XXXI - Il rifugio di Andolla e il Passo Andolla

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XXXI - Il rifugio di Andolla e il Passo Andolla
XXXI
Il Rifugio Andolla ed il Passo Andolla
C
on Battarini e Carcassi, i due sardi, venni comandato ad effettuare il primo servizio di 72 ore, di appostamento al passo Andolla; il ruolo di
capo pattuglia spettava a Battarini perché era il commilitone
più anziano. A me tale incarico non toccava mai perché appartenevo all’ultimo corso finito a dicembre e quindi ero, fra tutti,
il più giovane di servizio.
Fu una felice scelta da parte del comandante perché avevo consolidato un buon rapporto di amicizia con questi due
giovani isolani. Nella nostra piccola comunità erano rappresentate diverse regioni italiane ed io avevo stabilito discreti
rapporti con tutti, però quelli con i quali mi trovavo più a mio
agio, erano propri i due sardi. Con Franco Carcassi avevo anche iniziato a frequentare casa Moroni e avevo condiviso
l’interessante viaggio a Milano con il Cral Edison. All’inizio
della loro conoscenza ci furono delle incompatibilità e qualche
frizione, ma poi in breve tutto fu superato e una duratura amicizia si fece strada tra noi.
I due sardi andavano più d’accordo con me che direttamente tra di loro. Quando discutevano, e ciò capitava spesso,
passavano rapidamente a parlare in dialetto stretto e dal tono
della voce e dalle facce, capivo che si indirizzavano offese irripetibili. Con me invece dovevano necessariamente utilizzare
l’italiano e le discussioni non raggiungevano mai toni accesi.
Una volta mi spaventai. La lite tra loro due, oltre a sfociare in epiteti dialettali, prese una piega tale che passarono allo scontro fisico. Non si presero a pugni, come solitamente fa225
cevo io quando litigavo con qualche mio compagno, ma ebbero lo stesso comportamento dei caproni quando lottano tra di
loro. Prendevano la rincorsa e poi con le braccia diritte lungo il
corpo spiccavano un salto tentando di colpire l’avversario con
testate sulla faccia. Proprio come fanno i maschi delle capre
quando lottano per il possesso delle femmine. Ebbi paura, perché una testata sul naso o su un occhio avrebbe avuto conseguenze devastanti. Mi intromisi e riuscii a separarli a fatica ed
a rischio di beccarmi una “capocciata”. Ma in seguito, anche
tra di loro la fase di ambientamento venne superata agevolmente e nel nostro gruppo si stabilì una sana e buona armonia.
Il pomeriggio precedente l’inizio del servizio, facemmo rifornimento di viveri per i tre giorni presso il negozio Zana, spolverammo lo zaino, il sacco a pelo e una coperta e verificammo lo stato di efficienza delle armi che dovevamo portare con noi. Andammo a letto di buon’ora perché la partenza
era fissata per le sei.
Il primo tratto di circa cinque chilometri era comodo da
percorrere perché era quasi interamente lungo la carreggiabile
sterrata per la località di Cheggio. Qui era costruita una diga
della Edison che creava il lago delle Alpi dei Cavalli, e dalla
quale partivano le condotte forzate per alimentare la centrale
elettrica di Rovesca. L’Alpe dei Cavalli era chiamata così perché, nei primi decenni del 1700, gli abitanti di quella contrada
misero a disposizione una parte dei loro alpeggi per la raccolta
del fieno destinato ad alimentare gli equini impiegati per il
traffico commerciale della Strada Antronesca.
Il pianoro di Cheggio era punteggiato da un buon numero di baite in pietra isolate, ed un folto gruppo di case si
trovava proprio alla stessa altezza del lago, intorno ad una piccola e graziosa chiesetta, anch’essa in pietra, con un alto e
spiovente campanile. Questa esile cappella a unica navata, capace di contenere non più di cinquanta parrocchiani, era dedicata a San Bernardo da Mentone, uno dei santi più noti in tutto
il mondo cristiano e protettore degli alpigiani e degli alpinisti.
