondo sapere, di
cui si serviva per mettersi in vista col difendere la religione cattolica, che incominciava allora a
subire attacchi. Il cavaliere di Guisa, chiamato in seguito il gran priore, era un principe amato da
tutti, bello, pieno di spirito e di accortezza e celebre in tutta Europa per il suo valore. Il principe di
Condé, in un piccolo corpo poco favorito dalla natura, aveva un'anima grande e altera e uno spirito
che lo rendeva gradito alle donne più belle. Il duca di Nevers, illustre per la gloria militare e per le
alte cariche ricoperte, benché avanti negli anni, era la delizia della corte. Egli aveva tre figli di
perfetta bellezza: di questi il secondo, chiamato principe di Clèves, era ben degno di portare quel
suo glorioso nome: splendido, coraggioso e di una prudenza che non si accompagna mai alla
giovinezza. Il visdomino di Chartres, disceso dall'antica casata dei Vendôme, della quale principi
del sangue non disdegnarono portare il nome, eccelleva in modo uguale nella cortesia e nella
guerra. Bello egli era e di gentile aspetto, valoroso, ardito, liberale; qualità tutte che possedeva in
modo vivo e splendente. Egli infine era il solo degno di essere paragonato al duca di Nemours, se
pure vi era qualcuno che potesse essergli paragonato.
Questo principe poi era un capolavoro della natura; e la cosa in lui che meno destava
ammirazione era di essere l'uomo più bello e meglio fatto del mondo. Ciò che lo faceva eccellere
sugli altri era un incomparabile valore e un fascino nello spirito, nel volto, nei gesti quali nessun
altro che lui aveva mai avuto: possedeva una grazia che piaceva ugualmente a uomini e donne, una
straordinaria abilità in ogni esercizio fisico, un modo di vestire che tutti cercavano di imitare senza
potervi riuscire; infine una tale seduzione emanava da tutta la sua persona che ovunque si mostrasse
non si poteva guardare che lui. In tutta la corte non vi era dama che non sarebbe stata orgogliosa di
ottenere le sue attenzioni; poche fra quelle che gli erano piaciute potevano vantarsi di avergli saputo
resistere e molte alle quali non aveva mostrato amore alcuno avevano avuto per lui delle vere
passioni. Tale era la sua dolcezza, la sua inclinazione alla galanteria che non sapeva rifiutare
attenzione a quelle che cercavano di piacergli: così aveva parecchie amanti, ma sarebbe stato
difficile indovinare quale amasse veramente. Egli si recava spesso dalla regina delfina: la bellezza,
la dolcezza di questa principessa, la cura che essa metteva nel piacere ad ognuno, e la stima tutta
particolare che gli mostrava avevano dato adito a pensare che egli alzasse gli occhi fino a lei. I
principi di Guisa, di cui ella era nipote, avevano accresciuto il loro potere col suo matrimonio:
l'ambizione li faceva aspirare a farsi uguali ai principi del sangue e a dividere la potenza del
connestabile di Montmorency. Il re affidava a questi la maggior parte delle cure di governo e
trattava il duca di Guisa e il maresciallo di Saint-André come suoi favoriti; ma tutti coloro che
protezione o affari avvicinavano alla sua persona non potevano mantenere il potere se non si
sottomettevano alla duchessa del Valentinois; e, sebbene questa non avesse più né giovinezza né
bellezza, pure dominava il re con tale assoluto dispotismo che si poteva dirla padrona della sua
persona e dello Stato.
Il re aveva sempre avuto caro il connestabile e, appena salito sul trono, l'aveva richiamato
dall'esilio dove l'aveva confinato il re Francesco I. La corte era divisa fra i signori di Guisa e il
connestabile, sostenuto a sua volta dai principi del sangue. Sia l'uno che l'altro partito avevano
sempre sperato di conquistare le simpatie della duchessa del Valentinois. Il duca d'Aumale, fratello
del duca di Guisa, aveva sposato una figlia di lei; il connestabile aspirava ad uguale parentado: non
si accontentava di avere sposato il primogenito a madama Diana, figlia del re e di una dama
piemontese che si era fatta monaca subito dopo il parto. Un matrimonio, questo, che aveva
incontrato molti ostacoli per le promesse che il principe di Montmorency aveva fatto a madamigella
di Piennes, damigella d'onore della regina; e benché il re li avesse superati con una pazienza e una
bontà estreme, pure il connestabile non si sentiva sicuro se non si fosse assicurata la protezione di
madama del Valentinois e non l'avesse separata dai duchi di Guisa, la cui potenza incominciava ad
essere per lei motivo di inquietudine. La duchessa aveva ritardato per quanto aveva potuto il
matrimonio del delfino con la regina di Scozia, la cui bellezza e spregiudicata intelligenza le erano
odiose; come odioso le era il potere che questo matrimonio avrebbe dato ai Guisa. Ella detestava
sopra tutti il cardinale di Lorena, che l'aveva trattata duramente, se non addirittura con disprezzo.
Invece vedeva il cardinale allearsi con la regina, sicché il connestabile la trovò disposta a far lega e
ad imparentarsi con lui per mezzo del matrimonio di madamigella della Marck, sua nipote, con il
signor d'Anville, suo secondogenito, che doveva succedergli nella carica sotto il regno di Carlo IX.
Il connestabile non pensava di trovare ostacoli al matrimonio nell'animo di questo suo figlio come
ne aveva trovati nel signor di Montmorency; invece, sebbene i motivi gli rimanessero ignoti, le
difficoltà non furono minori. Il signor d'Anville era perdutamente innamorato della regina delfina e,
per poca speranza che riponesse in tale passione, non sapeva risolversi a prendere un impegno che
l'avrebbe obbligato a dividere le sue attenzioni. Il maresciallo di Saint-André era il solo in tutta la
corte che non appartenesse a nessun partito; egli era uno dei favoriti ed il favore di cui godeva era
dovuto esclusivamente alle sue qualità. Il re lo aveva prediletto fin dal tempo in cui era delfino; in
seguito l'aveva fatto maresciallo di Francia in una età in cui non si suole aspirare neppure alle
cariche più modeste. Il favore del re gli dava un lustro che egli sapeva sostenere con i suoi meriti e
con il fascino della sua persona, con la raffinatezza della sua tavola e dell'arredamento della sua
casa, infine con uno sfarzo che non aveva l'uguale presso alcun altro privato. Era la liberalità del
sovrano a consentirgli tale tenore di vita; il re poteva arrivare fino alla prodigalità verso coloro che
gli erano cari: non già che avesse avuto in sorte tutte le più grandi virtù, ma ne aveva parecchie e
aveva soprattutto quella di amare la guerra e di intendersene: di modo che aveva avuto molti
successi e, se si eccettua la battaglia di San Quintino, il suo regno era stato un susseguirsi di vittorie.
Aveva vinto personalmente la battaglia di Renty; aveva conquistato il Piemonte; gli Inglesi erano
stati cacciati dalla Francia e l'imperatore Carlo V aveva visto oscurarsi la sua buona stella davanti
alla città di Metz, da lui inutilmente assediata con tutti gli eserciti della Spagna e dell'Impero.
Tuttavia, avendo la sconfitta di San Quintino diminuito le nostre speranze di conquista ed essendosi
la fortuna divisa fra i due re, questi poco per volta si trovarono inclini alla pace.
La duchessa vedova di Lorena aveva cominciato a proporla fin dal tempo del matrimonio del
delfino e da allora erano sempre intercorsi negoziati segreti. Alla fine fu scelto come luogo del
convegno Cercamp nell'Artois. Il cardinale di Lorena, il connestabile di Montmorency e il
maresciallo di Saint-André vi si recarono come rappresentanti del re; il duca d'Alba ed il principe
d'Orange come rappresentanti di Filippo II; come intermediari il duca e la duchessa di Lorena. I
punti principali erano il matrimonio di Elisabetta di Francia con l'infante don Carlos e quello di
Madama, sorella del re, col duca di Savoia. Frattanto il re aveva fatto sosta alla frontiera e qui
ricevette l'annunzio della morte di Maria, regina d'Inghilterra. Inviò subito il conte di Randan ad
Elisabetta per salutare il suo avvento al trono. La regina lo ricevette con gioia: i suoi diritti erano
così mal definiti che essere riconosciuta dal re le era di grande vantaggio. Il conte la trovò al
corrente degli affari della corte di Francia e dei meriti di coloro che ne facevano parte; ma fu
soprattutto colpito dal suo interesse per il duca di Nemours e tante volte ella ebbe a parlargli di
questo principe e con tanto interesse che, quando il conte di Randan fu di ritorno e rese conto al re
della sua missione, gli disse che non c'era cosa a cui il duca non potesse aspirare presso la regina e
aggiunse di non nutrire dubbi che questa sarebbe stata anche disposta a sposarlo. La sera stessa il re
ne parlò al duca di Nemours; gli fece riferire dal conte di Randan tutte le conversazioni con
Elisabetta e gli consigliò di tentare questa grande fortuna. Il signor di Nemours a tutta prima pensò
che il re scherzasse, ma poi, resosi conto del contrario: «Almeno, sire», gli disse, «se mi avventuro
in una simile chimerica impresa per consiglio e per servizio della Maestà Vostra, io la supplico di
mantenere il segreto fin tanto che il successo non mi sia di giustificazione davanti all'opinione
pubblica; e supplico che non mi si faccia apparire così vanitoso da poter immaginare che una regina
che non mi ha mai visto voglia sposarmi per amore».
Il re gli promise di non parlare di questo progetto a nessun altro che al connestabile; e anzi
giudicò il segreto necessario al successo. Il conte di Randan consigliò al duca di recarsi in
Inghilterra col semplice pretesto di un viaggio, ma questi non seppe risolversi. Mandò invece un tal
Lignerolles, giovane gentiluomo di spirito e suo favorito, affinché si rendesse conto dei sentimenti
della regina e cercasse di stabilire qualche contatto. In attesa dell'esito del viaggio, egli si recò dal
duca di Savoia, che in quel tempo era a Bruxelles col re di Spagna. La morte di Maria d'Inghilterra
aveva creato gravi ostacoli alla pace; l'assemblea si sciolse alla fine di novembre e il re tornò a
Parigi.
Fu proprio in quel tempo che fece la sua apparizione a corte una bellezza che attrasse tutti
gli sguardi, e bisogna ben credere che fosse una bellezza perfetta se poté suscitare ammirazione in
un luogo dove alle belle donne si era abituati. Ella apparteneva alla medesima casata del visdomino
di Chartres ed era una delle più grandi ereditiere di Francia. Suo padre era morto in giovane età,
lasciandola sotto la tutela della moglie, la principessa di Chartres, donna straordinaria per onestà,
virtù e saggezza. Dopo la morte del marito, la principessa era rimasta per parecchi anni lontana
dalla corte. In questo periodo di ritiro, tutte le sue cure erano state rivolte all'educazione della figlia;
né si era dedicata solo a coltivarne lo spirito e la bellezza, bensì a cercare di renderla virtuosa e a
farle amare questa virtù. La maggior parte delle madri credono di poter tenere lontana la galanteria
dalle giovinette sorvolando su questo argomento. La principessa era di parere contrario: spesso
parlava a sua figlia dell'amore, mostrandole ciò che esso ha di attraente per meglio persuaderla su
ciò che andava spiegandole esservi di pericoloso; le parlava della poca sincerità degli uomini, dei
loro inganni, delle loro infedeltà e delle infelicità domestiche dovute a certi legami; e d'altra parte le
prospettava quanto fosse serena la vita di una donna onesta e quanto splendore e quanta nobiltà la
virtù conferisse ad una donna bella e di alto lignaggio. Ma le diceva anche quanto fosse difficile
conservare tale virtù se non a patto di una estrema prudenza verso se stesse e di una grande cura
nell'aggrapparsi a quella sola cosa che può fare la felicità di una donna: amare il proprio marito ed
esserne riamata.
Questa ereditiera era allora uno dei migliori partiti di Francia e, sebbene fosse giovanissima,
erano già state avanzate per lei varie proposte di matrimonio. La principessa di Chartres, oltremodo
orgogliosa di quella sua figlia, non trovava mai nessuno degno di lei; quando fu sui sedici anni,
volle portarla a corte. Come ella vi giunse, il visdomino andò ad incontrarla e fu colpito, e non a
torto, dalla bellezza di madamigella di Chartres. Il bianco dell'incarnato e l'oro dei capelli le davano
uno splendore mai visto; tutti i suoi lineamenti erano perfetti e il volto e la figura erano pieni di
grazia e di fascino.
Il giorno seguente al suo arrivo, madamigella di Chartres si recò a scegliere delle gemme da
un italiano che ne faceva commercio in tutto il mondo. Costui era venuto da Firenze con la regina e
si era talmente arricchito con i suoi traffici che la sua casa pareva piuttosto quella di un gran signore
che non di un mercante. Mentre madamigella era lì, sopraggiunse il principe di Clèves. Egli rimase
talmente colpito da una così grande bellezza, che non seppe celare la propria meraviglia e
madamigella di Chartres non poté impedirsi di arrossire vedendo la sorpresa di cui era causa; si
riprese tuttavia subito senza mostrare altra attenzione ai movimenti del principe che quella dovuta
dalla cortesia ad un uomo di tal rango. Intanto il principe di Clèves continuava a guardarla con
ammirazione, senza riuscire a capire chi fosse quella bella persona che non conosceva. Capiva
dall'aspetto di lei e da quello del suo seguito che doveva essere persona di alto lignaggio; la sua
giovinezza gli faceva pensare che fosse damigella, ma, poiché non era accompagnata dalla madre e
l'italiano, che non la conosceva, la chiamava signora, non sapeva cosa pensare e continuava a
guardarla con meraviglia. Si rese conto però che i suoi sguardi la imbarazzavano, contrariamente a
quanto accade alle giovinette, che vedono sempre con piacere gli effetti della loro bellezza; e si rese
anche conto che per causa sua ella mostrava una certa impazienza di andarsene, cosa che fece di lì a
poco. Il principe di Clèves si consolò di perderla di vista nella speranza di poter presto sapere chi
ella fosse; ma rimase oltremodo stupito quando si rese conto che nessuno la conosceva. Egli era
rimasto così colpito dalla bellezza e dalla modestia che la giovinetta mostrava in ogni suo gesto, che
possiamo dire che fin da quel primo momento concepì per lei un amore e una stima straordinari. La
sera si recò da Madama, sorella del re. Questa principessa era tenuta in grande considerazione per
l'ascendente che esercitava sul re suo fratello; ascendente tale che il re, stipulando la pace, aveva
acconsentito a restituire il Piemonte per farle sposare il duca di Savoia. Sebbene per tutta la vita
Madama avesse desiderato di sposarsi, non voleva sposare altri che un re e per questo aveva
rifiutato il re di Navarra quando non era che semplice duca di Vendôme; e aveva continuato a
sperare nel duca di Savoia, per il quale sentiva una certa attrazione fin da quando l'aveva veduto a
Nizza durante l'incontro fra il re Francesco I e il papa Paolo III. Donna di molto spirito e di gran
gusto per le cose belle, attirava le persone migliori e a volte tutta la corte si trovava riunita da lei.
Il principe di Clèves vi si recò come era suo costume; era così impressionato dalla bellezza
di madamigella di Chartres che non poteva parlare d'altro. Raccontò a tutti quel suo incontro, senza
stancarsi di tessere elogi della persona che aveva veduto ma che non sapeva chi fosse. Madama gli
rispose che non esisteva una persona come quella che lui andava descrivendo e che, qualora fosse
esistita, sarebbe stata nota a tutti. La baronessa di Dampierre, che era sua dama d'onore, e che era
amica della signora di Chartres, udita la conversazione, si avvicinò alla principessa e a bassa voce le
disse che la persona incontrata dal principe di Clèves doveva essere senza dubbio madamigella di
Chartres. Madama allora, volgendosi a lui, gli disse che se fosse tornato all'indomani gli avrebbe
mostrato quella bellezza che tanto lo aveva colpito. Madamigella di Chartres comparve infatti a
corte il giorno dopo e fu ricevuta con grande affabilità dalle regine e con tanta ammirazione da tutti
che non udiva intorno a sé altro che lodi. E quelle lodi ella accoglieva con così nobile modestia, che
pareva quasi non le udisse o non ne fosse toccata. Si recò poi da Madama sorella del re; e la
principessa, lodata la sua bellezza, le parlò della meraviglia che aveva destato nel principe di
Clèves. Un attimo dopo questi comparve: «Venite», gli disse Madama, «e guardate se non
mantengo la promessa; e se mostrandovi madamigella di Chartres non vi mostro quella bellezza che
andavate cercando; ringraziatemi almeno per aver raccontato a madamigella quanto voi
l'ammirate».
Il principe di Clèves provò grande gioia vedendo che la persona che trovava così graziosa
era di rango pari alla sua bellezza; le si avvicinò e la supplicò di ricordarsi che egli era stato il primo
ad ammirarla e che, senza conoscerla, aveva concepito per lei i sentimenti di stima e di rispetto che
le erano dovuti.
Il cavaliere di Guisa e lui, che erano amici, se ne andarono insieme; e in un primo momento
si lasciarono trasportare a fare le lodi di madamigella di Chartres; improvvisamente poi si resero
conto di lodarla troppo e smisero di palesare i propri sentimenti; ma nei giorni che seguirono,
ovunque si incontrassero, non potevano fare a meno di parlarne. E questa nuova bellezza divenne
per lungo tempo l'argomento di tutte le conversazioni. La regina la lodò molto ed ebbe per lei ogni
considerazione; la regina delfina ne fece una delle sue favorite e pregò la principessa di Chartres di
condurla spesso da lei. Le principesse, figlie del re, la mandavano a chiamare di continuo perché
prendesse parte ai loro divertimenti. Infine ella era amata e ammirata da tutta la corte tranne che
dalla duchessa del Valentinois. Non che tale bellezza le desse ombra: la sua lunga esperienza le
aveva insegnato che nulla poteva temere da parte del re; ma nutriva un odio così profondo per il
visdomino di Chartres, che aveva sperato di legare a sé con il matrimonio di una delle sue figlie e
che invece era alleato della regina, da non poter guardare con benevolenza una persona che ne
portava il nome e per la quale egli mostrava grande amicizia.
Il principe di Clèves si innamorò perdutamente di madamigella di Chartres e sperava
ardentemente di sposarla; temeva però che l'orgoglio della principessa di Chartres disdegnasse di
dare in isposa la figlia ad un uomo che non era il primogenito della propria famiglia. Tuttavia la sua
casata era di così grande lignaggio e il conte d'Eu, che era il primogenito, aveva da poco sposato
una persona così vicina alla casa reale, che i timori del principe di Clèves erano dovuti più alla
timidezza causata dall'amore che a ragioni serie. Egli aveva numerosi rivali; e fra questi il più
temibile gli pareva il cavaliere di Guisa per la sua nascita, per i suoi meriti e per il lustro che il
favore reale accordava alla sua casa. Anche costui, fin dal primo giorno che l'aveva veduta, era stato
preso d'amore per madamigella di Chartres; e non gli era sfuggita la passione del principe di Clèves,
come al principe non era sfuggita la sua. E, sebbene fossero amici, il distacco creato dalla rivalità
non aveva consentito loro di giungere ad una spiegazione; e l'amicizia si era raffreddata senza che
avessero avuto la forza di spiegarsi.
Al principe di Clèves il fatto di avere veduto per primo madamigella di Chartres pareva un
buon auspicio, quasi un vantaggio nei confronti dei suoi rivali e questo sebbene prevedesse di
incontrare grandi difficoltà presso il duca di Nevers suo padre. Questi era strettamente legato alla
duchessa del Valentinois; e l'inimicizia di lei per il visdomino era ragione sufficiente per impedire
al duca di Nevers di consentire alle nozze di un suo proprio figlio con la nipote del visdomino. La
signora di Chartres, che aveva sempre posto ogni cura nell'educare sua figlia alla virtù, non trascurò
tale compito in un luogo dove la virtù era tanto necessaria e dove fiorivano esempi tanto pericolosi.
L'ambizione e la galanteria erano l'anima stessa di quella corte e dominavano in modo uguale sia
uomini che donne. Tale era il groviglio di interessi e di intrighi e tanta parte vi avevano le donne,
che l'amore era sempre intrecciato alla politica e la politica all'amore. Nessuno poteva vivere
tranquillo o rimanerne fuori: tutti avevano smania di innalzarsi, di piacere, di servire o di nuocere.
Non si conosceva noia né ozio, e si era sempre occupati da piaceri o da intrighi. Ogni dama aveva
un suo particolare attaccamento o per la regina o per la regina delfina o per la regina di Navarra, o
per Madama sorella del re, o per la duchessa del Valentinois. Inclinazioni particolari, ragioni di
convenienza, affinità di carattere determinavano questi diversi legami. Le dame che avevano
passato la prima giovinezza e che facevano professione della più austera virtù erano legate alla
regina. Quelle che erano più giovani e che cercavano gioia e galanteria ruotavano intorno alla regina
delfina. La regina di Navarra aveva le proprie favorite, era giovane ed aveva dell'ascendente sul re
suo marito; questi era legato al connestabile e ciò gli dava prestigio. Madama sorella del re era
ancora bella e attirava attorno a sé molte dame. La duchessa del Valentinois aveva dalla sua tutte
quelle su cui si degnasse di posare lo sguardo, sebbene poche fossero le donne che le andavano a
genio. E ad eccezione di quelle che godevano della sua familiarità, della sua confidenza e di un
carattere congeniale al suo, ella non riceveva che raramente, solo quando le piaceva avere una corte
pari a quella della regina. Tutte queste differenti cricche erano rivali fra loro; le dame che ne
facevano parte erano gelose le une delle altre: sia per il favore del sovrano, sia per i loro amanti;
interessi di supremazia o di ambizione si trovavano spesso mischiati ad altri meno importanti ma
non per questo meno profondi. Di modo che vi era in quella corte una continua eccitazione senza
disordine che poteva essere piacevole, ma anche molto pericolosa per una giovinetta. La principessa
di Chartres si rendeva perfettamente conto dei pericoli e non pensava ad altro che a difenderne la
figlia. La pregò quindi, non come madre ma piuttosto come amica, di confidarle tutte le galanterie
che le fossero rivolte e le promise il suo aiuto in tutte quelle circostanze nelle quali è facile, quando
si è giovani, trovarsi in imbarazzo.
Il cavaliere di Guisa lasciò a tal segno trasparire i sentimenti e le speranze che nutriva per
madamigella di Chartres, da renderne subito edotta tutta la corte. Tuttavia egli vedeva quanto fosse
difficile attuare il suo desiderio; sapeva di non essere un partito conveniente per madamigella di
Chartres a causa dei suoi pochi beni di fortuna, inadeguati a sostenere il suo rango; e sapeva anche
che i suoi fratelli non avrebbero voluto un suo matrimonio per gli svantaggi che i matrimoni dei
cadetti portano sempre nelle grandi famiglie. Il cardinale di Lorena gli confermò che non si stava
sbagliando e biasimò con straordinaria violenza il suo attaccamento per madamigella di Chartres,
senza svelargliene le vere ragioni. In verità il cardinale nutriva per il visdomino un odio allora
segreto, ma che si sarebbe manifestato in seguito. Egli avrebbe preferito per il fratello qualunque
altro parentado a quello; e incominciò a manifestare tanto pubblicamente il suo dissenso, che la
principessa di Chartres ne rimase non poco offesa. Prese perciò a mostrare che il cardinale non
aveva nulla da temere e che non pensava affatto a tal matrimonio. Il visdomino prese lo stesso
atteggiamento, e si risentì ancor più della principessa di Chartres per la condotta del cardinale di
Lorena perché ne conosceva i motivi.
Non meno del cavaliere di Guisa, il principe di Clèves aveva lasciato scorgere il suo amore.
Il duca di Nevers ne fu assai scontento, ma pensò che fosse sufficiente parlare al figlio per fargli
cambiare atteggiamento; fu dunque non poco stupito nel trovarlo deciso a sposare madamigella di
Chartres. Lo biasimò, si arrabbiò e si curò così poco di nascondere la sua ira che la cosa fu subito
risaputa a corte e giunse sino agli orecchi della principessa di Chartres. Questa non aveva mai
messo in dubbio che il duca di Nevers dovesse considerare questo matrimonio vantaggioso per il
figlio e fu oltremodo stupita che sia la casata di Clèves che quella di Guisa temessero più che non
desiderassero questo parentado. Ne ebbe tale dispetto che incominciò ad architettare di trovare per
sua figlia un partito che la mettesse al disopra di coloro che si credevano superiori a lei. Dopo aver
esaminato tutta la situazione, posò gli occhi sul principe delfino, figlio del duca di Montpensier, che
era in età di sposarsi e il più gran partito che ci fosse a corte. La principessa era donna abile, era
aiutata dal visdomino, che godeva in quel momento di grande prestigio, e sua figlia era un ottimo
partito; infine si condusse con tanta abilità e tanto successo che il duca di Montpensier parve
desiderare questo matrimonio e sembrò che nessuna difficoltà potesse più sorgere.
Il visdomino, che sapeva quanto il signor d'Anville fosse devoto alla regina delfina, credé
che si dovesse adoperare il potere che questa principessa esercitava su di lui per impegnarlo a
servire la causa di madamigella di Chartres davanti al re e davanti al duca di Montpensier, di cui era
intimo amico.
Ne parlò dunque alla regina delfina e questa si impegnò con gioia in un intrigo che mirava a
rendere potente una persona a lei molto cara; lo disse al visdomino e lo assicurò che, benché sapesse
di far cosa sgradita al cardinale di Lorena suo zio, si impegnava volentieri; tanto più avendo motivo
di lamentarsi del cardinale, che in ogni occasione parteggiava per la regina contro di lei.
Le persone galanti per indole accolgono sempre con piacere pretesti per parlare a coloro da
cui sono amate. Partito il visdomino, la regina delfina incaricò Chastelart, che era il favorito del
signor d'Anville e che ne conosceva la passione, di dire a questo principe di recarsi quella stessa
sera dalla regina. Chastelart ricevé l'incarico con gioia e rispetto: questo gentiluomo apparteneva ad
una buona casata del Delfinato e meriti personali e spirito lo mettevano ben al disopra della sua
origine. Egli era ricevuto e trattato con molta affabilità da tutti i grandi signori della corte e la
protezione di Montmorency l'aveva avvicinato in modo speciale al signor d'Anville. Egli era di
bell'aspetto, abile in ogni esercizio fisico; cantava con grazia, componeva versi ed il suo spirito
galante ed appassionato era tanto piaciuto al principe d'Anville che questi lo mise a parte del suo
amore per la delfina. Tale confidenza lo avvicinava alla regina, e fu proprio nel vederla così sovente
che concepì quella infelice passione dalla quale fu tratto fuor di senno e che poi gli costò la vita.
Il principe d'Anville non mancò di trovarsi quella sera dalla regina e si reputò fortunato che
la delfina lo avesse scelto per un'impresa che le stava a cuore; promise perciò di obbedire con tutta
coscienza a quanto ella gli avrebbe ordinato. Ma la duchessa del Valentinois, avvertita per tempo di
questo progetto, l'aveva così fortemente avversato e tanto aveva prevenuto il re che, quando il
principe d'Anville gliene parlò, il re lasciò chiaramente intendere di non approvarlo e gli ordinò per
giunta di farlo sapere al duca di Montpensier. Si può facilmente immaginare quali fossero i
sentimenti della principessa di Chartres quando vide spezzarsi le trame di un progetto che le stava
tanto a cuore; un insuccesso, poi, che tornava tutto a favore dei suoi nemici e che faceva gran torto a
sua figlia. La regina delfina espresse a madamigella di Chartres, con molto affetto, il suo disappunto
per non aver potuto esserle utile. «Vedete», le disse, «quanto scarso sia il mio potere; sono talmente
odiata dalla regina e dalla duchessa del Valentinois che è ben raro che esse, o direttamente o
attraverso i loro accoliti, non ostacolino qualsivoglia mio desiderio. Eppure», continuò, «ho sempre
cercato di rendermi ben accetta: ma esse mi odiano a causa del ricordo della regina mia madre, che
in altri tempi procurò loro gelosie e inquietudini. Il re l'aveva amata prima di innamorarsi della
duchessa del Valentinois; e, nei primi anni del suo matrimonio, quando ancora non aveva figli,
parve persino deciso, sebbene amasse la duchessa, a rompere il matrimonio per sposare mia madre.
La duchessa del Valentinois, che temeva una donna già amata dal re e la cui bellezza e spirito
potevano nuocere al suo favore, si alleò al connestabile, che vedeva pure lui di malocchio che il re
sposasse una sorella del duca di Guisa. Trassero dalla loro il defunto re e questi, sebbene odiasse la
duchessa del Valentinois, siccome amava la regina, pure collaborò con loro per impedire al figlio di
rompere il matrimonio; anzi, per togliergli del tutto dalla testa il pensiero di sposare la regina mia
madre, sposarono questa al re di Scozia, vedovo di madama Maddalena, sorella del re. E questo per
il semplice fatto che un tal matrimonio poteva concludersi più rapidamente, benché sapessero di
mancare, in questo modo, agli impegni presi col re di Inghilterra, che ardentemente ambiva a quelle
nozze. Per poco ciò non provocò una rottura fra i due re. Enrico VIII era inconsolabile per le
sfumate nozze e, qualunque altra principessa francese gli venisse proposta, rispondeva sempre che
non gli avrebbe riempito il vuoto lasciato da colei che gli era stata tolta. È anche vero che la regina
mia madre era di una perfetta bellezza ed è un fatto unico che, vedova del duca di Longueville, tre
re abbiano desiderato impalmarla; il suo triste destino ha fatto sì che andasse sposa al minore dei
tre, regina di un regno dove altro non trova che amarezze. Si dice che io le rassomigli; penso di
rassomigliarle anche nel destino infelice: qualunque felicità la sorte sembri volermi preparare, non
credo che riuscirò giammai a goderne».
Madamigella di Chartres rispose alla regina che questi tristi presentimenti erano così poco
fondati che essa non li avrebbe conservati a lungo e che non doveva dubitare che la sua felicità
avrebbe corrisposto alle apparenze.
Nessuno più osava pensare a madamigella di Chartres, sia per timore di dispiacere al re, sia
per timore di non riuscire accetto a una persona che aveva aspirato al matrimonio con un principe
del sangue. Queste considerazioni non potevano però arrestare il principe di Clèves: la morte del
duca di Nevers, avvenuta proprio allora, gli dava intera libertà di seguire le proprie inclinazioni e,
appena spirato il periodo di lutto, non pensò più che al modo di sposare madamigella di Chartres.
Era per lui una fortuna farsi avanti in un momento in cui tutti gli altri pretendenti si erano dileguati
e perciò era quasi certo di non andare incontro ad un rifiuto. Solo il timore di non essere
completamente gradito turbava la sua gioia, e avrebbe di gran lunga preferito la felicità di piacerle
alla certezza di sposarla senza esserne amato. Qualche gelosia gli aveva ispirato il cavaliere di
Guisa; ma era una gelosia fondata piuttosto sul valore di questo principe che non su un qualche atto
di madamigella di Chartres: non ebbe dunque altro pensiero che di scoprire se, per la sua felicità,
ella approvasse il progetto che nutriva su di lei. Non la incontrava che dalle regine o alle riunioni di
corte, dove parlarle era molto difficile. Tuttavia vi riuscì e le parlò del suo disegno e del suo amore
col massimo rispetto: la scongiurò di non nascondergli quali fossero i suoi sentimenti per lui e la
assicurò che i suoi erano di tal natura da renderlo per sempre infelice se non avesse obbedito altro
che per dovere alla volontà della principessa sua madre. Poiché madamigella di Chartres era di
animo nobile e buono, fu piena di riconoscenza per il comportamento del principe; una
riconoscenza che diede alle sue parole e alle sue risposte una certa dolcezza, quanto bastava per
dare speranza ad un uomo perdutamente innamorato come il principe, al quale parve così di potersi
rallegrare per avere ottenuto almeno in parte quanto desiderava. Madamigella di Chartres riferì
l'intera conversazione a sua madre e la principessa le fece notare che vi era tanta magnanimità e
tante belle virtù nel principe di Clèves e che egli per la sua età era così assennato che, qualora lei si
fosse sentita portata a sposarlo, per parte sua vi avrebbe acconsentito con gioia. Madamigella di
Chartres le rispose di trovargli le medesime buone qualità; che avrebbe anche potuto sposarlo con
meno ripugnanza di chiunque altro, ma che non sentiva per lui nessuna particolare attrazione.
L'indomani il principe fece parlare alla principessa di Chartres; questa accolse la domanda
senza preoccuparsi di dare alla figlia un marito che non avrebbe potuto amare. Il contratto fu
concluso; se ne parlò al re ed il fidanzamento fu noto a tutti.
Il principe di Clèves era felice, ma la sua felicità non era senz'ombra. Vedeva con pena che i
sentimenti di madamigella di Chartres non oltrepassavano la stima e la riconoscenza, né poteva
illudersi che altri ne nascondesse di più amorosi, dato che la loro condizione le avrebbe permesso di
dimostrarlo senza per questo offendere la sua estrema riservatezza. Non passava giorno senza che
egli se ne lamentasse:
- È mai possibile - le diceva - che sposandovi io possa non essere felice? Eppure io non lo
sono. Voi non avete per me che una sorta di bontà, la quale non può bastarmi: non sentite né
impazienza, né inquietudine, né dolore: voi non siete turbata dalla mia passione più che non lo
sareste da un legame basato sui vantaggi della vostra posizione invece che sulle grazie della vostra
persona.
- Siete ingiusto lamentandovi - ella gli rispondeva; - non so cosa possiate desiderare di più e
mi pare che le convenienze non permettano altro.
- È vero - egli replicò - che mi date alcuni segni di cui sarei contento se al di là di essi vi
fosse qualche cosa; ma la convenienza, invece di porvi un freno, è essa sola che vi fa fare quello che
fate. Io non commuovo né il vostro istinto né il vostro cuore e la mia presenza non vi dà né piacere
né turbamento.
- Voi non potete mettere in dubbio la mia gioia nel vedervi; e quando vi vedo arrossisco così
sovente, che non so come possiate dubitare che la vostra vista mi provochi turbamento.
- Io non mi inganno sul vostro rossore; è un sentimento di modestia e non un moto del
cuore; e non ne posso trarre maggior consolazione di quanta ne debba trarre.
Madamigella di Chartres non sapeva cosa rispondere; queste distinzioni oltrepassavano la
sua esperienza. E il principe di Clèves si accorgeva fin troppo di quanto fosse lontana dall'avere per
lui dei sentimenti che potessero soddisfarlo, poiché gli era evidente che ella nemmeno li capiva.
Il cavaliere di Guisa ritornò da un viaggio pochi giorni prima delle nozze; aveva visto
sorgere tali e tanto insormontabili ostacoli al suo desiderio di sposare madamigella di Chartres, che
non aveva più sperato di riuscirvi; e tuttavia il vederla andare sposa ad un altro lo afflisse
oltremodo. Né questo dolore diminuì la sua passione e lo lasciò meno innamorato. Madamigella di
Chartres non aveva ignorato i sentimenti del duca per lei; inoltre, al suo ritorno, questi le aveva fatto
sapere che ella era la causa dell'immensa tristezza dipinta sul suo volto; ed egli era uomo di tale
valore e di tale cortesia che non era possibile renderlo infelice senza provarne qualche pietà. Così
ella non poteva impedirsi di averne; ma la pietà non l'induceva ad altri sentimenti; ella raccontò a
sua madre tutta la pena che quell'amore le dava.
La principessa di Chartres ammirava la sincerità di sua figlia e ben a ragione, perché
nessuno mai ne ebbe di maggiore né di più spontanea; si stupiva però che il suo cuore non fosse
affatto turbato, tanto più che si rendeva ben conto che nemmeno il principe di Clèves era riuscito a
turbarlo più degli altri. Per questo ella adoperò tutte le sue arti per farla affezionare al marito e farle
comprendere quanto dovesse essergli grata dell'affetto che aveva concepito per lei prima ancora di
conoscerla e dell'amore che le aveva dimostrato scegliendola fra tutti gli altri partiti in un momento
in cui nessuno osava più pensare a lei.
Il matrimonio ebbe luogo. La cerimonia si svolse al Louvre; e la sera il re e le regine e tutta
la corte si recarono a pranzo dalla duchessa di Chartres, dove furono ricevuti con splendore e
magnificenza. Il principe di Guisa non osò tenersi lontano dalla cerimonia per non farsi notare, ma
riuscì così male a dominare la sua tristezza che se ne avvidero tutti.
Il principe di Clèves doveva ben presto rendersi conto che madamigella di Chartres non
aveva mutato i suoi sentimenti col mutare del nome. La qualità di marito gli concedeva più ampi
privilegi, ma non un posto diverso nel cuore della moglie. E per questo egli non cessò di continuare
ad essere anche il suo amante perché sempre oltre il possesso gli rimaneva da desiderare qualche
altra cosa. E sebbene vivessero in una perfetta armonia, egli non era felice del tutto; continuava ad
avere per lei una passione violenta e inquieta che turbava la sua gioia, sebbene in tale turbamento la
gelosia non avesse parte: mai marito era stato più lontano dal concepirla, né donna dal darne
motivo. Eppure in mezzo alla corte ella era esposta a tutti i pericoli. Ogni giorno si recava dalle
regine o da Madama. Uomini giovani e galanti, quanti ve n'erano a corte, la incontravano nella sua
casa o in quella del duca di Nevers, suo cognato, che teneva tavola imbandita; ma ella sapeva
ispirare un tale rispetto e pareva così lontana da ogni galanteria che persino il maresciallo di SaintAndré, uomo audace e sostenuto dal favore del re, era colpito dalla sua bellezza senza peraltro osare
dimostrarglielo altrimenti che con atti di premura e di rispetto. Parecchi altri si trovavano nella
medesima situazione, e la principessa di Chartres aggiungeva alla saggezza della figlia una condotta
tanto irreprensibile sotto tutti i punti di vista che finiva per farla apparire inavvicinabile.
La duchessa di Lorena, lavorando per la pace, aveva nello stesso tempo lavorato per il
matrimonio di suo figlio, il duca di Lorena: matrimonio combinato con Claudia di Francia,
secondogenita del re. Le nozze furono stabilite per il mese di febbraio.
Frattanto il duca di Nemours se ne era rimasto a Bruxelles, interamente preso dai suoi
progetti sull'Inghilterra, da dove in continuazione arrivavano e partivano corrieri. Le sue speranze
andavano aumentando; infine Lignerolles gli fece sapere che era tempo per lui di recarsi in
Inghilterra per portare a compimento, con la sua presenza, quanto era stato così bene preparato. Egli
accolse questa notizia con tutta la gioia che può provare un giovane ambizioso che si veda portato
su un trono da nient'altro che dalla propria fama. Poco per volta era andato abituandosi a una così
grande fortuna, e, mentre prima l'aveva scartata come cosa irraggiungibile, nella sua mente le
difficoltà si erano attenuate e gli ostacoli si erano dissolti.
Inviò sollecitamente suoi incaricati a Parigi a dare le disposizioni necessarie per
l'allestimento di un magnifico equipaggio, onde poter fare la sua apparizione in Inghilterra con una
pompa proporzionata al progetto che ve lo conduceva, e si affrettò a venire lui stesso a corte per
assistere al matrimonio del duca di Lorena.
Giunse alla vigilia degli sponsali e la sera stessa andò a rendere conto al re del cammino
compiuto dal suo progetto ed a ricevere suoi ordini e suoi consigli per quanto gli restava da fare. Poi
andò dalle regine. La principessa di Clèves non c'era, di modo che non lo vide e nemmeno seppe
che era arrivato. Aveva sentito parlare da tutti indistintamente del duca di Nemours come della
persona più bella e più affascinante di tutta la corte, e soprattutto la regina delfina glielo aveva
descritto in modo tale da renderla curiosa e anche impaziente di vederlo.
La principessa di Clèves rimase per tutta la giornata degli sponsali in casa ad acconciarsi per
il ballo ed il banchetto reale che si teneva al Louvre la sera stessa. Quando vi giunse, la sua bellezza
e la sua acconciatura furono oltremodo ammirate; poi il ballo incominciò e, mentre ella danzava col
duca di Guisa, un fitto brusio si alzò vicino alla porta della sala, come se entrasse qualcuno a cui si
dovesse fare prontamente largo. La principessa di Clèves terminò la danza e, mentre con gli occhi
cercava il prossimo ballerino, il re le gridò di prendere la persona che stava entrando allora. Ella si
volse e subito pensò che colui che stava scavalcando le sedie per giungere dove si ballava non
poteva essere altri che il duca di Nemours. Questo principe era fatto in modo tale che era ben
difficile non essere sorpresi quando lo si vedeva la prima volta; e specialmente quella sera in cui la
cura presa nell'abbigliarsi aveva ancor più accresciuto l'aria ineffabile che spirava da tutta la sua
persona. Ma era anche ben difficile vedere per la prima volta la principessa di Clèves senza provare
un enorme stupore.
