3. Lunedì 8 novembre 2010. La vocazione di Mosè
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3. Lunedì 8 novembre 2010. La vocazione di Mosè
Per riflettere insieme - 1. Es 3,4-22 -Il racconto della vocazione di Mosè si gioca fra l'iniziativa di Dio che chiama per una missione, e la libera adesione dell'uomo. Che significato ha per noi il termine vocazione? La vocazione, che non è soltanto quella sacerdotale o quella religiosa, ma ogni stato di vita, è una chiamata da parte di Dio? Ci siamo mai interrogati sulla nostra vocazione? Il fatto di essere scelti da Dio ci dà la forza? Crediamo che se ci abbandoniamo alla sua chiamata Lui la porterà a compimento? Abbiamo provato a schivare, con alibi artificiosi, la chiamata che abbiamo ricevuto? - 2. Es 3,6-22 - Come ogni altra vocazione, la chiamata di Mosè è legata a una missione: «Va', io ti mando ...». Martin Buber nel suo libro Il camminodell'uomo afferma che a Dio non serve un altro Mosè o un altro san Francesco d'Assisi, ma ognuno è unico e chiamato a fare quella cosa che solo lui può fare. Descriviamo con semplicità agli altri gli elementi "unici" e "singolari" della nostra missione personale e narriamo come l'abbiamo progressivamente scoperta. - 3. Es 3,1-22 - Mosè in Egitto pensa di poter alleviare le sofferenze degli israeliti con le sue solo forze; il deserto e l'esperienza con Dio lo purificano da tale presunzione; solo a questo punto viene inviato quale mediatore della liberazione del popolo. Anche in noi può essere presente un'analoga presunzione. Quali modi di dire o di agire mostrano che pensiamo la missione come "opera nostra"? - 4. Es 3,14 - «Io sono colui che sono» è il Dio del passato (colui che si è manifestato e ha agito con i patriarchi), del presente (colui che interviene per il popolo), del futuro (colui che si manifesterà e agirà). L'Apocalisse tradurrà il nome di YHWH con «Colui che è, che era e che viene» (Ap 1,4-8). Abbiamo questa percezione della presenza di Dio nello scorrere del nostro quotidiano? Con quali "nomi" riusciamo a esprimere la nostra fede in Dio e ciò che abbiamo compreso di lui? 5. Es 4,1 - Alle richieste di Dio Mosè contrappone le prevedibili resistenze degl i egiziani e le sue limitate capacità. Egli fa resistenza a Dio appellandosi alla sproporzione tra missione da compiere e circostanze realisticamente considerate. Quali sono le principali obiezioni che abbiamo fatto e facciamo davanti al compito che nella vita ci è stato affidato come vocazione personale? Quali paure ci ostacolano? Quali limiti leggiamo in noi e quali resistenze nella realtà intorno a noi? 6. Es 4, 14-16 - Le figure di Aronne e di Mosè ci dimostrano quanto sia ineludibile cooperare per la riuscita della missione. Qual è il nostro specifico dono? Quali persone nella nostra vita possiamo indicare come nostri "Aronne", coloro con cui condividiamo il peso e la gioia della missione? A livello di attività pastorale sappiamo collaborare con gli altri come Mosè e Aronne? Ci fidiamo di coloro che cooperano con noi? Quali ostacoli incontriamo nel fare questo? - 7. Es 4,15-16 - Mosè è costituito da Dio come profeta. Egli dovrà essere la bocca di Dio, dovrà parlare cioè in suo nome agli anziani d'Israele e al faraone. Chi riconosciamo oggi come profeta? Chi nella storia della chiesa comasca riconosciamo come profeta? Catechesi adulti 8 novembre 2010 Invocazione allo Spirito Vieni, Spirito Santo, manda a noi dal Cielo un raggio della tua luce. Vieni, padre dei poveri, vieni, datore dei doni, vieni, luce dei cuori. Consolatore perfetto, ospite dolce dell'anima, dolcissimo sollievo. Nella fatica, riposo, nella calura, riparo, nel pianto, conforto. O luce beatissima invadi nell'intimo il cuore dei tuoi fedeli. Senza la tua forza nulla è nell'uomo, nulla senza colpa. Lava ciò che è