Prima della diga, sulla destra, c’era una villetta costruita di recente per dare alloggio ai custodi che a turno vigilavano
durante tutto l’arco dell’anno. Lungo la diga era consentito il
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passaggio pedonale che portava al lato opposto, verso ponente,
dove correva un tortuoso sentiero per il Passo Andolla. Sul foglio di servizio era previsto che il primo giorno e la prima notte fosse da noi impiegata per un appostamento qui nella boscaglia, al fine di controllare i movimenti di persone su questo
tratto. Depositammo lo zaino e il sacco a pelo nei pressi di una
malga costruita in un punto sopraelevato da dove con le armi
in pugno, potevamo agevolmente controllare il passaggio per
l’espletamento del nostro servizio.
Arrivammo presto e la giornata era ancora lunga, anche
se tra noi giovani non mancavano frequenti battute, scherzi e
lunghe conversazioni che inevitabilmente ci portavano a parlare della nostra vita prima di indossare le stellette. Il silenzio e
la quiete di quel posto consentiva alla fauna locale di uscire
all’aperto indisturbata in cerca di erba fresca da brucare. Pertanto non era infrequente intravedere tra gli alberi le simpatiche code di piccoli scoiattoli oppure coppie di caprioli e cervi
al pascolo. Dall’alto ci giungevano anche tenui e lunghi fischi
di marmotte dal folto pelo marrone e dalla coda tozza e paffuta
(Foto n. 28).
All’ora di pranzo ognuno estrasse dallo zaino le provviste per consumare frettolosamente la merenda. Io, oltre alle
solite scatolette di carne Simmenthal, di tonno Nostromo, pezzi di formaggio locale e qualche quadratino di cioccolato, mi
ero provvisto anche di un pacchetto di zollette di zucchero e di
una bottiglia di liquore “Doppio Kummel”. Perché? Perché sapevo che intorno ai 1400/1500 metri di altezza la zona abbondava di gustosi mirtilli che crescevano a grappoli all’ombra
delle piante cespugliose nascoste lungo i margini dei boschi.
Mi ero portato anche una grossa ciotola che dopo un breve giro, riempii di turgide e fresche bacche blu-violacee, come il
colore del cielo in quel momento. Aggiunsi alcune zollette di
zucchero ed un sorso di liquore, ottenendo un profumato e prelibato dessert di “sottobosco”, che mangiai avidamente insieme ai miei amici.
Dalla nostra posizione avevamo il controllo di tutto il
bacino delle Alpi dei Cavalli e riuscivamo anche a controllare i
passaggi lungo un quasi impraticabile sentiero che si inerpica227
va sulla montagna di fronte. Il lago era azzurro cupo e nel suo
specchio si affacciavano, riflettendosi, i boschi di abeti e larici
che lo circondavano.
Eravamo a circa 1.500 metri di altitudine e la vista era
spettacolare. Sulla destra la diga e la visione dei tetti delle
malghe di Cheggio, sovrastati dal campanile della chiesetta e
di fronte il grande e colorato bacino lacustre con la montagna
quasi a strapiombo che costeggiava il lato orientale; a occidente la parte alta del lago, dove entrava con un piccolo estuario il
torrente Loranco, proveniente dal Passo Andolla. Il torrente si
riformava nuovamente dopo la diga mantenendo sempre lo
stesso nome, sino a congiungersi verso valle, dopo il paese di
Antrona con il Troncone, per formare all’altezza della frazione
di Rovesca il consistente fiume Ovesca che percorreva tutta la
Valle sino a Villadossola dove si scaricava violento e tumultuoso nel più largo e calmo Toce. Avevamo ormai chiara la
nostra posizione e conoscevamo sino in fondo l’orografia del
bacino sotto controllo. In breve il sole si nascose dietro l’alto
Pizzo Andolla di 3656 metri e incominciò a calare la sera.
All’imbrunire notammo un leggero bagliore sulla
sponda in fondo al lago, in prossimità dell’estuario del Loranco. Più diveniva buio e più aumentava il chiarore che si rispecchiava nell’acqua e un filo di fumo si innalzava verso il cielo.
Infine col buio si notò anche un certo movimento di persone,
che ci indusse, dopo una breve concertazione, ad andare a verificare di cosa si trattasse.