Il signor di Nemours fu talmente meravigliato della sua bellezza che, quando le si fu
avvicinato ed ella gli fece riverenza, non poté non dar segni della sua ammirazione. Un mormorio di
lodi si alzò nella sala quando incominciarono a danzare. Il re e la regina, rammentandosi che non si
erano mai veduti prima, trovarono qualche cosa di assai singolare in quel loro danzare insieme
senza conoscersi. Finita la danza, li chiamarono e, senza dar loro modo di parlare prima con altri,
chiesero ad entrambi se non desiderassero conoscere a vicenda chi fossero e se per caso non lo
supponessero.
- Per conto mio, signora - disse il duca di Nemours, - non ho dubbio alcuno: ma poiché la
principessa di Clèves non ha, per indovinare chi io sia, le stesse ragioni che ho io per riconoscerla,
desidererei che la Maestà Vostra le dicesse il mio nome.
- Io credo - disse la regina delfina - che alla principessa sia noto il vostro nome come a voi il
suo.
- Vi assicuro, signora - disse la principessa di Clèves, che pareva un po' imbarazzata, - che
non sono così buona indovina quanto pensate.
- Voi indovinate benissimo - ribatté la regina delfina - e vi è persino qualche cosa di
lusinghiero per il duca di Nemours in questo vostro non voler confessare di averlo riconosciuto
senza averlo mai veduto.
La regina li interruppe per far continuare il ballo. Il duca di Nemours danzò con la regina
delfina, che era donna di meravigliosa bellezza, o almeno tale gli era apparsa prima del suo viaggio
nelle Fiandre; ma quella sera egli non sapeva ammirare altra donna che la principessa di Clèves.
Il cavaliere di Guisa, che seguitava ad adorarla, era ai suoi piedi e quanto era accaduto gli
aveva dato un dolore cocente. Lo considerò come un presagio che la sorte destinava il duca di
Nemours ad amare la principessa di Clèves. Sia che un qualche turbamento fosse realmente apparso
su quel volto, sia che la gelosia gli facesse vedere più del vero, sta di fatto che gli parve commossa e
non poté fare a meno di dirle che il duca di Nemours era ben fortunato di cominciare la sua
conoscenza in circostanze che avevano qualche cosa di galante e di straordinario.
La principessa rincasò, l'animo così colmo di tutto quel che era successo al ballo che,
malgrado l'ora assai tarda, entrò nella camera della madre per rendergliene conto; e si mise a tessere
le lodi del signor di Nemours con un certo qual tono, tanto che il medesimo dubbio del duca di
Guisa si insinuò nell'animo della principessa di Chartres.
L'indomani ebbe luogo la cerimonia delle nozze; la principessa di Clèves rivide il duca di
Nemours, dall'aspetto e dalla grazia così ammirevoli che di nuovo ne fu colpita.
I giorni seguenti lo rivide dalla regina delfina; lo vide giocare alla pallacorda col re, correre
agli anelli e lo udì conversare; e sempre si rese conto che era tanto superiore a tutti e dominava a tal
punto la conversazione in tutti i luoghi in cui si trovava, e per la grazia della persona e per la nobiltà
dello spirito, che in un breve giro di tempo egli le si impresse nel cuore.
È anche vero che, provando il signor di Nemours per lei una violenta attrazione, che gli dava
quella dolcezza e quella vivacità che ispirano il primo desiderio di piacere, egli era ancora più
incantevole del solito; di modo che, vedendosi di continuo e trovandosi l'un l'altro quanto a corte vi
fosse di più perfetto, sarebbe stato ben difficile che non si piacessero infinitamente.
La duchessa del Valentinois prendeva parte a tutti i divertimenti e il re aveva per lei lo stesso
ardore e gli stessi riguardi dei primi tempi della sua passione. La principessa di Clèves, che era in
quell'età in cui si crede che una donna non possa più essere amata quando ha passato i venticinque
anni, guardava con stupore l'infatuazione del re per la duchessa, ormai nonna di una nipotina che
era andata sposa proprio in quei giorni. Ella ne parlava spesso a sua madre:
- Come è mai possibile, signora, che il re dopo tanto tempo l'ami ancora? Come ha potuto
legarsi a una persona tanto più anziana di lui? E che per di più era stata l'amante di suo padre e
anche di molti altri, a quanto si sente dire?
- È vero - le rispondeva la principessa di Chartres - che non sono stati i meriti e la fedeltà
della duchessa del Valentinois a far nascere la passione del re e a renderla tanto tenace; e proprio
per questo non è punto scusabile; perché se quella donna, oltre che di grande nascita, fosse stata
giovane e bella, ed avesse avuto il merito di non avere mai amato, e avesse amato il re con assoluta
fedeltà e per quello che egli è senza calcolo e ambizione, e non si fosse servita del suo potere altro
che per cose oneste e a lui gradite, allora sarebbe stato ben difficile negare lode al re per quel suo
grande attaccamento. Se non temessi - ella seguitò - di far dire di me quello che si dice di tutte le
donne della mia età, che amano raccontare le storie dei loro tempi, io potrei dirvi come nacque la
passione del re per la duchessa e molte altre cose ancora della corte del defunto re, che hanno non
pochi rapporti con quanto ora accade.
- Lungi dall'accusarvi - rispose la principessa di Clèves - di ripetere vecchie storie, mi dolgo,
signora, che non mi abbiate resa edotta delle storie di oggi e non mi abbiate istruita sui vari interessi
e intrighi della corte. Io li ignoro a tal punto che, fino a poco tempo fa, pensavo che il connestabile
fosse in ottimi rapporti con la regina.
- Credevate cosa del tutto contraria alla verità - rispose la principessa di Chartres. - La regina
odia il connestabile e, se un giorno avrà qualche potere, il connestabile non tarderà ad accorgersene.
Sua maestà sa che egli ha insinuato più volte al re che di tutti i suoi figli soltanto quelli naturali gli
rassomigliano.
- Mai avrei potuto immaginare un simile odio - la interruppe la signora di Clèves, - perché
ho visto con quanta premura la regina scrivesse al connestabile, quando questi era prigioniero, e la
gioia che dimostrò al suo ritorno sempre chiamandolo compare così come fa anche il re.
- Se in un luogo come questo giudicherete dalle apparenze - rispose la principessa di
Chartres, - vi ingannerete sempre: quello che si vede non è quasi mai la verità.
«Ma, per tornare alla duchessa del Valentinois, sapete che il suo nome è Diana di Poitiers,
una casata illustre che discende dagli antichi duchi di Aquitania; una sua antenata era figlia naturale
di Luigi XI e il suo lignaggio non potrebbe essere più nobile. Saint-Valier, suo padre, fu gravemente
implicato nell'affare del connestabile di Borbone, di cui avrete sentito parlare. Egli fu condannato
alla decapitazione e condotto al patibolo. Sua figlia, che era di meravigliosa bellezza, e che già era
piaciuta al defunto re, seppe così ben fare (ignoro con quali mezzi) che ne ottenne salva la vita. Fu
graziato in punto di morte, ma era stato preso da tale terrore da perdere la conoscenza e morire
pochi giorni dopo. Fu allora che la figlia fece il suo ingresso a corte come amante del re. Il viaggio
in Italia e la prigionia di questi misero fine a tale passione. Quando tornò dalla Spagna, madama la
reggente gli andò incontro a Bayonne, conducendo con sé tutte le damigelle, fra le quali vi era
madamigella di Pisseleu, che divenne in seguito duchessa d'Étampes. Il re se ne innamorò. Ella era
inferiore per nascita, spirito e bellezza alla duchessa del Valentinois, ma aveva per sé il vantaggio di
essere giovane. L'ho sentita più volte affermare di essere nata il giorno in cui Diana di Poitiers era
andata sposa. Ma a farla parlare di tal sorta era l'odio e non la verità; poiché, se non m'inganno, la
duchessa del Valentinois sposò il signor di Brézé, gran siniscalco di Normandia, proprio in quel
medesimo tempo in cui il re si innamorò della duchessa di Étampes. Mai si era visto odio tanto
violento come fra queste due donne; la duchessa del Valentinois non poteva perdonare alla duchessa
d'Étampes di averle tolto il titolo di amante del re; la duchessa d'Étampes provava una violenta
gelosia per la duchessa del Valentinois, con la quale il re continuava ad avere qualche relazione. Era
un re assai poco fedele alle sue amanti; ve n'era sempre una che ne aveva il titolo e gli onori, ma
tutte quelle che erano dette «della piccola comitiva» se lo dividevano a turno. La perdita del delfino,
suo figlio, che morì a Tournon e si crede fosse stato avvelenato, addolorò profondamente il re, che
non aveva uguale amore e simpatia per il secondogenito, l'attuale re, che giudicava meno ardito e
vivace. Un giorno in cui se ne doleva con la duchessa del Valentinois, questa gli rispose che lo
avrebbe fatto innamorare di sé per renderlo più brillante e piacevole; e vi riuscì, come vedete. Sono
più di venti anni che questa passione dura senza che il tempo e le difficoltà l'abbiano mutata.
«Il defunto re da prima vi si oppose, sia che egli amasse ancora tanto la duchessa del
Valentinois da esserne geloso, sia che fosse istigato dalla duchessa d'Étampes, che era alla
disperazione vedendo l'attaccamento del delfino per la sua nemica; certo è che egli vide sorgere
quella passione del figlio con una collera e un dolore di cui dava segni ogni giorno. Ma il figlio non
ebbe timore né della sua collera né del suo odio, e nulla valse a rallentare il suo legame o a farglielo
nascondere: così il re fu costretto a sopportarlo e si distaccò ancor più da lui, avvicinandosi
maggiormente al suo terzogenito, il duca di Orléans. Era questi un principe molto bello, pieno di
fuoco e di ambizione, di una giovinezza impetuosa, che aveva bisogno di essere tenuta a freno ma
che avrebbe fatto di lui un gran principe, se gli anni avessero potuto maturarne lo spirito.
«Il maggiorascato del delfino e il favore del re per il duca di Orléans avevano fatto nascere
fra i due fratelli una emulazione che arrivava all'odio, emulazione che datava dalla prima infanzia e
che non era mai cessata. Quando l'imperatore passò in Francia, tutte le sue preferenze andarono al
duca di Orléans, e il delfino ne fu talmente irritato che, trovandosi l'imperatore a Chantilly, tentò di
costringere il connestabile ad arrestarlo senza attendere l'ordine del re. Il connestabile si rifiutò; in
seguito il re lo biasimò per non avere eseguito l'ordine del principe: e, quando lo allontanò dalla
corte, fu in gran parte anche per questa ragione.
«La rivalità fra i due fratelli diede alla duchessa d'Étampes l'idea di appoggiarsi al duca di
Orléans, perché questi la sostenesse presso il re contro la duchessa del Valentinois: vi riuscì. Il
duca, benché non l'amasse, si interessò alla sua causa non meno di quanto il delfino si interessasse a
quella della duchessa del Valentinois. Come potete facilmente immaginare, questo fece nascere a
corte due fazioni; ma tali intrighi non si limitarono a schermaglie femminili.
«L'imperatore, che aveva conservato il suo favore al duca di Orléans, si era più volte offerto
di dargli il ducato di Milano; durante i negoziati che si conducevano per la pace, aveva fatto
intendere che gli avrebbe ceduto le diciassette province e gli avrebbe dato in sposa la figlia. Ma il
delfino non desiderava né quella pace né quelle nozze. Si servì del connestabile, che gli era sempre
stato caro, per persuadere il re di quale importanza fosse non dare al suo successore un fratello così
potente quanto sarebbe stato un duca d'Orléans alleato dell'imperatore e signore di diciassette
province. Il connestabile fece suoi i sentimenti del delfino, tanto più che poteva in questo modo
opporsi a quelli della duchessa d'Étampes, sua dichiarata nemica, che desiderava ardentemente la
potenza del duca di Orléans.
«Il delfino comandava in quel tempo l'armata del re nella Champagne; e aveva ridotto
l'esercito dell'imperatore a tali estremi che sarebbe andato completamente distrutto se la duchessa
d'Étampes, temendo che una troppo grande vittoria impedisse la pace e l'alleanza dell'imperatore col
duca di Orléans, non avesse segretamente fatto avvertire i nemici di sorprendere Épernay e
Château-Thierry, che erano pieni di vettovaglie. Così essi fecero e così salvarono tutta la loro
armata.
«Ma la duchessa non godette a lungo del successo del proprio tradimento. Di lì a poco il
duca di Orléans morì di malattia contagiosa a Farmoutiers. Egli amava una delle più belle donne
della corte, e ne era riamato. Non ve ne dirò il nome perché ha vissuto con tanta saggezza e ha
nascosto con tanta cura la passione che nutriva per quel principe che mi pare giusto che la sua
reputazione sia rispettata. Il caso volle che ricevesse la notiza della morte del marito il medesimo
giorno in cui aveva ricevuto quella del duca di Orléans; cosicché ebbe un pretesto per nascondere la
causa del suo vero dolore senza bisogno di farsi violenza.
«E nemmeno il re sopravvisse a lungo al figlio: morì due anni dopo. Raccomandò al delfino
di appoggiarsi al cardinale di Tournon e all'ammiraglio d'Annebault, senza punto nominare il
connestabile, che era allora relegato a Chantilly. Tuttavia la prima cosa che fece il re suo figlio fu
quella di richiamarlo e affidargli la cura del governo.
«La duchessa d'Étampes fu scacciata e subì tutte le vessazioni che poteva aspettarsi da una
nemica onnipotente; la duchessa del Valentinois si vendicò nel modo più completo di lei e di quanti
l'avevano avversata. Il suo potere sul re apparve ancora più assoluto di quel che non apparisse
quando era delfino. Dopo dodici anni di regno, è lei la padrona assoluta di ogni cosa; è lei a disporre
delle cariche e degli affari; è lei che ha fatto cacciare il cardinale di Tournon, il cancelliere Olivier e
Villeroy. Quanti hanno tentato di illuminare il re sulla sua condotta sono rimasti vittime della
propria impresa. Il conte di Taix, gran maestro d'artiglieria, che non le era amico, non riuscì a
trattenersi dal parlare delle sue avventure galanti, e soprattutto di quella col conte di Brissac, per il
quale il re aveva sempre nutrito una profonda gelosia. Tuttavia ella giostrò in tal modo che il conte
di Taix cadde in disgrazia, fu esonerato dalla carica e, incredibile a dirsi, questa carica fu affidata al
conte di Brissac, poi creato maresciallo di Francia. La gelosia del re non si spense, anzi andò
talmente aumentando che la presenza a corte del maresciallo gli divenne insopportabile; ma la
gelosia, che in qualunque altra persona è aspra e violenta, in lui è dolce e moderata per il gran
rispetto che porta alla sua amante; perciò, quando si decise ad allontanare il rivale, prese il pretesto
di affidargli il governo del Piemonte. E in Piemonte il conte di Brissac passò diversi anni. Ritornò
l'anno scorso con la scusa di chiedere nuove truppe e altre cose necessarie al suo esercito. Ma forse,
tra i veri motivi di questo viaggio, c'era quello di rivedere la duchessa del Valentinois ed il timore di
esserne stato dimenticato. Il re lo ha ricevuto con grande freddezza; i duchi di Guisa, che lo
detestano senza osare dimostrarlo a causa della duchessa del Valentinois, si servirono del
visdomino, suo dichiarato nemico, per impedirgli di ottenere qualsiasi cosa fosse venuto a chiedere.
«Nuocergli non era difficile; il re lo odiava e la sua presenza lo rendeva inquieto; fu
giocoforza al conte di Brissac ripartire senza avere ottenuto alcun frutto dal suo viaggio, se non
forse quello di avere riacceso nella duchessa dei sentimenti che l'assenza incominciava ad attenuare.
D'altronde il re ha avuto ben altri motivi di gelosia, ma o non li ha conosciuti o non ha osato
lagnarsene.
«Forse, figlia mia», proseguì ancora la duchessa di Chartres, «potreste pensare che vi abbia
resa edotta di molte più cose di quante desideraste sapere».
- Non me ne dolgo affatto, signora - rispose la principessa di Clèves, - e vi interrogherei
ancora su molte altre circostanze che ignoro, se non temessi di importunarvi.
La passione del duca di Nemours per la principessa di Clèves fu subito così violenta da
togliergli il piacere e persino il ricordo delle donne che aveva amate e con le quali era rimasto in
rapporto durante la sua assenza. Non cercò nemmeno dei pretesti per rompere con loro; e neppure
ebbe la pazienza di ascoltare i loro lamenti e di rispondere ai loro rimproveri. La regina delfina, per
la quale aveva nutrito sentimenti alquanto appassionati, non resse nel suo cuore al confronto con la
principessa di Clèves. E anche la sua impazienza per il viaggio in Inghilterra cominciò ad
attenuarsi; smise di sollecitare i preparativi per la partenza. Continuò ad andare molto spesso dalla
regina delfina per il solo fatto che vi incontrava di frequente la principessa di Clèves e non gli
dispiaceva di lasciare pensare ciò che molti supponevano dei suoi sentimenti per la regina. Tale era
la considerazione che aveva per questa principessa, che preferiva farle ignorare la sua passione
piuttosto che rischiare di renderla di pubblico dominio. Nemmeno ne parlò al visdomino di
Chartres, che era il suo più intimo amico e per il quale non aveva mai avuto segreti. La sua condotta
era così prudente ed egli si sorvegliava con così grande attenzione, che nessuno poteva immaginare
fosse innamorato della principessa di Clèves, tranne il duca di Guisa; ed ella stessa se ne sarebbe
difficilmente potuta accorgere, se l'interesse che gli portava non l'avesse resa eccessivamente
guardinga.
Raccontare a sua madre ciò che pensava dei sentimenti del duca non le era così facile come
lo era stato parlarle dei suoi innamorati: pur senza la precisa intenzione di tenerglieli nascosti, non
gliene fece parola. Ma la principessa di Chartres se ne accorgeva fin troppo, come si accorgeva
dell'inclinazione di sua figlia per il duca. Una tale certezza le diede gran dolore; comprendeva quale
pericolo fosse per una creatura tanto giovane essere amata da un uomo come il signor di Nemours,
per il quale aveva della simpatia. E questi sospetti le furono confermati da un fatto che avvenne di lì
a pochi giorni.
Il maresciallo di Saint-André, che cercava tutte le occasioni per esibire il proprio fasto,
aveva supplicato il re, col pretesto di mostrargli il proprio palazzo ultimato in quei giorni, di fargli
l'onore di andarvi a pranzo con le regine. Il maresciallo si rallegrava in cuor suo di ostentare dinanzi
alla principessa di Clèves quel fasto che arrivava fino alla prodigalità.
Alcuni giorni prima della data fissata per il pranzo, il delfino, sempre cagionevole di salute,
si era sentito male e non aveva ricevuto nessuno: la regina sua moglie aveva passato l'intera
giornata accanto a lui. Verso sera, sentendosi meglio, fece entrare tutte le persone di riguardo che
facevano anticamera. La regina delfina se ne andò nelle sue stanze, dove trovò la principessa di
Clèves e alcune altre dame fra le sue più intime.
Era assai tardi, ella non si era acconciata e così rinunciò a recarsi dalla regina; fece avvertire
che non riceveva nessuno e si fece portare le sue gioie per scegliere quelle per il ballo del
maresciallo di Saint-André e per mantenere la promessa che aveva fatto alla principessa di Clèves
di donargliene alcune. Mentre così erano occupate, arrivò il principe di Condé, al quale la sua
posizione apriva tutte le porte. La regina gli chiese se per caso non venisse dalle stanze del re suo
marito e che cosa mai vi si facesse.
- Si sta discutendo col duca di Nemours, signora; egli difende con tale calore una causa, che
bisogna ben arguire che sia la sua propria. Penso che qualche amante gli dia inquietudine quando si
reca al ballo, talmente trova che sia tormentoso per un innamorato vedere ad una festa la donna
amata.
- Come! - replicò la delfina. - Il signor di Nemours non vuole che la sua amante vada al
ballo! Finora avevo pensato che i mariti potessero desiderare che le proprie mogli non vi andassero;
ma mai che simili sentimenti potessero albergare in un amante!
- Il duca di Nemours sostiene - continuò il principe di Condé - che il ballo sia cosa
insopportabile per gli innamorati, tanto che siano amati quanto che non lo siano. Sostiene che, se
sono amati, hanno il dolore di esserlo meno per parecchi giorni, non essendovi donna che il
pensiero dell'acconciatura non distolga da quello dell'amante; che questa cura di adornarsi è per
tutti, non solo per colui che amano; che quando sono al ballo desiderano piacere a tutti quelli che le
guardano; e che, quando sono soddisfatte della loro bellezza, ne provano una gioia della quale il
loro amante è lungi dall'essere la parte principale. Dice ancora che quando non si è amati si soffre
ancora di più vedendo in un ritrovo la propria amata; che più essa è ammirata e più ci si sente
infelici di non essere amati; che si teme sempre che la sua bellezza non abbia a suscitare qualche
amore più fortunato del nostro; infine che non vi può essere dolore paragonabile a quello di vedere
la donna amata al ballo, se non quello di sapere che ella vi si trova e noi no.
La principessa di Clèves mostrava di non sentire quello che il principe di Condé andava
dicendo, ma invece ascoltava con grande attenzione. Le era facile indovinare quanta parte ella
avesse nell'opinione del duca e soprattutto in quel che diceva sul dolore di non essere al ballo dove
si trovi la donna amata: egli infatti non avrebbe partecipato al ballo del maresciallo di Saint-André,
perché il re lo mandava ad incontrare il duca di Ferrara.
La regina intanto rideva col principe di Condé, disapprovando le opinioni del duca di
Nemours.
- In un solo caso, signora - aggiunse ancora il principe, - il duca di Nemours acconsente che
la sua amata vada al ballo: ed è quando il ballo è dato da lui medesimo. Egli dice che, quando l'anno
passato ne offrì uno alla Maestà Vostra, trovò che la sua amante gli faceva un gran favore
andandovi, benché sembrasse solo essere al vostro seguito; che è sempre far cosa grata ad un
amante il partecipare ad un divertimento offerto da lui stesso; e che inoltre è gradito all'amante che
l'amata lo veda signore e padrone di un luogo dove tutta la corte è radunata e veda con quanta
magnificenza egli ne faccia gli onori.
- Il signor di Nemours aveva ragione - disse la regina delfina sorridendo - di approvare che
la sua amante andasse al ballo; egli dava allora questo titolo a tante donne che, se esse fossero
mancate, vi sarebbe stata ben poca gente alla sua festa.
Appena il principe di Condé aveva incominciato a riferire le opinioni del duca di Nemours
sul ballo, la principessa di Clèves aveva sentito un gran desiderio di non andare a quello del
maresciallo di Saint-André. Ella convinse facilmente se stessa che non era bene andare nella casa di
un uomo dal quale si è amati e fu contenta che un motivo di severità le desse occasione di far cosa
grata al duca di Nemours. Portò tuttavia con sé il monile datole dalla regina e la sera, mostrandolo
alla madre, le disse che non aveva però l'intenzione di servirsene; che il maresciallo di Saint-André
ostentava talmente il suo interesse per lei, che non dubitava ch'egli avrebbe cercato anche di far
credere che la festa in onore del re era in parte data per lei, e poi, col pretesto di far gli onori di casa,
le avrebbe usato delle premure che forse l'avrebbero messa in imbarazzo.
La duchessa di Chartres per un poco ribatté queste opinioni della figlia, che trovava
singolari: ma, vedendo che vi si ostinava, si arrese, e le consigliò di fingersi ammalata per avere un
pretesto per non andare, dal momento che le ragioni che le impedivano di andarci non sarebbero
state approvate; bisognava anzi fare in modo che nemmeno venissero sospettate. La principessa di
Clèves acconsentì di buon grado a rimanersene in casa qualche giorno, pur di non andare in un
luogo dove non sarebbe stato il duca di Nemours. Questi partì senza avere la gioia di sapere che ella
non vi sarebbe andata.
Ritornò all'indomani del ballo, e seppe della sua assenza; ma, dato che ignorava che
avessero riferito davanti a lei la sua conversazione dal delfino, non poté nemmeno immaginare di
essere stato tanto fortunato da averle impedito di andarci.
Il giorno seguente, mentre egli era dalla regina e stava parlando con la delfina, arrivarono la
duchessa di Chartres e la figlia. Questa era abbigliata con una certa negligenza, come persona che
non fosse stata bene, ma il volto non corrispondeva all'abbigliamento.
- Siete tanto bella - le disse la regina delfina - che non posso credere che siate stata
ammalata. Immagino piuttosto che il principe di Condé, riferendovi l'opinione del duca di Nemours
sul ballo, vi abbia persuaso che avreste fatto gran piacere al maresciallo di Saint-André andando alla
sua festa e che sia stato proprio questo a persuadervi di non venire.
La principessa di Clèves arrossì per il fatto che la delfina aveva indovinato con tanta
esattezza, e lo diceva in presenza del duca di Nemours.
E fu in quel preciso attimo che la duchessa di Chartres capì perché sua figlia non avesse
voluto andare al ballo; e, per impedire che il signor di Nemours capisse a sua volta, prese a parlare
con un'aria che pareva la sincerità fatta persona:
- Vi assicuro, signora - disse alla delfina, - che Vostra Maestà fa più credito a mia figlia di
quanto ella non meriti. Essa è stata veramente ammalata; ma credo che, se non gliel'avessi proibito,
non avrebbe mancato di seguirvi e di mostrarsi, anche così sofferente, pur di vedere la straordinaria
festa di ieri sera.
La delfina dovette credere alle parole della principessa e il duca di Nemours fu seccato di
trovarvi l'apparenza della verità; il rossore della principessa di Clèves gli dava tuttavia il sospetto
che quanto aveva detto la delfina non fosse molto lontano dalla verità. La principessa di Clèves in
un primo momento provò grande irritazione al pensiero che il duca potesse supporre di essere stato
lui a distoglierla dall'andare al ballo; ma poi, quando le parole della madre gli ebbero tolto ogni
sospetto, ne provò una sorta di dolore.
Sebbene l'assemblea di Cercamp fosse stata disciolta, le trattative di pace erano continuate e
le cose si erano svolte in tal modo che fu deciso di radunarsi alla fine di febbraio per un congresso a
Cateau-Cambrésis. Vi ritornarono tutti i medesimi delegati; in questo modo l'assenza del
maresciallo di Saint-André sbarazzò il duca di Nemours del rivale più temibile, sia per l'attenzione
con cui spiava chiunque si avvicinasse alla principessa, sia per i vantaggi che ne poteva trarre.
La duchessa di Chartres non aveva voluto far scorgere alla figlia di essere a conoscenza dei
suoi sentimenti per il duca per non togliere valore alle cose che aveva in animo di dirle. Un giorno
si mise a parlarle di lui; ne diceva un gran bene, mescolandovi però molte lodi avvelenate sulla
saggezza che aveva di non innamorarsi mai, e per il suo sistema di considerare le relazioni amorose
come un piacere e non come un serio legame.
- Non già - ella aggiunse - che non gli si sia attribuita una grande passione per la delfina;
anzi vedo che va assai sovente da lei, e vi consiglio, per quanto vi sarà possibile, di evitare di
parlargli, soprattutto da sola, perché, trattandovi la regina come vi tratta, si farebbe presto a dire che
siete la loro confidente, e voi sapete quanto simile fama sia sgradevole. Vi consiglio anzi, se simili
dicerie dovessero continuare, di andare un po' meno dalla regina per non trovarvi immischiata in
intrighi galanti.
La principessa non aveva mai sentito parlare di un amore fra il duca di Nemours e la regina
delfina; fu oltremodo sorpresa del discorso di sua madre e credette a tal punto di essersi ingannata
sui sentimenti del duca che cambiò colore. La duchessa se ne avvide, ma nel frattempo arrivò gente
e la principessa di Clèves si rifugiò nel suo salottino.
Non è possibile immaginare il suo dolore nel rendersi conto, attraverso le parole della
madre, di quanto le stesse a cuore il duca di Nemours: mai, nemmeno a se stessa, aveva osato
confessarlo. Si rese conto anche che i sentimenti che aveva per lui erano quelli medesimi che tante
volte il principe di Clèves le aveva richiesti; e si rese conto ancora di quanto fosse vergognoso
averli per un altro invece che per un marito che tanto li meritava. Si sentiva ferita e addolorata per il
timore che il signor di Nemours volesse farsi schermo di lei nei suoi rapporti con la delfina; e fu
questo pensiero che la decise a confessare a sua madre quanto ancora non le aveva detto.
Andò il mattino dopo nella sua camera per dirle quanto aveva deciso: trovò la duchessa
febbricitante, di modo che si astenne dal parlarle. Ma pareva un male di così poca importanza, che
la principessa di Clèves si recò nel pomeriggio, come di solito, dalla delfina; questa era nel suo
salottino con due o tre delle sue più intime dame.
- Stavamo parlando del signor di Nemours - le disse la regina vedendola, - e ci
meravigliavamo di quanto sia cambiato dopo il suo ritorno da Bruxelles; prima di andarvi aveva un
numero infinito di amanti e il suo difetto era di coltivare ugualmente quelle che lo meritavano come
quelle che non lo meritavano. Da quando è tornato, trascura le une e le altre: mai si è visto un simile
cambiamento; ne risente anche il suo umore, perché non è più allegro come prima.
La principessa di Clèves non rispose, mentre andava pensando con vergogna che, se non
fosse stata disingannata, avrebbe preso tutto quello che si diceva su quei cambiamenti del duca di
Nemours come segni d'amore. Provava anche un certo rancore verso la delfina, vedendola cercare
ragioni e stupirsi di cose su cui ella doveva sapere meglio di chiunque altro la verità. Non seppe
trattenersi dal dimostrarlo; e, mentre le altre dame si allontanavano, le si avvicinò e le chiese a bassa
voce:
- È forse anche per me che avete parlato signora? E come potete nascondermi che è per voi
che la condotta del duca è cambiata?
- Siete ingiusta - le rispose la delfina. - Sapete che non ho segreti per voi. È vero che il duca
di Nemours, prima di andare a Bruxelles, ha voluto, credo, farmi capire che non gli ero indifferente;
ma al suo ritorno mi pare che non se ne sia nemmeno più rammentato, e vi confesso che sono
curiosa di sapere che cosa l'abbia tanto mutato. Sarà ben difficile che non ne venga a capo. Il
visdomino di Chartres, che è suo intimo amico, è innamorato di una persona sulla quale io ho un
certo ascendente; ed è per questa strada che saprò che cosa l'ha fatto cambiare.
La regina delfina parlava con un tono che riuscì a persuadere facilmente la principessa di
Clèves; e questa si sentì suo malgrado in uno stato d'animo più dolce e più calmo di quanto non
fosse prima.
Quando tornò a casa, trovò sua madre molto peggio di quando l'aveva lasciata; la febbre era
aumentata, e nei giorni che seguirono crebbe tanto da far pensare ad una malattia grave. La
principessa di Clèves era piombata nella più grande afflizione e non usciva quasi mai dalla camera
dalla madre. Anche il principe di Clèves vi passava quasi ogni giorno, sia per l'affetto che portava
alla duchessa di Chartres, sia per impedire a sua moglie di abbandonarsi alla tristezza, sia,
soprattutto, per il piacere di vederla: l'amore che le portava non era mai diminuito.
Il duca di Nemours, che aveva sempre avuto per lui grandissima amicizia, seguitò a
dargliene continue prove anche dopo il suo ritorno da Bruxelles. Durante la malattia della duchessa,
trovò il modo di vedere parecchie volte la principessa di Clèves col pretesto di cercare il marito o di
venirlo a prendere per portarlo a passeggio. Lo cercava persino in momenti in cui sapeva molto
bene di non poterlo trovare e, col pretesto di aspettarlo, rimaneva per ore intere nell'anticamera della
principessa di Chartres, dove si trovavano sempre molte persone di riguardo. La principessa vi
veniva sovente e nella sua afflizione pareva al duca ancora più bella: egli le dimostrava quanta parte
prendesse al suo dolore, e gliene parlava con tanta dolcezza e sottomissione da persuaderla
facilmente che non era la delfina la donna di cui era innamorato.
Ella non riusciva a impedirsi di provare turbamento, e al tempo stesso piacere, nel vederlo;
ma, quando egli non era più presente, ed ella pensava che la gioia che provava nel vederlo era il
principio dell'amore, quasi le pareva di odiarlo, tanto un simile pensiero la addolorava.
La duchessa di Chartres intanto continuava a peggiorare e si incominciò a disperare per la
sua vita; ascoltò con un coraggio pari alla sua pietà e alla sua virtù ciò che i medici le dissero del
pericolo in cui si trovava. Quando essi se ne furono andati, allontanò tutti e fece chiamare la figlia.
- Dobbiamo lasciarci, figlia mia - le disse, tendendole la mano; - il pericolo in cui vi lascio e
il bisogno che avete di me accrescono il dolore di abbandonarvi. Vi sento attratta dal duca di
Nemours; non vi chiedo di confessarmelo: la vostra sincerità ora sarebbe vana. Da gran tempo io mi
sono accorta di questo vostro sentimento, ma non ho voluto parlarvene prima per paura di farne
edotta voi stessa. Oramai però ve ne siete resa conto anche troppo: siete sull'orlo di un precipizio e
occorrono un grande sforzo e una grande violenza su voi stessa perché vi possiate vincere. Pensate a
quanto dovete a vostro marito; pensate a quanto dovete a voi stessa, e pensate che perdereste quella
stima che vi siete guadagnata e che io ho tanto voluto per voi. Abbiate forza, abbiate coraggio, figlia
mia; ritiratevi dalla corte, costringete vostro marito a portarvi lontano; non abbiate timore di
prendere decisioni troppo drastiche o difficili; per quanto a tutta prima possano sembrarvi dure,
saranno poi sempre più dolci della sciagura di un legame galante. Se altre ragioni che non fossero
quelle della virtù e del vostro dovere potessero costringervi a ciò che vi auguro, vi direi che, se
qualcosa fosse capace di turbare la felicità che mi attendo lasciando questo mondo, sarebbe il
vedervi cadere come le altre donne; ma, se una tale disgrazia deve colpirvi, io accolgo la morte con
gioia, per non esserne testimone.
La principessa di Clèves proruppe in un pianto dirotto sulla mano della madre che teneva
stretta fra le sue; e la signora di Chartres, non meno commossa di lei, aggiunse:
- Addio, figlia mia; non prolunghiamo un colloquio che troppo ci intenerisce, e ricordatevi,
se vi è possibile, quello che vi ho detto.
Pronunciate queste parole, voltò il capo dall'altra parte e ordinò alla principessa di Clèves di
chiamare le sue donne senza più voler ascoltare o dire nulla. La principessa di Clèves uscì dalla
stanza in uno stato che è facile immaginare; e da quel momento la duchessa di Chartres non pensò
ad altro che a prepararsi alla morte. Visse ancora due giorni, durante i quali non volle rivedere la
figlia, il solo essere al mondo al quale si sentisse legata.
La principessa di Clèves era nel più grande dolore; il marito non l'abbandonava mai e,
appena la duchessa fu spirata, la portò con sé in campagna per allontanarla da luoghi che
esacerbavano il suo dolore. Mai se ne era visto uno così grande; e sebbene tenerezza e riconoscenza
vi avessero gran parte, pure non vi era estranea la necessità che sentiva di sua madre per potersi
difendere dal duca di Nemours. Sentiva la sciagura di essere abbandonata a se stessa in un momento
in cui era tanto poco padrona dei suoi sentimenti e in cui le sarebbe stato tanto necessario qualcuno
che fosse in grado di compatirla e darle forza. Il comportamento del principe di Clèves verso di lei
le faceva desiderare più che mai di non mancare in nulla verso di lui. Gli dimostrava anche più
amicizia e tenerezza di quanto non avesse mai fatto; voleva che egli le restasse sempre accanto, e le
sembrava che, attaccandosi a lui, egli la potesse difendere dal signor di Nemours.
Il duca di Nemours venne a trovare il signor di Clèves in campagna; fece tutto quanto era in
suo potere per far visita anche alla principessa, ma questa non lo ricevette; rendendosi conto che
non avrebbe potuto non trovarlo degno di amore, aveva preso la decisione di non vederlo e di
evitarne tutte le occasioni che fossero dipese da lei.
Il signor di Clèves andò a Parigi per il suo servizio a corte e le promise di tornare
l'indomani; invece giunse il giorno seguente.
- Vi ho aspettato tutto ieri - gli disse la principessa quando egli fu di ritorno, - e vi devo
rimproverare di non avere mantenuto la vostra promessa. Voi sapete che, se un nuovo dolore poteva
colpirmi, sarebbe stato per la morte della signora di Tournon, di cui ho avuto notizia stamane. E mi
avrebbe commossa anche se non l'avessi mai conosciuta: è sempre una cosa degna di pietà che una
donna giovane e bella come quella se ne muoia in due giorni; ma essa era inoltre una delle persone
che più mi piacevano, dotata com'era di saggezza e di virtù.
- Mi è assai spiaciuto di non essere ritornato ieri - rispose il signor di Clèves - ma la mia
presenza era così necessaria ad un infelice che speravo di confortare, che non mi fu possibile
lasciarlo. In quanto alla signora di Tournon vi consiglio di non affliggervene troppo, se davvero la
rimpiangete come donna virtuosa e degna della vostra stima.
- Voi mi riempite di stupore - rispose la principessa; - io stessa vi ho sentito dire che non vi
era donna a corte che stimaste più di lei.
- È vero - rispose il principe di Clèves, - ma le donne sono delle incognite, e, quando le vedo
tutte quante insieme, mi sento così felice di avervi che non potrei mai ringraziare abbastanza la mia
buona sorte.
- Voi mi stimate più di quanto non meriti - rispose la principessa sospirando, - e non è
ancora tempo di trovarmi degna di voi. Ma ditemi, ve ne prego, ciò che vi ha deluso nella signora di
Tournon.
- È da gran tempo oramai che sono deluso - le rispose il principe, - perché so che amava il
conte di Sancerre, al quale dava speranza di nozze.
- Non posso credere che la signora di Tournon, dopo tutta l'avversione dimostrata per un
nuovo matrimonio da quando era vedova, e dopo tante pubbliche dichiarazioni di non volersi più
rimaritare, abbia dato delle speranze al conte di Sancerre.
- Se non le avesse date che a lui non ci sarebbe motivo di stupirsi; ma ciò che sorprende è
che nello stesso tempo le ha date anche a Estouteville; vi racconterò tutta questa storia.
PARTE SECONDA
«Voi sapete quale amicizia ci sia tra Sancerre e me; tuttavia, quando circa due anni fa si
innamorò della signora di Tournon, me lo nascose con gran cura come lo nascose a tutti quanti,
tanto che ero ben lontano dal supporlo. La signora di Tournon sembrava inconsolabile per la morte
del marito e continuava a vivere in un austero isolamento. Ella non vedeva si può dire nessuno
tranne la sorella di Sancerre, e fu proprio in casa di costei che Sancerre se ne innamorò.
«Una sera che doveva esserci una commedia al Louvre e per incominciare non si aspettava
più che il re e la duchessa del Valentinois, qualcuno annunciò che la duchessa si era sentita male e
che il re non sarebbe venuto. Fu facile arguire che tale indisposizione dovesse consistere in qualche
disputa, poiché tutti quanti eravamo a conoscenza della gelosia del re per il maresciallo di Brissac
quando era stato a corte; ma da qualche giorno il maresciallo era tornato in Piemonte, e non si
riusciva a capire il motivo di questo nuovo litigio.
«Stavo parlandone con Sancerre, quando sopraggiunse il principe d'Anville e a bassa voce
mi disse che il re era in uno stato di collera e di furore da far pena; che per la riconciliazione,
avvenuta pochi giorni prima dopo gli screzi sorti a causa di Brissac, il re aveva regalato alla
duchessa un anello, pregandola di portarlo; che, mentre questa si vestiva per venire alla commedia,
aveva notato che non portava l'anello e ne aveva chiesta la ragione; che lei si era meravigliata e
aveva interrogato le sue donne, le quali, per disgrazia o per non esserne state opportunamente
istruite, avevano risposto di non averlo più veduto da quattro o cinque giorni.
«- Ora - seguitava il principe d'Anville, - il maresciallo di Brissac è proprio partito da quattro
o cinque giorni, e il re non ha alcun dubbio che essa gli abbia fatto dono dell'anello nel dirgli addio.