sordido, bagna ciò che è arido, sana ciò che sanguina. Piega ciò che è rigido, scalda ciò che è gelido, drizza ciò che è sviato. Dona ai tuoi fedeli, che solo in Te confidano, i sette santi doni. Dona virtù e premio, dona morte santa, dona eterna gioia.Amen. La vocazione di Mosè (Es 3,1 – 4,17) Questa sezione contiene il racconto della vocazione di Mosè che risponde a queste due domande: Dio salverà Israele servendosi proprio di lui. Ci troviamo di fronte a uno dei più celebri testi dell'intera Scrittura: per la prima volta il Dio di Israele si rivela con il suo nome - YHWH - e irrompe nella storia accanto all'uomo e al suo popolo. IL ROVETO CHE BRUCIA (Es 3,1-6) - La scena del roveto ardente è dominata da un verbo chiave - "vedere" - che ritorna per cinque volte; si osservi in particolare il v. 4 «Dio vide che Mosè si era avvicinato per vedere». Il narratore, con grande abilità, ci porta così a vedere la scena del roveto con gli stessi occhi di Mosè e poi, all'improvviso, addirittura con gli occhi di Dio. - Il v. 1 serve a creare una precisa atmosfera: Mosè ci viene presentato come pastore, al pari dei suoi padri, dei quali sta ripercorrendo l'esperienza. - la menzione del deserto è alquanto strana; perché condurre un gregge là dove non c'è nulla da mangiare? Tutto ciò costituisce quel che si chiama, in un linguaggio più tecnico, una "prolessi", ovvero una anticipazione di ciò che dovrà ancora accadere: come ora ha condotto il gregge oltre il deserto fino al Sinai, così Mosè condurrà Israele allo stesso monte. - Dio chiama Mosè a partire dalla situazione reale nella quale egli si trova, così come Gesù chiamerà gli apostoli anch'essi intenti al loro lavoro. - Perché proprio un roveto?Una possibilità è che si tratti di un gioco di parole sul termine ebraico saneh"roveto", e sul nome del monte, Sinai. I rabbini daranno del roveto le spiegazioni più diverse e poetiche: il roveto è il più umile degli alberi, così come Israele è il più umile dei popoli; il roveto è la siepe dei giardini e Israele è la siepe che protegge il mondo; il roveto è l'albero delle spine e Dio soffre quando soffre Israele... - Il fuoco è segno privilegiato dell'azione di Dio (cf. Dt 4,24.33; Ger 20,9); il roveto brucia, ma non si consuma, perché Dio si rivela nel mondo e lo trasforma, ma senza distruggerlo. - Il doppio gesto di Mosè, che si vela il volto e si toglie i sandali, è il segno del suo riconoscimento della presenza divina: Dio è allo stesso tempo lontano e vicino; è «il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio d'Isacco, il Dio di Giacobbe», un Dio personale e non astratto (si veda l'uso che Gesù farà di questa formula in polemica con i sadducei nel testo di Mt 22,23-33). VA', IO TI MANDO» (Es 3,7-22) - La seconda scena è dominata dalla presenza dei verbi "andare" e "mandare", ciascuno dei quali ritorna per sette volte. Nei versetti iniziali (Es 3,7-9) il narratore usa altri sette verbi per descrivere lo sguardo del Signore sull'oppressione degli israeliti e il suo programma di salvezza: Egli osserva, ascolta, conosce, scende, libera, fa uscire, guarda. Ma ecco la sorpresa: improvvisamente, Dio invita Mosè a far proprio il suo programma di salvezza: «Ora va', io ti mando: fa' uscire il mio popolo...