Erano passate le sette di sera e per lo spostamento non
ci fidammo ad attraversare i boschi che non conoscevamo bene e tanto meno l’incerto sentiero, tenuto presente che si andava verso la notte e che le condizioni atmosferiche a quella quota potevano mutare rapidamente. Al mattino, mentre attraversavamo la diga, avevamo notato ormeggiata in un angolo, una
barca a remi, probabilmente tenuta lì per eventuali necessità
dei guardiani della Edison. Senza riflettere troppo e con l’idea
fissa di andare a verificare cosa ci fosse sulla riva all’altro capo del lago, prendemmo la barca ed iniziammo a vogare nella
direzione dei bagliori e del fumo. A mano a mano che ci avvicinavamo si scorgevano più chiare due figure che si muoveva228
no indaffarate intorno ad un fuoco ed alle loro spalle una tenda
“canadese”, piazzata al riparo sotto gli abeti.
Erano due uomini, vestiti in modo sportivo, entrambi di
età intorno alla cinquantina, intenti a bruciare fasci di legna
all’interno di una specie di braciere ricavato con pietre. Sulla
brace era appoggiata una padella che serviva a cuocere le trote
pescate nel lago durante la giornata; dal lato opposto del braciere, in una pentola, cuoceva la farina di granturco e uno di
loro la rimestava continuamente, in attesa che diventasse polenta.
Scendemmo dalla barca sorpresi di trovare in piena solitudine quei due uomini, intenti a prepararsi da mangiare. Ci
presentammo velocemente e, mentre i due continuavano nei
loro compiti, ci venne riferito che erano due cittadini di Varese
che ogni anno ritornavano per dieci giorni a bivaccare in quella posizione per concedersi un periodo di riposo. Ci dissero di
essere due impresari proprietari di due sale cinematografiche
nella loro città e che avendo scoperto quel luogo delizioso e
tranquillo diversi anni addietro, se ne erano talmente innamorati che ripetevano l’esperienza puntualmente ogni anno verso
la fine di giugno.
Questa vacanza, oltre a consentire loro un periodo di
riposo fisico, gli permetteva pure di praticare una ferrea dieta
alimentare, per alleggerirsi dei pesanti pasti della città. Si trascinavano dietro il quantitativo necessario per l’intero periodo
di vacanza di farina di mais, una sufficiente scorta di bottiglioni di vino e due lunghe canne per la cattura delle trote, di cui il
lago era ricco. Il burro, per condire la polenta e per friggere il
pesce e il latte per la colazione mattutina, lo comperavano da
alpigiani che si trovavano con i loro armenti in una malga situata poco distante da loro, più in alto.
Mentre parlavamo la polenta fu cotta e le trote rosolate
ed i due personaggi, con i quali avevamo preso confidenza, ci
invitarono a sederci per terra a fianco a loro e ad assaggiare la
bontà del loro pasto salutare e genuino. Noi che avevamo
mangiato asciutto sia a mezzogiorno che la sera prima di muoverci dalla nostra postazione, accettammo dopo una finta resistenza e così la nostra sosta si prolungò sino a notte fonda, do229
po avere gustato quell’eccezionale e inaspettato pasto ed avere
bevuto alcuni bicchieri di vinello rosso, corposo, proveniente
dalla riserva dei due varesini.
Sempre in barca, questa volta in minor tempo grazie
all’aiuto che ci dava la forza della corrente, e al buio, ritornammo al nostro improvvisato accampamento, in prossimità
della baita prescelta il mattino. Sistemammo i sacchi a pelo per
terra e liberatici solo delle scarpe e degli indumenti più pesanti
ci infilammo nei nostri giacigli. I sacchi a pelo forniti dall’amministrazione erano ricavati da autentiche pelli di pecora, che
presentavano nella parte esterna il lato liscio e nell’interno il
pelo; inoltre avevano un grosso cappuccio, sempre di vero
manto di pecora, che serviva a coprire la testa ed a chiudere il
tutto. Si trattava di un involucro voluminoso da portare e per
questo si preferiva legarlo all’esterno dello zaino, però anche
alle basse temperature consentiva di acquistare rapidamente
calore e riuscire a prendere sonno agevolmente.