Tale pensiero ha talmente ridestato in lui la non spenta gelosia che, contro il suo costume, si è
lasciato trascinare dalla collera e ha colmato la duchessa di rimproveri. Ora è tornato nei suoi
appartamenti terribilmente afflitto, non so se più per il pensiero che la duchessa abbia sacrificato il
suo anello o per il timore di esserle spiaciuto con la scena di poc'anzi.
«Appena il principe d'Anville mi ebbe raccontata questa storia, mi avvicinai a Sancerre per
riferirgliela: ma gliela dissi come un segreto che mi era stato confidato e che gli proibivo di
divulgare.
«L'indomani mattina assai per tempo mi recai da mia cognata, e al suo capezzale trovai la
signora di Tournon. Ella non amava la duchessa del Valentinois e sapeva molto bene che nemmeno
mia cognata l'aveva in simpatia. Sancerre era stato da lei uscendo dalla commedia, le aveva
raccontato del litigio fra il re e la duchessa, e lei si era precipitata a riferirlo a mia cognata, senza
sapere o senza riflettere che ero stato io a raccontarlo al suo amante.
«Quando mia cognata mi vide, disse alla signora di Tournon che mi si poteva mettere a parte
della confidenza e, senza nemmeno aspettare il suo permesso, mi raccontò parola per parola tutto
quello che avevo detto a Sancerre la sera prima. Potete facilmente immaginare quanto ne fossi
stupito. Fissai la signora di Tournon, che parve piena di imbarazzo. Un imbarazzo che destò in me
dei sospetti: non avevo riferito la cosa che a Sancerre e questi, appena uscito dalla commedia, mi
aveva lasciato senza dirmene le ragioni; fu allora che mi ricordai di averlo sentito fare gran lodi
della signora di Tournon. Tutte queste cose mi aprirono gli occhi e incominciai a capire che
Sancerre doveva avere con lei una relazione e che dovevano essersi veduti quella notte.
«Fui così punto dal pensiero che l'amico mi celasse il suo amore, che dissi varie cose che
fecero capire alla signora di Tournon l'imprudenza commessa. La ricondussi alla sua carrozza e,
salutandola, le dissi che invidiavo la felicità di colui che le aveva raccontato della disputa fra il re e
la duchessa.
«Subito dopo mi recai da Sancerre, lo rimproverai e gli dissi che ero al corrente della sua
relazione con la signora di Tournon, senza dirgli come ne fossi venuto a conoscenza: fu costretto a
confessarmela. Gli raccontai allora come l'avessi scoperta, ed egli mi confidò fin nei più piccoli
particolari la loro avventura; aggiunse che, come cadetto della sua famiglia, era ben lontano dal
poter aspirare ad un così gran partito, ma che la signora di Tournon era decisa a sposarlo. Si può
immaginare quanto fossi sorpreso. Consigliai a Sancerre di affrettare la conclusione delle nozze,
dicendogli che aveva tutto da temere da una donna capace di sostenere agli occhi del mondo una
parte tanto lontana dalla verità. Mi rispose che ella aveva veramente sofferto, ma che l'inclinazione
che aveva per lui le aveva fatto superare il dolore, e non aveva potuto far vedere all'improvviso un
così grande cambiamento. E addusse per scusarla ancora molte altre ragioni, che mi dimostrarono
fino a che punto ne fosse innamorato. Mi assicurò che avrebbe agito in modo da farle acconsentire
che io fossi a conoscenza del loro amore, tanto più che era stata proprio lei a farmelo indovinare. E
infatti, sebbene con grande fatica, la persuase, e dopo di allora divenni loro confidente.
«Mai ho visto donna comportarsi verso un amante in modo più perfetto; tuttavia la sua
affettazione a sembrare ancora afflitta non finiva di scandalizzarmi. Sancerre era così innamorato e
così felice del suo modo di fare che quasi non osava farle premura per concludere il matrimonio,
temendo che ella lo credesse spinto più dall'interesse che da un vero amore. Gliene parlò tuttavia, ed
ella parve decisa a sposarlo: cominciò persino a uscire dalla solitudine in cui viveva e a tornare in
società; veniva da mia cognata nelle ore in cui si trovava radunata una parte della corte. Sancerre vi
compariva solo raramente; e coloro che vi andavano tutte le sere e che la vedevano spesso la
trovavano assai seducente.
«Qualche tempo dopo che la signora di Tournon era uscita dalla sua solitudine, parve a
Sancerre di scorgere un certo qual raffreddamento nel suo amore; me ne parlò in diverse riprese,
senza che io dessi alcun peso ai suoi lamenti; ma alla fine, quando mi disse che invece di affrettare
le nozze ella pareva rimandarle all'infinito, incominciai a pensare che non avesse tutti i torti a
preoccuparsi; gli risposi che, se la passione della signora di Tournon dopo due anni andava
affievolendosi, non c'era motivo di stupirsene; e che se questa passione, anche senza essersi
affievolita, non era abbastanza forte da indurla a sposarlo non doveva dolersene; che un tal
matrimonio le avrebbe nuociuto moltissimo agli occhi della gente, non solo perché lui, Sancerre,
non era abbastanza un buon partito, ma per il danno che avrebbe arrecato alla sua reputazione; e che
dunque tutto quello che lui poteva sperare era che lei non gli desse false speranze e non lo
ingannasse. Aggiunsi ancora che se ella non avesse avuto il coraggio di sposarlo o gli avesse
confessato di amare un altro, non doveva né adirarsi né rammaricarsi, ma conservarle stima e
rispetto.
« - Vi do - gli dissi ancora - i medesimi consigli che darei a me stesso; infatti la sincerità mi
commuove a tal punto che se la mia amante o mia moglie stessa mi confessassero di sentirsi attratte
da qualcun altro, credo che ne sarei addolorato ma non inasprito, e smetterei il mio ruolo di amante
o di marito per consigliarla e compiangerla».
Queste parole fecero arrossire la principessa, che vi trovò un certo qual rapporto con lo stato
in cui si trovava: ciò la sorprese e le causò un turbamento dal quale si riebbe a fatica.
« - Sancerre intanto parlò alla signora di Tournon come io gli avevo consigliato - seguitò il
principe di Clèves, - ma lei lo rassicurò con tanto zelo e parve tanto offesa dei suoi sospetti che
questi si dileguarono. Tuttavia ella rinviò il matrimonio al ritorno da un viaggio assai lungo che egli
doveva fare; ma fino al giorno della sua partenza si comportò così bene e parve così afflitta che,
come lui, credetti lo amasse veramente. Sancerre è partito circa tre mesi fa; durante questa sua
assenza ho veduto poco la signora di Tournon; voi mi avete completamente assorbito, e di lui
sapevo solamente che stava per tornare.
«Ieri l'altro, arrivando a Parigi, seppi che era morta: mandai a chiedere da lui se si avevano
sue notizie; mi fu risposto che era arrivato il giorno prima, che era appunto quello della morte della
signora di Tournon. Andai da lui all'istante, pensando in quale disperazione l'avrei trovato: ma il suo
dolore superava di molto ogni mia immaginazione.
«Mai ho veduto dolore così grande e così tenero; abbracciandomi, è scoppiato in lacrime: Non la vedrò più - mi disse, - non la vedrò più: è morta! Non ero degno di lei, ma la seguirò ben
presto.
«Dopo di ciò tacque per un po'; e di tanto in tanto ripeteva: - È morta e non la vedrò più! -; e
gridava e piangeva come uno uscito fuor di senno. Mi disse che durante la sua assenza non aveva
ricevuto spesso sue lettere, ma che non se ne era meravigliato perché, conoscendola, sapeva quanto
le costasse arrischiarsi a scrivere. Non dubitava che al suo ritorno l'avrebbe sposato; la considerava
la più amabile e fedele persona della terra; se ne credeva teneramente amato e la perdeva nel
momento stesso in cui contava di unirsi a lei per sempre. Tutti questi pensieri lo gettavano in una
afflizione dalla quale sembrava essere sopraffatto; e confesso che io stesso non sapevo sottrarmi alla
commozione.
«Fui costretto tuttavia a lasciarlo per recarmi dal re, non senza avergli prima promesso che
sarei tornato presto. Tornai, infatti, di lì a poco, e non so dire quale fu la mia sorpresa nel trovarlo
completamente cambiato da come l'avevo lasciato. Stava in piedi nella sua camera con un viso
furioso; camminava e poi si fermava come persona uscita di senno. - Venite, venite - mi disse, venite a vedere l'uomo più disperato del mondo; mille e mille volte più disperato di prima, perché
quello che ho scoperto di lei è peggio della morte -. Pensai che fosse sconvolto da quella morte, non
potendo immaginare che ci fosse qualche cosa di peggio della morte di un'amante che si ama e dalla
quale si è riamati. Tentai di dirgli che, fintanto che il suo dolore era rimasto entro certi limiti,
l'avevo approvato e l'avevo condiviso, ma che avrei finito col compiangerlo, qualora si fosse
abbandonato alla disperazione e avesse perduto la ragione.
«- Sarei troppo felice di averla perduta e insieme di aver perduto la vita. La signora di
Tournon non mi era fedele, e vengo a scoprire la sua infedeltà e il suo tradimento all'indomani del
giorno della sua morte, in un momento in cui la mia anima è preda del più vivo dolore e del più
dolce amore; in un momento in cui la sua immagine è nel mio cuore come la cosa più perfetta che
sia mai esistita, e perfetta per di più anche nei miei confronti: ed ecco mi accorgo di essermi
ingannato e che ella non merita il mio rimpianto. Ora provo per la sua morte lo stesso dolore che se
mi fosse stata fedele e, viceversa, sento la sua infedeltà come se non fosse morta. Se avessi saputo
la sua infedeltà prima della sua morte, la gelosia, lo sdegno, la rabbia mi avrebbero colmato l'animo
così da renderlo tetragono al dolore della sua perdita; ma sono in uno stato tale che non posso né
consolarmi né odiarla.
«Potete immaginare quanto fossi stupito di quel che Sancerre stava dicendomi. Gli chiesi
come avesse saputo tutto ciò. Mi raccontò che, appena ero uscito dalla sua stanza, era venuto
Estouteville, suo intimo amico, ma ignaro del suo amore per la signora di Tournon, e che, sedutosi,
aveva incominciato a piangere e gli aveva chiesto scusa per avergli tenuto nascosto quanto gli
avrebbe narrato; che lo pregava di avere pietà di lui; che veniva ad aprirgli il suo cuore e che
vedesse in lui l'uomo più afflitto del mondo per la morte della signora di Tournon.
« - Questo mi colpì talmente - mi disse Sancerre, - che, sebbene il mio primo impulso fosse
di dirgli che ero più addolorato di lui, non ebbi forza di parlare. Estouteville intanto proseguiva
dicendo che era innamorato di lei da più di sei mesi; che aveva sempre voluto dirmelo, ma che lei
glielo aveva così perentoriamente proibito che non aveva osato disubbidirle; che lui le era piaciuto
quasi subito; che avevano nascosto il loro amore a tutti; che mai era stato da lei pubblicamente; che
aveva avuto la gioia di consolarla della morte del marito; infine che era morta proprio ora che stava
per sposarla; ma che questo matrimonio, frutto del loro amore, avrebbe dovuto apparire frutto del
dovere e dell'obbedienza, perché lei, infatti, aveva persuaso il padre ad imporglielo affinché non
apparisse troppo cambiata nella sua condotta, che sempre era stata aliena dall'idea di passare a
nuove nozze.
« - Mentre Estouteville mi parlava - continuò Sancerre, - ero costretto a credergli per la
verosimiglianza delle sue parole, anche perché il tempo in cui mi diceva di aver incominciato ad
amare la signora di Tournon era appunto quello in cui mi era apparsa cambiata; ma l'attimo dopo
incominciai a pensare che fosse un bugiardo o perlomeno un visionario; stavo per dirglielo, quando
ho pensato che fosse meglio chiarire la cosa: l'ho assediato di domande, ho espresso dei dubbi;
infine, tanto ho detto e fatto per rendermi conto della mia sventura, che Estouteville, chiedendomi
se conoscevo la calligrafia della signora di Tournon, ha posato sul mio letto quattro lettere di lei e il
suo ritratto. In quell'istante entrava mio fratello; Estouteville aveva il viso inondato di lacrime, tanto
che fu costretto ad uscire per non lasciarsene scorgere, dicendomi che sarebbe tornato in serata a
prendere quanto mi aveva lasciato. E io allora, col pretesto di sentirmi male, mandai via alla svelta
mio fratello per l'impazienza di leggere quelle lettere e nella speranza di trovarvi qualche appiglio
per non credere a tutto quello che Estouteville mi aveva raccontato.
« - Ma, ahimè! che cosa mai non vi ho trovato! Quale tenerezza! Quali promesse! E quante
assicurazioni di sposarlo! Quali lettere! Giammai ella me ne aveva scritte di uguali. Così soggiunse - provo ad un tempo il dolore della sua morte e quello della sua infedeltà. Due dolori che
sono stati spesso paragonati, ma mai provati nello stesso momento dalla stessa persona, e confesso a
mia vergogna di sentire maggiormente la sua perdita che il suo tradimento; e non mi riesce
nemmeno di trovarla tanto colpevole da poter accettare la sua morte. Se ancora fosse in vita potrei
rimproverarla, potrei vendicarmi facendole conoscere la sua ingiustizia; ma non la vedrò più; non la
vedrò più, e questa sventura è più grande di qualunque sventura. Vorrei renderle la vita a prezzo
della mia! Ma che desidero io mai! Se tornasse, ella vivrebbe per Estouteville. Come ero felice ieri!
- esclamò. - Come ero felice! Ero sì l'uomo più infelice del mondo, ma la mia afflizione era
motivata e provavo persino qualche dolcezza al pensiero che non avrei mai potuto consolarmene.
Oggi tutti i miei sentimenti sono ingiusti, e io pago alla sua mendace passione il medesimo tributo
di dolore che dovrei pagare ad un amore vero. Non posso né amare né odiare il suo ricordo; non
posso né consolarmi né affliggermi. Fate almeno - proseguì ancora voltandosi verso di me - che io
non debba mai rivedere Estouteville; il solo suo nome mi riempie di orrore. So bene che lui non ha
colpa; la colpa è mia, di avere tenuto nascosto il mio amore per la signora di Tournon; se lui
l'avesse saputo, forse non si sarebbe affezionato a lei e lei non mi sarebbe stata infedele; lui mi ha
cercato per mettermi a parte del suo dolore; mi fa pietà, e con ragione! Egli amava la signora di
Tournon, ne era riamato e non la rivedrà giammai! Ma sento però che non potrei impedirmi di
odiarlo. E ancora una volta vi scongiuro di far sì che io non debba mai più rivederlo!
«Sancerre ricominciò a piangere, a dolersi della sua morte, ricominciò a parlare, a
sussurrarle mille tenerezze: poi, di colpo, ritornò all'odio, ai lamenti, ai rimproveri, alle
imprecazioni. Vedendolo in uno stato così disperato, pensai che mi occorreva l'aiuto di qualcuno
per calmarlo; mandai a chiamare il fratello, che avevo lasciato proprio allora dal re; gli parlai in
anticamera prima che entrasse e gli esposi lo stato in cui Sancerre si trovava. Impartimmo qualche
ordine per impedire che vedesse Estouteville e passammo gran parte della notte a cercare di farlo
tornare in sé. Stamani, però, l'ho trovato ancora più disperato; suo fratello è rimasto con lui ed io
sono venuto da voi».
- Non si può essere più sorpresi di me - disse allora la principessa di Clèves; - credevo la
signora di Tournon incapace di amore e di inganno.
- L'astuzia e la dissimulazione non possono superare il punto in cui essa li ha portati - riprese
il signor di Clèves. - Notate che quando Sancerre la credette mutata nei suoi confronti, ella lo era
veramente e incominciava ad amare Estouteville. E diceva a questi che egli la consolava della morte
del marito e che solo per lui usciva dal suo severo isolamento, mentre a Sancerre pareva che fosse
perché insieme avevano deciso che dovesse mitigare il suo lutto. Persuadeva Estouteville a
nascondere la loro relazione, in modo da sembrare obbligata a sposarlo per la volontà del padre; non
era in verità per la cura che prendeva alla propria reputazione, ma per poter abbandonare Sancerre
senza che questi avesse a lamentarsene troppo. Bisogna che ritorni a vedere quell'infelice - continuò
il principe di Clèves, - e credo che anche voi dobbiate tornare a Parigi. È tempo che rivediate gente
e che riceviate tutte quelle visite a cui non potete sottrarvi.
La principessa di Clèves acconsentì a ritornare e lo fece all'indomani. Si sentiva più calma
nei confronti del duca di Nemours; le parole che morendo la principessa di Chartres le aveva detto,
il dolore di averla perduta avevano creato una pausa nei suoi sentimenti, ed ella aveva l'illusione che
essi fossero svaniti del tutto.
La sera stessa del suo arrivo, la regina delfina venne a trovarla e, dopo averle testimoniato
tutta la parte che aveva preso al suo dolore, le disse che, per distoglierla dai suoi tristi pensieri,
l'avrebbe messa a parte di quanto era avvenuto a corte durante la sua assenza; le raccontò poi diversi
suoi fatti personali.
- Ma soprattutto mi preme dirvi - soggiunse - che il duca di Nemours è pazzamente
innamorato, e che persino i suoi amici più intimi non solo non hanno ricevuto da lui confidenza
alcuna, ma nemmeno possono indovinare chi sia colei che ama. Questo amore però è così forte da
fargli trascurare, o meglio addirittura abbandonare, le speranze di una corona.
La delfina le raccontò poi tutto ciò che era avvenuto a proposito dell'Inghilterra.
- Tutto questo l'ho saputo dal principe d'Anville; e questa mattina mi ha aggiunto che ieri
sera il re ha fatto chiamare il duca di Nemours per delle lettere di Lignerolles, che chiede di
ritornare, dicendo di non essere più in grado di giustificare alla regina d'Inghilterra i ritardi del duca
di Nemours; che anzi la regina comincia ad essere offesa perché, pur non avendo dato una parola
positiva, aveva detto abbastanza da fare arrischiare un viaggio. Il re ha letto queste lettere al duca di
Nemours, il quale, invece di parlare seriamente, come era solito fare, non ha fatto che ridere,
scherzare, burlarsi delle speranze di Lignerolles. Dice che l'Europa intera condannerebbe la sua
imprudenza se arrischiasse un viaggio in Inghilterra come pretendente prima di essere sicuro del
successo, e infine ha soggiunto: «Mi sembra che perderei il mio tempo facendo un tal viaggio
proprio ora che il re di Spagna pone con tanto zelo la sua candidatura alle nozze con questa regina.
Forse non sarebbe un rivale temibile in un'avventura galante; ma penso che, trattandosi di un
matrimonio, Vostra Maestà non mi consiglierebbe di rivaleggiare con lui».
«In questo caso ve lo consiglierei», gli ha risposto il re, «ma non si tratterebbe già di
rivaleggiare; so che il re di Spagna ha altre intenzioni e, quand'anche non le avesse, la regina Maria
si è trovata troppo male sotto il giogo spagnolo perché sua sorella voglia sottomettervisi un'altra
volta, lasciandosi abbagliare dallo splendore di tante corone riunite».
«Se non se ne lascerà abbagliare, è molto probabile», ha replicato il duca di Nemours, «che
vorrà essere felice in amore. Ha amato lord Courtenay alcuni anni fa; e lord Courtenay era amato
anche dalla regina Maria, che l'avrebbe sposato col consenso di tutta l'Inghilterra se non avesse
saputo che la bellezza e la giovinezza di sua sorella Elisabetta lo attiravano assai più della speranza
di regnare. Vostra Maestà sa molto bene che la violenta gelosia che ne provò la spinsero a gettare
l'uno e l'altra in prigione, poi a esiliare lord Courtenay, e infine a sposare il re di Spagna. Io credo
che Elisabetta, attualmente sul trono, richiamerà ben presto Courtenay e sceglierà un uomo che ha
tanto amato, che è degno di amore e che ha tanto sofferto per lei piuttosto che un altro che non ha
mai veduto».
«Sarei del vostro stesso avviso», lo interruppe il re, «se Courtenay vivesse ancora. Ma ho
saputo, qualche giorno fa, che è morto a Padova, dove era confinato. Ma mi accorgo», finì col dire
il re lasciandolo, «che bisognerebbe fare il vostro matrimonio come si farebbe quello del delfino e
mandare a sposare la regina di Inghilterra per mezzo di ambasciatori».
- D'Anville e il visdomino, che erano dal re insieme al signor di Nemours, sono convinti che
è sempre quel medesimo amore che lo rende schiavo a distoglierlo da un così gran progetto. Il
visdomino, che gli è più vicino di qualsiasi altro, ha detto alla contessa di Martigues che il duca è
tanto cambiato da non riconoscerlo più; ed è molto colpito dal fatto di non riuscire a scoprirgli
alcuna relazione, di non notare alcuna ora speciale in cui egli scompaia, di modo che è convinto che
non sia corrisposto dalla persona che ama. Ed è questo il fatto che rende irriconoscibile il duca di
Nemours: vederlo amare una persona che non ricambi il suo amore!
Quale veleno per la principessa di Clèves le parole della delfina! Come non riconoscere se
stessa nella persona di cui tutti ignoravano il nome! Come non traboccare di riconoscenza e di
tenerezza venendo a sapere, per una via non sospetta, che quell'uomo, dal quale il suo cuore era
tanto turbato, nascondeva a tutti la sua passione e trascurava, per amore di lei, le speranze di una
corona! Non è possibile descrivere quello che sentì e il turbamento che invase il suo animo. Se la
regina l'avesse osservata attentamente, avrebbe potuto notare che le cose che andava raccontando
non le erano indifferenti; ma, non sospettando minimamente la verità, continuò a parlare senza
porvi attenzione.
- Il signor d'Anville, che, come vi ho detto, mi ha narrato tutti questi particolari - seguitò la
delfina, - mi crede più al corrente di lui ed ha un così alto concetto del mio potere di seduzione da
pensare che io sia la sola persona capace di operare un simile miracolo nel signor di Nemours.
Le ultime parole della delfina diedero alla principessa di Clèves un nuovo e diverso
turbamento.
- Mi è facile condividere l'opinione del signor d'Anville - rispose, - ed è del tutto probabile,
signora, che solo una principessa come voi possa far disdegnare la regina d'Inghilterra.
- Ve lo confesserei, se lo sapessi - riprese la regina delfina, - e lo saprei se la cosa fosse vera.
Tali amori non sfuggono agli occhi di quelle che ne sono la causa: sono anzi le prime ad
accorgersene. Il duca di Nemours non mi ha mai mostrato altro che una certa simpatia: ma c'è così
grande differenza fra il suo precedente comportamento con me e quello attuale che vi posso
assicurare di non essere io la causa della sua indifferenza verso la corona d'Inghilterra. Ma io mi
distraggo parlando con voi, e invece devo recarmi da Madama. Voi sapete che la pace è quasi
conclusa; quel che invece non sapete è che il re di Spagna non ha voluto sottoscriverne alcuna
clausola se non alla condizione di sposare lui questa principessa invece di suo figlio, il principe
Carlo. Per il re è stato assai difficile accettare, ma alla fine ha dovuto acconsentire ed è andato poco
fa a darne notizia a Madama. Credo che ne sarà inconsolabile; non è cosa che possa far piacere
andare sposa ad un uomo dell'età e degli umori del re di Spagna, soprattutto per una come lei, che
ha tutto il brio della prima giovinezza unito alla bellezza, e che si aspettava di sposare un giovane
principe dal quale si sente attratta anche se non lo ha mai veduto. Perciò non so se il re troverà in lei
tutta la sottomissione che desidera; mi ha incaricata di vederla, perché sa che mi vuole bene e spera
che io possa avere un qualche ascendente su di lei. In seguito farò un'altra visita, ben differente:
andrò a congratularmi con Madama sorella del re. Tutto è combinato per il matrimonio col duca di
Savoia, che arriverà fra poco. Mai persona in età simile a quella della principessa è andata sposa
con una gioia così completa. La corte sarà più bella e più numerosa che mai, e, malgrado il vostro
dolore, bisogna che vi decidiate a venire per mostrare agli ospiti che le nostre bellezze non sono di
poco conto.
Dopo queste parole, la delfina lasciò la principessa di Clèves e all'indomani la notizia del
matrimonio di Madama fu nota a tutti. Nei giorni che seguirono, il re e le regine andarono a far
visita alla principessa di Clèves. Il duca di Nemours, che aveva atteso il suo ritorno con grande
impazienza e che desiderava ardentemente parlarle da solo a sola, attese per recarsi da lei l'ora in cui
tutti se ne sarebbero andati e presumibilmente nessuno sarebbe più venuto. Riuscì nel suo intento ed
arrivò che le ultime visite stavano uscendo.
La principessa era sul letto; faceva caldo, e la vista del signor di Nemours accentuò un
rossore che non ne diminuiva affatto la bellezza. Il duca si sedette davanti a lei con quella
soggezione e quella timidezza causate dalle vere passioni. Restò per qualche istante senza poter
parlare: non meno interdetta era la principessa di Clèves, cosicché rimasero qualche tempo in
silenzio. Poi il duca prese a farle le sue condoglianze e la principessa, che era assai contenta di poter
continuare la conversazione su questo tono, parlò lungamente della perdita che aveva subita; infine
gli dichiarò che, quand'anche il tempo avesse diminuito la violenza del suo dolore, ne sarebbe
rimasta in lei una così forte traccia da modificare per sempre il suo carattere.
- I grandi dolori e le violente passioni operano - le rispose il duca di Nemours - profondi
cambiamenti nello spirito; ed io stesso non mi riconosco da quando sono tornato dalle Fiandre.
Diverse persone hanno notato questo mio mutamento, e proprio ieri me ne ha parlato perfino la
regina delfina. - È vero, l'ha veramente notato - replicò la principessa di Clèves; - gliene ho sentito
parlare.
- Non mi duole che la regina delfina se ne sia accorta; ma spererei che non fosse stata la
sola. Vi sono persone alle quali non si osa dare segni del proprio amore se non attraverso cose che
non le riguardano affatto e, non osando mostrare l'amore, si vorrebbe almeno che vedessero che non
desideriamo essere amati da nessun altro. Si vorrebbe che sapessero che non c'è bellezza, a
qualunque rango possa appartenere, che non si consideri con indifferenza, e non corona che si
vorrebbe conquistare al prezzo di non vederle più. Le donne giudicano, di solito, della passione che
si ha per loro, dalla cura che si ha di piacere loro e di cercarle, ma questo non è difficile, per poco
che siano graziose; difficile è, invece, non abbandonarsi al piacere di seguirle; difficile è evitarle,
per tema di lasciar scorgere alla gente e a loro stesse i sentimenti che ci agitano. E il fatto che
testimonia ancora di più un vero amore è quello di diventare tutto l'opposto di quello che si era
prima e non avere più né ambizioni né piaceri, dopo avere passato tutta la vita a rincorrerli.
Era facile alla principessa di Clèves capire quale parte avesse in quelle parole. Le sembrava
che avrebbe dovuto rispondere ad esse oppure non tollerarle. Ma poi le sembrava anche che non
avrebbe dovuto ascoltarle, né mostrare di ritenerle rivolte a sé. Credeva di dover parlare, e il
momento dopo credeva di dover tacere. I discorsi del duca di Nemours le piacevano e la
offendevano in ugual maniera; vi scorgeva la conferma di tutto ciò che la delfina le aveva dato adito
di sospettare; vi trovava qualche cosa di galante e di rispettoso, ma anche di ardito e di troppo
evidente. L'attrazione che sentiva per il duca le dava un turbamento del quale non era padrona. Le
più oscure parole di un uomo che piace danno più agitazione che le aperte dichiarazioni di un uomo
che non piace. Rimase dunque senza rispondere, e il duca di Nemours si sarebbe accorto del suo
silenzio, e non ne avrebbe tratto cattivi presagi, se l'arrivo del principe di Clèves non avesse messo
fine alla conversazione e alla sua visita.
Il principe portava a sua moglie notizie del conte di Sancerre, ma ella non era affatto curiosa
del seguito di questa storia: era così assorta nel ricordo di ciò che era avvenuto, che a stento riusciva
a nascondere la sua distrazione. Quando poté far ritorno ai suoi sogni, si rese conto di essersi
ingannata credendo di non nutrire altro che indifferenza per il duca di Nemours. Le sue parole le
avevano fatto tutta l'impressione che egli poteva sperarne, e l'avevano del tutto persuasa del suo
amore. Gli atti e le parole si accordavano troppo bene perché lei potesse dubitarne. Non trasse più
lusinga dalla speranza di non amarlo; e pensò solamente che non doveva mai dargliene segno. Era
un'impresa difficile e della quale conosceva già tutte le pene; sapeva che il solo modo di potervi
riuscire era quello di evitare la presenza del duca. E poiché il suo lutto le permetteva di stare ritirata
più del consueto, si servì di questo pretesto per non andare nei luoghi dove poteva incontrarlo. Era
tristissima: la morte della madre pareva esserne la causa e a nessuno veniva fatto di cercarne altra.
Il duca di Nemours era disperato di non vederla quasi più. E sapendo molto bene che non
l'avrebbe trovata in alcuna riunione, né ad alcuna delle feste alle quali partecipava la corte, non
sapeva risolversi ad andarvi. Finse allora una grande passione per la caccia e organizzò delle battute
nei medesimi giorni nei quali vi era circolo dalle regine. Una leggera indisposizione gli servì
lungamente di pretesto per starsene a casa ed evitare quei luoghi dove sapeva che la principessa di
Clèves non sarebbe venuta.
Intorno a quel medesimo tempo, anche il principe di Clèves si ammalò; e la principessa non
usciva mai dalla sua stanza. Ma quando incominciò a stare meglio e qualche amico venne a
trovarlo, e fra questi il duca di Nemours, che, col pretesto di essere ancora debole, si tratteneva per
gran parte della giornata, allora decise di non potervi più rimanere; tuttavia le prime volte non ebbe
la forza di andarsene. Da troppo tempo non lo vedeva per risolversi a non vederlo più. Il duca
trovava modo di farle capire, con discorsi che avevano tutta l'aria di essere generici, ma che lei
capiva perché in uno stretto rapporto con quelli stessi che aveva fatti quel giorno da lei, che andava
a caccia per sognare e che non andava alle riunioni dove lei non c'era. Infine, ella mise in atto il suo
proposito: lasciare la camera del marito quando vi era il duca di Nemours; e dovette farsi estrema
violenza. Il duca di Nemours si accorse che lo sfuggiva e ne provò gran pena. Il principe di Clèves
in un primo momento, non fece caso alla condotta di sua moglie; ma poi si accorse che non voleva
rimanere da lui quando c'era gente. Le parlò, ed ella gli rispose di credere che le convenienze non le
consentissero di rimanere tutte le sere con la gioventù della corte; lo supplicava di lasciarle
condurre vita più ritirata rispetto al periodo in cui la presenza e la virtù di sua madre le consentivano
molte cose che una donna della sua età, da sola, non avrebbe potuto sostenere.
Il principe di Clèves, sempre così dolce e compiacente verso sua moglie, non lo fu in quella
circostanza e le disse che egli non voleva assolutamente che lei mutasse condotta. Ella fu per dirgli
che correva voce in società che il signor di Nemours fosse innamorato di lei; ma la forza per
pronunciare quel nome le venne meno, ed ebbe vergogna di servirsi di un pretesto e di nascondere
la verità ad un uomo che tanto la stimava.
Qualche giorno dopo, il re si trovava dalla regina all'ora del circolo; la conversazione cadde
su oroscopi e predizioni: le opinioni sulla fede che vi si doveva prestare erano varie. La regina vi
credeva moltissimo e sosteneva che, dopo tante cose che una volta predette si erano avverate, non
era possibile mettere in dubbio che in quella scienza vi fosse qualche certezza. Altri sostenevano
che, tra il numero infinito di predizioni, le poche che si erano avverate dimostravano di non essere
dovute ad altro che al caso.
- Io ho avuto in altri tempi gran curiosità di conoscere l'avvenire - disse il re, - ma mi furono
predette tante cose false ed inverosimili che mi convinsi che nulla di vero si può sapere. Alcuni anni
fa, venne qui un tale che aveva grande fama di astrologo. Tutti vollero consultarlo; vi andai anch'io,
senza dirgli chi ero, accompagnato dal principe di Guisa e dal signor d'Escars; e li feci passare
davanti a me: ma l'astrologo si rivolse per primo a me, come giudicandomi superiore agli altri due;
forse mi conosceva. Mi disse una cosa però che mal mi si adattava, se avesse saputo chi ero: mi
predisse che sarei morto in duello. Poi al duca di Guisa disse che sarebbe morto colpito alle spalle e
a d'Escars che avrebbe avuto la testa rotta dal calcio di un cavallo. Il duca di Guisa fu sul punto di
offendersi di questa predizione, quasi lo avessero accusato di fuggire.
D'Escars non fu per nulla soddisfatto di sapere che doveva morire in un così disgraziato
incidente; infine ce ne andammo, tutti e tre molto poco soddisfatti dell'astrologo. Io non so cosa
accadrà al signore di Guisa e a d'Escars, ma non è verosimile che io venga ucciso in duello. La pace
è conclusa fra il re di Spagna e me; e quand'anche non l'avessimo conclusa, non credo che ci
saremmo battuti e che lo avrei sfidato a duello come il re mio padre ha sfidato Carlo V.
Dopo che il re ebbe finito di raccontare della disgrazia che gli era stata predetta, coloro che
avevano sostenuto l'astrologia ne abbandonarono la causa e furono concordi nel dire che non era
opportuno attribuirvi credenza.
- Quanto a me - prese a dire ad alta voce il duca di Nemours, - sono la persona al mondo che
meno di tutti deve crederci; - e, rivolgendosi alla principessa di Clèves, accanto alla quale si
trovava, le disse sottovoce: - Mi è stato predetto che sarei stato reso felice dalla persona per la quale
avessi sentito la più violenta e rispettosa passione del mondo. Sta a voi giudicare, signora, come
possa credere alle predizioni.
Madama la delfina, che aveva creduto, da ciò che il signor di Nemours aveva proclamato a
gran voce, che quanto stava mormorando concernesse qualche falsa predizione, gli domandò cosa
stesse raccontando alla principessa di Clèves. Se non avesse avuto grande presenza di spirito, una
simile richiesta lo avrebbe sconcertato, ma senza esitazione rispose:
- Raccontavo, signora, che mi era stato predetto che sarei salito a tale fortuna quale mai avrei
osato sperare.
- Se è tutta qui la predizione che vi è stata fatta - ribatté la delfina sorridendo e pensando alla
faccenda dell'Inghilterra, - non vi consiglierei di parlare male dell'astrologia, anzi, avreste buone
ragioni per sostenerla.
La principessa di Clèves capiva ciò che la delfina intendeva dire, ma capiva anche molto
bene che la fortuna a cui il signor di Nemours alludeva non era quella di diventare re d'Inghilterra.
Era ormai trascorso molto tempo dalla morte della madre, perciò bisognava che la
principessa ricominciasse ad andare in società ed a frequentare la corte, come aveva sempre fatto. E
così vedeva il duca di Nemours dalla delfina e lo vedeva dal principe di Clèves, dove egli si recava
spesso in compagnia di altri gentiluomini di qualità, per non dare nell'occhio; ma mai lo vedeva
senza un turbamento, del quale egli si accorgeva benissimo.
Per quanto stesse attenta ad evitare i suoi sguardi e gli rivolgesse raramente la parola, ella
usciva in moti improvvisi che persuadevano il principe di non esserle indifferente. Un uomo meno
sensibile di lui molto probabilmente non se ne sarebbe accorto, ma egli era già stato amato troppe
volte per non capire quando suscitava amore. Vedeva che il cavaliere di Guisa era suo rivale, così
come il cavaliere di Guisa vedeva che il principe di Nemours era il suo. E soltanto lui, il cavaliere di
Guisa, in tutta la corte, aveva scoperto la verità: il suo amore l'aveva reso più chiaroveggente di
chiunque altro. Questo conoscere l'uno i sentimenti dell'altro dava loro un'asprezza che, senza
scoppiare in aperto litigio, si rivelava in ogni momento; essi erano sempre in opposti partiti, sempre
rivali in tutto, nelle corse agli anelli, nei combattimenti allo steccato e in tutti i trattenimenti del re, e
la loro emulazione era tale che non poteva passare inosservata.
La principessa di Clèves pensava spesso all'affare dell'Inghilterra; temeva che il duca di
Nemours non avrebbe resistito ai consigli del re e alle pressioni di Lignerolles. Vedeva con
preoccupazione che questi non era ancora ritornato e lo attendeva con ansia. Se avesse seguito i
propri impulsi, si sarebbe informata minutamente della faccenda; ma il sentimento stesso che le
infondeva tanta curiosità la costringeva poi a nasconderla, perciò doveva limitarsi a chiedere
ragguagli sulla bellezza, sullo spirito, sul carattere della regina Elisabetta. Fu portato al re uno dei
suoi ritratti, ed ella lo trovò più bello di quanto non desiderasse trovarlo; ma non poté trattenersi dal
dire che era abbellito.
- Non lo credo proprio - rispose la regina delfina, che era presente, - la regina ha fama di
essere bella e di avere uno spirito superiore al comune; lo so molto bene perché per tutta la vita mi è
stata sempre portata ad esempio. Deve essere adorabile se rassomiglia a sua madre, Anna Bolena.
Mai donna ha avuto tanto fascino e tanta grazia nella persona e nel carattere. Ho sempre sentito dire
che il suo volto aveva un che di particolarmente vivace e singolare, e non assomigliava per nulla
alle altre bellezze inglesi.
- Mi sembra anche - soggiunse la principessa di Clèves - che si dicesse che era nata in
Francia.
- Coloro che lo credono sono in errore - rispose la delfina; - vi racconterò la sua storia in
poche parole.
«Ella apparteneva ad una buona famiglia inglese. Enrico VIII era stato innamorato della
sorella e della madre di lei, tanto che si è perfino sospettato che fosse sua figlia. Ella venne qui con
la sorella di Enrico VII, che sposò il re Luigi XII. Dopo la morte del marito, questa principessa, che
era giovane e galante, lasciò molto a malincuore la corte di Francia; ma Anna Bolena, che aveva i
suoi medesimi gusti, non seppe risolversi a partire. Il defunto re se ne era innamorato ed ella rimase
come damigella d'onore della regina Claudia. Questa morì e madamigella Margherita, sorella del re,
duchessa d'Alençon, e poi regina di Navarra, della quale avrete letto i racconti, la prese con sé, ed
ella apprese i princìpi della nuova religione presso questa principessa. Ritornò poi in Inghilterra,
dove incantò tutti; aveva le maniere francesi che piacciono ovunque; cantava bene, danzava
mirabilmente, divenne damigella della regina Caterina d'Aragona ed il re Enrico VIII se ne
innamorò perdutamente.
«Il cardinale di Wolsey, suo favorito e suo primo ministro, aveva aspirato al pontificato; e,
scontento dell'imperatore, che non l'aveva sostenuto nelle sue aspirazioni, risolse di vendicarsene e
di alleare il suo re alla Francia. Insinuò nell'animo di Enrico VIII che il suo matrimonio con la zia
dell'imperatore era nullo e gli propose di sposare la duchessa di Alençon, che era rimasta vedova da
poco. Anna Bolena, ambiziosa com'era, vide in questo divorzio la strada che poteva portarla al
trono. Incominciò ad impartire al re d'Inghilterra nozioni sulla religione di Lutero, ed incitò il nostro
defunto re a caldeggiare a Roma il divorzio di Enrico, con la prospettiva del matrimonio della
duchessa d'Alençon. Il cardinale di Wolsey si fece mandare in Francia con altri pretesti, per trattare
questo affare; ma il suo signore non poté rassegnarsi che se ne facesse anche solo la proposta, e gli
mandò ordine a Calais di non parlare di questo matrimonio.
«Al ritorno in Francia, il cardinale di Wolsey fu ricevuto con onori pari a quelli che
venivano tributati ai re; mai prima di allora un favorito aveva spinto a tal punto orgoglio e vanità.
Egli combinò un incontro fra i due re, che avvenne a Boulogne. Francesco I volle dare la
precedenza ad Enrico VIII, che non voleva accettarla; si trattarono l'un l'altro con una straordinaria
magnificenza e si regalarono abiti uguali a quelli che avevano fatto fare per se stessi. Ricordo di
avere sentito dire che quello che il defunto re aveva mandato al re d'Inghilterra era di raso cremisi,
ricamato a triangolo, con perle e diamanti, ed il mantello era di velluto bianco ricamato d'oro. Dopo
essere stati qualche giorno a Boulogne, andarono a Calais. Anna Bolena era alloggiata presso
Enrico VIII col fasto di una regina e Francesco I le fece i medesimi regali e le tributò gli stessi onori
che se lo fosse stata. Alla fine, dopo un amore che durava da nove anni, Enrico VIII la sposò senza
attendere lo scioglimento del primo matrimonio, che oramai da gran tempo stava chiedendo a
Roma. Il papa scagliò prontamente su di lui la scomunica. Enrico ne fu talmente irritato che si
proclamò capo della nuova religione e trascinò l'Inghilterra nel disgraziato scisma in cui tuttora la
vedete.