« (v. 10).Dio interverrà, ma lo farà solo attraverso Mosè), senza però dirci né il come né il quando avverranno le cose che Dio ha descritto. - Proprio qui nasce la serie di obiezioni, la prima delle quali è il dubbio di Mosè sulla propria identità: chi sono io? (Es 3,11) La risposta di Dio è un rimando al futuro: «Io sarò con te; servirete Dio su questo monte» (v. 12).La prima parte della risposta divina sottolinea una presenza e anticipa la rivelazione del nome di Dio contenuta nei vv. 14-15. La seconda parte della risposta mette in luce uno dei temi di fondo del libro dell'Esodo: servi del faraone o servi di Dio? Nel primo caso siamo schiavi, nel secondo, invece, siamo liberi. IL NOME DI DIO: YHWH (Es 3,13-15) - il Dio di Israele rivela a Mosè il suo nome, YHWH. Si tratta del sostantivo in assoluto più frequente nella Bibbia ebraica (ricorre per ben 6828 volte). In realtà, secondo un'altra tradizione riportata in Gen 4,25-26, già fin dalla preistoria dell'umanità gli uomini conoscevano il nome di Dio; secondo le tradizioni riportate in Gen 12-50 anche i patriarchi lo conoscevano e lo invocavano. Tale prospettiva è negata esplicitamente in Es 6,2-3, testo nel quale si afferma invece che i patriarchi non conoscevano Dio con il suo nome, rivelato solo a Mosè. - Per comprendere il significato del nome di Dio occorre partire dalla frase che Dio pronuncia al v. 14: "Io sono colui che sono". Tale frase, stando alle regole della grammatica ebraica, significa qualcosa come "Io sono colui che c'era, che c'è, che ci sarà", cioè "Io sono colui che è sempre presente", "Io ci sono". Allo stesso tempo, la frase può significare anche "Io sono quel che voglio essere"; in questo caso Dio ci ricorda che il suo nome è un mistero che l'uomo non può capire sino in fondo. Resta il fatto che Dio intende realmente rivelarsi come un Dio personale («il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe») continuamente presente nella storia accanto all'uomo. - il cosiddetto Tetragramma, YHWH, molto probabilmente veniva pronunciato come Yahweh. Per rispetto del nome sacro, gli ebrei da tempo immemorabile non lo hanno più pronunciato, sostituendolo con il termine Adonai, che significa "Signore", così come hanno fatto gli autori del Nuovo Testamento e come continuiamo a fare anche noi cristiani nelle nostre Bibbia. Ogni volta, dunque, che nella Bibbia ebraica troviamo il termine "Signore" dobbiamo pensare che nel testo ebraico c'è invece il Tetragramma sacro, YHWH, cioè Yahweh. - Il significato di Yahwehva connesso con la frase del v. 14: YHWH significa qualcosa come “Egli c’è, c’era, ci sarà”, cioè "Egli è il Presente". Proprio in questa chiave va ricordata l'interpretazione del nome di Dio che appare in Ap 1,8: «Io sono colui che è, colui che era, colui che viene». - Il nome di Dio non è perciòtanto una definizione dell'essenza divina, quanto una descrizione della sua presenza e del suo agire nel mondo: YHWH è il Dio presente nella storia del popolo, nel passato («Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe») e nel futuro («Io sarò con te»; Es 3,12). SEGNI DI CREDIBILITÀ (Es 4,1-9) - In questa terza scena, la parola chiave è "credere". Il problema di Mosè è descritto, infatti, con l'espressione «Non mi crederanno». Il bastone cambiato in serpente, la mano che diventa lebbrosa, l'acqua mutata in sangue, sono tutti segni di credibilità donati da Dio a Mosè. + Il primo ricorda il potere divino (rappresentato dal bastone) di controllare il caos (il serpente). + La mano che diventa lebbrosa indica il potere divino sulla vita umana; + l'acqua cambiata in sangue (Es 7,19-21) ricorda, invece, il potere divino sulla vita e sulla morte. A Mosè, dunque, viene dato di partecipare allo stesso potere di Dio. MOSÈ, PORTAVOCE DI DIO (Es 4,10-17) - L'ultima scena è centrata sul tema della parola; l'obiezione di Mosè, infatti, è relativa al suo non saper parlare. - Emerge qui la figura del fratello Aronne: appare come l'interprete e il portavoce di Mosè, che a sua volta è portavoce di Dio (cf. il v. 16). In altre parole, per poter comprendere la Legge, della quale Mosè è portatore, è necessaria la mediazione sacerdotale. - La vocazione di Mosè si distacca sia da quelle dei patriarchi sia da quelle dei profeti; solo a Mosè risale l'autorità stessa della Legge che attraverso di lui Dio ha dato a Israele.