Era per me la prima esperienza del genere e questo vivere così liberi, con vincoli minimi e con strumenti semplici
mi metteva un forte entusiasmo e mi consentiva di superare le
difficoltà che certamente non mancavano. Come in tutte le cose della vita i due aspetti, le due facce della stessa medaglia, si
compensavano, anzi forse pendevano più a favore della vita
libera. Decidemmo, di comune accordo, turni di veglia di tre
ore ciascuno perché anche di notte bisognava tenere sotto controllo i passaggi lungo il sentiero proveniente dal passo, anche
se ci eravamo resi conto che oltre ai due villeggianti di Varese
e ai soliti isolati pastori antronesi saliti all’alpeggio, altri movimenti sospetti non c’erano.
Passò la nottata. Al mattino riprendemmo presto il
cammino, perché entro il pomeriggio bisognava raggiungere la
nostra meta. La temperatura era fredda e l’aria frizzante anche
se eravamo alla fine del mese di giugno. Il cielo in quel momento era terso ma non bisognava fidarsi perché la situazione
poteva in qualsiasi momento capovolgersi. Difatti noi scrutavamo spesso la parte verso le cime, perché eravamo stati messi
sull’avviso che da quel lato, verso nord-est, poteva sopraggiungere il cattivo tempo. Ci avviammo lungo il sentiero che,
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salendo a zigzag ed inerpicandosi lungo il lato di ponente del
Bacino dei Cavalli, ci portava verso la destinazione segnata sul
foglio di servizio.
Il percorso spesso costeggiava paurosamente un ripido
strapiombo sul lago. Nella solitudine del bosco per fortuna ogni tanto si incontrava il conforto nella presenza di qualche tipica cappelletta alpina, ricavata con l’intreccio di tronchetti
d’albero, contenente un crocefisso di legno o l’effige della
Madonna e adornata con mazzolini di fiori secchi (Foto n. 29).
Il luogo era deserto e silenzioso; si udivano solo il cinguettio
degli uccelli e il leggero movimento ondulatorio dell’acqua del
lago, increspata dalla brezza mattutina. Ogni tanto in lontananza si sentiva anche il rumore dei campanacci che le mucche e
le capre dell’alpeggio portavano al collo per segnalare ai pastori la loro presenza e soprattutto la loro posizione.
Il bosco della sponda opposta si specchiava nel bacino
e, data la trasparenza delle limpide acque, il colore verde degli
abeti e l’azzurro del cielo formavano una doppia visione magica, contrapposta, al punto che facevo quasi fatica a riconoscere
quale fosse l’immagine vera e quale quella riflessa. Ci volle
circa un’ora per raggiungere la fine del lago dove un ponte in
tronchi ci consentì di oltrepassate il torrente Loranco dopo il
quale iniziava la vera ascesa all’Andolla. Passando avevamo
notato la “canadesina” dei pescatori chiusa, mentre all’esterno
tutto era come l’avevamo visto la sera prima.
Il sentiero percorreva il lato sinistro del Loranco, che
accompagnava il nostro cammino con il mormorio delle sue
acque, fresche e spumeggianti ad ogni salto.
Tra noi tre componenti la pattuglia non mancavano i
discorsi più strani sulla nostra vita, le nostre amicizie, le nostre
famiglie di origine. Il più attivo ed anche più agile nella risalita
era Battarini, che poteva vantare un fisico minuto e asciutto e
per questo motivo era quasi sempre lui a fare l’andatura, disposti in fila indiana.
Avevamo appena superato una malga situata al centro
di un piccolo pianoro dell’Alpe Ronchelli dal cui camino usciva una lunga scia di fumo nero. In libertà attorno alla vecchia
costruzione erano al pascolo delle mucche pezzate che segna231
lavano la presenza con i rintocchi dei loro campanacci, una
coppia di cavalli ed un gregge di ossute e agili caprette. Era
certamente la fornitrice di burro e latte dei varesini. A questo
punto sentimmo chiaramente alcune raffiche di vento gelido
provenienti dall’alto, proprio dalla direzione verso cui ci stavamo incamminando e contemporaneamente comparvero dietro le vette delle montagne alcuni ciuffi bianchissimi di nuvole
che sembravano batuffoli di ovatta spinti in aria dal vento.