«Anna Bolena non doveva godere a lungo di tanta grandezza; giacché, quando più la
credeva salda per la morte di Caterina d'Aragona, un giorno che insieme a tutta la corte assisteva
alla corsa agli anelli, cui partecipava il visconte di Rochefort suo fratello, il re fu preso da tale
gelosia che, lasciato bruscamente lo spettacolo, se ne venne a Londra, dando ordine di arrestare la
regina, il visconte di Rochefort e parecchi altri che riteneva amanti o confidenti di lei. Sebbene
questa gelosia sembrasse esplosa in quel momento, in realtà già da diverso tempo gli era stata
insufflata dalla viscontessa di Rochefort, la quale, mal sopportando l'intimità di suo marito con la
regina, l'aveva fatta apparire al re come un rapporto incestuoso; da allora il re, che già si era
innamorato di Giovanna Seymour, non aveva pensato ad altro che a liberarsi di Anna Bolena. In
meno di tre settimane fece intentare il processo alla regina e a suo fratello, li fece decapitare e sposò
Giovanna Seymour. In seguito, ebbe varie moglie, che ripudiò o fece morire, e, fra le altre, Caterina
Howard, della quale la contessa di Rochefort era confidente e che fu decapitata insieme a lei. Così,
ella fu punita dei delitti che aveva attribuito ad Anna Bolena; ed Enrico VIII, diventato di una
grossezza prodigiosa, morì».
Tutte le dame presenti al racconto della regina la ringraziarono di averle così bene informate
sulla corte d'Inghilterra e fra le altre la principessa di Clèves, che non poté trattenersi dal rivolgerle
ancora varie domande sulla regina Elisabetta.
La regina delfina faceva eseguire piccoli ritratti delle più belle dame della corte per mandarli
alla regina sua madre. Il giorno in cui stava per essere ultimato quello della principessa di Clèves, la
regina si recò a passare l'intero pomeriggio da lei. Il duca di Nemours non mancò di trovarvisi, dato
che non tralasciava occasione per vedere la signora di Clèves, pur senza mai avere l'aria di cercarla.
Quel giorno, poi, era tanto bella ch'egli se ne sarebbe innamorato se già non lo fosse stato; ma non
osava tenere gli occhi su di lei, mentre posava per il pittore, perché non si vedesse il piacere che
quella vista gli dava.
La regina delfina chiese al principe di Clèves un piccolo ritratto che aveva di sua moglie per
confrontarlo con questo che stavano ultimando; e tutti dissero la loro opinione sull'uno e sull'altro.
La principessa di Clèves chiese al pittore di fare un certo ritocco alla pettinatura a quello che
avevano allora portato. Il pittore tolse il ritratto dall'astuccio dove si trovava e, dopo avervi lavorato
per un po', lo rimise sulla tavola.
Da molto tempo il signor di Nemours desiderava avere il ritratto della principessa di Clèves
e, quando ebbe scorto quello che apparteneva al principe, non seppe resistere alla tentazione di
sottrarlo ad un marito che pensava fosse molto teneramente amato: si disse che, fra tante persone lì
raccolte, non sarebbe stato sospettato più di un altro.
La delfina stava seduta sul letto e parlava a bassa voce con la principessa di Clèves, che era
in piedi dinnanzi a lei. Questa, attraverso una delle tende socchiuse per metà, scorse il duca di
Nemours con la schiena appoggiata contro il tavolo che stava ai piedi del letto e vide che, senza
volgere il capo, prendeva con destrezza qualche cosa che era sul tavolo. Indovinò facilmente che si
trattava del suo ritratto, e ne fu tanto turbata che la delfina, accortasi che non l'ascoltava più, le
chiese a voce alta cosa mai stesse guardando. A queste parole, il duca di Nemours si voltò, scorse
gli occhi della principessa ancora fissi su di lui e pensò che probabilmente ella aveva sorpreso il suo
gesto.
La principessa di Clèves era nel più grande imbarazzo: la ragione voleva che ella richiedesse
il ritratto, ma chiederlo in presenza di tutti era come propalare al mondo intero la passione del duca
per lei; chiederlo in privato voleva dire autorizzarlo a confessarle il suo amore; infine decise che,
dopotutto, era meglio lasciargli il ritratto, ben contenta di poter accordare un piacere che poteva
essere concesso senza che egli nemmeno lo sapesse. Il duca di Nemours, che scorgeva il suo
imbarazzo e che indovinava press'a poco la causa, le si avvicinò e le disse sottovoce:
- Se avete veduto ciò che ho osato fare, abbiate la bontà, signora, di lasciare credere che
l'ignorate; non oso chiedervi di più.
Dette queste parole si ritirò senza aspettare risposta.
La regina delfina uscì per recarsi al passeggio, seguita da tutte le sue dame, ed il signor di
Nemours andò a chiudersi in casa, non potendo sostenere davanti a tutti la gioia di possedere un
ritratto della signora di Clèves. Era preda di ciò che la passione può far sentire di più piacevole:
amava la più deliziosa persona della corte e da lei, suo malgrado, si faceva riamare; e in ogni suo
gesto vedeva quel turbamento e quell'imbarazzo che dà l'amore nell'innocenza della prima gioventù.
La sera, il ritratto fu cercato con grande cura; ne fu ritrovato l'astuccio, e per questo non si
poté supporre che fosse stato rubato, ma piuttosto che fosse caduto per caso. Il principe di Clèves
era molto afflitto di questo smarrimento e, dopo ancora molte e inutili ricerche, disse alla moglie,
ma con un tono che faceva chiaramente intendere che non lo pensava, che per certo ella doveva
avere dato il ritratto a qualche suo segreto amante, poiché solo un amante poteva accontentarsi del
ritratto senza l'astuccio. Queste parole, dette ridendo, fecero una viva impressione sull'animo della
principessa e le diedero dei rimorsi. Incominciò a pensare alla violenza del sentimento che la
spingeva verso il duca di Nemours; si accorse di non essere più padrona né delle sue parole né del
suo volto; si disse che Lignerolles era tornato; che la faccenda dell'Inghilterra non la preoccupava
più; che non nutriva più sospetti sulla delfina; infine che non vi era più nulla che la potesse
difendere e che la sola sicurezza che vi fosse per lei era di allontanarsi. Ma, non essendo padrona di
farlo, si trovava nella più grande delle difficoltà e prossima a cadere in quello che le pareva il
massimo dei mali: lasciar scorgere al duca di Nemours il sentimento che aveva per lui. Ricordava
tutto ciò che la duchessa di Chartres le aveva detto morendo e i consigli che le aveva dato di
prendere qualunque decisione, per difficile che potesse sembrare, piuttosto che avventurarsi in una
relazione galante. E anche le tornava alla mente quanto le aveva detto il marito a proposito della
sincerità mentre le parlava della signora di Tournon; e le parve di dovergli rivelare il suo sentimento
per il duca. Questo pensiero l'occupò a lungo, poi si stupì di averlo avuto, lo considerò una follia e
ricadde nell'incertezza di non sapere a quale partito appigliarsi.
La pace era stata firmata; dopo molte riluttanze, Elisabetta si era risolta ad obbedire al padre.
Il duca d'Alba era stato scelto per venirla a sposare in nome di Sua Maestà Cattolica, e stava per
arrivare. Si attendeva anche il duca di Savoia, che veniva a sposare Madama, sorella del re, le cui
nozze dovevano avvenire circa nel medesimo tempo. Il re non pensava ad altro che a rendere famosi
questi avvenimenti con festeggiamenti nei quali far mostra di tutto il valore e la magnificenza della
sua corte. Venne proposto tutto quello che di più grandioso poteva farsi in fatto di balli e commedie,
ma il re trovò che questi divertimenti avevano un carattere troppo privato, e volle qualche cosa di
ancora più grande risonanza. Alla fine, si decise un torneo, al quale avrebbero partecipato anche gli
stranieri e al quale anche il popolo avrebbe potuto assistere. Tutti i principi, tutti i giovani signori
accolsero con gioia il progetto del re, soprattutto i duchi di Ferrara, di Guisa e di Nemours, che
primeggiavano in questo genere di esercizi. Il re li scelse perché fossero, insieme con lui, i campioni
del torneo.
Per tutto il regno fu proclamato che nella città di Parigi, il giorno quindici di giugno, Sua
Maestà Cristianissima e i principi Alfonso d'Este duca di Ferrara, Francesco di Lorena duca di
Guisa, e Giacomo di Savoia duca di Nemours tenevano campo contro chiunque si fosse presentato:
per cominciare, il primo combattimento a cavallo in lizza, in doppio assalto, quattro colpi di lancia e
uno per le dame; il secondo a colpi di spada, uno a uno o due a due, a seconda della volontà dei
maestri di campo; il terzo combattimento a piedi, tre colpi di picca e sei di spada; che lance, spade,
picche sarebbero state fornite dai difensori a scelta degli assalitori; che se, correndo, qualcuno
avesse colpito il cavallo sarebbe stato messo fuori torneo; che vi sarebbero stati quattro maestri di
campo per dare gli ordini, e quelli degli assalitori che si fossero più validamente comportati
avrebbero ricevuto un premio, il cui valore era lasciato alla discrezione dei giudici; che tutti gli
assalitori, sia francesi che stranieri, avrebbero dovuto toccare uno, o più d'uno, a loro scelta, degli
scudi appesi alla balconata in fondo alla lizza; che lì avrebbero trovato a riceverli un ufficiale
d'armi, che li avrebbe arruolati secondo il loro rango e secondo gli scudi toccati; che gli assalitori
avrebbero dovuto far portare il loro scudo e le armi da un gentiluomo tre giorni prima del torneo per
appenderli alla balconata; che, diversamente, non avrebbero potuto parteciparvi senza il consenso
dei difensori.
Fu fatta costruire nei pressi della Bastiglia una grande lizza che, partendo dal castello delle
Tournelles, attraverso tutta la via Sant'Antonio, andava a finire alle scuderie reali. Ai due lati vi
erano palchi e gradinate con logge coperte che formavano come delle gallerie di un bellissimo
effetto, capaci di contenere un numero infinito di persone. Tutti, principi e signori, non si
occuparono più d'altro che di preparare quanto occorresse per figurare nel torneo con gran sfarzo e
per accompagnare alle loro armi e alle loro divise qualche segno galante che facesse allusione alle
donne che amavano.
Pochi giorni prima dell'arrivo del duca d'Alba, il re fece una partita di pallacorda col duca di
Nemours, il cavaliere di Guisa e il visdomino di Chartres; le regine assistettero al gioco seguite da
tutte le loro dame, fra cui la principessa di Clèves.
Finita la partita, all'uscita dal gioco, Chastelart si avvicinò alla delfina e le disse che il caso
gli aveva proprio allora messo tra le mani una lettera d'amore caduta dalla tasca del duca di
Nemours. La regina, sempre curiosa di tutto quello che poteva riguardare il duca, pregò Chastelart
di dargliela: la prese e seguì la regina sua suocera, che se ne stava andando col re a vedere i
preparativi della lizza. Quando vi furono stati alcun po', il re si fece portare i cavalli che aveva
acquistato di recente e, sebbene non fossero ancora addestrati, volle montarli e ne fece dare a tutti
coloro che l'avevano seguito. Il re e il duca di Nemours scelsero i più focosi: e subito i due cavalli
tentarono di gettarsi l'uno contro l'altro. Il duca di Nemours, per timore di ferire il re, rinculò
bruscamente e portò il suo cavallo con tanta violenza contro un pilastro del maneggio che il colpo lo
fece vacillare. Credendolo seriamente ferito, tutti accorsero intorno a lui. La principessa di Clèves
lo credette più degli altri. L'interesse che aveva per lui le procurò un turbamento e un timore che
non si curò di nascondere; insieme con le regine gli si avvicinò e il suo viso era così stravolto che
anche un uomo meno interessato del cavaliere di Guisa se ne sarebbe accorto; se ne accorse, infatti,
e si occupò assai più dello stato in cui si trovava la principessa di Clèves che di quello del duca di
Nemours: il colpo che questi aveva ricevuto lo aveva talmente stordito da farlo rimanere per
qualche po' con il capo reclinato su coloro che lo sorreggevano. Quando lo rialzò, vide prima di
ogni altra cosa la principessa di Clèves; lesse su quel viso tutta l'ansia che aveva per lui e la fissò in
modo da farle comprendere quanto ne fosse commosso. Poi ringraziò le regine della bontà che gli
mostravano e si scusò dello stato in cui si era trovato dinanzi a loro; il re gli ordinò di andare a
riposare.
Appena la principessa di Clèves si fu riavuta dallo spavento, incominciò a preoccuparsi dei
segni che ne aveva dato. Il cavaliere di Guisa non la lasciò a lungo nella speranza che nessuno se ne
fosse accorto: le porse la mano per condurla fuori dalla lizza e le disse:
- Io sono più da compiangere del duca di Nemours, signora. Voi dovete perdonarmi se
manco al profondo rispetto che vi ho sempre testimoniato e se vi lascio scorgere il mio vivo
disappunto per quanto ho veduto; è la prima volta che ardisco parlarvi e sarà anche l'ultima. La
morte, o almeno una eterna lontananza, mi toglieranno da un luogo dove mi è impossibile vivere,
dacché ho perduto la triste consolazione di credere che tutti coloro che osano guardarvi siano
infelici quanto me.
La principessa gli rispose con poche parole messe insieme malamente, quasi non avesse
compreso il significato di quelle del cavaliere di Guisa. In un altro momento si sarebbe sentita
offesa ch'egli osasse parlarle dei sentimenti che nutriva per lei, ma ora provava soltanto l'angoscia
di saperlo al corrente di quelli che lei nutriva per il duca di Nemours. Il duca di Guisa ne rimase
talmente persuaso ed afflitto, che da quel giorno prese la risoluzione di non pensare mai di poter
essere amato dalla principessa di Clèves. Ma per rinunciare a un'impresa che gli era parsa ardua e
gloriosa, gliene occorreva un'altra la cui grandezza potesse assorbirlo completamente. Si propose,
cosa alla quale andava da tempo pensando, di conquistare Rodi; e quando la morte lo colse nel fiore
della giovinezza e mentre si era guadagnato la fama di uno dei più grandi principi del suo tempo, il
solo rimpianto che manifestò nell'abbandonare la vita fu quello di non aver potuto portare a termine
quella sua impresa, del cui successo era certo per tutte le cure che vi aveva riservato.
All'uscir dalla lizza, la principessa andò dalla regina, l'animo tutto preso da quello che era
successo. Il principe di Nemours arrivò subito dopo, meravigliosamente abbigliato e con l'aspetto di
uno che non risenta affatto dell'incidente occorsogli: pareva anzi più gaio del consueto e la gioia per
quello che credeva di aver visto gli dava un'aria che aumentava ancor più il suo fascino. Tutti
furono sorpresi vedendolo, tutti gli chiesero notizie, tranne la principessa di Clèves, che se ne
rimase accanto al camino senza far mostra di vederlo. Il re uscì da un gabinetto dove si trovava e,
vedendolo in mezzo agli altri, lo chiamò per parlargli dell'incidente. Il duca di Nemours, passando
accanto alla principessa, le mormorò:
- Oggi ho visto i segni della vostra pietà; ma non sono quelli di cui sono più degno.
La principessa di Clèves aveva temuto che il duca si fosse accorto della sua commozione, e
quelle parole le dimostrarono che non si era ingannata. Era per lei un gran dolore vedere che era
così poco padrona dei suoi sentimenti da averli lasciati trapelare al cavaliere di Guisa. E altrettanto
le dispiaceva che ora anche il duca di Nemours li conoscesse. Ma questo dolore non era tuttavia così
grande che non vi si mescolasse una qualche dolcezza.
La regina delfina, che era assai impaziente di sapere cosa mai vi fosse nella lettera che
Chastelart le aveva dato, si avvicinò alla principessa di Clèves:
- Andate a leggere questa lettera - le disse; - è indirizzata al duca di Nemours e, a quanto
sembra, deve essere di quell'amante per la quale ha lasciato tutte le altre; se non potete leggerla
subito, serbatela: venite questa sera nella mia stanza per ridarmela e per dirmi se avete riconosciuto
la scrittura.
Dopo queste parole la delfina se ne andò, lasciando la principessa così stupita e turbata che
per qualche momento non le riuscì di muoversi. Poi l'impazienza e il turbamento non le permisero
di rimanere più a lungo dalla regina; tornò a casa, sebbene non fosse ancora l'ora consueta.
Stringeva la lettera con mano tremante, i suoi pensieri erano tanto confusi che nemmeno uno
riusciva a farsi luce nella sua mente; e un dolore quale mai aveva conosciuto né sentito la
attanagliava; appena fu nel suo salottino, aprì la lettera, che diceva così:
«Vi ho troppo amato per lasciarvi credere che il cambiamento che vedete in me sia frutto di
leggerezza: voglio invece che sappiate che ne è causa la vostra infedeltà. Voi sarete forse sorpreso
che io vi parli della vostra infedeltà: me l'avete nascosta così bene ed io sono stata così attenta a non
farvi sapere che la conoscevo che avete ben ragione di meravigliarvi. Sono stupita io stessa di
essere riuscita a non farvene accorto. Mai dolore è stato simile al mio. Credevo nutriste per me una
violenta passione; e io non vi nascondevo più quella che avevo per voi; e proprio nel momento in
cui ve lo dimostravo appieno, ho saputo che mi ingannavate, che amavate un'altra e che, secondo
ogni apparenza, mi sacrificavate a questa nuova amante. Lo seppi il giorno delle corse agli anelli; e
per questo non vi andai. Mi finsi ammalata per nascondere lo scompiglio del mio cuore; ma poi mi
ammalai veramente, perché il mio corpo non resse ad una così violenta agitazione. Quando
incominciai a stare meglio, finsi di stare ancora molto male per avere il pretesto di non vedervi e di
non scrivervi. Mi occorreva del tempo per decidere cosa dovessi fare nei vostri riguardi; presi e
lasciai più di venti volte le medesime decisioni, ma alla fine vi trovai indegno del mio dolore e
decisi di non lasciarvelo scorgere. Volli ferire il vostro orgoglio facendovi credere che la mia
passione andasse attenuandosi da sé. Pensai di diminuire così il sacrificio che voi ne facevate; non
volli che aveste il piacere di mostrare quanto vi amassi per apparire ancora più seducente. Decisi di
scrivervi lettere sempre più tiepide e fiacche per insinuare nell'animo di colei alla quale le avreste
mostrate l'impressione che cessavo di amarvi. Non volevo dare a costei il piacere di scoprire che la
sapevo vittoriosa su di me, né accrescere la sua vittoria con la mia disperazione e i miei rimproveri.
Pensai che non vi avrei punito abbastanza col solo fatto di rompere ogni relazione con voi e che non
vi avrei dato che un ben tenue dolore cessando di amarvi quando voi non mi amavate più. Pensai
che era necessario che voi mi amaste per sentire il male di non essere amato, quel male che io
provavo in modo tanto crudele. Pensai che se qualche cosa avesse potuto riaccendere i sentimenti
che avevate per me, era il farvi credere che i miei erano cambiati, ma dovevo farlo fingendo di
nascondervelo e come se non avessi quasi la forza di confessarvelo. Mi attenni, infatti, a questa
decisione; ma quanto mi fu difficile prenderla, e, quando vi rividi, quanto mi fu difficile mandarla
ad effetto! Cento volte fui sul punto di scoppiare in pianti e rimproveri; le condizioni della mia
salute mi aiutarono a mascherare il mio turbamento e il mio dolore. In seguito, fui sorretta dal
piacere di dissimulare con voi come voi dissimulavate con me; mi facevo però tanta violenza per
dirvi e per scrivervi che vi amavo, che voi vi accorgeste prima di quanto avessi progettato che i miei
sentimenti erano mutati. Ne foste ferito; vi lamentaste; cercai di rassicurarvi, ma in maniera così
forzata da rendervi ancora più certo che io non vi amassi più; infine feci tutto quello che avevo
designato di fare. La bizzarria del vostro cuore vi faceva tornare a me quanto più vedevate che mi
allontanavo da voi. Ho assaporato tutto il piacere che può dare la vendetta; mi pareva che mi amaste
meglio di quanto non aveste mai fatto, e vi ho fatto vedere che il mio amore era morto. Ho persino
potuto credere che aveste abbandonato colei per la quale mi avevate lasciato. Ed ho molte ragioni
per pensare che non le abbiate mai parlato di me; ma il vostro ritorno e la vostra discrezione non
possono rimediare alla vostra leggerezza. Il vostro cuore è stato diviso fra me e un'altra, mi avete
ingannata; questo mi basta per togliermi la gioia di essere amata da voi, amata come credevo di
meritare; e per mantenermi nella risoluzione, della quale vi siete tanto meravigliato, di non vedervi
mai più».
La principessa di Clèves lesse e rilesse quella lettera molte volte senza quasi capire ciò che
leggeva: vedeva soltanto che il duca di Nemours non l'amava come lei aveva creduto e che ne
amava altre che tradiva al pari di lei. Quale constatazione per una persona del suo carattere, che,
dominata da una violenta passione, questa passione aveva lasciato trapelare ad un uomo che ora
giudicava indegno e ad un altro che faceva soffrire per amore di costui. Giammai vi fu dolore tanto
amaro e tanto pungente; e le pareva che ad inasprirlo fossero stati gli avvenimenti della giornata;
perché se il duca di Nemours non avesse avuto l'opportunità di credere di essere amato da lei, lei
non si sarebbe afflitta di sapere che ne amava un'altra. Ma stava ingannando se stessa, e questo
dolore che le era così insopportabile altro non era che gelosia con tutto il seguito dei suoi orrori. Si
rendeva conto, con questa lettera, che il duca di Nemours aveva da lungo tempo una relazione
galante; trovava che colei che aveva scritto la lettera aveva spirito e valore e che anzi era ben degna
di essere amata; pensava che dovesse avere più coraggio di quanto non ne avesse lei, e le invidiava
la forza con la quale aveva nascosto i propri sentimenti al duca di Nemours. Dalla chiusa della
lettera, poi, arguiva che quella donna dovesse credersi amata, e pensava ancora che la discrezione
ostentata dal duca nei suoi confronti, della quale tanto si era commossa, non dovesse attribuirsi ad
altro che all'affetto per quell'altra donna, alla quale temeva di dispiacere. Infine, ella si abbandonò a
tutto quello che poteva aumentare la sua pena e la sua disperazione. Quali riflessioni non fece su se
stessa! Quali riflessioni sui consigli che sua madre le aveva dato! E quanto si pentì di non essersi
ostinata, malgrado il parere contrario del signor di Clèves, ad allontanarsi dal mondo, o di non aver
seguito l'impulso che l'aveva spinta a confessargli l'attrazione che provava per il signor di Nemours.
Molto meglio sarebbe stato dichiararla, questa attrazione, ad un marito di cui conosceva tutta la
bontà, e che avrebbe avuto tutto l'interesse a farle schermo, invece di lasciare indovinare i suoi
sentimenti ad un uomo indegno che la ingannava, che forse la sacrificava, e che cercava di farsi
amare da lei solo per orgoglio e per vanità; le parve infine che tutti i mali che le potevano accadere,
che tutti gli eccessi ai quali poteva giungere non uguagliavano quello di aver lasciato trapelare il suo
amore al duca di Nemours per poi accorgersi che egli amava un'altra.
La sua sola consolazione era pensare che, dopo una simile esperienza, nulla aveva più da
temere da se stessa, e che sarebbe del tutto guarita dei suoi sentimenti per il duca.
Non pensò nemmeno più all'ordine datole dalla delfina di trovarsi da lei al momento in cui si
sarebbe ritirata; si mise a letto con la scusa di sentirsi male, di modo che, quando il principe di
Clèves rincasò dopo essere stato dal re, gli fu detto che dormiva. Ma essa era ben lontana dalla
calma che conduce al sonno. Passò l'intera notte affliggendosi e rileggendo la lettera che aveva tra
le mani.
Ma la principessa di Clèves non era la sola persona a cui quella lettera togliesse il sonno. Il
visdomino di Chartres, poiché era lui che l'aveva perduta e non il duca di Nemours, era in una
inquietudine estrema; aveva passato la serata dal duca di Guisa, che aveva dato una grande cena al
duca di Ferrara, suo cognato, e a tutta la gioventù della corte. Il caso volle che durante la cena si
venisse a parlare di lettere d'amore; e il visdomino disse di averne una con sé, una più graziosa di
quante mai fossero state scritte. Fu incitato a mostrarla e lui se ne schermì. Il duca di Nemours prese
a dire che probabilmente non l'aveva affatto, e che ne aveva parlato solo per vanità. Il visdomino, di
rimando, rispose che, sebbene quella fosse una sfida alla sua discrezione, pure non avrebbe
mostrato la lettera; ma che ne avrebbe letto qualche brano per far loro giudicare come pochi uomini
potessero leggerne di simili. Così dicendo, volle tirar fuori la lettera, ma non gli riuscì di trovarla.
La cercò ancora, mentre intorno a lui volavano motteggi, ma poi parve tanto preoccupato che
nessuno gliene parlò più. Egli si ritirò prima degli altri e rincasò con impazienza, per vedere se
avesse dimenticato lì la lettera preziosa.
Stava ancora cercandola, quando sopraggiunse il primo cameriere della regina per dirgli che
la viscontessa di Uzès credeva per prudenza necessario avvertirlo che nel circolo della regina si era
parlato di una lettera galante che gli sarebbe caduta di tasca durante il gioco della pallacorda; che
una gran parte del contenuto della lettera era stato riferito; che la regina aveva mostrato grande
curiosità di vederla e aveva mandato a chiederla ad uno dei suoi gentiluomini di servizio, ma questi
aveva risposto di averla lasciata nelle mani di Chastelart.
E il primo cameriere riferì al visdomino di Chartres molte altre cose, che non fecero che
aumentare il suo turbamento. Egli uscì immediatamente per andare da un gentiluomo che sapeva
amico intimo di Chastelart. Lo obbligò ad alzarsi malgrado l'ora avanzata, perché andasse a
richiedere la lettera, guardandosi bene però dal dire chi fosse la persona che l'aveva perduta e che la
rivoleva. Chastelart però, convinto come era che fosse del duca di Nemours e che questi a sua volta
fosse innamorato della delfina, non dubitò un istante che fosse proprio lui a farla richiedere.
Rispose, con gioia maligna, di avere consegnato la lettera alla delfina e il gentiluomo ritornò a dare
questa risposta al visdomino; risposta che accrebbe le sue molte preoccupazioni, aggiungendone
altre. Dopo essere rimasto a lungo incerto sul da farsi, gli parve che solo il duca di Nemours potesse
aiutarlo ad uscire da un simile imbarazzo.
Andò a cercarlo a casa ed entrò nella sua stanza che il giorno stava per spuntare. Il duca di
Nemours dormiva tranquillo; quanto aveva potuto scorgere il giorno prima della principessa di
Clèves gli dava solo pensieri gradevoli. Essere svegliato dal visdomino di Chartres lo sorprese non
poco; gli chiese se non fosse per vendicarsi di quanto lui aveva detto al banchetto che era venuto a
turbare il suo sonno; ma il visdomino gli fece capire dall'espressione del volto che i motivi che lo
conducevano erano ben seri.
- Vengo a confidarvi la cosa più grave della mia vita - gli disse. - So bene che non dovete
essermene grato, perché questo avviene in un momento in cui ho bisogno del vostro aiuto; ma so
anche che avrei perduto la vostra stima se vi avessi confidato tutto ciò che sto per raccontarvi senza
esservi costretto dalla necessità. Io ho lasciato cadere di tasca quella lettera di cui vi parlavo ieri
sera, ed è per me di somma importanza che nessuno sappia che quella lettera era indirizzata a me.
Essa è stata vista da molte delle persone che si trovavano al gioco della pallacorda, dove mi cadde
ieri sera; anche voi eravate là ed io vi chiedo, di grazia, di dire che siete stato voi a perderla.
- Bisogna proprio che voi pensiate che io non abbia un'amante - rispose sorridendo il duca di
Nemours - per farmi una simile proposta e per pensare che non vi sia nessuno con cui io possa
litigare lasciando credere di ricevere lettere simili!
- Vi prego - soggiunse ancora il visdomino, - ascoltatemi seriamente: se avete un'amante,
come non dubito, sebbene non sappia chi ella sia, vi sarà facile discolparvi, perché io ve ne fornirò i
mezzi infallibili; e se anche non vi giustificaste con lei, questo non vi costerà che una rottura
momentanea. Io invece con questa disavventura disonoro una persona che mi ha appassionatamente
amato, ed una delle donne più degne di stima che esistano. E, d'altra parte, mi attiro un odio
implacabile che mi costerà la posizione e forse anche qualche cosa di più.
- Non capisco del tutto quel che volete dire - gli rispose il signor di Nemours, - tuttavia mi
fate intravedere che le voci corse sull'interesse dimostratovi da una grande principessa non sono del
tutto infondate.
- Infatti non lo sono - rispose il visdomino, - e piacesse a Dio che lo fossero: non mi troverei
nell'imbarazzo in cui mi trovo; ma è necessario che vi racconti quanto è accaduto perché vi rendiate
conto di quello che ho da temere.
«Da quando sono a corte, la regina mi ha sempre trattato con particolare riguardo e
gentilezza, sicché avevo motivo di credere che avesse della bontà per me; non vi era in ciò nulla di
particolare, però, e non avevo mai pensato di nutrire per lei altri sentimenti che quelli del rispetto.
Ero anzi molto innamorato della signora di Thémines; è facile capire, solo a guardarla, che si possa
essere, essendone riamati, molto innamorati di lei, ed io lo ero. Circa due anni or sono, la corte
stava a Fontainebleau e io mi trovai due o tre volte a conversare con la regina in un'ora in cui vi
erano pochissime persone. Mi parve che il mio spirito le piacesse e che ella convenisse in tutto
quello che le dicevo. Un giorno, fra l'altro, il discorso cadde sul tema della fiducia: io sostenni che
non vi era nessuno in cui potessi riporla intera; che trovavo che ci sia sempre da pentirsi di averla
avuta e che ero in possesso di molti segreti di cui non avevo mai parlato. La regina rispose che era
questa la ragione per cui mi stimava; che non aveva mai trovato nessuno in Francia capace di
mantenere i segreti e che questo l'aveva messa in un grande imbarazzo, perché le aveva tolto il
piacere di donare la sua fiducia; e che d'altra parte era necessario nella vita, e soprattutto per
persone del suo rango, avere qualcuno con cui potersi aprire. Nei giorni che seguirono, tornò spesso
su questo argomento e mi mise a parte di circostanze molto riservate. Infine, mi parve che volesse
assicurarsi della mia segretezza per potermi confidare a sua volta i suoi segreti. Questo pensiero mi
legò a lei, commosso come ero di tanta stima, e le feci la corte con maggiore assiduità del solito.
«Una sera che il re, con tutte le dame, era andato a fare una passeggiata a cavallo nella
foresta, mentre la regina, leggermente indisposta, non si era mossa, rimasi con lei; ella discese in
riva allo stagno e ad un certo momento lasciò la mano dei suoi scudieri per camminare più
liberamente; fatto qualche giro, si avvicinò a me e mi ordinò di seguirla:
« - Voglio parlarvi - mi disse - e vedrete da quanto vi dirò se vi sia amica.
«A queste parole si interruppe e mi guardò fissamente:
« - Voi siete innamorato - continuò - e poiché non vi confidate con nessuno, credete che il
vostro amore sia ignorato; invece è risaputo e anche da persone che vi portano interesse. Vi si
osserva, si conoscono i luoghi dove vedete la vostra amante e si è persino complottato di
sorprendervi. Io non so chi ella sia; e nemmeno ve lo chiedo; voglio solo premunirvi dai guai nei
quali potreste incorrere.
«Considerate quale agguato stesse tramandomi la regina e quanto fosse difficile non
cascarvi. Voleva sapere se ero innamorato e, non chiedendomi affatto di chi lo fossi e lasciando
balenare solo l'intenzione di aiutarmi, sperava di togliermi il sospetto che parlasse per curiosità o
per calcolo. Tuttavia, contro tutte le apparenze, intuii la verità. Ero sì innamorato della signora di
Thémines, ma, sebbene anche lei mi amasse, non ero così fortunato da avere luoghi dove la vedessi
in segreto e dove temere di essere sorpreso; e capii così che non era a lei che alludeva la regina. Era
anche vero che avevo una relazione con un'altra donna meno bella e meno severa della signora di
Thémines e che non era impossibile fosse stato scoperto il luogo dei nostri convegni, ma, dato che
poco mi premeva di lei, era facile mettermi al riparo da ogni pericolo cessando di vederla. Presi
dunque subito il partito di non rivelare nulla alla regina e al contrario di assicurarla che avevo
abbandonato da gran tempo il desiderio di farmi amare da quelle donne dalle quali potessi sperare di
esserlo, giacché le trovavo quasi tutte indegne di avvincere un gentiluomo e che solo qualche cosa
ben al disopra di loro avrebbe potuto impegnarmi.
« - Voi non mi rispondete con sincerità - replicò la regina, - perché io so l'opposto di quanto
voi affermate. Il modo con cui vi parlo deve indurvi a non nascondermi nulla. Voglio che mi siate
amico - continuò, - ma non voglio, dandovi questo posto, ignorare quali siano i vostri legami.
Decidete se volete accettare questo patto al prezzo di rivelarmeli; vi do due giorni per pensarci; ma,
passati questi due giorni, fate bene attenzione a quello che mi direte e ricordatevi sempre che se in
seguito scoprissi di essere stata ingannata non ve lo perdonerei giammai.
«Dette queste parole, la regina mi lasciò senza aspettare risposta. Potete immaginare la
preoccupazione del mio animo per quello che mi aveva detto: i due giorni che mi aveva dato per
riflettere non mi parvero davvero troppo lunghi per prendere una decisione. Era chiaro che voleva
sapere se fossi innamorato ed era chiaro che voleva che non lo fossi. Vedevo tutte le conseguenze
della decisione che avrei preso; la mia vanità era non poco lusingata da un legame intimo con la
regina e una regina per di più ancora tanto graziosa. D'altra parte, amavo la signora di Thémines e,
sebbene le fossi in un certo modo infedele con quell'altra donna di cui vi ho parlato, non sapevo
decidermi a rompere con lei. Vedevo anche il pericolo a cui mi esponevo ingannando la regina e
quanto fosse difficile ingannarla; non seppi tuttavia risolvermi a rifiutare ciò che la fortuna mi
offriva e accettai il rischio al quale poteva espormi la mia cattiva condotta. Ruppi dunque con colei
la cui relazione poteva venire scoperta e sperai di poter nascondere quella che avevo con la signora
di Thémines.
«Quando, trascorsi i due giorni concessimi dalla regina, entrai nella stanza dove le dame
facevano cerchio, essa ad alta voce, con un tono grave che mi sorprese, mi disse:
« - Avete pensato all'affare del quale vi ho incaricato e siete potuto venire a capo della
verità?
« - Sì, signora - risposi, - ed essa è quale la esposi a Vostra Maestà.
« - Venite allora stasera all'ora in cui farò la mia corrispondenza e vi impartirò gli ultimi
ordini.
«Senza nulla rispondere, feci una profonda riverenza e, all'ora indicatami, non mancai. La
trovai nella galleria con il suo segretario e qualcuna delle sue dame. Appena mi vide, venne verso di
me e mi condusse all'altro capo della galleria.
« - Ebbene - mi disse, - è proprio dopo averci molto pensato che non avete nulla da dirmi? E
il modo che io adopero con voi non merita forse che mi parliate sinceramente?
« - È perché vi parlo sinceramente, signora - le risposi, - che non ho nulla da dirvi; giuro a
Vostra Maestà, per tutto il rispetto che le debbo, di non aver legami con alcuna donna della corte.
« - Voglio crederlo - replicò la regina, - perché desidero che sia così: e lo desidero perché
voglio che mi siate completamente devoto, mentre sarebbe impossibile che io fossi lieta della vostra
amicizia, se voi foste innamorato. Non è possibile fidarsi di coloro che lo sono: non si può essere
sicuri della loro riservatezza. Sono troppo distratti, troppo divisi, e la loro amante li occupa
interamente: ciò mal si accorda col modo in cui voglio mi siate devoto. Rammentatevi, dunque, che
è sulla parola che voi mi date, di non avere impegno alcuno, che io vi scelgo per darvi intera la mia
fiducia.
« - Rammentatevi che voglio tutta la vostra; voglio che non abbiate né amico né amica
all'infuori di quelli che mi saranno graditi e che abbandoniate ogni altra cura all'infuori di quella di
piacermi. Non vi farò trascurare quella della vostra fortuna; me ne occuperò con maggior diligenza
di quanto non fareste voi stesso e, qualunque cosa mai possa fare per voi, mi parrà di esserne
ricompensata anche troppo se vi troverò nei miei confronti quale io spero. Vi scelgo per confidarvi
tutte le mie pene e perché mi aiutiate a lenirle. Potete immaginare che non siano piccole. In
apparenza io subisco senza troppe difficoltà il legame del re con la duchessa del Valentinois; in
realtà esso mi è insopportabile. Costei ha in mano il re, lo inganna, mi disprezza, e tutte le persone
del mio seguito parteggiano per lei. La regina mia nuora, fiera della sua bellezza e del prestigio dei
suoi zii, non mi dimostra deferenza alcuna. Il connestabile di Montmorency è padrone del re e del
reame; mi odia e del suo odio mi ha dato prove che non riesco a dimenticare. Il maresciallo di SaintAndré è un giovane favorito audace che non si comporta con me meglio degli altri. Il racconto
particolareggiato delle mie sventure vi muoverebbe a pietà; finora non ho mai osato confidarmi a
nessuno; ora mi confido a voi. Fate che non abbia a pentirmene, siate la mia sola consolazione.
«Gli occhi della regina si riempirono di lacrime mentre pronunciava queste parole. Pensai di
gettarmi ai suoi piedi, tanto ero sinceramente commosso dalla bontà che mi dimostrava. Da quel
giorno ripose in me una completa fiducia, non fece più nulla senza prima avermene parlato e ho
conservato con lei un legame che dura tuttora».
PARTE TERZA
«Tuttavia, per appagato e occupato che fossi da questo nuovo legame con la regina, non
sapevo rinunciare alla signora di Thémines, verso la quale mi trascinava una naturale inclinazione,
che non riuscivo a vincere. Mi parve persino che ella cessasse di amarmi e, invece di servirmi, come
avrei dovuto fare se fossi stato ragionevole, di questo apparente cambiamento per aiutarmi a
guarire, il mio amore raddoppiò. E mi condussi così male che la regina ebbe qualche sentore della
mia relazione. La gelosia è un sentimento naturale nelle donne del suo paese e forse questa grande
principessa ha per me sentimenti più vivi di quanto ella stessa creda. Ma, alla fine, la voce che io
ero innamorato le diede tanta inquietudine e così gran pena che cento volte mi credetti perduto di
fronte a lei. Alla fine, a furia di premure, di sottomissione e di falsi giuramenti, mi riuscì di
calmarla; ma non avrei potuto ingannarla a lungo se il cambiamento della signora di Thémines non
mi avesse distaccato da lei mio malgrado. Ella fece vedere di non amarmi più, e ne fui così persuaso
che fui costretto a non tormentarla oltre, e a lasciarla in pace. Qualche tempo dopo, mi scrisse la
lettera che ho perduto. Seppi così che era a conoscenza della mia relazione con la donna della quale
vi ho parlato, e che questa era la causa del suo cambiamento. Dato che non avevo più niente che mi
distraesse, la regina era abbastanza contenta di me; ma poiché i sentimenti che ho per lei non sono
di natura tale da rendermi impossibile ogni altro amore, e poiché non ci si innamora di propria
volontà, così mi innamorai della signora di Martigues, verso la quale avevo provato una vera
inclinazione quando era ancora Villemontais, damigella della delfina. Ho motivo di credere di non
esserle inviso: la discrezione che le dimostro, e della quale ignora i veri motivi, le è gradita. La
regina non nutre sospetti a suo riguardo, ma ne ha un altro non meno increscioso: siccome la
signora di Martigues è sempre dalla delfina, ci vado anch'io più spesso, e la regina si è immaginata
che sia la delfina stessa l'oggetto del mio amore. Il rango di costei pari al suo, la bellezza e la
giovinezza che ha a suo vantaggio suscitano in lei una gelosia che confina col furore, e un odio
verso la nuora che oramai non riesce più a nascondere. Il cardinale di Lorena, che mi pare aspiri da
gran tempo ad entrare nelle grazie della regina e che sa come io occupi il posto che vorrebbe
ottenere, col pretesto di riconciliarla con la delfina si è intromesso nei loro contrasti. Sono certo che
egli è riuscito ad indovinare la vera ragione dell'acrimonia della regina e credo che, senza averne
l'aria, mi renda presso di lei ogni sorta di cattivi servigi. Ecco dunque, mentre ve ne parlo, a che
punto stanno le cose. Giudicate quale effetto potrebbe produrre la lettera che ho perduto e che la
mia malasorte mi ha fatto mettere in tasca per restituirla alla signora di Thémines. Se la regina
dovesse mai vedere questa lettera, saprebbe che l'ho ingannata e che, nello stesso tempo in cui la
ingannavo con la signora di Thémines, ingannavo la signora di Thémines con un'altra; giudicate voi
quale opinione questo potrà darle di me e se potrà mai più fidarsi delle mie parole. E se non vede la
lettera, che cosa potrò dirle? Ella sa che è stata rimessa nelle mani della delfina; crederà che
Chastelart ne abbia riconosciuto la scrittura e che la lettera sia della delfina; immaginerà che la
persona verso la quale si mostra tanta gelosia sia forse lei stessa; infine, non vi è cosa che ella non
abbia motivo di pensare, e non vi è nulla che io non debba temere dai suoi pensieri. Aggiungete che
io sono innamorato della signora di Martigues; che certamente la delfina le mostrerà quella lettera e
che ella la crederà scritta di recente: così io sarò ugualmente in rotta sia con la persona che più amo
al mondo, sia con la persona che al mondo ho più da temere. E, dopo tutto questo, vogliate
considerare se non abbia motivo di scongiurarvi di dire che la lettera è vostra e di chiedervi, come
una grazia, di andare a ritirarla dalle mani della regina».
