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editoriale Un compito sempre nuovo È il tempo della persona quello che stiamo vivendo: tempo nel quale la libertà della persona è chiamata a giocarsi, tempo nel quale l’io si trova a venire allo scoperto nella vita quotidiana, perché la vita quotidiana deve affrontare la sfida di una realtà così pesante, di una crisi così totale, che altre uscite non ci sono. Dobbiamo tornare all’essenza, al cuore di quello per cui vale la pena di vivere e di quello che ci rende per grazia irriducibili a quanto sta accadendo. L’esperienza della Russia, ancora una volta, può esserci d’aiuto, nella coscienza dei suoi poeti di un tempo: «In tutto io desidero giungere / all’essenza: / nel lavoro, nel cercare la via, / nella discordia del cuore. / All’essenza dei giorni trascorsi, / alle cause loro, / alle basi, alle radici, / al nucleo», diceva Pasternak. Ma ci è d’aiuto, l’esperienza della Russia, anche nella coscienza dei suoi poeti di oggi: quello che sta accadendo nel movimento dell’opinione pubblica che marcia e inventa ogni giorno nuove occasioni e nuove forme per far sentire la propria voce non è né una semplice protesta politica né una banale carnevalata di chi non sarebbe capace di una vera opposizione; «L’essenza del carnevale – ha detto Ol’ga Sedakova – sta nel fatto che chi vi partecipa si aliena, non è “se stesso” ma una maschera. Il carnevale è una fuga dalla propria “identità etica”, dalla propria “identità responsabile”. Quello che più mi piace delle nostre marce, invece – continua la poetessa –, è proprio che si tratta di un movimento opposto al carnevale, la gente 2 non si nasconde ma si apre: a se stessa, agli altri e allo spazio pubblico. È stata una gioia reciproca. Le rivendicazioni delle marce non erano di tipo economico, politico in senso stretto, ma etico. La gente non si proponeva di ridistribuire i beni, di ottenere un aumento delle pensioni, ecc. Voleva un’altra cosa: essere presa in considerazione». Io ci sono, irriducibile; non in attesa che arrivino momenti migliori, non perché una consolazione nascosta nel cuore mi permette di chinare la testa e tirare avanti, ma perché adesso porto dentro di me qualcosa che mi fa e mi rende irriducibile a tutto quello che posso fare e mi possono fare. «Non muoio neanche se mi ammazzano», diceva Giovannino Guareschi descrivendo il proprio atteggiamento in un campo di concentramento tedesco e lasciando alla gente della sua Emilia e a tutti noi l’esperienza di una vittoria della vita possibile sempre: possibile perché, continuava Guareschi nel suo Diario clandestino, «l’uomo è fatto così, signora Germania: di fuori è una faccenda molto facile da comandare, ma dentro ce n’è un altro e lo comanda soltanto il Padre Eterno». Quando i cristiani parlano di questa dimensione della persona e di questo modo di reagire alla sfida della realtà non invitano a tirare avanti e a sopportare quello che accade, in nome di una fede sentimentale in un qualche lontano cielo beato; non parlano in nome di una fede che è vissuta accanto alle cose e le lascia sostanzialmente irredente perché riduce L A N U O V A E U R O P A 3 • 2 0 1 2 editoriale Cristo stesso a una cosa accanto alle altre; non riducono in tal modo il cristianesimo a una delle tante religioni consolatorie che popolano la storia dell’umanità. Come ci ricorda in questo numero padre Aleksandr Šmeman, quello che i cristiani offrono al mondo non va inteso appunto alla stregua di una religione consolatoria: «Gli antichi cristiani non chiamavano la loro fede “religione”, bensì lieto annunzio, e vedevano la propria missione nel mondo nell’annunciare e diffondere questa novella. Gli antichi cristiani sapevano e credevano che la resurrezione di Cristo non è semplicemente il motivo di una celebrazione annuale, ma la fonte della forza e della trasfigurazione della vita». Ma se quello che Cristo offre non è una fuga da questo mondo bensì la sua trasfigurazione, questa prospettiva non va intesa neppure come una lotta, come la lotta per qualcosa che ci è dovuto e dobbiamo ancora conquistare o riconquistare: diritti, libertà, giustizia, pane. Non è che non dobbiamo cercare tutto questo, anzi, non ne possiamo fare a meno, ma non perché ci è dovuto e potremo forse ottenerlo in qualche lontano futuro, se saremo forti o se il cielo o i potenti saranno generosi, bensì perché ci è stato donato nell’atto stesso della creazione che ha tratto noi stessi e tutto l’universo dal nulla. Come è possibile questo? Che forza occorre per fare questo? La risposta dei cristiani vale per tutti gli uomini, è una questione di ragione: l’uomo è fatto per questo; se la ragione funziona secondo la sua misura autentica, se guarda le cose per quello che sono e va al di là delle apparenze superficiali, questo diventa evidente: le cose e l’uomo portano dentro di sé la misura infinita del loro Creatore. E allora il cielo, ci ricorda ancora padre Šmeman, non va inventato, sognato o cercato; come diceva san Giovanni Crisostomo , «che bisogno ho del cielo, quando io stesso divento cielo»? Ancora una volta il modello che il cristianesimo offre non è quello di una lotta e di una forza tutte umane disposte a distruggere tutto, bensì quello di Cristo che per amore accetta di divenire sulla croce «un Uomo senza potere, senza resistenze, senza nessun tipo di forza terrena. Un uomo solo! Abbandonato, tradito, respinto da tutti». Ma questo uomo solo vince e comunica questa vittoria; ancora una volta non come una cosa che resta accanto alle altre o che va conquistata, bensì come qualcosa che si offre con lo stesso metodo: si offre a chi ama Cristo sino a farsi una sola cosa con Lui come Lui ha fatto con l’uomo. E allora noi ritroviamo la misura vera della ragione, la trasfigurazione di tutto il creato, la trasformazione della nostra vita mortale e della nostra terra nel cielo e nella vita del Risorto, come era successo a chi era rimasto ai piedi della croce: non sapevano e non capivano nulla, quella morte era un oltraggio e una fine senza ritorno, ma «rimasero ai piedi della croce solo perché amavano Gesù. Ed è proprio questo amore – conclude padre Šmeman – a venire a sapere per primo della vittoria; a questo amore, a questa fedeltà per primi viene concesso di sapere che non bisogna più piangere». E questo vale per noi oggi come sotto la croce, per tutti gli uomini che non credono più in nulla, come per i primi cristiani. L A N U O V A E U R O P A 3 • 2 0 1 2 3