In un primo momento, presi dalla conversazione, non
demmo importanza a quella apparizione, ma ben presto dovemmo prendere in seria considerazione che il tempo stava
cambiando, avendo il vento rapidamente spinto verso di noi
alcune nubi più grosse non più bianche, bensì di colore blu
scuro.
Potevamo considerarci a metà strada dalla nostra meta,
ma certamente occorreva ancora più di un’ora di cammino.
Cercammo di aumentare l’andatura e così facendo ci portammo in una posizione dalla quale si vedeva chiaramente, quasi a
portata di mano, una bella costruzione situata a tre o quattro
chilometri proprio di fronte, nella direzione del nostro sentiero.
Era il Rifugio Andolla, posto a 2061 metri di altezza,
gestito dal CAI di Villadossola. Dietro di esso comparve improvvisamente un nuvolone nero e minaccioso. Il rifugio sembrava a portata di mano perché era lì in alto poco distante, ma
il fatto imprevisto fu che per raggiungerlo bisognava percorrere una serie di tornanti per cui il tragitto si decuplicava. Ormai
a quell’altezza erano scomparsi gli alberi di alto fusto, soppiantati da arbusti, erba bassa, muschi e licheni. I tenui sibili
emessi dalle marmotte ora ci arrivavano molto chiari e vedevamo spesso, tra le rocce, fare capolino i musetti bianchi e gli
occhi spaventati di quelle destinate a fare da vedetta. Sì, proprio le “vedette”, perché le marmotte vivono in branchi anche
numerosi in prossimità delle lunghe e tortuose tane dove trascorrono i sei mesi di letargo, ed una di esse scelta tra le più
giovani, rimane, irta sulle zampe posteriori ed appoggiata con
quelle anteriori ad una roccia, per avvistare eventuali pericoli e
segnalarli, emettendo appunto forti e prolungati fischi acuti.
Ne intravedemmo diversi gruppi, che saltavano da un
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sasso all’altro lanciando il loro sibilo di allarme, impauriti dalla nostra presenza. Mentre eravamo incuriositi nell’assistere
allo sconosciuto comportamento dei branchi di marmotte, decidemmo, in vista della pioggia, di accelerare l’andatura ma in
questo frattempo, improvviso, violento e scrosciante ci sorprese l’acquazzone, la cui imminenza ci era stata preannunciata
anche dall’intensificarsi del vento e dal sopraggiungere dell’aria frizzantina che normalmente precede la tempesta. Trovammo a mala pena un improvvisato riparo sotto uno sperone
di roccia, sdraiati in mezzo ai muschi ed ai licheni.
Non fummo sorpresi né allarmati perché sapevamo che
il tempo lassù così come era rapidamente mutato in peggio,
poteva con la stessa velocità cambiare a nostro favore. Difatti
dopo circa mezz’ora passata al coperto in quella scomoda posizione, spiovve e poi lentamente la pioggia cessò del tutto. Il
danno però l’aveva fatto; avevamo la testa ed il busto asciutti,
però i pantaloni e le calze erano inzuppati di pioggia. Decidemmo pertanto di fermarci all’interno del rifugio, per cercare
di fare asciugare gli abiti bagnati.
Era una vecchia costruzione su un unico piano, in legno e pietra, non in ottime condizioni, costituito da una sala
con tavolo, qualche sedia, ed un grosso camino. Da qui si accedeva a quattro camerette ognuna arredata con due letti a castello, sempre in legno, in modo da poter ospitare comodamente otto persone.
Visto da lontano, mentre salivamo, il rifugio sembrava
più grande ed accogliente, invece una volta arrivati ci aveva
quasi delusi per la elementarità dell’arredo e per la ristrettezza
degli ambienti. Consentiva comunque di poterci riposare
all’asciutto e di riscaldarci con la messa in attività del camino.