- Vedo bene - gli rispose il duca di Nemours - come sia impossibile trovarsi in un più grande
imbarazzo, e bisogna confessare che ve lo meritate. Sono stato spesso accusato di non essere un
amante fedele e di coltivare svariate avventure contemporaneamente; ma di tanto mi superate che io
non avrei osato neppure immaginare quello che voi invece avete fatto. Come potevate presumere di
conservare la signora di Thémines nel momento stesso in cui vi impegnavate con la regina? E come
potevate sperare di impegnarvi con la regina e di ingannarla nello stesso tempo? Ella è italiana e
regina; e di conseguenza piena di sospetti, di gelosia, di orgoglio; quando la vostra buona stella,
assai più che la vostra buona condotta, vi ha liberato da vecchi legami, ne avete intrecciato dei
nuovi e vi siete immaginato che nel bel mezzo della corte avreste potuto amare la contessa di
Martigues senza che la regina se ne accorgesse. Nessuna vostra premura sarebbe mai stata di troppo
per alleviarle l'umiliazione di avere fatto il primo passo. Ella ha per voi una passione violenta; la
vostra discrezione vi impedisce di dirmelo, come impedisce a me di chiedervelo, ma insomma vi
ama, è piena di diffidenza e la verità è contro di voi.
- Siete proprio voi che mi schiacciate sotto i rimproveri - lo interruppe il visdomino, quando la vostra esperienza dovrebbe rendervi indulgente verso i miei errori? Devo riconoscere di
essere nel torto; ma pensate, ve ne supplico, a togliermi dall'abisso in cui mi trovo. Dovreste vedere
subito, appena si sarà destata, la delfina, per richiederle la lettera come se l'aveste perduta voi.
- Vi ho già detto - replicò il duca di Nemours - che la vostra richiesta è alquanto inusitata e
che il mio personale interesse può far sì che io vi trovi delle difficoltà; e, soprattutto, se quella
lettera è stata vista cadere dalla vostra tasca, mi par difficile poter far credere che sia caduta dalla
mia.
- Mi sembrava di avervi già detto - riprese il visdomino - che era stato riferito alla delfina
che quella lettera era caduta da una delle vostre tasche.
- Come! - esclamò il duca, che si rese conto all'istante dei cattivi servizi che quell'equivoco
poteva arrecargli presso la principessa di Clèves. - È stato detto alla delfina che quella lettera era
caduta a me?
- Sì - rispose il visdomino, - è stato detto proprio così. E l'equivoco è dovuto al fatto che,
mentre diversi gentiluomini delle regine si trovavano in una delle stanze da gioco della pallacorda,
dove si trovavano i nostri vestiti, i vostri servi e i miei sono andati a prenderli. Nello stesso
momento la lettera è caduta; quei gentiluomini l'hanno raccattata e l'hanno letta ad alta voce. Gli uni
hanno creduto che fosse vostra, gli altri che fosse mia. Chastelart, che l'ha presa e al quale ho
mandato a richiederla proprio ora, ha risposto di averla data alla delfina come lettera vostra; coloro
invece che hanno parlato alla regina le hanno disgraziatamente detto che la lettera era mia; sicché
voi potete fare senza alcuna difficoltà ciò che mi auguro e togliermi dall'imbarazzo in cui mi trovo.
Il signor di Nemours aveva sempre avuto molto affetto per il visdomino, e la sua parentela
con la principessa di Clèves glielo rendeva ancora più caro. Tuttavia, egli non sapeva risolversi al
rischio che ella sentisse parlare di quella lettera come di cosa che lo riguardasse. Si mise a riflettere
profondamente e il visdomino, indovinando all'incirca la causa di quella meditazione, gli disse:
- Mi immagino che temiate di guastarvi con la vostra amante, e dubiterei persino che possa
trattarsi della delfina, se la scarsa gelosia che mostrate per il signor d'Anville non mi indicasse il
contrario; ma, in ogni caso, è giusto che non sacrifichiate la vostra pace alla mia, e voglio darvi il
modo di dimostrare a colei che amate che questa lettera è indirizzata a me e non a voi: eccovi un
biglietto della signora d'Amboise, amica della signora di Thémines, alla quale questa ha confidato i
suoi sentimenti per me. In questo biglietto ella mi richiede la lettera della sua amica, quella che ho
perduto. Sul biglietto sta scritto il mio nome; e ciò che vi è scritto attesta senza possibilità di dubbio
che la lettera richiestami è quella stessa che è stata trovata. Vi affido questo biglietto, che vi
autorizzo a mostrare alla vostra amante per giustificarvi. Ma vi supplico di non perdere un solo
minuto e di andare questa mattina stessa dalla delfina.
Il duca di Nemours ne fece promessa al visdomino e prese il biglietto della signora
d'Amboise: il suo disegno, però, non era quello di vedere subito la delfina, parendogli di avere
qualche cosa di ben più urgente da fare. Infatti non dubitava che la regina avesse già fatto vedere la
lettera alla principessa di Clèves, e il pensiero che la donna che amava così perdutamente potesse
credere che aveva una relazione con un'altra gli era intollerabile. Andò da lei non appena pensò che
potesse essere desta e le fece dire che se sollecitava l'onore di essere ricevuto ad un'ora così insolita,
vi era costretto da un motivo di straordinaria importanza. La principessa di Clèves era ancora a
letto, l'animo inasprito e agitato dai tristi pensieri avuti durante la notte. Quando le fu annunciato
che il duca chiedeva di lei, ne fu infinitamente sorpresa: lo stato d'animo in cui si trovava le fece
rispondere senza esitazione che era malata e che non poteva riceverlo.
Il duca non si sentì ferito dal rifiuto: un segno di freddezza non era di cattivo augurio in un
momento in cui ella poteva avere della gelosia. Si recò allora nell'appartamento del principe,
dicendogli che veniva da quello di sua moglie, e che era addolorato di non averla potuta vedere
perché doveva parlarle di un affare importante che riguardava il visdomino di Chartres. In poche
parole, fece comprendere al signor di Clèves l'urgenza della cosa e questi lo accompagnò subito
nella camera della moglie: se questa non fosse stata nell'oscurità, sarebbe stato ben difficile alla
principessa nascondere la sua meraviglia e il suo turbamento nel vedere comparire il duca di
Nemours accompagnato da suo marito. Il principe le disse che si trattava di una lettera e che
nell'interesse del visdomino era necessario il suo aiuto; che ella avrebbe dovuto accordarsi col duca
di Nemours sul da farsi; in quanto a lui, se ne sarebbe andato dal re che lo aveva mandato a
chiamare.
Il duca di Nemours rimase dunque, come aveva sperato, solo con la principessa.
- Sono venuto a chiedervi, signora - le disse, - se la delfina non vi ha per caso parlato di una
lettera consegnatale da Chastelart ieri sera.
- Me ne ha accennato - rispose la principessa, - ma non vedo quale rapporto possa avere
questa lettera con gli interessi di mio zio, il quale, posso assicurarvi, non vi è nominato.
- È vero, signora, egli non vi è nominato - replicò il duca, - però è indirizzata a lui ed è della
più grande importanza che voi la ritiriate dalle mani della delfina.
- Non riesco a capire - rispose la principessa - il motivo per cui gli importi che quella lettera
non sia veduta, e perché mai sia necessario richiederla a suo nome.
- Se vorrete prendervi la pena di ascoltarmi, signora - disse il duca, - vi farò conoscere in
poche parole la verità, e verrete a sapere cose tanto importanti per il visdomino che nemmeno le
avrei potute confidare al principe di Clèves, se non avessi avuto bisogno del suo aiuto per potervi
vedere.
- Mi pare che tutto quello che vi prenderete la pena di dirmi sia inutile - rispose la
principessa con un tono assai secco; - è meglio che andiate a trovare la delfina e che, senza
sotterfugi, le facciate presente l'interesse che portate a questa lettera, dato che ormai le è stato detto
che è vostra.
L'irritazione che trapelava dall'animo della principessa dava al duca di Nemours un piacere
quale mai aveva provato e gli faceva tenere a freno l'impazienza di giustificarsi.
- Io non so, signora, ciò che può essere stato detto a madama la delfina; so che io non ho
interesse alcuno per una lettera indirizzata al visdomino.
- Lo posso ben credere - replicò la principessa, - ma alla delfina è stato detto proprio il
contrario, e le parrà poco verosimile che le lettere del visdomino cadano dalle vostre tasche. Ed è
per questo motivo, a meno che non ne abbiate qualche altro che ignoro per nascondere la verità alla
delfina, che vi consiglio di confessargliela.
- Non ho nulla da confessarle: la lettera non è rivolta a me - ribatté, - e se c'è qualcuno che
desideri renderne persuaso, questi non è la delfina: ma, signora, dato che qui si tratta della fortuna
del visdomino, degnatevi di ascoltare cose che sono pur degne della vostra curiosità.
La principessa di Clèves mostrò col suo silenzio di essere pronta ad ascoltarlo, e il duca le
raccontò nel modo più succinto possibile tutto quello che aveva appreso dal visdomino. Erano cose
atte a suscitare meraviglia, eppure la principessa le ascoltava con tale freddezza che pareva non le
credesse vere, o che le fossero indifferenti. E tale continuò a rimanere il suo animo fintanto che il
duca di Nemours non venne a parlare del biglietto della signora d'Amboise che si rivolgeva al
visdomino e che era la prova di quanto egli aveva detto. Siccome la principessa di Clèves sapeva
che costei era amica della signora di Thémines, incominciò a trovare qualche verosimiglianza in
tutto ciò che il duca andava dicendole e a pensare che forse la lettera non era indirizzato a lui. Tale
pensiero la fece uscire di colpo, e suo malgrado, dalla freddezza in cui si era mantenuta sino ad
allora. Il duca, dopo averle letto il biglietto che era la sua giustificazione, glielo porse, dicendo che
poteva verificarne la scrittura; la principessa non poté impedirsi di prenderlo, di guardare la
soprascritta per vedere se realmente era indirizzato al visdomino di Chartres, e di leggerlo da cima a
fondo per rendersi ben conto se la lettera di cui si chiedeva la restituzione era quella medesima che
aveva fra le mani. Il duca di Nemours aggiunse ancora tutto quello che gli pareva più atto a
persuaderla; e dato che si è facilmente persuasi di una verità gradevole, la convinse alla fine di non
avere nulla a che vedere con quella lettera.
Allora la principessa cominciò a riflettere con lui sul pericoloso ginepraio in cui era caduto il
visdomino, a biasimarlo per la sua cattiva condotta, a cercare i mezzi per poterlo aiutare; si stupì del
modo di agire della regina; confessò al duca che la lettera era nelle sue mani; e infine, appena si
convinse della sua innocenza, si mise a considerare con spirito aperto e calmo tutte quelle cose che
in un primo momento pareva non volersi degnare di ascoltare.
Furono d'accordo che non bisognasse rendere la lettera alla delfina: ella, infatti, avrebbe
potuto mostrarla alla contessa di Martigues che, conoscendo la scrittura della signora di Thémines,
avrebbe facilmente potuto indovinare, per l'interesse che portava al visdomino, che la lettera gli era
indirizzata. Essi si accordarono anche sul fatto che non bisognasse confidare alla delfina quanto
riguardava la regina sua suocera. La principessa di Clèves, infine, prendendo a pretesto che questi
imbrogli riguardavano suo zio, si prestava con piacere a prendere parte a tutti quei segreti che il
duca le confidava.
Il duca, d'altra parte, non si sarebbe limitato a parlarle degli interessi del visdomino e la
libertà in cui si trovava gli avrebbe suggerito un ardire che fino ad allora non aveva mai osato, se
non fossero venuti a dire alla principessa che la delfina le ordinava di andare da lei. Il duca di
Nemours fu costretto a ritirarsi; andò dal visdomino per dirgli che, dopo averlo lasciato, aveva
pensato che era più opportuno rivolgersi alla principessa di Clèves, che era sua nipote, che non
andare direttamente dalla regina delfina. Non risparmiò gli argomenti per fargli approvare la sua
condotta e per fargli sperare un esito favorevole.
Frattanto, la principessa di Clèves stava vestendosi con cura per andare dalla delfina; non
appena entrò nella sua stanza, questa la chiamò vicino a sé e le disse a bassa voce:
- È da due ore che vi attendo: non sono mai stata tanto in imbarazzo a nascondere la verità
come stamattina. La regina ha udito parlare della lettera che ieri vi ho dato e pensa che sia stato il
visdomino a lasciarla cadere. Voi sapete come un poco si interessi al visdomino: ha fatto cercare la
lettera, l'ha fatta chiedere a Chastelart, che ha risposto di averla consegnata a me, e così sono venuti
a chiedermela, col pretesto che si trattava di una bella lettera, che destava la curiosità della regina.
Non ho osato dire che l'avevate voi pensando che ella immaginerebbe che ve l'avevo data a causa di
vostro zio, il visdomino di Chartres, e perché non sospettasse un'intesa fra lui e me. Mi era parso
altra volta che ella mal tollerasse l'assiduità del visdomino presso di me; e perciò le ho fatto
rispondere che la lettera si trovava negli abiti che avevo indossato ieri e che le guardarobiere erano
uscite. Ma datemi subito la lettera - soggiunse - perché io possa mandargliela e prima di
mandargliela possa leggerla per vedere se riconosco la scrittura.
La principessa si trovò ancora più imbarazzata di quanto avesse potuto supporre.
- Non so come potrete fare, signora - rispose, - giacché il principe di Clèves, a cui l'avevo
data da leggere, l'ha resa al duca di Nemours, che proprio stamani era venuto a pregarlo di
richiedervela. Mio marito ha commesso l'imprudenza di dire che l'aveva con sé e la debolezza di
cedere alle preghiere del duca.
- Eccomi nel più grande degli imbarazzi - ribatté la delfina - e avete fatto molto male a
rendere la lettera al duca di Nemours. Dato che ero stata io a darvela, non avevate il diritto di
renderla senza il mio permesso. Cosa volete mai che dica alla regina e che cosa non potrà ella mai
immaginare? Crederà, e con tutta l'apparenza della verità, che quella lettera mi riguardi, e che ci sia
qualche cosa fra il visdomino e me. Mai si riuscirà a persuaderla che quella lettera sia del duca di
Nemours.
- Sono oltremodo afflitta dell'imbarazzo di cui sono causa - le rispose la principessa; - mi
rendo conto di quanto sia grande, ma la colpa è del principe di Clèves e non mia.
- Invece è vostra - ribatté la delfina, - perché gli avete dato la lettera. Non c'è altra donna che
voi al mondo, che racconti al proprio marito tutto quello che sa.
- So bene di avere torto, signora - replicò la principessa, - ma cercate oramai di porre riparo
al mio errore, piuttosto che rinfacciarmelo.
- Forse potreste ricordarvi all'incirca il contenuto di quella lettera?
- Sì, signora, lo ricordo perché l'ho letta più di una volta.
- Se così stanno le cose - rispose la delfina, - bisogna che andiate subito a farla riscrivere da
mano ignota; io la manderò alla regina; ella non la mostrerà a coloro che hanno già veduto quella
vera; e se anche lo facesse, io sosterrò sempre che è quella stessa che ho avuto da Chastelart ed egli
non oserà contraddirmi.
La principessa di Clèves accettò l'espediente, tanto più che pensava di far chiamare il duca
di Nemours per riavere la lettera e farla poi copiare parola per parola imitandone la calligrafia, di
modo che la regina ne sarebbe stata certamente ingannata.
Appena a casa, raccontò al marito l'impiccio in cui si trovava la delfina e lo pregò di far
cercare il duca di Nemours. Il duca venne subito; la principessa gli riferì quanto aveva già detto al
marito e gli richiese la lettera, ma il duca di Nemours le rispose di averla già resa al visdomino, che,
al colmo della gioia per averla riavuta e per sentirsi finalmente fuori pericolo, l'aveva subito
rimandata all'amica della signora di Thémines. La principessa si ritrovò così in un nuovo
imbarazzo; alla fine dopo essersi a lungo consultati, decisero di rifare la lettera a memoria. Si
rinchiusero nella stanza per lavorare; fu dato ordine alla porta di non lasciare entrare nessuno, e i
servi del duca di Nemours furono rimandati a casa. Tutta quell'aria di mistero e di complicità non
era priva di fascino per il duca e anche per la principessa. I suoi scrupoli erano sopiti dalla presenza
del marito e dal fatto che erano in gioco gli interessi del visdomino: non sentiva che il piacere di
vedere il duca di Nemours, e ne aveva una gioia viva e schietta, quale non aveva mai provato; gioia
che le dava una spontaneità e una vivacità di spirito che il duca non le aveva mai veduto e che
raddoppiavano il suo amore. Siccome non aveva mai avuto momenti così piacevoli, la sua allegria
era aumentata; e quando la principessa volle incominciare a rammentarsi della lettera e scriverla,
egli, invece di aiutarla seriamente, non faceva che interromperla scherzando. La medesima allegria
alla fine contagiò anche la principessa, di modo che erano rinchiusi già da parecchio tempo per
lavorare e già due volte era venuta gente da parte della regina delfina per dire di far presto, che
ancora più di metà della lettera era da scrivere.
Il duca di Nemours era ben felice di prolungare simile incanto e dimenticava gli interessi del
suo amico. Anche la principessa di Clèves non si annoiava e dimenticava gli interessi di suo zio.
Alla fine, erano le quattro, la lettera fu terminata; ed era trascritta così male e la calligrafia con la
quale era stata ricopiata somigliava così poco a quella che si era voluto imitare, che la regina
avrebbe dovuto non prendersi nessuna cura di conoscere la verità per non conoscerla veramente:
infatti non rimase ingannata. Per quanto si cercasse in mille modi di convincerla che la lettera era
indirizzata al duca di Nemours, ella non solo restò nella convinzione che fosse del visdomino di
Chartres, ma credette che la delfina vi entrasse in qualche modo e che vi fosse una qualche intesa
fra di loro. Tale sospetto accrebbe talmente l'odio che da sempre nutriva per la delfina, che non la
perdonò mai e continuò a perseguitarla finché non ebbe ottenuto la sua espulsione dalla Francia.
Quanto al visdomino di Chartres, la sua rovina di fronte a lei fu completa: sia che il
cardinale di Lorena si fosse già reso padrone del suo animo, sia che il caso di questa lettera,
palesandole di essere ingannata, la mettesse sulla strada di scoprire anche altri inganni, è certo che il
visdomino non poté mai tornare completamente in buoni rapporti con lei. La loro relazione si ruppe
e la regina riuscì a farlo cadere in disgrazia, in seguito alla congiura d'Amboise, in cui il visdomino
era implicato.
Mandata la lettera alla delfina, il principe di Clèves e il duca di Nemours uscirono. La
principessa di Clèves rimase sola e, appena non si sentì più sorretta da quella gioia che è data dalla
presenza dell'essere amato, le parve di svegliarsi da un sogno; guardò con stupore la prodigiosa
differenza fra lo stato in cui si trovava la sera innanzi e quello presente; considerò l'acrimonia e la
freddezza dimostrata al duca di Nemours fino al momento in cui aveva creduto che la lettera della
signora di Thémines fosse indirizzata a lui, e la calma e la dolcezza che avevano preso il posto di
quell'acrimonia non appena egli l'aveva persuasa che quella lettera non lo riguardava.
Quando pensava che solo il giorno innanzi si era rimproverata come un delitto di avergli
lasciato intravedere segni di turbamento che anche la sola compassione era sufficiente a giustificare,
e che poi con la sua asprezza gli aveva mostrato sentimenti di gelosia che erano la prova certa del
suo amore, non riconosceva più se stessa.
E pensando che il signor di Nemours vedeva bene che ella si era resa conto del suo amore e
che, malgrado questo, non lo trattava male neppure in presenza del marito, che anzi non l'aveva mai
guardato con tanta simpatia; che a cagione sua il principe di Clèves l'aveva addirittura mandata a
cercare; che avevano passato un intero pomeriggio in grande intimità; allora le pareva di essergli
complice, di ingannare un marito che meno di chiunque altro lo meritava, e si vergognava di
mostrarsi così poco degna di stima agli occhi stessi del suo amante. Ma ciò che più di ogni altra
cosa le era insopportabile era il ricordo dello stato in cui aveva passato la notte per l'enorme dolore
procuratole dal pensiero che il duca potesse amare un'altra donna e la ingannasse.
Ella aveva fino ad allora ignorato i cocenti dolori della diffidenza e della gelosia; aveva
soltanto pensato a proibirsi di amare il duca di Nemours e non aveva ancora temuto che egli amasse
altra donna. Sebbene i sospetti suscitati da quella lettera fossero oramai cancellati, essi le avevano
tuttavia aperto gli occhi sulla possibilità di essere ingannata e le avevano dato sentimenti di timore e
di gelosia mai provati prima. Si meravigliò di non avere fino ad allora pensato come fosse poco
verosimile che un uomo come il duca di Nemours, sempre così leggero nei suoi rapporti femminili,
potesse essere capace di un attaccamento sincero e duraturo. Trovò quasi assurdo essere lieta del
suo amore. «Ma quand'anche lo fossi», si diceva, «che cosa voglio io farne? Accettarlo?
Corrispondervi? Impegnarmi in un'avventura galante? Mancare verso il principe di Clèves?
Mancare a me stessa? Espormi infine ai crudeli pentimenti e ai mortali dolori dell'amore? Sono
vinta e sopraffatta da un amore che mi travolge mio malgrado: tutti i miei propositi sono vani; ieri
pensavo quello che penso oggi e oggi faccio il contrario di quello che ieri avevo deciso. Bisogna
che mi strappi dalla presenza del duca di Nemours; bisogna che me ne vada in campagna, per
stravagante che questo viaggio possa apparire; e, se mio marito si ostinerà a impedirmelo, o a
volerne sapere le ragioni, dovrò avere la crudeltà verso di lui e verso me stessa di confessargliele».
Ella si fissò su tale decisione e passò tutta la sera in casa senza andare dalla delfina per
sapere ciò che era accaduto della falsa lettera del visdomino.
Quando il principe di Clèves rincasò, ella gli disse che voleva andare in campagna, che non
si sentiva bene, che aveva bisogno di cambiare aria. Il principe di Clèves, al quale ella appariva di
così mirabile bellezza che non gli sembrava possibile che i suoi mali fossero importanti, le rispose
prendendola in giro sull'idea di questo viaggio e rammentandole le nozze delle principesse e il
torneo, e dicendo che aveva appena il tempo di fare i preparativi per potervi partecipare con la
medesima magnificenza delle altre dame. Ma gli argomenti del marito non le fecero mutare
proposito: lo pregò di consentire a che, mentre egli andava a Compiègne con il re, ella andasse a
Coulommiers, una stupenda casa distante una giornata da Parigi, che stavano ultimando di costruire
proprio allora. Il principe di Clèves acconsentì; ed ella, mentre il re partiva per Compiègne, dove
doveva trattenersi solo pochi giorni, partì col proposito di non tornare però tanto presto.
Il duca di Nemours era oltremodo addolorato di non avere più rivisto la principessa dopo il
pomeriggio passato così gradevolmente insieme e che aveva fatto aumentare di tanto le sue
speranze. L'impazienza di rivederla non gli dava pace, di modo che, quando il re fu di ritorno,
decise di andare da sua sorella, la duchessa di Mercoeur, che stava in campagna abbastanza vicino a
Coulommiers. Propose al visdomino di accompagnarlo e questi accettò l'invito di buon grado; il
duca l'aveva invitato nella speranza di poter andare con lui a trovare la principessa. La duchessa di
Mercoeur li ricevette con grande gioia e non si preoccupò d'altro che di farli divertire e offrire loro
tutti i piaceri della campagna. Un giorno, mentre erano alla caccia del cervo, il duca di Nemours si
perdette nella foresta. Nell'informarsi sulla strada del ritorno, seppe di essere vicino a Coulommiers.
Al suono di questa parola, senza pensarci un istante e senza avere chiare le sue intenzioni, si diresse
a briglia sciolta verso il luogo che gli era stato indicato. Giunto nel cuore della foresta, si lasciò
condurre alla ventura per certi vialetti ben tracciati che pensò dovessero portare verso il castello.
Nel punto dove le stradine finivano, trovò un padiglione composto da una grande sala e da due
salottini, uno dei quali si apriva su un giardino tutto fiorito, separato dalla foresta da semplici
palizzate; il secondo, invece, dava su un grande viale del parco. Entrò nel padiglione, e si sarebbe
fermato a contemplarne la bellezza, se non avesse veduto venire proprio da quel gran viale il
principe e la principessa di Clèves, seguiti da uno stuolo di domestici. Egli non aveva immaginato
di poter trovare il principe di Clèves, che aveva lasciato presso il re, perciò il suo primo movimento
fu quello di nascondersi; entrò in quello dei due salottini che dava sul giardino fiorito, con l'idea di
uscire da una porta che immetteva nella foresta. Ma vide che la principessa e il marito si erano
seduti nel padiglione, mentre i domestici erano nel parco e non avrebbero potuto scorgerlo se non
passando per il luogo dove erano i loro signori. E allora non seppe negarsi il piacere di contemplare
la principessa, né resistere alla curiosità di ascoltare la sua conversazione con un marito che gli
destava più gelosia di qualsiasi altro rivale. Udì il principe di Clèves dire a sua moglie:
- Ma perché dunque non volete tornare a Parigi? Cosa mai può trattenervi in campagna? Da
qualche tempo in qua avete un desiderio di solitudine che mi stupisce e mi addolora, perché ci
allontana l'uno dall'altra. Trovo persino che siate più triste del solito e temo che abbiate qualche
motivo di afflizione.
- Non ho nulla che mi amareggi - ella gli rispose con aria imbarazzata, - ma la confusione
della corte è tanto grande e in casa vostra v'è sempre tanta gente che è impossibile che il corpo e lo
spirito non si stanchino e che non si sia spinti a cercare un po' di riposo.
- Il riposo non si addice affatto ad una persona della vostra età. In casa vostra e a corte
conducete una vita che non può affaticarvi. Io sarei piuttosto portato a temere che siate contenta di
stare lontana da me.
- Mi fareste gran torto se davvero pensaste così - riprese la principessa con un imbarazzo che
andava via via crescendo; - ma ve ne supplico, lasciatemi qui. Se anche voi poteste rimanere ne
sarei felice, a patto che rimaneste da solo, senza tutta quella gente che non vi lascia mai.
- Ah, signora - esclamò il principe di Clèves, - il vostro atteggiamento e le vostre parole mi
dimostrano che avete delle ragioni per desiderare di rimanere sola; io le ignoro e vi scongiuro di
dirmele.
La sollecitò più volte perché volesse confessargliele, ma vanamente; e lei, dopo essersi
schermita in un modo che non faceva che aumentare la curiosità del marito, si chiuse in un profondo
silenzio con gli occhi bassi: poi, d'un tratto fissandolo in viso:
- Non costringetemi - gli disse - a confessarvi quanto non ho la forza di confessarvi, benché
ne abbia molte volte avuta l'intenzione. Pensate soltanto che la prudenza vuole che una donna della
mia età, e padrona della sua condotta, non rimanga esposta in mezzo alla corte.
- Cosa mai mi fate immaginare, signora! - proruppe il principe di Clèves. - Non oserei
dirvelo per tema di offendervi.
La principessa non rispose e il suo silenzio finì col confermare il principe in ciò che aveva
pensato. - Voi non mi dite nulla - riprese, - ed è come dirmi che non mi sono ingannato.
- Ebbene, signore - gli rispose gettandosi ai suoi piedi, - vi farò una confessione che nessuna
donna ha mai fatto al proprio marito; ma l'innocenza della mia condotta e delle mie intenzioni me
ne dà la forza. È vero che ho delle ragioni per allontanarmi dalla corte e che voglio evitare i pericoli
a cui sono esposte talvolta le persone della mia età. Non ho mai dato segni di debolezza, né avrei
timore di darne mai, se voi mi permetteste di ritirarmi dalla corte, o se avessi ancora la principessa
di Chartres come guida. Per quanto sia pericolosa la decisione che prendo, la prendo con gioia pur
di conservarmi degna di appartenervi. Vi domando mille volte perdono se ho avuto dei sentimenti
che possono dispiacervi, ma almeno le mie azioni non potranno mai dispiacervi. Pensate che per
fare ciò che faccio, bisogna avere per il proprio marito più affetto e più stima di quanto mai donna
ne abbia avuto; guidatemi, abbiate pietà di me e amatemi ancora se vi è possibile.
Durante tutto questo discorso il principe di Clèves era rimasto con la testa fra le mani, quasi
fuori di sé, e senza nemmeno pensare a far rialzare sua moglie. Quando ella ebbe finito di parlare ed
egli la scorse ai suoi ginocchi, il viso coperto di lacrime e di una così mirabile bellezza, credette di
morire di dolore e, abbracciandola e sollevandola:
- Abbiate voi pietà di me, signora - le disse, - perché ne sono degno, e perdonate se nei primi
istanti di una così violenta afflizione non posso rispondere come vorrei ad una condotta pari alla
vostra. Voi mi sembrate degna di stima e di ammirazione più di ogni altra donna al mondo, ma al
tempo stesso mi considero il più infelice degli uomini. Voi avete suscitato il mio amore fin dai
primi istanti in cui vi ho veduto; la vostra riservatezza e l'avervi ottenuta in moglie non l'hanno
potuto spegnere e dura tutt'ora; non ho mai potuto ispirarvi amore e ora vedo che temete di averne
per un altro. E chi è mai dunque quest'uomo felice che vi ispira tale timore? Da quando egli vi
piace? E che cosa ha mai fatto per piacervi? Quale via ha trovato per giungere al vostro cuore? Ero
in un certo qual senso confortato di non averlo potuto raggiungere io questo cuore dal pensiero che
non potesse esserlo da alcuno; ora so che un altro fa quello che io non ho saputo fare; provo insieme
la gelosia di un marito e quella di un amante. Ma non è possibile avere la gelosia di un marito dopo
una condotta come la vostra. È troppo nobile per non darmi la più completa fiducia; anzi essa mi
conforta anche come vostro amante. La confidenza e la sincerità che mi dimostrate non hanno
prezzo; e voi dovete stimarmi abbastanza per sapere che non abuserò mai di una simile confessione.
Avete ragione, signora, io non ne abuserò e non per questo vi amerò meno. Mi avete reso infelice
con la più grande prova di fedeltà che mai donna abbia dato al proprio marito. Ma, signora,
concludete e ditemi chi sia colui che volete evitare.
- Vi supplico di non chiedermelo - ella gli rispose. - Sono decisa a non dirvi il suo nome e
sono certa che la prudenza non lo voglia.
- Non dovete avere timore, signora - riprese il principe di Clèves; - conosco troppo il mondo
per non sapere che il buon nome di un marito non impedisce che qualcuno ne ami la moglie. Si deve
odiare chi l'ama e non addolorarsene. Ancora una volta, signora, vi scongiuro di dirmi ciò che
desidero sapere.
- Invano mi sollecitate - ella replicò: - sono abbastanza forte per tacere quello che credo di
dover tacere. La confessione che vi ho fatta non è dovuta a debolezza: occorre molto più coraggio
per confessare una simile verità che non per nasconderla.
Il duca di Nemours non perdeva una sola parola di questo colloquio; ciò che la principessa
diceva non aveva dato minor gelosia a lui che al marito. Ne era così perdutamente innamorato da
credere che tutti avessero i suoi medesimi sentimenti. Aveva, è vero, diversi rivali; si figurava di
averne molti di più e la sua mente si smarriva nell'immaginare chi potesse essere colui del quale la
principessa parlava. Molte volte aveva creduto di non dispiacerle, ma questo giudizio era basato su
cose che in quel momento gli sembravano così lievi che non poté supporre di avere potuto ispirare
una passione così violenta da ricorrere ad un rimedio tanto eccezionale. Era così commosso che
quasi non sapeva rendersi conto di ciò che vedeva e non poteva perdonare al principe di Clèves di
non insistere abbastanza perché la moglie gli rivelasse il nome che ella voleva tacere.
Il principe di Clèves non di meno continuava i suoi sforzi per saperlo, ma, dopo che egli
l'ebbe lungamente incalzata:
- Mi sembra - gli disse - che dovreste sentirvi pago della mia sincerità; non domandate oltre
e non fate che io debba pentirmi di quanto vi ho detto. Accontentatevi dell'assicurazione che ancora
una volta vi do, che nessuno dei miei atti ha mai lasciato trapelare i miei sentimenti e che mai nulla
mi è stato detto che abbia potuto recarmi offesa.
- Ah, signora - replicò di colpo il principe, - non riesco a credervi; ricordo ancora quanto
eravate imbarazzata il giorno in cui andò perduto il vostro ritratto. Di quel ritratto voi avete fatto
dono, signora; avete fatto dono di quel ritratto che mi era tanto caro e che legittimamente mi
apparteneva. Non avete potuto nascondere i vostri sentimenti: colui che amate lo sa; la vostra virtù
vi ha finora salvaguardata dal resto.
- Come è mai possibile che voi sospettiate inganni in una confessione come la mia - esclamò
la principessa - che nessuna ragione mi obbligava a farvi! Fidatevi delle mie parole; ad alto prezzo
pago la fiducia che vi chiedo. Credete, ve ne scongiuro, che non ho fatto dono del mio ritratto; lo
vidi prendere, è vero; ma non volli lasciar scorgere quello che i miei occhi vedevano, temendo di
espormi a udire cose che ancora nessuno aveva osato dirmi.
- In qual modo vi hanno fatto capire che vi si amava e quali segni ve ne sono stati dati?
- Risparmiatemi la pena di scendere in particolari che ho vergogna io stessa di avere notato essa replicò - e che mi hanno fin troppo persuasa della mia debolezza.
- Avete ragione, signora. Io sono ingiusto; opponetemi il vostro rifiuto ogni qual volta vi
chiederò cose del genere; ma non offendetevi se ve le chiedo.
A questo punto, alcune persone del seguito che erano rimaste nei viali vennero ad avvertire
il principe di Clèves che un gentiluomo cercava di lui da parte del re per ordinargli di trovarsi a
Parigi la sera stessa. Il principe dovette partire senza aver potuto dire altro a sua moglie se non
scongiurarla di raggiungerlo l'indomani e supplicarla di credere che, sebbene afflitto, aveva per lei
un affetto e una stima che dovevano esserle di conforto.
Quando il marito se ne fu andato, la principessa, rimasta sola, ripensò a quello che aveva
fatto e ne fu così spaventata che a mala pena riusciva a credere che fosse vero. Pensò di essersi
alienata con le proprie mani l'amore e la stima del marito e di essersi scavata un abisso dal quale
non sarebbe mai più uscita. Come aveva potuto compiere un gesto così temerario? E finiva con
l'ammettere di essersi lasciata trascinare senza averne avuto l'intenzione. La singolarità di una
simile confessione, confessione della quale non trovava esempi, gliene faceva vedere tutto il
pericolo. Ma quando poi pensava che quel rimedio, per violento che fosse, era anche il solo che la
potesse difendere dal duca di Nemours, allora si convinceva che non doveva affatto pentirsi e che
non aveva per nulla troppo arrischiato. Passò tutta la notte in tali incertezze, turbamenti e timori; ma
alla fine la calma subentrò nel suo animo. Trovò perfino una qualche dolcezza nell'avere dato prova
di fedeltà ad un marito che tanto la meritava, che aveva per lei tanta stima e tanta amicizia, come si
poteva scorgere anche dal modo col quale aveva accolto la sua confessione.
Frattanto, il duca di Nemours era venuto fuori dal nascondiglio dal quale aveva ascoltato la
conversazione che lo aveva così profondamente commosso, e si era addentrato nella foresta. Quanto
la principessa aveva detto del ritratto gli aveva ridato la vita, mostrandogli che ella non lo odiava
affatto. Egli si abbandonò in un primo momento a questa gioia, ma essa non durò a lungo, perché
subito si diede a riflettere che la confessione stessa, rivelandogli i sentimenti della principessa di
Clèves, doveva anche renderlo persuaso che non avrebbe mai ricevuto alcun segno di quell'amore e
che non v'era speranza alcuna di vincere una persona che ricorreva ad un rimedio così radicale.
Provò tuttavia un vivo piacere per averla spinta a tali estremi, e ritenne motivo di gloria
l'essersi fatto amare da una donna tanto diversa da tutte quelle del suo sesso; si sentì cento volte
felice e cento volte infelice. La notte lo sorprese nella foresta, tanto che durò fatica a ritrovare la
strada per tornare dalla duchessa di Mercoeur. Vi giunse sul far del giorno e fu assai imbarazzato
nel dover rendere conto di ciò che lo aveva trattenuto. Se la cavò alla meglio e il giorno stesso fece
ritorno a Parigi col visdomino.
La passione sconvolgeva talmente il cuore del duca di Nemours ed egli era rimasto così
sbalordito da ciò che aveva udito, che gli avvenne di commettere un'imprudenza abbastanza
comune, come quella di parlare in termini generici dei propri particolari sentimenti e raccontare
sotto finti nomi i propri casi. Durante il viaggio di ritorno, portò la conversazione sull'amore:
magnificò il piacere di amare una donna degna di essere amata; parlò dei bizzarri effetti della
passione; e infine, incapace di custodire dentro di sé la meraviglia suscitatagli dal gesto della
principessa di Clèves, lo narrò al visdomino, senza nominargli la persona e senza dirgli quale parte
avesse lui stesso in questa storia; ma ne fece il racconto con tale calore e tale ammirazione che al
visdomino non fu difficile sospettare che tutta quell'avventura riguardasse proprio lui. Insistette
lungamente perché egli confessasse; gli disse di sapere da lunga data come fosse preda di una
violenta passione e come fosse ingiusto diffidare di colui che gli aveva confidato il segreto della
propria vita. Ma il signor di Nemours era troppo innamorato per confessare il suo amore; lo aveva
sempre nascosto anche al visdomino, quantunque questi fosse la persona che a corte avesse più
cara. Gli rispose, dunque, che era stato un amico a raccontargli tutta questa avventura e che,
avendogli costui fatto promettere di non parlarne mai, scongiurava anche lui di mantenere il segreto.
Il visdomino gli garantì il suo silenzio; ma il signor di Nemours fu subito pentito di avere tanto
parlato.
Frattanto il principe di Clèves era andato a trovare il re, il cuore gonfio di dolore. Mai marito
aveva avuto per la propria moglie passione così violenta e mai marito aveva avuto per la propria
moglie stima più grande. Ciò che allora aveva saputo non diminuiva questa stima, ma la
trasformava in qualche cosa di diverso. Egli era soprattutto ansioso di scoprire chi fosse colui che
aveva saputo piacere alla principessa. Pensò per primo al principe di Nemours, come all'essere più
seducente di tutta la corte; poi al cavaliere di Guisa, poi al maresciallo di Saint-André, i due che
erano stati invaghiti di madamigella di Chartres e che ancora colmavano di premure la principessa
di Clèves; infine si convinse doversi proprio trattare di uno di questi tre. Quando arrivò al Louvre, il
re lo condusse nel proprio gabinetto per dirgli che l'aveva scelto per condurre Madama in Spagna;
sua maestà riteneva che nessuno avrebbe assolto tale compito meglio di lui e che nessuna altra dama
avrebbe fatto tanto onore alla Francia quanto la principessa di Clèves. Il signor di Clèves accolse
come doveva l'onore di questa scelta e subito considerò che il caso lo favoriva, allontanando sua
moglie dalla corte senza che apparisse alcun mutamento nella sua condotta. Ma il momento della
partenza era ancora troppo lontano perché potesse risolvere il suo attuale imbarazzo. Scrisse
immediatamente alla principessa riferendole il colloquio avuto col re e ripetendole che voleva
assolutamente che ritornasse subito a Parigi. La principessa ritornò come egli voleva e quando si
videro si ritrovarono ambedue in una profonda tristezza. Il signor di Clèves le parlò da gentiluomo
quale era e degno in tutto del modo in cui ella aveva agito:
- Non nutro nessuna inquietudine per la vostra condotta - le disse; - avete più forza e più
virtù di quanto voi stessa possiate immaginare; non è dunque il timore dell'avvenire che mi affligge,
bensì il fatto che nutriate per un altro quel sentimento che io non ho saputo suscitare.
- Non so rispondervi; muoio di vergogna quando ve ne parlo - gli rispose la principessa; risparmiatemi, vi prego, colloqui tanto crudeli; decidete voi la mia condotta; fate voi che io non
debba vedere nessuno; è tutto quello che vi chiedo. Ma acconsentite che io non vi parli mai di ciò
che mi sembra così poco degno di voi e che trovo indegno di me.
- Avete ragione, signora. Sto abusando della vostra dolcezza e della vostra fiducia, ma
abbiate pietà dello stato in cui mi avete gettato; pensate che, pur avendomi detto tanto, mi
nascondete un nome che mi suscita una curiosità intollerabile. Non vi chiedo di appagare la mia
curiosità, ma non posso tacervi di credere che colui che debbo invidiare sia il maresciallo di SaintAndré, oppure il duca di Nemours, oppure il cavaliere di Guisa.
- Non vi risponderò - ella gli disse arrossendo, - non vi darò modo con le mie risposte di
rafforzare o attenuare i vostri sospetti; ma se voi tenterete di chiarirli osservandomi mi metterete in
un imbarazzo di cui tutti si renderanno conto. In nome di Dio - continuò, - vogliate acconsentire
che, col pretesto di qualche malattia, io non debba vedere nessuno.
- No, signora - egli ribatté, - si scoprirebbe ben presto trattarsi di una finzione; e per di più io
desidero fidarmi di voi sola; questa è la via che il cuore mi consiglia e che mi è consigliata anche
dalla ragione. Col vostro carattere, dandovi piena libertà, vi pongo vincoli ben più stretti di quelli
che io potrei imporvi.
Il signor di Clèves non si ingannava: la fiducia che dimostrava a sua moglie la rendeva più
forte verso il duca di Nemours e le faceva prendere risoluzioni più austere di quanto nessuna
costrizione avrebbe mai potuto imporle. Ella si recò dunque come di solito al Louvre e dalla regina
delfina; ma evitava la presenza e gli sguardi del duca di Nemours con tanta cura che tolse a questi
subito la gioia che aveva di credersi da lei amato. Egli non scorgeva nulla negli atti della principessa
che non lo persuadesse del contrario; quasi non sapeva più se quello che aveva udito era stato un
sogno, tanto appariva inverosimile. La sola cosa che gli dava la certezza di non essersi ingannato
era, malgrado tutti gli sforzi per nasconderla, l'estrema tristezza della principessa; probabilmente
sguardi e cortesi parole non avrebbero potuto aumentare di tanto l'amore del duca quanto una così
severa condotta.
Una sera, mentre il principe e la principessa di Clèves si trovavano dalla regina, qualcuno
azzardò che corresse voce che il re avrebbe nominato un altro gran signore della corte per
accompagnare Madama in Spagna. Il signore di Clèves aveva gli occhi sulla moglie mentre si
facevano come probabili i nomi del maresciallo di Saint-André e del duca di Guisa. Non notò
emozione alcuna sul suo viso nell'udire quei due nomi, né alla notizia che potessero fare il viaggio
con lei. E questo gli diede ragione di credere che nessuno di questi due fosse colui del quale temeva
la presenza; e volendo chiarire i suoi dubbi, entrò nel gabinetto della regina, dove si trovava anche il
re. Dopo essersi fermato qualche minuto, tornò vicino alla moglie e, a bassa voce, le disse di avere
appreso proprio allora che sarebbe stato il duca di Nemours a recarsi con loro in Spagna.
Il nome di Nemours e il pensiero di essere esposta a vederlo tutti i giorni durante il lungo
viaggio, in presenza del marito, provocò un tale turbamento nella principessa che non riuscì a
vincerlo; e volendo in ogni modo giustificarlo:
- È una scelta molto spiacevole per voi - rispose - questa del duca. Dovrete dividere con lui
tutti gli onori; mi pare che dovreste cercare di far scegliere qualcun altro.
- Non gli onori, signora - rispose il principe, - vi fanno paventare che il duca venga con noi.
Il vostro turbamento ha una causa diversa. Il vostro turbamento mi rivela ciò che un'altra donna mi
avrebbe rivelato con la sua gioia. Ma non temete: ciò che vi ho detto non è vero; l'ho inventato per
accertarmi di una cosa di cui ero già fin troppo convinto.
Detto questo, uscì, non volendo accrescere con la sua presenza l'immensa confusione in cui
vedeva sua moglie.
In quel preciso momento entrò il duca di Nemours e si rese subito conto dello stato in cui era
la principessa. Le si avvicinò e, a bassa voce, le disse che non osava, per rispetto, chiederle che cosa
mai la rendesse ancora più pensosa del solito. La voce del signor di Nemours la riscosse e
guardandolo senza avere capito ciò che aveva detto, presa come era dai suoi pensieri e dal timore
che il marito potesse vederlo vicino a lei:
- In nome di Dio, lasciatemi in pace! - esclamò.
- Ahimè, signora, non lo faccio che troppo: di che cosa mai potete lamentarvi? Non oso
parlarvi, non oso nemmeno guardarvi; non mi avvicino a voi che tremando. In quale modo ho
potuto provocare le parole che mi avete or ora dette? E perché mai volete che io creda di essere in
qualche modo responsabile del dolore in cui vi scorgo?
La principessa di Clèves fu oltremodo contrariata di aver dato modo al duca di spiegarsi
ancora più chiaramente di quanto avesse mai osato fare. Lo lasciò senza risposta e se ne tornò nelle
sue stanze più agitata che mai. Il marito se ne accorse subito e vide anche che ella temeva che si
tornasse sull'accaduto. La seguì nel salottino dove si era rifugiata.
- Non sfuggitemi, signora - le disse, - non vi dirò nulla che possa spiacervi; voglio solo
chiedervi scusa del tranello che vi ho teso poco fa; ne sono abbastanza punito da ciò che ho appreso.
Il signor di Nemours fra tutti gli uomini era colui che temevo di più. Vedo il pericolo in cui siete;
cercate di avere del dominio su di voi per amore di voi stessa e, se vi è possibile, anche per amor
mio. Non ve lo chiedo già come vostro marito, ma come l'uomo di cui siete tutta la felicità e che
nutre per voi un amore più tenero e più violento di colui che il vostro cuore gli preferisce.
Il principe si commosse nel dire queste ultime parole, che proferì a stento. Sua moglie,
colpita nel più profondo del cuore, scoppiò in lacrime e lo abbracciò con una tenerezza e una pena
che lo misero in uno stato poco differente da quello di lei. Rimasero così per qualche tempo in
silenzio e si separarono senza avere avuto la forza di parlare.
Intanto i preparativi per gli sponsali di Madama erano terminati. Il duca d'Alba arrivò e fu
ricevuto con tutta la magnificenza e tutte le cerimonie di cui si poteva far pompa in simili occasioni.
Il re aveva mandato a riceverlo il principe di Condé, il cardinale di Lorena, il cardinale di Guisa, i
duchi di Lorena, di Ferrara, di Aumale, di Buglione, di Guisa e di Nemours. Questi avevano con sé
molti gentiluomini e un gran numero di paggi vestiti delle loro livree. Il re in persona attese il duca
d'Alba sulla prima porta del Louvre con i duecento gentiluomini di servizio comandati dal
connestabile. Quando il duca fu davanti al re, fece l'atto di inginocchiarsi: ma il re non glielo
permise e lo fece camminare al suo fianco fino all'appartamento della regina e a quello di Madama.
A questa il duca portò un magnifico dono da parte del suo signore. Dopo, egli si recò da madama
Margherita, sorella del re, a presentarle gli omaggi del duca di Savoia e ad assicurarla che questi
sarebbe arrivato dopo pochi giorni. Al Louvre furono indette grandi riunioni per far conoscere al
duca d'Alba e al principe di Orange, che lo aveva accompagnato, le bellezze della corte.
La principessa di Clèves, per poca voglia che ne avesse, non osò mancarvi nel timore di
dispiacere al marito, che le aveva perentoriamente ordinato di parteciparvi. Ciò che riuscì a
deciderla fu l'assenza del duca di Nemours, che era andato incontro al duca di Savoia. E quando poi
questi fu arrivato, dovette stare sempre con lui per aiutarlo in tutto ciò che riguardava il cerimoniale
delle nozze. Così la principessa non ebbe occasione di incontrarlo così spesso come era solita e ne
ebbe un certo sollievo.
Il visdomino, intanto, non aveva dimenticato la conversazione avuta col duca di Nemours.
Egli era sempre più persuaso che quell'avventura riguardasse proprio il duca e continuava ad
osservarlo con tanta cura che sarebbe certo riuscito a scoprire la verità senza l'arrivo del duca d'Alba
e del duca di Savoia, che costituirono un diversivo ed una occupazione a corte e gli impedirono di
osservare ciò che avrebbe potuto illuminarlo. Il desiderio di saperne di più, o piuttosto la naturale
disposizione a raccontare ogni segreto alla persona amata, fece sì che egli raccontasse alla signora
di Martigues l'azione straordinaria di colei che aveva confessato al marito il suo amore per un altro.
Le diede assicurazione che ad ispirare una così violenta passione era stato il duca di Nemours e la
scongiurò di aiutarlo ad osservare quel principe con ogni attenzione. La contessa di Martigues fu
felice di venire a conoscenza di una storia così singolare ed il fatto di aver sempre veduto la delfina
assai curiosa di ogni cosa che concernesse il duca di Nemours la rendeva ancora più impaziente di
scoprire il mistero che si nascondeva in quell'avventura.
Pochi giorni prima della data scelta per la cerimonia nuziale, la regina delfina dava una cena
al re suo suocero e alla duchessa del Valentinois. La principessa di Clèves, che aveva indugiato
nell'abbigliarsi, andò al Louvre più tardi del solito. Mentre vi si stava recando, incontrò un
gentiluomo che veniva a cercarla da parte della delfina. Entrando nella camera, questa, dal letto
dove si trovava, le gridò che la stava aspettando con grande impazienza.
- Penso, signora, di non dovervi ringraziare per questa impazienza, dovuta certamente a
qualche altro motivo che non al desiderio di vedermi.
- Avete ragione - le rispose la delfina, - tuttavia dovrete essermi grata; vi voglio raccontare
un'avventura che sono certa sarete molto contenta di conoscere.
Madama di Clèves si mise in ginocchio davanti al letto, e per sua fortuna il viso le rimase
nell'ombra.
- Voi sapete - le disse la delfina - quanto eravamo curiose di sapere la causa del
cambiamento del principe di Nemours; ebbene, credo di saperla e ne sarete assai sorpresa. Egli è
perdutamente innamorato e molto amato da una delle più belle dame della corte.
Queste parole, che la principessa di Clèves non poteva riferire a sé medesima, poiché
credeva che nessuno sapesse del suo amore per quel principe, le diedero un dolore che è facile
immaginare.
- Non vedo in tutto questo nulla che possa causare sorpresa, con un uomo dell'età e
dell'aspetto del signor di Nemours.
- E infatti non è questo che deve meravigliarvi; deve meravigliarvi invece il sapere che colei
che ama il duca di Nemours non gliene ha mai dato prova alcuna e anzi, nel timore di non essere
sempre padrona del proprio sentimento, lo ha confessato al marito perché questi la allontanasse
dalla corte; è stato lo stesso duca di Nemours a raccontarlo.
Se la principessa di Clèves aveva a tutta prima provato dolore al pensiero di non essere lei la
protagonista di questo amore, le ultime parole della delfina la gettarono nella più nera disperazione
per la certezza di esserlo anche troppo. Incapace di qualsiasi risposta, rimase con il capo chino sul
letto, mentre la regina continuava a parlare senza accorgersi del grande imbarazzo della sua dama.
Quando la principessa si fu un poco riavuta:
- Questa storia non mi sembra per nulla verosimile, signora. E vorrei ben sapere chi ve l'ha
raccontata.
- È stata la contessa di Martigues - replicò la delfina, - che l'ha appresa dal visdomino di
Chartres. Voi sapete bene come egli ne sia innamorato; glielo ha confidato come un segreto che ha
saputo dallo stesso duca di Nemours. È vero che il duca non gli ha detto il nome della dama e
nemmeno gli ha confessato di essere lui la persona amata, ma il visdomino non lo mette in dubbio.
Mentre la delfina stava terminando di parlare, qualcuno si era avvicinato al letto. La
principessa di Clèves era voltata in modo da non poter vedere chi fosse; ma non poté più dubitarne
appena la delfina gridò con vivace sorpresa:
- Eccolo in persona; voglio chiedergli come stanno le cose.
La principessa di Clèves seppe così, senza nemmeno voltarsi, che era il duca, come in effetti
era. Si avvicinò precipitosamente alla delfina e le sussurrò che bisognava ben guardarsi dal
raccontare al duca una storia del genere; che egli l'aveva confidata al visdomino e che questo
sarebbe stato motivo di rottura tra loro. La delfina le rispose ridendo che era troppo prudente e si
voltò verso il signor di Nemours. Questi era abbigliato per il ricevimento della sera e, prendendo la
parola con quella grazia che gli era tutta particolare, disse:
- Credo, signora, di poter pensare senza essere indiscreto che parlaste di me quando sono
entrato, che aveste in mente di domandarmi qualche cosa e che la principessa di Clèves vi pregasse
di non farlo.
- È vero - rispose la delfina, - ma questa volta non sarò compiacente con lei come di
consueto. Voglio sapere da voi se una storia che mi è stata raccontata sia vera e se non siate per
caso voi la persona che ama, riamata, una dama della corte che vi nasconde il suo amore e che lo ha
confessato invece al proprio marito.
Il turbamento e la confusione della principessa di Clèves erano indescrivibili e se le si fosse
presentata la morte a tirarla fuori da quello stato l'avrebbe benedetta; il signor di Nemours intanto
era ancora più confuso di lei, se ciò fosse stato possibile. Il discorso della delfina, dalla quale aveva
motivo di non credersi odiato, alla presenza della principessa di Clèves, che era la persona nella
quale in tutta la corte ella riponeva maggior fiducia e che a sua volta era quella che più ne aveva in
lei, lo gettava in una ridda di pensieri così strani che gli era impossibile essere padrone del proprio
volto. Vedeva l'imbarazzo in cui, per sua colpa, era la principessa di Clèves, e il pensiero che perciò
ella potesse giustamente odiarlo lo angosciò in modo tale che gli fu impossibile parlare. La delfina,
vedendo fino a che punto fosse interdetto, esclamò rivolta alla principessa:
- Guardatelo, guardatelo, e giudicate se non si tratti di lui.
Il duca di Nemours, frattanto, che si era riavuto dal suo primo turbamento e avvertiva
l'urgenza di uscire da un passo così pericoloso, si rese all'istante padrone del proprio spirito e del
proprio volto:
- Confesso, signora, che non si può essere più sorpresi e afflitti di quel che io non sia per la
slealtà che mi ha usato il visdomino di Chartres andando a raccontare l'avventura di un mio amico
che gli avevo confidato in segreto. Potrei vendicarmene - continuò sorridendo con un'aria così
tranquilla da togliere quasi alla delfina tutti i suoi sospetti. - Egli mi ha confidato cose che non sono
di poca importanza; ma non so, signora, - proseguì - perché mi facciate l'onore di mescolarmi a
questa faccenda. Il visdomino non può certo dire che mi riguardi, poiché gli ho affermato il
contrario. La nomea di uomo innamorato può convenirmi, quella di uomo amato, non credo,
signora, che possiate attribuirmela.
Egli era soddisfatto di poter dire alla delfina qualche cosa che avesse riferimento con quanto
in altri tempi le aveva lasciato intravedere, sperando così di sviarla dai pensieri del momento. E in
questo senso ella infatti interpretò le sue parole; ma, senza rispondervi direttamente, continuò ad
attaccarlo per il suo turbamento.
- Sono stato turbato, signora, pensando al mio amico e ai giusti rimproveri che potrebbe
muovermi per avere riferito cosa che gli è più cara della vita. Tuttavia, non me l'ha confidata che a
metà e non mi ha detto il nome di colei che ama; io so solo che egli è l'uomo più innamorato del
mondo e il più degno di compassione.
- Ma, dato che è amato, pensate voi che sia tanto da compiangere?
- Credete veramente che egli lo sia, signora, e che una persona che avesse una vera passione
potrebbe confidarla al marito? Quella persona certamente non sa che cosa sia l'amore e l'ha
scambiato con un lieve sentimento di riconoscenza per la passione che ha suscitato. Il mio amico
non può essere lusingato da nessuna speranza; eppure, sventurato com'è, gli pare di poter essere
felice per avere almeno ispirato il timore di amare, e non cambierebbe la sua situazione con quella
del più fortunato amante del mondo.
- Il vostro amico si contenta di poco - rispose la delfina, - e incomincio a credere che
davvero non sia di voi che parliate. Manca poco che io diventi dello stesso avviso della principessa
di Clèves, che sostiene che un tale amore non può essere vero.
- Io non credo infatti che possa essere vero - intervenne la principessa, la quale fino a quel
momento non aveva parlato, - e quand'anche fosse vero, come lo si sarebbe potuto sapere? Non mi
pare possibile che una donna capace di un atto così straordinario possa avere avuto la debolezza di
raccontarlo; e verosimilmente nemmeno il marito può averlo raccontato, o sarebbe un marito ben
indegno della condotta tenuta verso di lui.
Il signor di Nemours, intuendo il sospetto che la principessa nutriva verso il marito, fu ben
lieto di rafforzarlo, sapendo di avere in lui il rivale più temibile.
- La gelosia - rispose - e la curiosità di saperne più di quanto non gli sia stato detto possono
far commettere ad un marito molte imprudenze.
La principessa di Clèves era allo stremo delle forze e del coraggio e, incapace di sostenere
più a lungo tale conversazione, stava per dire che si sentiva male quando, per sua fortuna, entrò la
duchessa del Valentinois per annunciare alla delfina che il re stava per arrivare. La delfina passò nel
suo gabinetto per abbigliarsi. E allora, mentre la principessa di Clèves stava muovendosi per
seguirla, il duca le si avvicinò:
- Darei la mia vita, signora, per potervi parlare un istante; ma di tutto ciò che potrei dirvi
nulla è tanto importante quanto il supplicarvi di credere che, se qualche cosa ho detto che potesse
riferirsi alla delfina, l'ho detto per delle ragioni che non la riguardano.
La principessa di Clèves fece finta di non averlo udito e si allontanò senza guardarlo, per
mettersi al seguito del re che stava entrando.
Ma, a causa della gran folla, finì per incespicare nella sua veste e fu lì lì per cadere; allora si
servì di questo pretesto per abbandonare un luogo dove non aveva la forza di rimanere e, fingendo
di non potersi tenere in piedi, fece ritorno a casa.
Il principe di Clèves giunse al Louvre e fu un poco stupito di non trovarvi la moglie; gli fu
detto dell'incidente ed egli se ne tornò all'istante per averne notizie; la trovò a letto e seppe che il
male non era grave. Dopo un poco ch'era vicino a lei si accorse di quanto fosse prostrata.
- Che cosa avete mai, signora? Mi sembra che voi soffriate di qualche altro dolore oltre
quello che accusate.
- Ho il più grande dolore che potessi mai immaginare di avere - ella rispose. - Quale uso
avete fatto mai della eccezionale, per non dire folle, confidenza che ho avuto per voi? Non meritava
il segreto? E quand'anche non lo avesse meritato, non era interesse vostro tacere? Bisognava proprio
che la curiosità di conoscere un nome che non devo dirvi vi spingesse a confidarvi con qualcuno per
cercare di scoprirlo? È stata solo la curiosità a farvi commettere un'imprudenza così crudele, le cui
conseguenze sono, quali dovevano essere, penosissime. Questa storia oramai è risaputa e proprio
ora mi è stata raccontata senza sapere che io vi ho la parte principale.
- Cosa mi dite mai, signora? Voi mi state accusando di avere raccontato ciò che è accaduto
fra voi e me? E mi dite che la cosa è risaputa? Non posso nemmeno giustificarmi dell'accusa di
averla raccontata; voi non potete crederlo. Senza dubbio, dovete aver preso per voi ciò che è stato
ripetuto di un'altra.
- Ah, signore! Non c'è al mondo altra avventura simile alla mia - ella riprese; - non vi è altra
donna capace della medesima cosa. Il caso non può averla inventata, non è mai stata immaginata, e
tale pensiero non è mai nato in altra mente che nella mia. La delfina mi ha raccontato or ora questa
storia; l'ha saputa dal visdomino di Chartres, che a sua volta l'ha saputa dal duca di Nemours.
- Il duca di Nemours! - gridò il principe di Clèves in un impeto di rabbia e di disperazione
insieme. - Come! Il duca di Nemours sa che voi l'amate e che io lo so!
- Voi vi riferite sempre al signor di Nemours piuttosto che ad un altro - gli rispose la
principessa; - eppure sapete che non risponderò mai ai vostri sospetti. Ignoro se il duca di Nemours
sappia la parte che ho in questa storia e la parte che voi avete attribuita a lui, ma egli ha riferito la
cosa al visdomino di Chartres, dicendogli di averla saputa da un suo amico che non gli aveva fatto
nomi. Evidentemente questo amico del signor di Nemours è anche amico vostro e vi sarete
confidato con lui per sciogliere il mistero.
- Esiste forse un amico al quale si possa fare simile confidenza? - replicò il principe. - E si
sarebbe forse disposti a sciogliere i propri sospetti al prezzo di raccontare a chicchessia una cosa
che si vorrebbe nascondere perfino a se stessi? Pensate piuttosto, signora, a chi mai avete potuto
parlarne. È molto più verosimile che un tale segreto sia sfuggito a voi piuttosto che a me. Con ogni
probabilità non avete potuto reggere da sola la vostra dolorosa situazione e avete cercato il sollievo
di lamentarvene con qualche confidente che vi ha tradito.
- Cessate dunque di opprimermi - ella gridò, - e non abbiate la crudeltà di accusarmi di un
errore commesso da voi. Come potete sospettare di me? E se ho avuto la forza di parlarvi, come
potrei parlare a qualcun altro?
La confessione che la principessa aveva fatto a suo marito era una così grande prova di
sincerità ed ella negava con tanta fermezza di essersi confidata con altri, che il principe non sapeva
più cosa pensare; d'altra parte egli era certo di non avere raccontato niente a nessuno; ancora, una
cosa simile non poteva essere stata indovinata; ora poi era risaputa, perciò bisognava pure
ammettere che fosse per colpa di uno di loro due; ma ciò che più dolorosamente lo feriva era il
pensiero che un simile segreto fosse in mano di altri e che molto presto sarebbe stato di dominio
pubblico. Le stesse cose pensava all'incirca la principessa; trovava ugualmente impossibile che suo
marito avesse parlato e che non avesse parlato; ciò che il signor di Nemours aveva detto, che la
curiosità può far commettere imprudenze a un marito geloso, le pareva riferirsi così esattamente al
caso del signor di Clèves che non riusciva a persuadersi che fosse stato detto solo per
combinazione; e tale verosimiglianza la induceva a credere che suo marito avesse abusato della
fiducia dimostratagli. Erano entrambi così immersi nei loro pensieri che rimasero a lungo senza
parlare e, quando ruppero il silenzio, fu per dirsi ancora le medesime cose che già si erano ripetuti
diverse volte e che li avevano lasciati col cuore e lo spirito più agitati e lontani che mai.
È facile immaginare in quale stato trascorressero la notte. Il principe di Clèves aveva
esaurito tutta la propria forza d'animo nel sopportare la sventura di vedere una moglie che adorava
presa d'amore per un altro. Non gli rimaneva altro coraggio, né gli sembrava di doverne trovare
altro in una vicenda in cui il suo orgoglio e il suo onore erano così profondamente feriti. Non
sapeva più cosa pensare di sua moglie, non sapeva più quale condotta dovesse indicarle, né come lui
stesso dovesse comportarsi; da ogni parte abissi e precipizi lo circondavano. Infine, dopo un lungo e
incerto dibattersi, considerato che doveva ben presto recarsi in Spagna, prese la risoluzione di non
fare nulla che potesse aumentare i sospetti o la conoscenza della sua infelice situazione. Si recò
dalla principessa e le disse che non si trattava di appurare chi di loro due fosse venuto meno al
segreto, ma piuttosto di dimostrare che quanto era stato raccontato era una pura favola, in cui ella
non aveva parte alcuna; che solo da lei dipendeva farne persuasi il signor di Nemours e gli altri; che
doveva comportarsi verso di lui con la freddezza e la severità dovuta ad un uomo che manifestava
di amarla; che, così facendo, avrebbe potuto facilmente togliergli il pensiero che nutrisse per lui una
qualche attrazione; che non bisognava si affliggesse in modo soverchio di quanto egli avesse potuto
pensare, perché tali pensieri sarebbero stati facilmente distrutti dal freddo contegno di lei; e che,
soprattutto, era indispensabile che ella si recasse al Louvre e alle riunioni come di consueto.
Dopo avere così parlato, il signor di Clèves lasciò la moglie senza averne atteso la risposta.
Tutto ciò che egli aveva detto le parve molto ragionevole, e la collera che provava contro il signor
di Nemours le fece credere che le sarebbe stato facile attuare il proposito; quello che invece riteneva
difficile era trovarsi a tutte le cerimonie degli sponsali col viso tranquillo e l'animo sereno; tuttavia,
poiché doveva reggere lo strascico della regina delfina, onore per il quale era stata prescelta fra
molte altre principesse, non le era possibile esimersene senza suscitare pettegolezzi e dar esca a
cercarne i motivi. Decise dunque di fare uno sforzo su se stessa; passò tutto quanto rimaneva della
giornata a prepararsi, abbandonandosi ai crudeli sentimenti che la sconvolgevano. Si chiuse sola nel
suo gabinetto. Fra tutti i suoi mali, quello che le si presentava con maggiore violenza era di doversi
lagnare del duca di Nemours e di non poterlo giustificare in modo alcuno. Era fuor di dubbio,
infatti, che egli avesse raccontato l'avventura al visdomino di Chartres; egli stesso l'aveva
confessato e, dal tono del suo discorso, era indubbio che egli dovesse sapere che l'avventura la
concerneva. Come poter scusare una così grande imprudenza, e che ne era di quella sua estrema
discrezione, che tanto l'aveva commossa?
«Egli è stato discreto», si diceva, «fino a quando si è creduto sfortunato; ma il pensiero di
una felicità, sia pure incerta, ha fatto sfumare tutta la sua discrezione. Appena ha potuto pensare di
essere amato, ha voluto che lo si sapesse. Ha detto tutto quello che poteva dire; io non ho confessato
che era lui che amavo, egli lo ha supposto ed ha lasciato trapelare quanto supponeva; se ne avesse
avuto la certezza, avrebbe agito allo stesso modo. Ho avuto il torto di credere che potesse esistere
un uomo capace di nascondere gli amori che ne lusingano la vanagloria. Ed è per un simile uomo,
che ho creduto tanto differente dagli altri, che mi sono ridotta alla stregua delle altre donne, pur
essendone tanto diversa. Ho perduto il cuore e la stima di un marito che doveva essere la mia
felicità; fra non molto sarò considerata da tutti come una donna preda di un violento e pazzo amore.
Colui che io amo lo sa; ed è proprio per evitare tutti questi mali che ho messo a repentaglio la mia
tranquillità, e anche la mia vita!».
Queste tristi riflessioni erano accompagnate da un fiume di lacrime; ma per grande che fosse
il dolore che la attanagliava, sentiva che avrebbe avuto la forza di sopportarlo, se non avesse avuto
ragione di lamentarsi del duca di Nemours.
Né questo principe era in uno stato d'animo più tranquillo. L'imprudenza di avere parlato al
visdomino di Chartres e le crudeli conseguenze di tale imprudenza lo mettevano in una angoscia
mortale. Non poteva pensare, senza esserne sconvolto, all'imbarazzo, al tormento e al dolore in cui
aveva veduto la principessa di Clèves. Non poteva darsi pace di averle dette cose che, per quanto
galanti fossero, gli sembravano in quel momento volgari e poco educate, giacché avevano dato adito
alla principessa di capire che egli non ignorava chi fosse la donna preda di una violenta passione e
che egli era colui che la ispirava. Tutto quello che poteva augurarsi era di poter avere un colloquio
con lei; ma d'altra parte capiva che un colloquio del genere sarebbe stato piuttosto da temere che da
desiderare.
«Che cosa mai potrei dirle?» si diceva. «Dovrei forse ancora spiegarle ciò che le ho fatto
intendere anche troppo? Dimostrarle che so di essere amato, proprio io che non ho mai osato
nemmeno dirle che l'amo? Dovrei dunque incominciare a parlarle apertamente del mio amore, come
un uomo reso ardito dalle speranze? Posso anche solo pensare di avvicinarla e darle l'imbarazzo di
dover sopportare la mia presenza? Da quale parte incominciare a giustificarmi? Non ho scuse, sono
indegno anche di un solo suo sguardo e spero di non essere mai più guardato da lei. Per difendersi
da me, io le ho dato, col mio errore, armi migliori di tutte quelle che lei cercava, e che avrebbe forse
cercato inutilmente. Perdo, a causa della mia imprudenza, la felicità e il vanto di essere amato dalla
donna più degna di amore e di stima che esista; ma se avessi perduto questa felicità senza che ella
ne avesse sofferto e senza averle procurato dolore, ne avrei almeno un certo qual conforto; in questo
momento sento molto più il male che le ho fatto che non quello che ho fatto a me stesso presso di
lei».
A lungo si tormentò il signor di Nemours in questi pensieri. Il desiderio di parlare con la
principessa di Clèves gli tornava sempre nel cuore ed egli andava pensando come trovarne il modo.
Pensò di scriverle, ma alla fine gli parve che, dopo l'errore commesso e visto lo stato d'animo della
principessa, il meglio fosse di testimoniarle un profondo rispetto col suo silenzio e il suo dolore; di
farle vedere anzi che non osava nemmeno comparirle davanti in attesa che il tempo, il caso,
l'inclinazione che la spingeva verso di lui operassero in suo favore. Decise anche di non muovere
rimprovero alcuno al visdomino per l'infedeltà commessa, nel timore di rafforzare i suoi sospetti.
Il fidanzamento di Madama, che aveva luogo l'indomani, e il matrimonio, fissato per il
giorno seguente, tennero talmente occupata tutta la corte che la principessa e il duca poterono con
facilità nascondere al pubblico la loro tristezza e il loro turbamento. La regina delfina parlò solo di
sfuggita alla principessa della conversazione avuta col duca di Nemours, mentre il principe di
Clèves affettò di non parlare più a sua moglie di quanto era successo, di modo che ella si trovò
meno imbarazzata di quanto avesse temuto.
Il fidanzamento si celebrò al Louvre; poi, dopo il banchetto e il ballo, tutta la casa reale andò
a dormire, secondo l'usanza, al vescovado. Al mattino seguente, il duca d'Alba, che vestiva sempre
con estrema semplicità, indossò un abito di drappo d'oro misto di rosso fiammingo, di giallo e di
nero, tutto cosparso di pietre preziose, e in capo gli fu posta la corona chiusa. Il principe d'Orange,
anch'egli meravigliosamente vestito, con le sue livree, e tutti gli Spagnoli, ciascuno col proprio
seguito, si recarono a prendere il duca d'Alba al palazzo di Villeroy, dove era alloggiato, e,
dispostisi quattro per quattro, si incamminarono verso il vescovado. Appena il duca vi giunse, si
formò il corteo, e tutti si recarono in chiesa; il re dava il braccio a Madama, che portava anch'essa la
corona chiusa e il cui strascico era retto da madamigella di Montpensier e da madamigella di
Longueville; dietro di loro veniva, senza corona, la regina; seguivano la regina delfina, Madama
sorella del re, la principessa di Lorena e la regina di Navarra, e i loro lunghi strascichi erano retti da
principesse. Tanto le regine che le principesse avevano al seguito tutte le loro damigelle
magnificamente abbigliate dei loro medesimi colori; in questo modo dai colori si poteva facilmente
vedere a chi appartenessero. Quando la corte ebbe preso posto sul palco allestito nella chiesa, la
cerimonia delle nozze ebbe inizio.
La corte rientrò al vescovado per il pranzo; verso le cinque, fece di nuovo ritorno al palazzo
di città, dove doveva avere luogo il banchetto, al quale parlamento, corti e municipalità erano stati
pregati di intervenire.
Re, regine, principi e principesse mangiarono alla tavola di marmo nella grande sala del
palazzo, col duca d'Alba seduto presso la nuova regina di Spagna. Più in basso, presso i gradini
della tavola di marmo, alla destra del re, era stata allestita una tavola per gli ambasciatori, gli
arcivescovi ed i cavalieri dell'ordine; dall'altro lato una tavola per i signori del parlamento.
Il duca di Guisa, vestito di un abito di drappo d'oro increspato, fungeva da gran maestro del
re; il principe di Condé da gran panettiere, il duca di Nemours da coppiere. Tolte le mense,
incominciò il ballo, che, dopo un intermezzo di balletti e di straordinari fuochi di artificio, fu ripreso
e si protrasse fino alla mezzanotte, quando il re e tutta la corte fecero ritorno al Louvre.
Per quanto malinconica fosse, la principessa di Clèves non mancò di apparire agli occhi di
tutti, e specialmente del duca di Nemours, incomparabilmente bella. Egli non osò parlarle, sebbene
la confusione della festa gliene offrisse molte opportunità, ma le lasciò scorgere una così grande
tristezza ed un così rispettoso timore di accostarla che ella non lo trovò più tanto colpevole,
quantunque nulla le avesse detto per giustificarsi. Uguale fu la sua condotta nei giorni che seguirono
ed uguale l'effetto che tale condotta produsse nel cuore della principessa.
Infine, si giunse al giorno del torneo. Le regine presero posto nelle balconate e nei palchi che
erano stati approntati per loro. I quattro campioni apparvero in cima alla lizza con una quantità di
cavalli e di livree, che formavano uno spettacolo di tale magnificenza quale mai si era visto in
Francia.
Il re, come al solito, non portava altro colore che il bianco e il nero a causa della duchessa
del Valentinois, che era vedova. Il principe di Ferrara e il suo seguito avevano il giallo e il rosso; il
duca di Guisa apparve con il roseo e il bianco; a tutta prima non si capì perché portasse quei colori,
poi ci si risovvenne che erano i colori di una bella dama che egli aveva amato quando era ancora
una fanciulla e che ancora amava, quantunque non osasse più dimostrarglielo. Il signor di Nemours
aveva del giallo e del nero ed invano se ne ricercò il motivo. La principessa di Clèves invece lo
indovinò subito: si ricordò di avere detto davanti a lui che amava il giallo e che le dispiaceva di
essere bionda perché non le si addiceva portare vestiti di quel colore; e il duca aveva pensato di
potersi mostrare con quel colore senza per questo commettere indiscrezione, perché, siccome la
principessa di Clèves non lo indossava mai, non si poteva sospettare che fosse il suo.
Giammai si era vista una bravura pari a quella dimostrata dai quattro campioni. Sebbene il re
fosse il migliore cavaliere del regno, non si sarebbe saputo a chi dare la palma. Il duca di Nemours
aveva tale grazia in ogni suo gesto da far propendere verso di lui persone anche meno interessate
della principessa di Clèves. Non appena egli apparve in cima alla lizza, ella provò una emozione
indicibile, e, ad ogni corsa da lui compiuta felicemente, nascondeva a stento la propria gioia.
Sul far della sera, quando la festa era quasi finita e ci si apprestava a ritirarsi, la malasorte
volle che il re desiderasse spezzare ancora una lancia. Mandò a dire al conte di Montgomery, che
era abilissimo, di mettersi in lizza. Il conte supplicò il re di volerlo dispensare, allegando tutte le
scuse che gli riuscì di trovare, ma il re, quasi incollerito, gli replicò che tale era la sua volontà. La
regina mandò a dire al re che lo supplicava di non correre più: che aveva torneato così bene da
doverne essere soddisfatto e che lo scongiurava di tornare vicino a lei. Egli rispose che era per amor
suo che voleva correre ancora, ed entrò nella lizza. Ella gli mandò allora il duca di Savoia a pregarlo
nuovamente di tornare: ma tutto fu inutile. Corse; le lance si spezzarono e una scheggia di quella del
conte di Montgomery penetrò nell'occhio del re e vi si conficcò. Egli cadde di schianto; i suoi
scudieri e il duca di Montgomery, che era uno dei marescialli del campo, accorsero. Si
meravigliarono di vederlo ferito in modo tanto grave, ma il re non se ne meravigliò affatto. Disse
che doveva trattarsi di cosa di poco conto e che perdonava al conte di Montgomery. Si può
facilmente immaginare il turbamento e il dolore provocati da un incidente tanto funesto in una
giornata che doveva essere destinata alla gioia.
Non appena il re fu portato nel suo letto, i chirurghi che lo visitarono trovarono la ferita
assai grave. Il connestabile si ricordò allora della predizione che era stata fatta al re, che egli
sarebbe stato ucciso in singolar tenzone, e non ebbe più dubbi che la profezia stesse avverandosi.
Il re di Spagna, che si trovava a Bruxelles, quando seppe dell'incidente, mandò il suo medico
personale, uomo di gran fama, ma costui giudicò lo stato del re senza speranza.
Una corte tanto divisa e tanto piena di opposti interessi non era in poca agitazione alla vigilia
di un avvenimento così grave; tuttavia ogni manovra era celata e nessuno pareva preso da altro
affanno che non fosse la salute del re. Le regine, i principi, le principesse non lasciavano quasi mai
la sua anticamera.
La principessa di Clèves, sapendo di essere costretta a rimanervi, che ivi avrebbe visto il
signor di Nemours, che non avrebbe potuto nascondere al marito l'imbarazzo procuratole da
quell'incontro, e d'altra parte consapevole che la sola presenza del duca bastava a giustificarlo ai
suoi occhi, distruggendo tutti i suoi buoni propositi, decise di darsi ammalata. La corte era troppo
occupata per fare attenzione alla sua condotta e per indagare se la sua malattia fosse vera o simulata.
Solo suo marito era in grado di conoscere la verità ed a lei non dispiaceva che la conoscesse.
Cosicché rimase nei suoi appartamenti, poco preoccupata dei grandi cambiamenti che stavano
preparandosi, tutta concentrata nei propri pensieri e libera di abbandonarvisi. Tutte le persone della
corte stavano intorno al re; in certe ore della giornata il principe di Clèves veniva a dargliene
notizie. Teneva con lei il medesimo contegno di sempre, tranne che quando erano soli vi era fra loro
meno abbandono e più freddezza. Non le aveva mai più parlato di quanto era accaduto; né ella
aveva avuto la forza o aveva ritenuto opportuno riprendere il discorso.
Il duca di Nemours, che aveva pensato di poter trovare un qualche pretesto per parlare alla
principessa di Clèves, fu stupito ed afflitto di non avere nemmeno l'occasione di vederla. Il male del
re si aggravò tanto che il settimo giorno i medici giudicarono che non vi era più speranza. Fu con
straordinaria fermezza che il re seppe di dover morire, e fu tanto più degno di ammirazione in
quanto perdeva la vita per un disgraziato incidente, nel fiore degli anni, felice, adorato dal suo
popolo e amato da una donna che egli amava perdutamente. Alla vigilia della sua morte fece
celebrare, senza alcuna pompa, il matrimonio di Madama sua sorella col signor di Savoia. Si può
pensare in quale stato fosse la duchessa del Valentinois. La regina non permise in alcun modo che
vedesse il re e mandò a richiederle i sigilli reali e i gioielli della corona che ella custodiva. La
duchessa domandò se il re fosse già morto; ed essendole stato risposto di no:
- Dunque non ho ancora un padrone - ella rispose, - e nessuno può costringermi a restituire
ciò che la fiducia del re mi ha affidato.