Sul tavolo dell’ingresso era aperto un grosso registro
per la raccolta delle firme, le annotazioni e le impressioni dei
visitatori. Era possibile arrivare al rifugio non solo attraverso il
sentiero proveniente dalla Valle Antrona, ma anche dai sentieri
contrapposti di cresta, quello verso oriente che proveniva dal
Passo Andolla e quello verso occidente proveniente da un altro
lago denominato Lago di Camposecco. Il rifugio era quindi
frequentato dagli alpinisti che passavano da una valle all’altra
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o che facevano per passione lunghi percorsi sulle zone più aspre ed impervie delle cime alpine.
Quel giorno era presente lassù una sola persona, ben
vestita e adeguatamente equipaggiata in modo sportivo per poter affrontare agevolmente la montagna e munito di piccozza e
zainetto. Era alto, viso affinato, occhi profondi e scuri e barba
lunga, ma ben curata. Una figura molto interessante: magra
come un chiodo, distinta e taciturna. Quando arrivammo era
intento a studiare una dettagliata piantina topografica, che evidenziava bene tutti i sentieri. Si limitò a darci uno sguardo ed a
rispondere al nostro saluto e continuò a studiare le sue carte.
Estrasse un’altra piantina da una borsetta che aveva a tracolla,
e probabilmente non convinto di quello che leggeva, ci rivolse
la parola per chiedere alcune informazioni. Solo così si aprì un
dialogo e riuscimmo a sapere qualcosa di lui. Sul conto nostro
non erano necessarie domande perché bastava guardare la divisa per sapere chi eravamo e per quale motivo eravamo saliti
fino a quell’altitudine. Il signore con ottima proprietà di linguaggio, sollecitato dalle nostre domande curiose, in perfetto
italiano, non celando l’inflessione piemontese, alla fine parlò
ben volentieri di sé.
Era un professore universitario di storia e filosofia di
Torino, che amava passare le sue vacanze da solo, scalando
montagne ed attraversando boschi, perché in quelle lunghe ore
di movimento e di solitudine riusciva meglio a concentrarsi su
alcuni aspetti della sua vita e a meditare su profondi temi di
esistenza spirituali. Era partito da Biella la settimana precedente, aveva percorso tutto il tragitto lungo le creste alpine, ed era
diretto al rifugio Gattascosa dell’alta Valle di Bognanco, da
dove avrebbe raggiunto Domodossola. In questa città doveva
rendere visita al Collegio Rosmini, situato sul “Sacro Monte
Calvario”, dove era stato fondato l’ordine dei Rosminiani. Dopo, con il treno, si sarebbe recato a Stresa per prendere parte
ad un convegno di contenuto teologico.
Era certamente un uomo di grande fede cristiana, perché ci raccontò che l’anno prima aveva, sempre da solo, percorso tutta la strada di oltre duecento chilometri dal confine
francese al santuario di San Giacomo di Compostella.
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Ne parlava con tale entusiasmo e fervore che fece sorgere in noi la voglia di ripetere la sua esperienza e recarci al
famoso centro pirenaico della cristianità per godere delle sue
stesse sensazioni.
Ci disse che chi effettua quel tragitto riceve un tesserino sul quale vengono apposti i timbri da parte dei punti di ristoro dislocati lungo il percorso e completate tutte le tappe del
viaggio, secondo il tracciato prestabilito, il fedele viaggiatore
otteneva particolari indulgenze. Ci aveva segnalato il grande
interesse sotto il profilo umano di quel viaggio, perché si può
avere l’opportunità di incontrare singoli pellegrini o gruppi,
carichi di spiritualità e di intensa fede come espressione dell’essenza dell’animo umano che sente prepotente il bisogno di
guardare verso l’Alto.
Quel professore emanava un grande fascino, per cui lo
stuzzicammo con diverse domande al punto che egli si lasciò
andare in confidenze che difficilmente avrebbe fatto senza le
nostre insistenze. Ci accorgemmo che “salì in cattedra” ed iniziò a parlare come di fronte ai suoi allievi. Venimmo così a
sapere che era un profondo studioso del “pensiero filosofico”
di Antonio Rosmini, il prete nato a Rovereto il 1797 e deceduto a Stresa il 1855.