Non appena il re fu spirato al castello di Tournelles, il duca di Ferrara, il duca di Guisa e il
duca di Nemours accompagnarono al Louvre la regina madre, il re e la regina sua moglie. Il signor
di Nemours accompagnava la regina madre. Quando si mossero, questa indietreggiò di qualche
passo e fece cenno alla regina sua nuora di passare per prima; ma tutti si accorsero che in questo
gesto vi era più acrimonia che gentilezza.
PARTE QUARTA
Il cardinale di Lorena era diventato padrone assoluto dell'animo della regina madre; il
visdomino di Chartres non godeva più delle sue buone grazie e l'amore che egli portava alla
contessa di Martigues e alla propria libertà gli aveva impedito di sentire come avrebbe dovuto una
simile perdita. Il cardinale, durante i dieci giorni della malattia del re, aveva avuto modo di fare i
suoi piani e di far prendere alla regina risoluzioni conformi ai suoi disegni; sicché, appena morto il
re, la regina ordinò al connestabile di rimanere alle Tournelles presso la salma del defunto re, per
fare eseguire le cerimonie di rito. Un tale incarico lo teneva lontano da tutto e gli toglieva ogni
libertà di azione. Egli allora mandò subito un corriere al re di Navarra, pregandolo di ritornare con
la massima urgenza onde opporsi, insieme a lui, alla grande ascesa dei Guisa.
Il comando degli eserciti fu dato al duca di Guisa, le finanze al cardinale di Lorena. La
duchessa del Valentinois fu cacciata dalla corte; il cardinale di Tournon, nemico giurato del
connestabile, fu richiamato a corte, come pure il cancelliere Olivier, nemico giurato della duchessa
del Valentinois. Infine, il volto della corte cambiò completamente: il duca di Guisa assunse lo stesso
rango dei principi del sangue, reggendo il manto del re durante le cerimonie funebri; egli ed i suoi
fratelli divennero gli arbitri del reame, non solo per l'influenza del cardinale sullo spirito della
regina, ma perché questa pensava che avrebbe potuto allontanarli il giorno stesso che le avessero
dato ombra, mentre non avrebbe potuto allontanare il connestabile, che era appoggiato dai principi
del sangue.
Quando le cerimonie del lutto furono terminate, il connestabile si recò al Louvre e fu
ricevuto dal re con grande freddezza. Egli cercò di parlargli da solo, ma il re chiamò i principi di
Guisa e in loro presenza gli disse che gli consigliava di riposarsi, che le finanze e il comando
dell'armata erano già stati affidati e che, qualora avesse avuto bisogno dei suoi consigli, l'avrebbe
fatto chiamare. Più fredda ancora fu l'accoglienza della regina madre, che giunse perfino a
rimproverargli di avere detto al defunto re che i suoi figli non gli rassomigliavano affatto. Giunse
anche il re di Navarra, e non ebbe migliori accoglienze. Il principe di Condé, meno remissivo del
fratello, mosse apertamente le sue lagnanze; le proteste però non servirono a nulla e lo si allontanò
dalla corte con la scusa di mandarlo nelle Fiandre per la ratifica del trattato di pace. Infine, una falsa
lettera del re di Spagna fu mostrata al re di Navarra: in questa lettera lo si accusava di far compiere
scorrerie in territorio spagnolo; gli si inculcavano timori per le sue terre; finalmente gli si suggerì
l'idea di andarsene nel Béarn. La regina gliene offrì il modo affidandogli la scorta di madama
Elisabetta, ed obbligandolo anzi a partire prima di questa principessa. In questo modo in tutta la
corte non rimaneva più nessuno che potesse controbilanciare il potere dei Guisa.
Sebbene non fosse cosa piacevole per il signor di Clèves non accompagnare madama
Elisabetta, tuttavia non poteva lamentarsene, considerato il rango di colui che lo sostituiva. Ma se
rimpiangeva l'incarico, non era tanto per l'onore che gliene sarebbe venuto, quanto perché avrebbe
allontanato sua moglie dalla corte, senza dare a vedere che ciò fosse fatto di proposito. Pochi giorni
dopo la morte del re, fu deciso di andare a Reims per la consacrazione. Non appena se ne
incominciò a parlare, la principessa di Clèves, che era sempre rimasta in casa dandosi ammalata,
pregò il marito di permetterle di non seguire la corte e di andare invece a Coulommiers a cambiare
aria e curarsi la salute. Egli le rispose che non voleva indagare se fossero ragioni di salute a
costringerla a rinunciare al viaggio, ma che comunque acconsentiva. E non ebbe pena ad
acconsentire a una cosa che già aveva deciso: perché, per quanto grande fosse la stima che aveva
della virtù di sua moglie, sapeva bene che la prudenza consigliava di non esporla più a lungo alla
vista di un uomo che amava.
Il duca di Nemours seppe quasi subito che la principessa non avrebbe seguito la corte. Non
sapendo risolversi a partire senza averla riveduta, si recò da lei la vigilia del viaggio, quanto più
tardi le convenienze potevano permetterglielo, nella speranza di trovarla sola. La fortuna lo favorì:
mentre egli entrava nel cortile, incontrò la signora di Nevers e la signora di Martigues che ne
uscivano e che gli dissero che la principessa era sola. Salì le scale con un turbamento e una
agitazione pari soltanto a quelli della principessa di Clèves quando le fu annunziata la visita del
signor di Nemours. Il timore che egli le parlasse del suo amore, la paura di rispondergli troppo
affabilmente, l'inquietudine che tale visita avrebbe dato al marito, l'angoscia sia di parlargliene che
di tacergliene, tutte queste cose affollarono la sua mente in un attimo e la gettarono in un tale
tormento che decise di evitare ciò che forse al mondo si augurava di più. Mandò una delle sue
donne dal signor di Nemours, che era nell'anticamera, per dirgli che si era sentita male proprio
allora ed era assai dolente di dover rinunciare all'onore che egli voleva farle. Quale dolore per il
duca non poter vedere la principessa e non poterla vedere proprio perché essa non lo voleva! Egli
partiva all'indomani, non aveva più nulla da sperare dal caso; non le aveva mai più parlato dopo
quella volta dalla delfina e aveva ragione di credere che l'errore di essersi confidato col visdomino
avesse distrutto ogni speranza per lui; infine partiva con tutto ciò che può inasprire ancor più un
dolore già vivo. Non appena la principessa di Clèves si fu un poco riavuta dal turbamento in cui il
pensiero della visita del principe l'aveva gettata, tutte le ragioni che gliel'avevano fatta respingere
svanirono: anzi trovò persino di avere commesso uno sbaglio, e se avesse osato, o se fosse stata
ancora in tempo, l'avrebbe fatto richiamare.
Intanto la duchessa di Nevers e la contessa di Martigues, uscite dalla principessa, erano
andate dalla delfina; il signor di Clèves era là. La regina chiese donde venissero ed esse risposero
che avevano passato buona parte del pomeriggio dalla principessa di Clèves, insieme a molte altre
persone, e che vi avevano lasciato soltanto il duca di Nemours. Queste parole, che esse credevano di
poca importanza, ne avevano invece moltissima per il principe.
Sebbene gli fosse facile arguire che il duca di Nemours potesse avere frequenti occasioni per
parlare a sua moglie, tuttavia il pensiero che egli fosse da lei, che vi fosse da solo e che potesse
parlarle del suo amore, gli parve, in quel momento, cosa così nuova e insopportabile che la gelosia
divampò nel suo cuore con una violenza fino ad allora mai provata. Gli fu impossibile restare più a
lungo dalla regina; se ne tornò senza sapere nemmeno bene perché tornasse, e se avesse intenzione
di interrompere il colloquio del duca. Avvicinandosi a casa, si guardava intorno per scorgere se
qualche indizio gli indicasse che il duca fosse ancora lì; e si sentì sollevato nel vedere che non c'era
più, e provò della dolcezza al pensiero che non doveva essersi fermato a lungo. Disse fra sé che
forse non era il duca di Nemours colui del quale doveva essere geloso, e, sebbene non potesse
dubitarne, pure qualche dubbio cercava di conservarlo. Ma tante cose lo avevano persuaso, che non
restò a lungo in quella desiderata incertezza. Per prima cosa andò nella camera dela moglie; e dopo
averle parlato un po' di cose indifferenti, non poté trattenersi dal chiederle che cosa mai avesse fatto
e chi avesse veduto durante quel pomeriggio: ed essa gliene rese conto. Quando però il principe si
accorse che non nominava il duca di Nemours, le chiese con ansia se questi fossero tutti quelli che
lei aveva veduto, per darle occasione di nominare il duca, e per non avere il dolore che lei gli usasse
una simulazione. Ma ella, poiché non lo aveva veduto, non lo nominò. E allora il principe di Clèves,
riprendendo la parola con un tono da cui trapelava chiaramente tutto il suo dolore:
- E il duca di Nemours non l'avete dunque veduto? O forse l'avete dimenticato?
- Infatti - ella rispose - non l'ho veduto: mi sentivo male e ho mandato una delle mie donne a
fargli le mie scuse.
- Allora è solo per lui che vi sentite male, giacché tutti gli altri li avete ricevuti. Perché mai
questa distinzione per il signor di Nemours? Perché non lo trattate come tutti gli altri? Perché
dovete temerne la vista? Perché gli lasciate vedere che lo temete? Perché mostrargli di usare del
potere che vi dà il suo amore? Osereste rifiutare di riceverlo, se non sapeste che egli distingue la
vostra inflessibilità dalla scortesia? Ma perché questa rigidezza nei suoi confronti? Da una donna
quale voi siete, tutto diventa favore, tranne l'indifferenza.
- Non pensavo - gli rispose la principessa - che, qualunque sospetto poteste avere sul duca di
Nemours, avreste potuto muovermi dei rimproveri per non averlo veduto.
- Eppure, io vi rimprovero, signora, e ne ho le mie ragioni. Perché dunque, se non vi ha mai
detto nulla, non lo vedete? Ma invece egli vi ha parlato; se solo il silenzio vi avesse dimostrato il
suo amore, questo non vi avrebbe fatto una così grande impressione. Voi non avete potuto dirmi
l'intera verità e me ne avete celato una grande parte, anzi vi siete pentita del poco che avete
confessato e non avete avuto la forza di continuare. Sono infinitamente più sventurato di quanto
avessi creduto, anzi sono il più sventurato degli uomini. Voi siete mia moglie, io vi amo come ama
un amante e vi vedo amare un altro. Quest'altro è l'uomo più seducente di tutta la corte, vi incontra
tutti i giorni e sa che l'amate. E io ho potuto pensare che avreste vinto l'amore che avevate per lui!
Bisogna proprio che io abbia perduto il senno per credere che una cosa simile fosse possibile!
- Non so - rispose tristemente la principessa - se voi abbiate avuto torto nel giudicare
favorevolmente una condotta così fuori del comune come la mia; e non so se io mi sia ingannata
nell'avere creduto che mi avreste reso giustizia.
- Non abbiate dubbi - le rispose il marito, - voi vi siete ingannata. Vi siete aspettata da me
cose tanto impossibili quanto quelle che io attendevo da voi. Come potevate sperare che io non
perdessi la ragione? Avete dunque dimenticato che io vi amo perdutamente e che sono vostro
marito? Anche una soltanto di queste due condizioni può condurre ad eccessi; e a che cosa mai non
possono condurre le due insieme! E che cosa non fanno anche! - continuò. - Io sono preda di
sentimenti violenti e contrastanti che non posso padroneggiare. Non mi sento più degno di voi; e voi
non mi sembrate più degna di me. Vi adoro e vi odio, vi offendo e vi chiedo perdono, vi ammiro e
mi vergogno di ammirarvi. Non ho più né calma né possibilità di ragionare. Non so come abbia
potuto vivere dal giorno in cui mi parlaste a Coulommiers e da quando veniste a sapere dalla delfina
che la vostra avventura era nota. Non riesco a capire come la si sia risaputa, né ciò che avvenne fra
voi e il signor di Nemours a questo proposito; voi non me lo direte né io ve lo chiederò. Vi chiedo
soltanto di rammentarvi che mi avete reso il più infelice degli uomini.
Dopo queste parole, il principe di Clèves lasciò sua moglie e partì all'indomani senza averla
riveduta; le scrisse però una lettera piena di dolore, di lealtà e di dolcezza. Ella gli rispose con
un'altra altrettanto commovente e piena di assicurazioni sulla sua condotta passata e su quella a
venire e, siccome queste erano basate sulla verità ed esprimevano veramente i suoi sentimenti, il
signor di Clèves ne fu colpito e ritrovò una certa calma; si aggiunga inoltre che, recandosi il signor
di Nemours dal re, come del resto faceva lui, aveva la tranquillità di sapere che non si sarebbe
trovato vicino a sua moglie. Ogni qual volta la principessa si trovava con il principe, l'amore
appassionato che egli le testimoniava, l'onestà del suo agire, l'amicizia che ella sentiva per lui e tutto
ciò che gli doveva agivano sul suo cuore e attenuavano l'influenza del signor di Nemours. Ma erano
cose transitorie; ed il pensiero del duca ritornava ben presto più vivo ed assillante che mai.
I primi giorni dopo la sua partenza, ella quasi non ne sentì la mancanza; in seguito ne soffrì.
Da quando lo amava, non era passato giorno in cui non avesse temuto o sperato di incontrarlo, e ora
il pensiero che non fosse più in potere del caso far sì che lo incontrasse le dava una profonda pena.
Si recò a Coulommiers ed ebbe cura di farvi trasportare dei grandi quadri che aveva fatto
copiare dagli originali ordinati dalla duchessa del Valentinois per la sua bella casa di Anet:
rappresentavano tutte le azioni notevoli che avevano avuto luogo sotto il regno del defunto re. Vi si
vedeva, fra l'altro, l'assedio di Metz, in cui tutti coloro che vi si erano distinti erano ritratti con
grande rassomiglianza, e fra gli altri il duca di Nemours; ed era forse questa la ragione per cui la
principessa di Clèves aveva desiderato avere con sé quei quadri.
La signora di Martigues, che non aveva potuto partire con la corte, le promise di andare a
passare qualche giorno a Coulommiers; il favore della regina, che le due signore si spartivano, non
aveva fatto nascere fra loro rivalità alcuna, né le aveva allontanate una dall'altra: erano amiche
senza che per questo si scambiassero confidenze. La signora di Clèves sapeva che la signora di
Martigues amava il visdomino; ma la signora di Martigues non sapeva che la principessa amasse il
duca di Nemours, né che ne fosse riamata. E il fatto che la signora di Clèves fosse nipote del
visdomino la rendeva ancora più cara alla contessa, mentre la principessa l'amava come persona pur
essa preda di un grande amore, e un amore per l'amico intimo di colui che essa amava.
Madama di Martigues venne dunque a Coulommiers, come aveva promesso, e trovò la
principessa nella più grande solitudine. Una solitudine che ella aveva ardentemente cercato, avendo
persino trovato il modo di poter passare le sue serate nei giardini senza essere accompagnata dal suo
seguito; si recava in quel padiglione dove il duca di Nemours aveva sorpreso la sua confessione ed
entrava in quella piccola stanza che dava sul giardino. Le sue donne e i suoi domestici rimanevano
nell'altra stanza o sotto il padiglione, e venivano solo se ella li chiamava. La contessa di Martigues
non era mai stata a Coulommiers e rimase sorpresa da tutte le belle cose che vi trovò; ciò che
soprattutto le piacque fu quel padiglione dove passavano insieme le serate la principessa di Clèves e
lei. La libertà di trovarsi sole la notte in uno dei più bei luoghi del mondo rendeva interminabili le
conversazioni fra le due giovani donne, i cui cuori battevano entrambi di violente passioni; e,
sebbene non ne parlassero, provavano gran piacere a discorrere insieme. Alla contessa di Martigues
sarebbe molto spiaciuto dover partire, se non avesse dovuto recarsi ad incontrare il visdomino. Partì
dunque per Chambord, dove la corte in quel momento era riunita.
La cerimonia della consacrazione era stata celebrata a Reims dal cardinale di Lorena; si
doveva passare il resto dell'estate nel castello di Chambord, costruito di recente. La regina si mostrò
felicissima di rivedere la contessa di Martigues e, dopo averglielo dimostrato in più modi, le chiese
notizie della principessa di Clèves e di che cosa facesse in campagna. Il duca di Nemours e il
principe di Clèves erano tutti e due presenti. La contessa di Martigues, che aveva trovato
ammirabile la bellezza di Coulommiers, ne descrisse tutte le meraviglie, dilungandosi sul padiglione
del bosco e sul piacere che provava la principessa di Clèves a trascorrervi sola buona parte della
notte. Il duca di Nemours, che conosceva abbastanza quel luogo per comprendere ciò che ne diceva
la contessa di Martigues, incominciò a pensare che non era impossibile poter vedere la principessa
senza essere veduto da altri che da lei. Pose ancora qualche domanda alla signora di Martigues per
essere meglio informato; e il principe di Clèves, che aveva continuato ad osservarlo mentre la
contessa parlava, credette di indovinare in quel momento quello che stava passandogli per la testa.
Le domande che stava facendo lo confermarono nel suo sospetto, tanto che non ebbe più dubbi che
il duca di Nemours pensasse di andare a vedere sua moglie. E non si sbagliava. Questo progetto si
era talmente impossessato di lui che, dopo avere passato la notte in congetture per metterlo a punto,
l'indomani stesso chiese congedo al re per recarsi sotto una scusa qualsiasi a Parigi.
Il signor di Clèves non ebbe alcun dubbio sullo scopo di quel viaggio e decise di sapere la
verità sulla condotta di sua moglie e non rimanere più a lungo in una così crudele incertezza. Il suo
desiderio era di partire nello stesso momento in cui partiva il duca e, senza essere visto, accertarsi di
persona dell'esito del viaggio. Ma, temendo che la sua partenza potesse apparire strana e che il duca
di Nemours, messo sull'avviso, potesse prendere delle precauzioni, decise di affidarsi ad un
gentiluomo che gli era devoto e di cui conosceva la fedeltà e l'accortezza. Gli raccontò la sua
situazione, gli descrisse quale era stata fino ad allora la virtù della principessa di Clèves e gli diede
incarico di seguire il duca di Nemours, di sorvegliarlo attentamente, di vedere se si recava a
Coulommiers e se entrava di notte nel giardino.
Il gentiluomo, molto adatto alla missione affidatagli, adempì all'incarico con tutto lo
scrupolo immaginabile. Seguì il duca di Nemours fino ad un villaggio distante una mezza lega da
Coulommiers; qui il duca si fermò e il gentiluomo poté facilmente arguire che era per attendervi la
notte. E non credendo opportuno di fermarsi anche lui, oltrepassò il villaggio e andò nel bosco, là
dove pensava che il duca potesse passare.
Non si ingannava: appena si fece notte, udì dei passi e, sebbene facesse buio, riconobbe
facilmente il duca di Nemours. Lo vide fare il giro del giardino come per ascoltare se si udisse
qualcuno e per scegliere il punto dove entrare più facilmente. Le palizzate erano molto alte e dietro
ve n'erano delle altre per impedire l'entrata, di modo che era assai difficile aprirsi un varco. Il duca
tuttavia vi riuscì; non appena fu nel giardino, non gli fu difficile indovinare dove fosse la
principessa. Vide gran luce nel salottino; tutte le finestre erano spalancate e, scivolando lungo le
palizzate, vi si avvicinò con un tremore ed una emozione facili ad immaginare. Si nascose dietro
una delle porte-finestre, per osservare cosa stesse facendo la principessa. Vide che era sola, e così
mirabilmente bella che a mala pena egli poté trattenere il trasporto che quella vista gli suscitava.
L'aria era calda e la principessa non aveva nulla sul capo e sul petto, tranne i capelli, che le si erano
un poco allentati. Era allungata su un divano con accanto un tavolino dove erano diversi cestini
pieni di nastri; ella ne stava scegliendo alcuni ed il signor di Nemours notò che sceglieva gli stessi
colori che egli aveva portato nel torneo. Vide che ne faceva delle gale per una stupenda canna
d'India che egli aveva portato per un certo tempo e poi donato a sua sorella, alla quale la principessa
di Clèves l'aveva presa senza mostrare di conoscere che era appartenuta al duca. Dopo che ebbe
finito il suo lavoro, con una grazia e una dolcezza che le dipingevano in volto i sentimenti che
aveva nel cuore, prese un doppiere e si avvicinò ad un gran tavolo di faccia al quadro che
rappresentava l'assedio di Metz, quello dove era dipinto il ritratto del signor di Nemours; si sedette e
si mise a contemplare quell'effigie con un'attenzione e un trasognamento quali solo l'amore può
dare.
Impossibile descrivere quello che provasse in quel momento il signor di Nemours. Vedere
nel bel mezzo della notte, nel luogo più bello del mondo, la persona adorata, vederla a sua insaputa
e tutta presa da cose che si riferivano a lui e all'amore che ella gli nascondeva, ecco quanto nessun
altro amante ha mai provato e immaginato.
Il duca di Nemours era talmente fuori di sé che se ne restava lì immobile a guardare la
principessa, senza pensare che i momenti erano preziosi. Quando si fu un poco riavuto, si disse che
per parlarle era meglio attendere che uscisse in giardino; qui avrebbe potuto farlo con una maggiore
tranquillità, perché sarebbe stata lontana dalle sue dame; ma poi, vedendo che ella continuava a
rimanersene nel salottino, risolse di entrare. Quando fu sul punto di farlo, quale non fu il suo
turbamento! Quale timore di dispiacerle, quale paura di far mutare l'espressione di quel viso così
pieno di dolcezza e vederlo diventare serio e irritato!
Gli parve allora che fosse stata una follia, non tanto essere venuto a vedere, non visto, la
principessa, quanto il pensiero di mostrarsi a lei; di colpo gli fu chiaro tutto quello che fino ad allora
non aveva ancora considerato; infine gli parve stravagante l'ardire di venire a sorprendere nel bel
mezzo della notte una persona alla quale non aveva mai parlato di amore. Pensò che non poteva
pretendere che ella lo ascoltasse, e che si sarebbe giustamente adirata per i pericoli a cui la esponeva
e per gli incidenti che potevano derivarne. Tutto il suo coraggio lo abbandonò e fu più volte sul
punto di decidersi ad andare via senza farsi vedere. Spinto tuttavia dal desiderio di parlarle, e reso
più sicuro dalle speranze suscitate in lui da quanto aveva veduto, avanzò di qualche passo, ma il suo
turbamento era tale che una sciarpa che portava si impigliò nella finestra, di modo che fece un po' di
rumore. La principessa voltò il capo e, sia che avesse l'animo troppo pieno del pensiero di lui, sia
che egli si trovasse abbastanza in luce da farsi scorgere, fatto sta che credette di riconoscerlo e,
senza esitare e senza voltarsi indietro, passò nella stanza dove erano le sue donne. Vi entrò con un
aspetto tanto turbato che fu costretta, per nasconderlo, a dire che si sentiva male; e lo disse anche
per tenere occupata la sua gente e dare al duca di Nemours il tempo di andarsene. Quando poi le
riuscì di riflettere, pensò di essersi sbagliata e che l'illusione di avere scorto il duca di Nemours
fosse opera della sua fantasia. Sapeva che era a Chambord e le pareva impossibile che avesse
intrapreso una cosa tanto rischiosa: più di una volta fu tentata di ritornare nel suo salottino e di
andare a vedere se nel giardino vi fosse qualcuno. Forse desiderava quanto temeva di trovarvi il
signor di Nemours; infine ragione e prudenza prevalsero sugli altri sentimenti, e trovò che era
meglio rimanere nel dubbio piuttosto che correre il rischio di saperne di più. Stette gran tempo
prima di risolversi ad abbandonare un luogo al quale forse il duca era tanto vicino; e quando infine
fece ritorno al castello era quasi giorno.
Fino a che aveva scorto la luce, il signor di Nemours era rimasto nel giardino: la speranza di
rivedere ancora la principessa non lo aveva abbandonato, per quanto fosse persuaso che ella lo
avesse ravvisato e si fosse allontanata solo per evitarlo; ma quando vide che si stavano chiudendo le
porte, comprese che non aveva più nulla da aspettarsi. Andò a riprendere il suo cavallo vicino al
luogo dove il gentiluomo del signor di Clèves era in attesa. Questo gentiluomo lo seguì fino al
villaggio dal quale era partito la sera innanzi. Il signor di Nemours decise di passarvi ancora tutta la
giornata e tornare a Coulommiers la notte, per vedere se la principessa avrebbe avuto ancora la
crudeltà di fuggire o quella di non esporsi ad essere veduta; sebbene fosse felice di averla trovata
così immersa nel pensiero di lui, era però infelice per averla vista lanciarsi in un moto così istintivo
di fuga.
Mai passione fu più tenera e violenta insieme di quella che era allora nel cuore del duca. Se
ne andò sotto i salici, lungo un piccolo ruscello che scorreva dietro la casa dove si era rifugiato, e se
ne allontanò il più possibile, per non essere visto né udito da alcuno; si abbandonò alla piena del suo
amore, e il suo cuore ne era così colmo che qualche lacrima gli bagnò il ciglio; ma non erano le
lacrime che fa spandere il dolore, bensì lacrime miste di quella dolcezza e di quell'incanto che si
trovano solo nell'amore.
Si mise a ripensare a tutti i gesti della principessa da quando ne era innamorato; benché essa
lo amasse, quale onestà e modesta severità insieme aveva mostrato verso di lui. «Perché, insomma,
mi ama», si ripeteva; «mi ama e non potrei dubitarne; i più grandi giuramenti, i più grandi favori
non potrebbero essere segni più certi di quelli che io ne ho avuto; e tuttavia sono trattato con la
medesima durezza che se fossi odiato; ho sperato nel tempo; ora non devo aspettarmi più nulla; la
vedo difendersi sempre allo stesso modo da me e da se stessa. Se non fossi amato, mi ingegnerei di
piacerle; ma io le piaccio, lei mi ama e tuttavia me lo nasconde. Che cosa posso dunque sperare e
che mutamento posso attendere nella mia sorte? E che! Io sarei dunque amato dalla donna più
incantevole del mondo e sarei preda di questo eccesso d'amore, dato dalla certezza di essere amato,
solo per provare il dolore di tanto eccessivo rigore! Lasciatemi vedere che mi amate, bella
principessa!» gridava. «Lasciate che io scorga i vostri sentimenti. Purché una volta nella vita io li
conosca per bocca vostra, accetto che poi torniate a quel rigore col quale incrudelite contro di me.
Guardatemi almeno una volta con quei medesimi occhi con i quali questa notte guardavate il mio
ritratto; come è possibile che l'abbiate guardato con tanta dolcezza per poi sfuggire me tanto
crudelmente? Che cosa temete? Perché paventate tanto il mio amore? Voi mi amate e inutilmente
cercate di nascondermelo; voi, senza volerlo, me ne avete dato le prove. Conosco quale sia la mia
fortuna; lasciate che io ne goda, cessate di rendermi infelice». E poi: «È mai possibile», riprendeva,
«che io sia amato dalla signora di Clèves e che sia infelice? Quanto era bella questa notte! Come ho
potuto resistere al desiderio di gettarmi ai suoi piedi? Se lo avessi fatto le avrei forse impedito di
fuggire e il mio rispetto l'avrebbe rassicurata; ma, infine, è anche possibile che non mi abbia
riconosciuto; io mi affliggo più del necessario e forse è stata la presenza di un uomo ad ora così
insolita a spaventarla».
Tutta la giornata fu occupata da questi pensieri, sempre gli stessi. Il duca di Nemours
aspettava con impazienza la notte e, quando questa sopravvenne, riprese la strada per Coulommiers.
Il gentiluomo del principe di Clèves, che per meglio passare inosservato si era travestito, lo seguì
fino allo stesso luogo della sera precedente e lo vide entrare nel medesimo giardino. Ma il duca si
accorse ben presto che la principessa non aveva voluto rischiare un suo nuovo tentativo di vederla:
tutte le porte e le finestre erano chiuse. Egli si aggirò a lungo intorno per scoprire se ci fosse almeno
qualche lume, ma inutilmente. La principessa, dubitando che il duca di Nemours sarebbe ritornato,
era rimasta nella sua stanza; aveva temuto di non avere sempre la forza di fuggirlo e non aveva
voluto correre il rischio di un colloquio poco conforme alla condotta tenuta sino a quel giorno.
Sebbene il duca non avesse nessuna speranza di vederla, non sapeva tuttavia risolversi ad
abbandonare un luogo dove ella stava tanto sovente. Passò l'intera notte nel giardino, trovando
almeno qualche consolazione nel contemplare quei medesimi oggetti che lei vedeva ogni giorno. E
già si era levato il sole che ancora non aveva pensato ad andarsene; ma alla fine ne fu costretto dal
timore di venire scoperto.
Ma, non potendo decidersi a partire senza avere rivisto la principessa, se ne andò dalla
signora di Mercoeur, che si trovava allora nella casa di campagna che possedeva vicino a
Coulommiers; questa fu estremamente sorpresa dell'arrivo di suo fratello, il quale inventò per il suo
viaggio un pretesto, abbastanza verosimile da poterla ingannare. Infine, condusse le cose con tanta
abilità da indurre sua sorella stessa a proporgli di andare dalla principessa di Clèves. La proposta
venne attuata il giorno stesso e il signor di Nemours prevenne la sorella che l'avrebbe salutata a
Coulommiers per ritornarsene il più sollecitamente possibile dal re. Pensava così che sarebbe partita
per prima e che lui avrebbe avuto un mezzo infallibile per parlare alla principessa.
Quando giunsero a Coulommiers, ella passeggiava per un gran viale che correva tutto
intorno al giardino. La vista del signor di Nemours le procurò non poco turbamento, non lasciandole
più dubbio che fosse proprio lui quegli che aveva veduto la notte precedente. Questa certezza le
procurò un moto di collera per l'ardire e l'imprudenza insieme di un simile gesto. Il duca notò subito
con dolore la gelida espressione del suo viso. Si misero a parlare di cose senza importanza ed egli
ebbe l'abilità di mostrare tanto spirito, tanto compiacimento e tanta ammirazione per la principessa
di Clèves, che riuscì a vincere in parte, e suo malgrado, la freddezza con la quale lo aveva accolto.
Dissipato così il suo primo timore, egli manifestò una grande curiosità di andare a vedere il
padiglione nella foresta; ne parlò come del luogo più piacevole del mondo e ne fece persino una
descrizione così particolareggiata che la signora di Mercoeur disse che doveva esserci stato
parecchie volte per conoscerne tanto bene tutte le meraviglie.
- Eppure - la interruppe la principessa di Clèves, - non credo che il signor di Nemours vi sia
stato mai; è un luogo terminato solo da pochissimo tempo.
- E infatti è da poco che io ci sono stato - replicò il signor di Nemours, - e non so se debba
rallegrarmi che voi abbiate dimenticato di avermici veduto.
La signora di Mercoeur, che era intenta a osservare le bellezze del giardino, non prestava
attenzione alle parole del fratello. La principessa arrossì e, abbassando gli occhi senza guardarlo:
- Non mi ricordo affatto di avervi veduto; se voi ci siete stato, fu senza che io lo sapessi.
- È vero, signora, che vi sono stato senza vostro ordine e che vi ho passato i più dolci e i più
crudeli momenti della mia vita.
La principessa capiva fin troppo bene tutto quello che il duca andava dicendo, tuttavia non
rispose; pensava soltanto al modo di impedire alla signora di Mercoeur di entrare nel padiglione,
perché vi era il ritratto del signor di Nemours e non voleva che costei lo vedesse. Seppe fare così
bene che il tempo passò inavvertito, finché la signora di Mercoeur parlò di tornare a casa. Quando
la principessa vide che il duca di Nemours e sua sorella non se ne sarebbero andati insieme, capì
subito a che cosa stava per essere esposta: si ritrovò nel medesimo imbarazzo in cui si era trovata a
Parigi, e così prese la stessa decisione. Il timore che quella visita potesse essere una ulteriore
conferma ai sospetti di suo marito contribuì non poco al suo intento; per evitare di rimanere sola col
duca, disse alla signora di Mercoeur che l'avrebbe accompagnata fino al limite della foresta,
ordinando alla sua carrozza di seguirla. Il dolore del duca, trovandosi di fronte ad un così costante
rigore, fu tanto violento che impallidì. La duchessa di Mercoeur gli chiese se si sentisse male; egli,
senza che nessuno se ne accorgesse, guardò la principessa e le mostrò con i suoi sguardi di non
essere malato d'altro che di disperazione. Fu costretto però a lasciarle andar via senza osare di
seguirle; non potendo, dopo ciò che aveva detto, venire via con la sorella, se ne tornò a Parigi, da
dove ripartì il giorno seguente.
Il gentiluomo del principe l'aveva sempre spiato; se ne tornò anche lui a Parigi e, quando
vide che il signor di Nemours partiva per Chambord, prese la carrozza di posta, onde arrivare prima
di lui e rendere conto del suo viaggio. Il principe ne attendeva il ritorno come cosa che avrebbe
deciso la sventura di tutta la sua vita.
Non appena lo vide, capì dal suo viso e dal suo silenzio che aveva da comunicargli solo
cattive notizie. Se ne stette per un po' col capo chino, soffocato dall'angoscia, senza poter parlare;
poi gli fece cenno con la mano di ritirarsi:
- Andate - gli disse; - so quello che avete da dirmi, ma non ho la forza di ascoltarvi.
- Non posso riferirvi nulla che possa costituire un sicuro indizio - rispose il gentiluomo; - è
vero però che il duca di Nemours è penetrato per due notti di seguito nel giardino dalla foresta e che
il giorno dopo è stato a Coulommiers con la signora di Mercoeur.
- Basta - replicò il principe di Clèves, - basta! - e continuava a fargli cenno con la mano di
ritirarsi, - non ho bisogno di sapere altro.
Il gentiluomo fu costretto a lasciare il suo signore in preda alla disperazione. Forse non se ne
vide mai una più violenta, ed a pochi uomini di così gran coraggio e di così gran cuore toccò in
sorte di provare nello stesso tempo il dolore per l'infedeltà di un'amante e l'umiliazione per il
tradimento di una moglie.
Il signor di Clèves non poté resistere a tanta angoscia. La notte stessa la febbre lo assalì e
con sintomi così gravi che la sua malattia apparve subito pericolosa. La principessa fu avvertita e
accorse in gran fretta. Quando arrivò, il principe era ancora peggiorato e c'era in lui qualche cosa di
così freddo e così gelido, che ella ne fu estremamente sorpresa ed afflitta. Le parve persino che egli
ricevesse a malincuore le cure che gli prestava; ma poi pensò che fosse per effetto della malattia.
Appena ella fu giunta a Blois, dove la corte allora si trovava, il duca di Nemours non poté
trattenere un moto di gioia al pensiero che ella gli era vicino. Tentò di vederla e ogni giorno si
recava dal principe di Clèves col pretesto di avere notizie, ma inutilmente. Ella non usciva mai dalla
stanza del marito e soffriva atrocemente dello stato in cui lo vedeva. Il duca era disperato che ella
fosse tanto afflitta; comprendeva benissimo quanto questa afflizione riaccendesse l'affetto che ella
aveva per il signor di Clèves e quanto questo affetto costituisse un pericoloso diversivo per la
passione che aveva nel cuore. Tutti questi pensieri gli procurarono per diverso tempo un mortale
dolore, ma poi la gravità della malattia del principe gli aperse il cuore a nuove speranze. Pensò che
forse la principessa sarebbe stata libera di seguire le proprie inclinazioni e che l'avvenire gli serbava
forse una felicità e una gioia durature. Questo pensiero gli dava un turbamento e un affanno al quale
poteva reggere a stento; cercava di distrarsene per il timore di piombare poi in una più profonda
desolazione se le sue speranze avessero dovuto venir meno.
Intanto i medici avevano giudicato il principe di Clèves senza speranza; uno degli ultimi
giorni della sua malattia, dopo una notte agitata, verso il mattino disse che voleva riposare.
La principessa rimase sola nella stanza e le parve che invece di riposare il principe fosse
oltremodo inquieto; si appressò a lui e si inginocchiò accanto al letto, il volto rigato di lacrime. Il
principe aveva deciso di non mostrarle mai il violento dolore che aveva per causa sua; ma le cure di
lei e quel suo soffrire, che talvolta gli pareva sincero e che altre volte gli sembrava segno di
simulazione e di perfidia, gli agitavano in cuore sentimenti tanto opposti e strazianti che non riuscì a
celarli più a lungo.
- Quante lacrime versate, signora, per una morte di cui siete la causa e che non può darvi
tutto il dolore che manifestate. Io non sono più in grado di farvi dei rimproveri - disse con una voce
che la malattia e le sofferenze rendevano fievole, - ma muoio per il crudele dolore che mi avete
procurato. Era proprio necessario che un gesto così eccezionale quale il vostro di parlarmi a
Coulommiers avesse un seguito come questo? Perché confessarmi il vostro amore per il duca di
Nemours, se la vostra virtù non era capace di difendervene? Io vi amavo fino al punto di accettare
di essere ingannato, lo confesso a mia vergogna, ed ho rimpianto quello stato di ingannevole
tranquillità da cui mi avete tratto. Perché mai non mi avete lasciato in quella pacifica cecità di cui
godono tanti mariti? Forse per tutta la vita non avrei saputo che amavate il signor di Nemours. Io
morrò - soggiunse, - ma sappiate che mi rendete la morte piacevole e che, dopo avermi tolto la
stima e la tenerezza che avevo per voi, la vita mi farebbe orrore. Che ne potrei fare, infatti, di questa
vita, dovendola trascorrere con una persona che ho tanto amato e che mi ha così crudelmente
tradito? O dovendo vivere questa vita separato da quella stessa persona, o indotto a violenze così
contrarie al mio carattere e all'amore che avevo per voi? Il mio amore era più grande di quanto voi
abbiate potuto scorgere, signora; io ve ne ho nascosto la più gran parte per timore di importunarvi, o
di perdere qualche cosa della vostra stima con modi che mal si addicono ad un marito; io meritavo il
vostro cuore, signora; ancora una volta muoio senza rimpianti, perché non sono riuscito a
conquistarlo e ora non posso più desiderarlo. Addio, signora, rimpiangerete un giorno un uomo che
vi amava di un amore vero e legittimo. Proverete il dolore cui vanno incontro in simili esperienze le
persone ragionevoli, e conoscerete la differenza che passa fra essere amata come io vi amavo e
esserlo da chi, protestandovi amore, altro non cerca se non il vanto di sedurvi; ora la mia morte vi
renderà la libertà - disse ancora, - e voi potrete rendere felice il duca di Nemours senza che questo
vi costi un delitto. Ma che importa - soggiunse ancora - quello che avverrà quando io non ci sarò
più, e perché mai devo essere tanto debole da pensarci?
La principessa era così lontana dal pensare che suo marito potesse avere dei sospetti, che
ascoltò tutte quelle parole senza quasi comprenderle e senza vedervi altro che un rimprovero per la
sua inclinazione verso il duca di Nemours; ma alla fine, uscendo di colpo dalla sua cecità:
- Io, un delitto! - si mise a gridare. - Io ne ignoro persino il pensiero. La più austera virtù non
può ispirare condotta diversa dalla mia; e mai ho compiuto anche un solo atto di cui non potessi
volervi testimone.
- Avreste dunque desiderato - replicò il principe guardandola con sdegno - che fossi
testimone delle notti che avete passato col duca di Nemours? Ah, ed è di voi, proprio di voi che
parlo, quando parlo di una donna che ha passato delle notti con un uomo!
- No, signore: non è di me che state parlando. Non ho mai passato delle notti e nemmeno dei
soli momenti col signor di Nemours. Non l'ho mai veduto da sola; non ho mai acconsentito, né mai
l'ho ascoltato, posso farne giuramento...
- Non dite altro - la interruppe il principe; - falsi giuramenti o confessioni mi farebbero
ugualmente pena.
La principessa non era in grado di rispondere; le lacrime e il dolore le toglievano la parola;
infine, con grande sforzo:
- Guardatemi almeno, ascoltatemi; se si trattasse solo di me potrei subire i vostri rimproveri;
ma si tratta della vostra vita. Ascoltatemi per amore di voi stesso; è possibile che, difesa dalla verità,
io non vi possa persuadere della mia innocenza?