Il professore si recava appunto a Stresa presso il “Centro Studi Rosminiani” per prendere parte ad un convegno su
La ricerca della Verità ed il suo rapporto con il Vangelo. Il
viaggio solitario, lungo le vette alpine, gli giovava come isolamento necessario a raccogliere i suoi pensieri sull’argomento
e predisporsi al dibattito.
Su nostra insistenza egli con poche, ma significative
frasi ci spiegò che, secondo la teoria di Antonio Rosmini, la
“Verità” è il principio del Cristianesimo, ed è anche la base
della filosofia. Con la differenza che per la filosofia la Verità è
una regola della mente, per il Cristianesimo la Verità è compiuta ed intiera come una persona divina, la quale sarebbe in
parte in noi, nel nostro spirito, e in parte sarebbe oggetto della
nostra Fede e della nostra Speranza.
Lo sconosciuto ormai si era lasciato andare e da taciturno e silenzioso era divenuto un fiume in piena ed esternava
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con parola sciolta e sicura le sue di idee di fratellanza e di amore per il prossimo.
Quel signore dall’aspetto semplice ma ricercato, non
finiva di stupirmi, a mano a mano che proseguiva nell’esporci
le sue intime conoscenze di vita spirituale. Egli aveva fatto
suoi molti insegnamenti filosofici del grande prete di Stresa.
Indicò tra gli amici di Rosmini (Foto n. 30) oltre al papa Pio
IX, Alessandro Manzoni e, negli ultimi anni di vita, anche Don
Bosco, perché studioso delle opere di San Francesco di Sales.
Tutto suonava come musica per le mie orecchie perché ero
grande devoto di Don Bosco, avendo passato l’infanzia
nell’Istituto dei Salesiani di Caserta, e profondo estimatore di
Alessandro Manzoni, il grande scrittore lombardo, la cui opera
maggiore, I promessi sposi, avevo diverse volte letto e studiato
a scuola, con grande interesse.
Rimasi incuriosito di fronte ai collegamenti tra personaggi da me già ampiamente conosciuti ed il grande filosofo
cristiano e quindi rimanevo come incantato ad ascoltare le profonde parole dell’occasionale ed imprevisto interlocutore. Egli
si diffuse anche a parlarci di uno dei principali pilastri della filosofia del Rosmini, tutt’oggi attuale: l’uomo, nella sua attività
frenetica moderna, ha bisogno di un’oasi di pace, in cui rifugiarsi in silenzio vigile, pregando, riflettendo, vagliando lealmente le sue limitate capacità ed i suoi insuccessi e applicandosi di più sulla vita di Cristo e della Chiesa. Aggiunse poi che
da questo presupposto scaturiva la sua necessità di isolarsi per
chiudersi in sé stesso a meditare, durante le sue lunghe passeggiate solitarie nella pace sovrannaturale dell’alta montagna.
Disse tante altre cose interessantissime, di cui ho solo
un ricordo parziale, perché in alcuni passaggi facevo fatica a
seguirlo. Ci precisò che Antonio Rosmini nel 1848 fu messaggero di Carlo Alberto a Roma per un tentativo diplomatico
presso il Papa Pio IX, per convincerlo a dare il suo appoggio ai
Piemontesi per scacciare gli austriaci dal Lombardo-Veneto.
Quando pochi mesi dopo, per il prevalere nello Stato Pontificio delle tendenze radicali, il papa dovette rifugiarsi a Gaeta e
abbandonare la piazza che rimase libera di proclamare la Repubblica Romana, il Rosmini, rimasto sempre fedele al Papa,
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lo seguì nell’esilio. Il Papa e il prete piemontese vissero insieme proprio in quel Castello Aragonese di Gaeta, poco distante
dalla caserma dove avevo frequentato il corso di allievo. Proprio lassù, a oltre duemila metri di altezza, in mezzo alle superbe vette alpine, venni a sapere da questo inatteso e fortuito
incontro perché la strada dove si trovava la caserma di Gaeta
che mi aveva ospitato per sei mesi era dedicata a Papa Pio IX.
Per noi ragazzi fu una conversazione interessantissima,
oltretutto svolta in quel contesto dove tutto era natura, silenzio
e presenza dell’Altissimo, creatore di ogni cosa. Le parole,
armoniosamente pronunciate con tanto fervore religioso da
quello sconosciuto professore, portarono nei nostri cuori giovanili una ventata di misticismo a cui non eravamo preparati e
suscitarono in noi un grandissimo interesse ad approfondire in
seguito le sagge teorie del sommo filosofo cristiano. Le parole
profonde del professore ci giravano ancora nella mente e
nell’animo quando dovemmo ritornare al nostro modesto impegno quotidiano.
Accendemmo il fuoco nel camino, mentre a turno
dall’esterno del rifugio tenevamo sotto controllo il sentiero che
proveniva dal Passo, la cui conca tra due cime, era ben visibile
dalla nostra posizione. Ormai stava sopraggiungendo la sera ed
aveva ripreso a piovere, sia pure lentamente. L’ordine di servizio prevedeva di dormire all’aperto anche la seconda notte, in
prossimità del passo, però era consentito al capo pattuglia di
apportare le modifiche che ritenesse necessarie, motivandole
con annotazioni precise da apporre a margine dello stesso ordine. Decidemmo così, a causa della pioggia, di passare la nottata all’interno del rifugio, effettuando egualmente a turno
controlli sul sentiero.
Al mattino allo spuntare dell’alba il professore, senza
fare alcun rumore, con molta discrezione, scivolò fuori dal rifugio dopo un timido cenno di saluto con il capo, e con passo
deciso e cadenzato riprese, assorto nei suoi pensieri, il suo ancora lungo cammino. Durante la notte aveva smesso di piovere
e al mattino il cielo si presentava di colore blu intenso, sgombro da qualsiasi segno del passato temporale.
Noi ci preparammo per affrontare la giornata e predi237
sporci al rientro in caserma per la sera, anche se non potevamo
facilmente allontanare dalla mente l’affascinante e irripetibile
esperienza derivata dall’incontro con lo studioso di Rosmini,
soprattutto perché fuori dalle nostre possibili aspettative ed estraneo al motivo per cui eravamo saliti sino a quel rifugio.
Iniziammo il rientro mentre dal fondo valle saliva verso l’alto una grossa nuvola di nebbia, tanto che sotto di noi si
era creata rapidamente, spinta dal vento che è sempre presente
a quelle quote, una coltre spessa ed omogenea di nebbia da
impedirci completamente la vista. Dall’alto della nuvola bianca sembravamo posti su un piedistallo ed illuminati, come sotto un riflettore, dai brillante raggi di quel cocente sole primaverile. Più o meno all’altezza del punto in cui ci aveva sorpreso la pioggia il giorno prima, scendendo entrammo fisicamente
nella fitta nebbia e facemmo tutto il percorso sino al Bacino
dei Cavalli avvolti nell’aria umida e frizzante.
Costeggiammo il lago in tutta la sua lunghezza e subito
dopo avere oltrepassato il gruppo di baite che facevano corona
alla chiesetta alpina di Cheggio, poco distante dalla strada, notammo alcuni operai che stavano lavorando nei pressi di un
vecchio fabbricato costituito da due lunghi baracconi, affiancati, adibiti dalla Edison ad alloggi per i suoi operai all’epoca
della costruzione della diga. Gli operai stavano ripulendo quei
fabbricati abbandonati che dovevano essere verificati da un
geometra inviato dal CAI di Novara, in quanto il complesso
con tutta l’area circostante sarebbe stato acquisito dall’ente il
successivo 6 agosto per la realizzazione di un nuovo rifugio.
Venni a sapere in seguito che, dopo tre anni di lavori di ristrutturazione, il sito fu inaugurato il 12 luglio 1959, alla presenza
di tutte le autorità della Valle con il nome di “Rifugio Città di
Novara”.
Riprendemmo il nostro cammino verso il paese e dopo
circa 45 minuti da quella sosta arrivammo alla caserma, portando a compimento il primo impegnativo servizio di tre giorni
in alta quota.
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