- Piacesse a Dio che me ne poteste persuadere! - egli gridò. - Ma che cosa potreste mai
dirmi? Il duca di Nemours non è forse venuto a Coulommiers con sua sorella? E non aveva forse
passato le due notti precedenti con voi nel giardino della foresta?
- Se questo è il mio delitto - replicò lei, - mi è facile giustificarmi. Non vi chiedo già di
credere a me, ma credete ai vostri domestici, in modo che sappiate se io andai nel giardino della
foresta la notte prima che il signor di Nemours venisse a Coulommiers, e se la sera avanti non me
ne andai di lì due ore prima del solito.
Ella gli raccontò allora come le fosse parso di vedere qualcuno nel giardino e come avesse
sospettato che potesse essere il duca di Nemours. Gli parlò con un tale accento di verità, e la verità
riesce così facilmente a persuadere anche quando è inverosimile, che il principe di Clèves fu quasi
convinto della sua innocenza.
- Non so se debba abbandonarmi a credervi. Mi sento così vicino alla morte che preferisco
non vedere nulla di quanto potrebbe farmi rimpiangere la vita. Troppo tardi mi avete illuminato, ma
sarà sempre un sollievo portare con me il pensiero che siete degna della stima che avevo riposta in
voi. Fate, vi prego, che io possa credere che la memoria di me vi sarà cara e che, se fosse dipeso da
voi, voi avreste avuto per me i sentimenti che nutrite per un altro.
Volle continuare, ma un'estrema debolezza gli tolse la parola. La principessa chiamò i
medici e questi, arrivando, lo trovarono già quasi privo di vita. Egli languì ancora per qualche
giorno e alla fine morì con mirabile fermezza d'animo.
La principessa piombò in un così cupo dolore da perdere quasi la ragione. La regina, con
grande bontà d'animo, andò da lei e la condusse in un convento senza che la principessa sapesse
dove la portavano. Le sue cognate la ricondussero poi a Parigi che ancora non aveva coscienza del
suo dolore. Quando poi incominciò ad avere la forza di considerarlo, e di considerare quale marito
avesse perduto, che era stata lei la causa della sua morte, e che questa causa era stata l'amore che
aveva per un altro uomo, l'orrore che provò per se stessa e per il duca di Nemours oltrepassò ogni
limite.
Nei primi tempi, questo principe non osò darle altri segni della sua devozione che quelli
voluti dall'etichetta. Conosceva abbastanza la principessa per rendersi conto che una maggiore
assiduità le sarebbe riuscita sgradita; ma ciò che apprese in seguito gli fece capire che avrebbe
dovuto serbare a lungo la stessa condotta.
Un suo scudiero gli raccontò che quel tale gentiluomo del principe di Clèves, suo intimo
amico, gli aveva raccontato, nel grande dolore per la perdita del suo signore, che la causa di quella
morte era stato il viaggio del duca di Nemours a Coulommiers. Questo discorso lo sorprese
oltremodo, ma, dopo avere a lungo riflettuto, indovinò una parte della verità, ed immaginò quali
dovessero essere per il momento i sentimenti della principessa di Clèves, e quanto si sarebbe
allontanata da lui se si fosse persuasa che la malattia del marito era stata causata dalla gelosia.
Pensò che conveniva, per un certo tempo, non rammentarle nemmeno il suo nome; e seguì questa
condotta per penosa che gli fosse.
Fece un viaggio a Parigi, e non poté impedirsi di andare a casa di lei per avere notizie; gli fu
risposto che la principessa non vedeva nessuno e aveva persino proibito che la si informasse di
coloro che la cercavano. Forse ordini tanto perentori erano stati dati in previsione di una sua visita e
per non sentire parlare di lui. Ma il signor di Nemours era troppo innamorato per poter vivere a
lungo senza vedere la principessa di Clèves e decise di trovare il modo, per difficile che fosse, di
uscire da uno stato che gli pareva insopportabile.
Il dolore della principessa era smisurato. Non poteva togliersi dagli occhi quel marito
morente, e morente per causa sua e con tanta tenerezza per lei: ripassava incessantemente nella sua
mente tutto quello che gli doveva e si faceva gran colpa di non averlo amato con passione, come se
fosse cosa che potesse dipendere dalla sua volontà. Non aveva altra consolazione che quella di
rimpiangerlo come egli meritava di essere rimpianto, e la certezza di non fare, per tutto il resto della
vita, che ciò che egli sarebbe stato contento facesse se fosse vissuto.
Più volte si era domandata come mai suo marito avesse saputo che il duca di Nemours era
venuto a Coulommiers. Non poteva credere che il duca avesse parlato e poi, avesse parlato o meno,
le era persino indifferente, tanto si sentiva lontana e guarita da quell'amore. Sentiva nondimeno un
gran dolore al pensiero che egli fosse stato la causa della morte del marito, e rammentava con pena
il timore manifestato dal principe che ella non finisse con lo sposarlo; ma poi tutti questi dolori si
confondevano in quello della sua morte ed ella credeva di non averne altri.
Trascorsi parecchi mesi, uscì da questo stato di violenta afflizione per passare ad uno di
tristezza e di languore. La contessa di Martigues fece un viaggio a Parigi e durante la sua
permanenza ebbe cura di recarsi frequentemente da lei. Le parlò della corte e di tutto quello che vi
stava succedendo; e, sebbene la principessa sembrasse non prendervi interesse alcuno, la signora di
Martigues seguitava a parlargliene per distrarla.
Le diede notizie del visdomino, del duca di Guisa e di quanti altri si distinguessero per
prestanza e per meriti.
- In quanto al duca di Nemours - le disse, - io non so se la politica abbia preso nel suo cuore
il posto della galanteria, ma è certo che non è più gaio come prima e sembra occuparsi ben poco
delle donne. Fa molto spesso dei viaggi a Parigi e credo persino che attualmente sia qui.
Il nome del duca sorprese la principessa e la fece arrossire; cambiò discorso senza che la
contessa di Martigues si accorgesse del suo turbamento.
All'indomani, la principessa, che era alla ricerca di occupazioni conformi al suo stato
d'animo, si recò non lontano da casa sua, da un uomo che eseguiva lavori in seta in un modo tutto
speciale; desiderava far eseguire per sé lavori simili. Dopo che glieli ebbero mostrati, vedendo la
porta di una camera dove pensava ve ne fossero altri, chiese che le fosse aperta. L'artigiano le disse
di non averne la chiave, perché era occupata da un tale che vi veniva di quando in quando durante il
giorno, per disegnare le belle case e i giardini che si vedevano dalla finestra.
- È l'uomo più bello del mondo - soggiunse l'artigiano, - e non ha certo l'aria di essere ridotto
a guadagnarsi la vita. Tutte le volte che viene qui lo vedo sempre intento a contemplare case e
giardini, ma lavorare non lo vedo mai.
La principessa di Clèves ascoltava questi discorsi con grande attenzione. Ciò che le aveva
detto la signora di Martigues, che il duca di Nemours era talvolta a Parigi, si unì, nella sua mente,
all'idea di quell'uomo così bello che veniva a passare le giornate vicino a casa sua, e le fece pensare
al signor di Nemours, anzi ad un Nemours che passava le sue ore contemplandola; e questo pensiero
le dava un turbamento confuso di cui non capiva la causa. Ella si avvicinò alle finestre per rendersi
conto di dove guardassero e si accorse che davano sul suo giardino e sulla sua casa. Poi, tornata
nella propria camera, le fu facile individuare la finestra dove andava ad affacciarsi lo sconosciuto. Il
pensiero che fosse il duca di Nemours mutò completamente il suo animo: uscì dallo stato di relativa
pace in cui incominciava ad adagiarsi, e si sentì diventare inquieta, agitata. Infine, non potendo più
resistere sola con i suoi pensieri, uscì per andare a prendere aria in un giardino dei sobborghi, dove
pensava di non incontrare nessuno; quando vi giunse, credette di non essersi ingannata; non vide
nulla che le facesse sospettare la presenza di qualcuno e passeggiò a lungo.
Attraversato un boschetto, scorse in fondo a un viale, nel luogo più recondito del giardino,
un piccolo padiglione aperto da tutti i lati e a questo indirizzò i suoi passi. Quando si fu avvicinata,
vide che un uomo era sdraiato su una panca, un uomo che pareva immerso in una profonda
meditazione, e riconobbe il duca di Nemours. Questa vista l'arrestò di colpo. I domestici,
seguendola, avevano fatto un po' di rumore, e il signor di Nemours si scosse dal suo fantasticare.
Senza nemmeno guardare chi stesse sopraggiungendo, egli si alzò per evitare incontri e, con un
profondo inchino che gli impedì di vedere coloro che salutava, svoltò in un altro viale. Se avesse
mai saputo chi era colei che salutava, con quale ardore sarebbe tornato sui suoi passi. Ma continuò
per il viale e la principessa lo vide uscire da un cancello sul retro, dove l'attendeva la carrozza.
Quale effetto produsse nell'animo della principessa questa rapida visione! Quale sopita passione si
riaccese nel suo cuore e con quale violenza! Andò a sedere nel posto stesso dal quale il duca si era
appena alzato e vi rimase, come oppressa. Il duca le appariva come l'essere più seducente al mondo,
unicamente intento ad amarla, di un amore pieno di rispetto e di fedeltà: lui che tutto disprezzava
per amor suo, lui che tanto rispettava il suo dolore, lui che si preoccupava di vederla senza essere
veduto, lui che aveva abbandonato la corte, di cui era la delizia, per venirsene a contemplare le
mura che la rinserravano, per venire a fantasticare nei luoghi dove mai avrebbe potuto supporre di
incontrarla; un uomo degno, infine, di essere amato per la sua sola costanza e per il quale lei
provava un così violento amore che, quand'anche lui non l'avesse amata, lei lo avrebbe amato
ugualmente; e per di più un uomo di alta condizione sociale, una condizione pari alla sua. Nessun
dovere, nessuna virtù poteva più opporsi ai suoi sentimenti: ogni ostacolo era rimosso, e del loro
passato non rimaneva altro che l'amore del signor di Nemours per lei e quello di lei per lui.
Tutti questi pensieri erano nuovi per la principessa. Il dolore per la morte del principe di
Clèves le aveva talmente occupato l'animo da impedirglieli; e ora la presenza del duca di Nemours
li fece affollare nella sua mente. Ma quando ne fu presa del tutto, si ricordò di colpo che
quell'uomo, al quale pensava come ad un probabile sposo, era quello stesso che aveva amato
quando ancora era vivo suo marito e che era stato la causa della sua morte; ripensava al timore
espressole dal morente che ella non avesse a sposarlo. La sua austera virtù fu tanto ferita da questi
pensieri, che sposare il duca di Nemours non le parve minor delitto di quanto lo fosse amarlo
mentre ancora suo marito era vivo. Si abbandonò a queste riflessioni così contrarie alla sua felicità;
anzi le rafforzò con nuovi argomenti che riguardavano la sua quiete e i mali che andava prevedendo
se avesse mai sposato quel principe. Insomma, dopo essere rimasta due ore nel luogo dove il duca le
era apparso, se ne tornò a casa persuasa di dover fuggire quella vista come cosa contraria al suo
dovere.
Ma tale convincimento, che era effetto della sua ragione e della sua virtù, rimaneva estraneo
al suo cuore. Questo restava legato al signor di Nemours, con una violenza che la rendeva degna di
compassione e le toglieva ogni pace; in questo modo passò una delle notti più crudeli della sua vita.
Al mattino, il suo primo impulso fu di correre a vedere se non ci fosse nessuno alla finestra che
dava sul suo giardino; vi andò e vi scorse il duca di Nemours. Sorpresa, si ritirò tanto velocemente
che il duca comprese di essere stato riconosciuto. Aveva sempre desiderato, da quando il suo amore
gli aveva fatto trovare questo espediente per vedere la principessa, di essere riconosciuto, e, quando
ne disperava, se ne andava a fantasticare in quel giardino dove la principessa lo aveva scorto.
Stanco, alla fine, di una condizione così disgraziata e incerta, risolse di tentare qualche cosa
per conoscere la sua sorte.
«Che cosa aspetto io mai?» si diceva. «Da gran tempo so di essere amato; ella è libera; non
può più oppormi il suo dovere. Perché ridurmi a vederla senza essere veduto e senza parlarle? È mai
possibile che l'amore mi abbia così completamente tolto la ragione e l'ardire e mi abbia reso così
diverso da quello che sono stato durante gli altri amori della mia vita? Ho dovuto rispettare il dolore
della principessa, ma l'ho rispettato troppo a lungo e le do il tempo di spegnere i sentimenti che ha
per me».
Dopo queste riflessioni, cominciò a pensare ai modi dei quali poteva valersi per vederla. Gli
parve che nulla più lo costringesse a nascondere al visdomino di Chartres il suo amore, e risolse di
parlargliene e di rivelargli le intenzioni che aveva verso sua nipote.
Il visdomino era allora a Parigi: tutti i signori della corte vi erano raccolti per mettere in
ordine il proprio equipaggio e il proprio corredo prima di seguire il re, che doveva accompagnare la
regina di Spagna. Il duca di Nemours si recò dunque dal visdomino e gli fece un'ampia confessione
di tutto quanto fino ad allora gli aveva nascosto, ad eccezione dei sentimenti della principessa di
Clèves, che non voleva mostrare di conoscere.
Il visdomino accolse la confessione con molta gioia e gli assicurò che, pur senza sapere dei
suoi sentimenti, aveva sovente pensato, da quando la principessa di Clèves era vedova, che fosse
quella la sola persona degna di lui. Il signor di Nemours lo scongiurò di dargli il modo di poterle
parlare onde sapere se ella fosse disposta in suo favore.
Il visdomino gli propose di condurlo da lei, ma il signor di Nemours ritenne che ella potesse
adontarsene, dato che non riceveva ancora nessuno. Convennero dunque che il visdomino l'avrebbe
pregata di venire da lui con qualche pretesto e che il duca di Nemours, per una scala segreta, perché
nessuno lo vedesse, vi si sarebbe pure recato. Tutto avvenne come essi avevano deciso. La
principessa arrivò ed il visdomino le andò incontro e la condusse in un salotto in fondo
all'appartamento; poco dopo, come portato dal caso, arrivò il signor di Nemours. La principessa di
Clèves fu estremamente colpita nel vederlo; arrossì e tentò di nascondere il suo rossore. Il
visdomino incominciò a parlare di cose indifferenti, poi uscì, dicendo di avere da impartire alcuni
ordini e pregò la principessa di fare gli onori di casa fino al suo ritorno.
Non è possibile descrivere quello che provarono il signor di Nemours e la principessa di
Clèves trovandosi soli e liberi per la prima volta di potersi parlare. Rimasero qualche attimo senza
dir nulla, infine il duca di Nemours, rompendo il silenzio:
- Perdonerete voi, signora, al visdomino di avermi dato l'occasione di vedervi e di parlarvi,
occasione che mi avete sempre così crudelmente negata?
- Non devo perdonargli - ella rispose - di avere obliato il mio stato e il pericolo a cui espone
la mia reputazione.
Nel pronunciare queste parole fece l'atto di andarsene, ma il duca la trattenne:
- Non avete nulla da temere, signora - la scongiurò, - nessuno sa che sono qui e nessuno può
sorprenderci. Ascoltatemi, ascoltatemi; se non per bontà, almeno per amore di voi stessa e per
evitare quegli eccessi ai quali fatalmente mi condurrebbe una passione che non sono più in grado di
dominare.
La principessa si arrese per la prima volta all'attrazione che sentiva per il duca e,
guardandolo con occhi pieni di dolcezza e di incanto, gli disse:
- Ma cosa sperate mai dalla condiscendenza che mi chiedete? Voi vi pentirete di averla
ottenuta e io mi pentirò di avervela accordata. Voi meritate una sorte migliore di quella che avete
avuto finora e di quella che potrete trovare in avvenire, a meno che non la cerchiate altrove.
- Io, signora, cercare altrove la felicità? - le rispose il duca di Nemours. - Può forse esistere
per me altra felicità che non sia quella di essere amato da voi? Sebbene non ve ne abbia mai parlato,
non posso credere che ignoriate il mio amore e che non sappiate che era e che è il più vero e
violento amore che mai vi sia stato. A quali prove, che voi nemmeno sapete, non è stato sottoposto?
E a quali prove non l'avete sottoposto voi stessa col vostro rigore?
- Poiché volete che vi parli e poiché io stessa decido di farlo - rispose la principessa
sedendosi, - lo farò con una sincerità che difficilmente potrete trovare in una persona del mio sesso.
Non vi negherò di avere veduto l'attaccamento che avete per me; e forse, se io ve lo negassi, voi
nemmeno lo credereste. Vi confesso, dunque, non solamente di averlo visto, ma di averlo visto
quale voi desideravate che mi apparisse.
- E se l'avete visto, signora - egli interruppe, - come è possibile che non ne siate commossa?
E, oserò io chiedervi, non ha fatto alcuna impressione sul vostro cuore?
- Avete potuto giudicarne dalla mia condotta; ma desidero sapere che cosa ne abbiate
pensato voi.
- Bisognerebbe che fossi in una più felice condizione per osare dirvelo - rispose il duca, - e
la mia attuale sorte è troppo diversa da ciò che vi direi. Tutto ciò che posso dirvi, signora, è che io
ho ardentemente sperato che non aveste confessato al principe di Clèves ciò che mi nascondevate e
che gli aveste nascosto invece ciò che dovevate confessare a me.
- Come avete potuto scoprire - riprese ella arrossendo - che ho confessato qualche cosa al
signor di Clèves?
- L'ho saputo da voi stessa - egli rispose, - ma, per perdonarmi l'ardire che ho avuto
ascoltandovi, ponete mente se mai abbia abusato di ciò che intesi o se le mie speranze se ne
accrebbero o se fui più ardito a parlarvi.
Egli incominciò a narrarle in qual modo avesse udito la sua conversazione col principe di
Clèves, ma prima che avesse terminato, ella lo interruppe.
- Non mi dite di più: ora capisco come potevate essere così bene informato; mi era già parso
che lo foste anche troppo quel giorno dalla delfina, che era venuta a conoscenza dell'avventura da
coloro ai quali l'avevate raccontata.
Il duca le spiegò allora come la cosa era avvenuta.
- Non discolpatevi. Da molto tempo io vi ho perdonato, senza che voi me ne diceste le
ragioni. Ma poiché avete appreso da me stessa ciò che avevo in animo di nascondervi per tutta la
vita, vi confesso che mi avete ispirato sentimenti che, prima di avervi veduto, mi erano sconosciuti
e dei quali avevo così poco sentore che nei primi tempi mi causarono una sorpresa che aumentava
vieppiù il mio sgomento. Vi faccio questa confessione con meno vergogna oggi, dal momento che
posso farvela senza commettere un delitto, e avete potuto constatare come la mia condotta non sia
stata ispirata mai dai miei sentimenti.
- E voi non pensate, signora, che io possa morire ai vostri piedi di gioia e di commozione? le rispose il duca gettandosi ai suoi piedi.
- Io non vi dico - gli rispose sorridendo - che ciò che sapevate anche troppo.
- Ah, signora, quale differenza saperlo ad opera del caso o sentirlo dire da voi stessa e
vedere che non vi dispiace che io lo sappia!
- È vero - ella disse, - voglio che lo sappiate e sappiate che provo dolcezza a dirvelo e che
non so nemmeno se lo dico per amore di me stessa o per amore vostro. Poiché questa confessione
non avrà seguito e io seguirò le regole austere che il mio dovere mi impone.
- Non dovete nemmeno pensarlo, signora; nessun dovere più vi lega, siete libera. E se osassi,
vi direi persino che dipende da voi fare in modo che il vostro dovere vi obblighi un giorno a
conservare i sentimenti che avete per me.
- Il mio dovere mi impone - replicò la principessa - di non pensare mai più a nessuno, e a voi
meno che a chiunque altro, per motivi che non potete conoscere.
- Forse conosco questi motivi, signora, ma essi non sono delle vere ragioni. Mi par di capire
che il principe di Clèves mi abbia creduto più fortunato di quanto in realtà non fossi, ed abbia
creduto che voi approvaste talune estrosità che, senza il vostro consenso, la passione mi ha fatto
commettere.
- Non parliamo di tali cose - ella gli rispose, - non posso nemmeno sostenerne il pensiero,
tanto questo mi fa vergogna e mi fa soffrire per le conseguenze che ha avuto. È vero che voi siete la
causa della morte del principe di Clèves; i sospetti che la vostra sconsiderata condotta gli ha ispirato
gli sono costati la vita, quasi voi stesso gliel'aveste strappata con le vostre mani. Considerate come
dovrei agire se voi foste giunti l'uno contro l'altro agli estremi e ne fosse seguita la stessa sventura.
So bene che agli occhi del mondo non è la stessa cosa; ma davanti ai miei occhi non v'è differenza
alcuna, poiché io so che è per voi che egli è morto e a causa mia.
- Ah, signora, quale fantasma di dovere contrapponete alla mia felicità? E che? Un pensiero
vano e senza fondamento alcuno potrà impedirvi di rendere felice un uomo che pure vi è caro? E
che? Avrei forse potuto concepire la speranza di passare la mia vita con voi; il mio destino mi
avrebbe spinto ad amare la persona al mondo più degna di stima; avrei visto in lei tutto ciò che si
può desiderare in una adorabile amante; e lei stessa non mi avrebbe odiato e io avrei visto ancora
nella sua condotta tutto ciò che si può desiderare in una moglie? Perché infine, signora, voi siete
forse la sola persona al mondo nella quale queste due cose si siano mai trovate unite a tal grado;
tutti coloro che sposano, riamati, le loro amanti tremano sposandole e guardano con timore, a
riguardo degli altri, alla condotta che esse hanno tenuto verso di loro; ma in voi, signora, nulla è da
temere e non vi sono altri motivi che quelli dell'ammirazione. Avrei dunque sperato una così grande
felicità solo per vederla ostacolata proprio da voi? Ah, signora, voi dimenticate che mi avete scelto
fra tutti gli altri uomini. Oppure no. Voi non mi avete scelto: voi vi siete ingannata, io mi sono
illuso.
- Non vi siete illuso - ella rispose; - le ragioni del mio dovere non mi sembrerebbero forse
tanto forti senza quella scelta di cui voi sembrate dubitare e che mi fa temere delle sventure se mi
legassi a voi.
- Quando mi dite che temete sventure, non posso rispondervi. Ma vi confesso che non mi
aspettavo di urtare contro una ragione così crudele, dopo tutto ciò che avete voluto dirmi.
- È così poco crudele per voi - riprese la principessa di Clèves - che compio persino uno
sforzo per dirvelo.
- Ah, signora, come potete temere di lusingarmi troppo, dopo tutto ciò che mi avete detto?
- Voglio continuare a parlarvi con la stessa sincerità con la quale ho incominciato - ella
riprese, - e passerò sopra a tutto il ritegno, a tutte le delicatezze che dovrei impormi in una prima
spiegazione: ma, vi prego, ascoltatemi senza interrompermi.
«Credo di dovervi, in cambio del vostro affetto, la lieve ricompensa di non nascondervi
nulla dei miei sentimenti, di mostrarveli quali sono. Sarà l'unica volta nella mia vita che mi
concederò di lasciarveli vedere; e tuttavia vi devo confessare, non senza vergogna, che la certezza
di non essere più amata da voi come ora lo sono mi pare una così orribile sventura che, se non
avessi ragioni insormontabili di dovere, non so se avrei la forza di espormi a tale sventura. Io so che
voi siete libero, che io pure lo sono e che le cose sono poste in modo siffatto che la gente non
avrebbe nessun argomento per biasimarvi e neppure biasimerebbe me, qualora ci unissimo per la
vita. Ma gli uomini poi conservano l'amore quando si legano per sempre? Posso sperare un
miracolo a mio favore e posso mettermi nella situazione di vedere certamente finire questo amore
nel quale riporrei tutta la mia felicità? Il principe di Clèves era forse il solo uomo capace di
conservare l'amore nel matrimonio. Il destino ha voluto che io non sapessi approfittare di questa
felicità; anzi questo suo amore probabilmente sussisteva perché non trovava rispondenza in me.
Non avrei, però, lo stesso mezzo per conservare l'amore vostro; credo anzi che siano stati gli
ostacoli a fare la vostra costanza: ne avete incontrati abbastanza per essere spronato a vincere; e le
mie azioni involontarie e tutto ciò che il caso vi ha fatto conoscere vi hanno dato speranza
sufficiente per non stancarvi».
- Ah, signora - la interruppe un'altra volta il duca, - mi è impossibile conservare il silenzio
che mi avete imposto. Troppo mi fate ingiustizia e troppo mi mostrate che siete lungi dall'essere ben
disposta verso di me.
- Confesso - ella rispose - che le passioni possono guidarmi, ma mai accecarmi. Nulla può
impedirmi di constatare che voi siete nato con tutte le disposizioni per la vita galante e tutte le
qualità necessarie per ottenere successo. Avete già avuto parecchi amori, altri ancora ne avrete; io
non farei più la vostra felicità. Vi vedrei essere per un'altra quale siete stato per me. Ne proverei un
mortale dolore e non sarei nemmeno certa di non soffrire di gelosia. Vi ho detto troppe cose per
tacervi che già me l'avete fatta sentire: la sera in cui la regina mi dette quella lettera della signora di
Thémines, che si diceva diretta a voi, ho sofferto pene così crudeli da rimanermene un ricordo
sufficiente a farmi giudicare la gelosia il più grande dei mali. Per vanità o per piacere tutte le donne
desiderano attrarvi; e quelle a cui non piacete sono ben poche; la mia esperienza poi mi fa ritenere
che non ve ne sia alcuna da cui voi non riuscireste a farvi amare. Vi crederei sempre innamorato e
amato e so che non mi ingannerei. In questo stato non potrei fare altro che soffrire, e non so neppure
se oserei lamentarmi. Si possono fare dei rimproveri ad un amante; ma si possono forse fare ad un
marito, quando non si abbia altro da rimproverargli che di non amare più? E quand'anche potessi
abituarmi a un tal genere di sventura, potrei forse abituarmi a quella di vedere il fantasma del signor
di Clèves accusarvi della propria morte, rimproverarmi di avervi amato, di avervi sposato e farmi
sentire la differenza tra il suo affetto e il vostro? È impossibile - continuò - passare sopra a ragioni
tanto forti; bisogna che io rimanga nello stato in cui mi trovo e nella risoluzione che ho preso di non
uscirne mai.
- Credete voi di poterlo fare, signora? - esclamò il duca di Nemours. - Credete che le vostre
risoluzioni possano resistere contro un uomo che vi adora e che è abbastanza fortunato da piacervi?
Resistere a colui che ci piace e che ci ama è più difficile di quanto pensiate, signora. Voi l'avete
fatto per ubbidire ad una virtù austera e quasi senza precedenti, ma questa virtù oggi non si oppone
ai vostri sentimenti, e io spero che malgrado tutto voi li ascolterete.
- So che nulla è più difficile di quanto sto per intraprendere - rispose la principessa, - e
diffido delle mie forze malgrado le mie ragioni. Ciò che credo mio dovere verso la memoria del
principe di Clèves sarebbe debole cosa se non fosse sostenuto dall'interesse per la mia pace; e le
ragioni della mia pace hanno bisogno di essere sostenute dalle ragioni del mio dovere. Ma, sebbene
diffidi di me stessa, credo che non vincerò mai i miei scrupoli come non spero di vincere mai i
sentimenti che ho per voi. Questi mi faranno infelice, ed io mi priverò della vostra vista, qualunque
sia la violenza che dovrò fare al mio cuore. Vi scongiuro, per tutto il potere che ho sopra di voi, di
non cercare nessuna occasione per vedermi. Nel mio stato diventa colpa tutto quello che in altro
momento potrebbe essere lecito, e anche le convenienze vietano ogni rapporto tra noi.
Il duca di Nemours si gettò ai suoi piedi, dando libero sfogo ai sentimenti che agitavano il
suo animo. Le dimostrò con le parole e con le lacrime il più vivo e tenero amore da cui mai cuore
d'uomo sia stato preso. Il cuore della principessa non era meno sensibile e, guardando il duca con
gli occhi gonfi di lacrime:
- Perché - ella gridò - è destino che io vi accusi della morte del principe di Clèves? Perché
mai non vi ho conosciuto solo quando sono rimasta libera; oppure perché non vi ho conosciuto
prima che mi impegnassi? Perché la sorte ci divide con ostacoli tanto invincibili?
- Non vi è nessun ostacolo, signora - riprese il duca. - Voi sola vi opponete alla mia felicità;
voi sola vi imponete una legge che né virtù né ragione potrebbero imporvi.
- È vero - ella replicò - che sacrifico molto ad un dovere che esiste solo nella mia
immaginazione. Aspettate ciò che potrà fare il tempo. Il signor di Clèves è appena spirato e questa
funesta circostanza è troppo vicina per lasciarmi una visione chiara e nitida. Abbiate pertanto la
consolazione di esservi fatto amare da una persona che non avrebbe amato mai se non vi avesse
incontrato; credete che il sentimento che ho per voi sarà eterno; credete che continuerà ad esistere
qualunque cosa io faccia. Addio - ella gli disse; - questo colloquio mi mette a disagio; riferitelo al
signor visdomino, ve ne autorizzo, anzi ve ne prego.
Ella uscì dicendo queste parole senza che il signor di Nemours potesse trattenerla. Nella
camera attigua trovò il visdomino. Egli la vide così turbata che non osò parlarle e la riaccompagnò
alla carrozza senza dire parola. Se ne tornò quindi dal signor di Nemours, che trovò così pieno di
gioia, di tristezza, di stupore, di ammirazione, di tutti i sentimenti che può dare una passione piena
di tutti i timori e di tutte le speranze, da essere quasi senza l'uso della ragione. Il visdomino durò
fatica ad ottenere che gli riferisse la conversazione avuta con la principessa; quando alla fine vi
riuscì, il signore di Chartres, pur non essendo innamorato, non ebbe minore ammirazione per la
virtù, l'anima e il coraggio della signora di Clèves di quanta non ne avesse il duca. Insieme presero
ad esaminare che cosa il duca potesse sperare dalla propria sorte; e per quanti timori il suo amore
potesse ispirargli, egli fu d'accordo con il visdomino che era impossibile che la signora di Clèves
rimanesse nel suo proposito. Convennero tuttavia che era opportuno seguire gli ordini di lei ed
evitare il pericolo che, accorgendosi la gente del loro amore, ella non fosse tratta a fare
dichiarazioni e prendere verso il mondo impegni che poi avrebbe dovuto mantenere, nel timore di
far credere di avere amato il signor di Nemours fin da quando suo marito era vivo.
Il signor di Nemours decise di seguire il re. Era un viaggio al quale ben difficilmente
avrebbe potuto sottrarsi e decise di partire senza tentare di rivedere la principessa di Clèves,
nemmeno da quel luogo dove l'aveva così sovente contemplata. Pregò il visdomino di parlarle; che
cosa non gli disse mai perché glielo riferisse? E quali infiniti argomenti per persuaderla ad
abbandonare i suoi scrupoli! Infine gran parte della notte era trascorsa, prima che il duca di
Nemours si risolvesse a lasciare riposare l'amico.
Chi non era in grado di riposare era la principessa di Clèves; era cosa per lei tanto nuova
essere uscita per la prima volta dal riserbo che si era imposta, avere per la prima volta nella sua vita
accettato che qualcuno le dicesse di essere innamorato di lei ed avere ella stessa confessato di
amare, che non si riconosceva più. Era piena di stupore per quello che aveva fatto; se ne pentiva e
l'attimo dopo ne era felice: la sua anima era piena di turbamento e di passione. Ancora una volta
passò in rassegna tutte le ragioni del dovere che si opponevano alla sua felicità; con dolore sentì che
erano valide e si rammaricò di averne parlato al duca di Nemours. Sebbene l'idea di sposare il duca
le fosse venuta non appena lo aveva intraveduto in quel giardino, non ne era rimasta tanto
impressionata come dalla conversazione che aveva avuto con lui, e in certi momenti le riusciva
difficile immaginare che sarebbe stata infelice sposandolo. Avrebbe voluto poter dire a se stessa che
si era ingannata sia con i suoi scrupoli sul passato sia con i suoi timori per l'avvenire. In altri
momenti ancora, ragione e dovere le mostravano le cose in maniera del tutto differente e la
riportavano ben presto alla determinazione di non sposarsi mai più e di non rivedere mai più il duca
di Nemours. Ma era una decisione ben crudele da prendere per un cuore innamorato come il suo e
da così poco tempo preda degli incanti d'amore. Alla fine, per avere un po' di calma, si mise a
pensare che non era affatto necessario per il momento che si sforzasse di prendere una decisione: le
stesse esigenze della convenienza le davano ancora gran tempo per decidere; tuttavia, rimase salda
nella decisione di non avere alcun rapporto col duca di Nemours. Il visdomino andò a trovarla e
difese la causa del suo amico con tutte le sue risorse e con tutto il calore possibile, ma non riuscì a
smuoverla dalla linea di condotta che si era imposta, né da quella che aveva imposto al duca di
Nemours. Ella gli disse che intendeva rimanere nello stato in cui si trovava; che sapeva benissimo
quanto questa condotta fosse difficile da attuare, ma che sperava di averne la forza. Gli dimostrò
così bene quanto fosse fissa nell'idea che il duca di Nemours fosse la causa della morte di suo
marito e quanto fosse persuasa di andare contro il proprio dovere sposandolo, che il visdomino ebbe
timore di non riuscire mai più a liberarla da quell'incubo. Egli, riferendo al duca il suo colloquio con
la principessa di Clèves, non gli disse i suoi timori, ma gli lasciò quella speranza che
ragionevolmente va data ad un uomo che è amato.
Partirono il giorno seguente ed andarono a raggiungere il re. Il visdomino scrisse alla
principessa su preghiera del signor di Nemours, onde parlarle di lui; e in una seconda lettera, che
doveva seguire ben presto a questa prima, il signor di Nemours aggiunse qualche riga di suo pugno.
Ma la principessa, che non voleva uscire dalle regole che si era imposta e che paventava i guai che
per causa di una lettera possono sempre accadere, fece sapere al visdomino che non avrebbe più
ricevuto le sue, se egli continuava a parlare del signor di Nemours; e si espresse con tanta decisione
che il duca stesso pregò il visdomino di non nominarlo nemmeno più.
La corte si recò ad accompagnare la regina di Spagna fino al Poitou. Durante questa assenza,
la principessa di Clèves rimase sola con se stessa e, via via che ella si sentiva più lontana dal duca
di Nemours e da tutto quello che poteva ricordarglielo, le tornava il ricordo del signor di Clèves,
ricordo che era per lei quasi un punto d'onore. Le ragioni che si dava per non sposare il duca erano
forti dal lato del dovere ed insormontabili dal lato della propria pace. La fine dell'amore e i mali
della gelosia, due cose che credeva inevitabili nel matrimonio, le facevano intravedere abissi di
dolore; ma nello stesso tempo capiva che era impresa disperata resistere all'uomo più seducente del
mondo, che amava e dal quale era riamata, e resistergli per cosa che non offendeva né la virtù né la
convenienza. Ella pensò che solo l'assenza e la lontananza potevano darle qualche forza; si disse
che ne aveva bisogno, non solo per tenersi salda nella decisione di non impegnarsi, ma anche per
impedire a se stessa di rivedere il signor di Nemours, e risolse di fare un viaggio piuttosto lungo,
onde trascorrere viaggiando tutto il periodo di tempo che l'etichetta le imponeva di passare
nell'isolamento. Talune grandi terre che possedeva verso i Pirenei le parvero il luogo più adatto.
Partì qualche giorno prima del ritorno della corte; e partendo scrisse al visdomino per scongiurarlo
di non cercare di avere sue notizie né di scriverle.
Il duca di Nemours fu afflitto da questo viaggio come altri lo sarebbe stato per la morte di
un'amante. Il pensiero di restare per lungo tempo privo della vista della principessa era per lui un
dolore vivissimo, specie ora che sapeva quale gioia fosse vederla, e vederla turbata dal suo amore.
Eppure non poteva fare altro che affliggersi e la sua afflizione andò sempre aumentando.
La principessa di Clèves, dopo tante agitazioni, appena giunta nelle sue terre, cadde
gravemente ammalata. La notizia si seppe a corte. Il duca di Nemours era inconsolabile e il suo
dolore arrivava alla disperazione e alla stravaganza. Il visdomino ebbe un gran da fare per
impedirgli di mostrare in pubblico la sua passione; e molto da fare ebbe anche per trattenerlo e
distoglierlo dal partire e recarsi lui stesso a prendere notizie della principessa. La parentela e
l'amicizia del visdomino furono di pretesto per mandare molti corrieri; e un giorno finalmente si
seppe che ella era fuori da quel gran pericolo; ma restò in uno stato di languore che lasciava ben
poca speranza per la sua vita.
Il vedere tanto a lungo e tanto vicina la morte fece considerare alla principessa le cose di
questo mondo con occhio diverso da quello con cui si vedono quando si è sani. Il pensiero della
ineluttabilità della morte, che vedeva così vicina, l'abituò a staccarsi da tutto e la lunga durata della
malattia gliene diede la consuetudine. Quando fu guarita, si accorse però che il signor di Nemours
non era cancellato dal suo cuore; per difendersene chiamò in soccorso tutti i motivi che riteneva di
avere per non sposarlo mai, e una violenta battaglia si combatté nel suo animo. Finalmente, ella
superò gli ultimi residui di quell'amore, reso già debole dai sentimenti sorti in lei durante la sua
infermità. Il pensiero della morte l'aveva riavvicinata alla memoria del signor di Clèves. Questo
ricordo, così in accordo col suo dovere, le si impresse fortemente nel cuore; le passioni e i legami
del mondo le apparvero come appaiono a coloro che hanno mete più vaste e più lontane. La sua
salute, che continuava ad essere assai precaria, l'aiutò a serbare tali sentimenti, ma, conoscendo
quale potere possano avere le occasioni sui proponimenti più saggi, non volle esporsi a distruggere i
propri tornando nei luoghi dove era colui che aveva amato. Col pretesto di cambiare aria, si ritirò in
una casa di religiose, senza tuttavia far sapere il suo fermo proposito di rinunciare alla corte.
Alla prima notizia che ne ebbe, il signor di Nemours sentì tutto il peso di questo ritiro e ne
capì l'importanza. Immediatamente si rese conto di non avere più nulla da sperare; tuttavia la fine
delle sue speranze non gli impedì di porre in atto tutti i mezzi possibili per far tornare la principessa.
Le fece scrivere dalla regina, le fece scrivere dal visdomino, ve lo fece andare di persona; tutto fu
inutile. Il visdomino la vide e lei non gli parlò delle sue decisioni, ma questi capì che non sarebbe
mai tornata a corte. Infine, col pretesto di andare a certe acque, il duca vi si recò di persona. Ella fu
oltremodo turbata dall'annuncio del suo arrivo. Gli fece dire da una persona degna e cara, che
viveva in quel momento con lei, che lo pregava che non trovasse strano se lei non voleva esporsi al
pericolo di vederlo e distruggere così con la sua presenza quei sentimenti che lei voleva conservare;
che voleva che egli sapesse come, avendo riconosciuto che il suo dovere e la sua pace si
opponevano alla inclinazione che aveva per lui, tutte le altre cose del mondo le erano parse così
indifferenti che vi aveva rinunciato per sempre; che oramai il suo pensiero era rivolto unicamente
alle cose della vita futura e che un solo sentimento le rimaneva, ed era quello di sapere anche lui
nelle medesime disposizioni d'animo. Il signor di Nemours credette di morire di dolore dinanzi a
colei che gli parlava. Venti volte la scongiurò di ritornare dalla principessa per fare in modo che egli
la potesse vedere; ma quella gli disse che la principessa le aveva proibito non solo di ripeterle
alcuna cosa da parte di lui, ma persino di riferirle la loro conversazione. Fu necessario alla fine che
il duca riprendesse la via del ritorno, oppresso dal dolore come può esserlo un uomo che perda ogni
speranza di vedere colei che ama del più violento, del più sincero, del più profondo amore. Tuttavia,
ancora non si arrese e mise in atto tutto ciò che poteva immaginare potesse far cambiare proposito
alla principessa di Clèves. Finalmente, quando interi anni furono passati, il tempo e l'assenza
attenuarono il suo dolore e il suo amore. La principessa di Clèves viveva in modo che non dava
adito a pensare che sarebbe mai tornata. Passava una parte dell'anno nella casa delle religiose, l'altra
parte nelle sue terre, in grande solitudine e in occupazioni più sante di quelle dei più austeri
conventi; e la sua vita, che fu abbastanza breve, lasciò esempi di virtù inimitabile.