Giuseppe Jovine - Gruppo Cultura Italia
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Giuseppe Jovine - Gruppo Cultura Italia
Giuseppe Jovine VIAGGIO D’INVERNO Mihi, Musis et Paucis Amicis a cura di Carlo Jovine * °°°°°°°°° * Indice Viaggio d’inverno Le mie radici Verrà la morte L’aquilone Le cose Padre Nella notte Mare a Termoli Lettera a mia moglie Ai miei figli Carlo e Lucia Lungo il litorale Adriatico Consigli al nipotino Riccardo Amore fraterno Murato Il tocco finale Così morire L’amore si perde Limbo Nel greto dell’anima Morte A Roma con Rafael Alberti Mistero Figli La mia casa Morire * °°°°°°°°° * Viaggio d’inverno Una sera nebbiosa di dicembre, tornando dal collegio al mio paese, nella corriera in sosta alla taverna che raccoglieva gente dagli scali agl’incroci di strade di montagna, vidi mia madre sola avvoltolata nel pellicciotto di capra cinese. Facemmo insieme il viaggio nella notte seduti l’uno accanto all’altro muti, legati da sorrisi d’altro luogo, da straniti stupori senza oggetto e dalla pena di scoprirei spogli di sensi inavvertiti o dismarriti nel volgere dei nostri chiusi esilii. Tagliavamo la nebbia tra i nevai, boschi di trine che il vento spelava e radi voli di passeri brevi dai rami alle lanterne dei casali. E dura ancora quel viaggio d’inverno! Sempre più fredda e bianca è quella neve, sempre più scura e fitta è quella nebbia e l’ombra di mia madre si dirada, uccello ad ali spente che dirupa, non come al tempo dei gabbiani che mi librava sul canto del mare, strascico nero che un fiume trascina o il vento che nel turbo lo raggira e ti sta sempre sul collo a soffiarti quella parola quieta che non dice. Le mie radici Non so chi pietra su pietra ha composto la mia casa grigia come il fango, so che le crepe aperte nel suo fianco sono ferite vive nel mio corpo. Qui ho imparato a tenere i segreti dalle labbra socchiuse degli usci, ho imparato a fiorire nel silenzio dalle rose dei cocci ai davanzali ed a tenermi fitte le mie anime come le doghe lisce di un mastello od i fastelli cinti di verméne e dall’erba piegata dalle bore appresi che dolcezza che consola lievita sotto il morso del dolore ed è fiore di cardo la parola che dissodando il buio fa chiarore. E nella quiete aerea soffitta, sulle colline scorrendo le nevi e le reliquie degli avi sui muri ascoltavo sui tegoli il vento, il veleggiare odoroso del tempo; mi visitava l’ambiguo mistero col suo profumo lacero di morte che mi dannava ad amare la vita. Non altro senso della vita allora come sempre scoprivo nel travaglio del bifolco che scava le parole dalle memorie più antiche del mondo. Qui torno a rannicchiarmi come i cani che vedevo agli angoli dei muri soli alla cuccia prima di morire; qui la vita ha gli stessi stupori, ha le stesse impazienze della morte che ti prende per mano e ti conduce dove tu vuoi sull’antico sentiero che mena al piano di Santa Lucia tra il verde dei vigneti e il canto fioco delle peschiere muschiate degli orti dove corrono i morti a dissetarsi. Qui torno amaro dopo ogni sconfitta per non desistere dal denso esistere col cuore d’esule senz’altro arredo che il canto dei mattini e ogni sconfitta torna a splendermi come una vittoria. Qui mi lusinga e felicita il gesto di chi semina fiori e frumenti, orecchia al brulicare degli erbai, fruga nei tralci e interroga la luna nell’ora che svaporano i casali odorosi di menta e rosmarino. Qui ogni albero ha il suo vento, ogni rovo il suo lamento ogni radura il suo silenzio. Qui nasce la mia storia, qui ciò che penso è mio. Dal cuore della terra ch’è il mio cuore vedo dai botri con l’erba novella la verità rifiorire sorella. Verrà la morte Verrà la morte e le parole taciute bruceranno nel cuore come un ferro rovente. Quale tragedia irreparabile essere vissuti avaramente co’ nostri pensieri murati quando sapevamo che vivere è piantare nella carne, nel sangue che inesausto la percorre il seme indistruttibile del Verbo, quando sapevamo che vivere è liberare nel canto il dolore, quando sapevamo che il dolore è germoglio di speranze e la bufera dà linfa allo stelo, quando sapevamo che dal fiore del dolore nasce il frutto dell’amore che può saper d’amaro, che può saper di dolce come il sangue o come il fiele. L’aquilone Non ho che i gelsomini dei miei boschi, l’odore dei miei morti nelle vene. Ho solo un’isola da cui fuggire ed è il mio corpo riarso di scogliere. Ogni uomo che incontro è una boa che mi costringe a una virata, ma il mio cordone ombelicale è lungo, nessuno l’ha reciso ancora e mi guida come un aquilone dal ventre viola delle mie colline ove sembra placarsi la follia delle parole che con le cose ritornano a vivere insieme come il guscio e come il frutto, insieme come il seme e come il fiore. Le cose Ancora una volta la folla muta e compunta di oggetti si dispone in attesa del saluto. Battere sento il cuore delle cose. E riconosco il broncio dei boccali, la grazia prensile dei vasi pinti che fiorivano in mano ai fornaciai all’ombra delle grotte e dei pagliai, i mortai odorosi di mentuccia, la stadera che pesa vuota il tempo, la velata allegria delle caraffe, lo “stocco” che strideva dentro i boschi nei languidi meriggi di settembre e la goffa burbanza di doppiette che sognano i bersagli nelle valli, lo strepere tra frasche delle lepri, scrolli e frulli di quaglie fra le stoppie. l libri chiusi dentro gli scaffali non avranno più luce né calore. Sulle pagine candide o gialline chi il dito punterà sul verso giusto per trarne linfa al caro immaginare o soluzione a un nodo di pensieri? Si seccheranno le piante nei vasi, mi rivedranno a nuova fioritura: rinascerà nell’orto la cedrina e il muschio tra le pietre del cortile, come macerie fioriranno gli anni. E il vento non avrà con chi parlare e tornerà a bussare alle finestre ed alle porte delle stanze vuote. Vedranno le pareti entrare l’alba dal mare della Daunia e il sole irrompere come spettro al di là delle vetrate a rosare le gambe alla danseuse dall’Ofanto approdata sul Biferno, l’esile collo e le guance scavate della signora velata dei Pesci, la femmina di tutti e di nessuno che posa come serpe in erba langue. O cose, cose ferme per l’eterno voi trattenete quello che vi dono, mi restituite i sensi che vi affido, in voi, in voi si chiude il cerchio e circola l’ardore, ahimè, del mio cammino fatuo, in voi si avvolge e si dipana il filo di pensieri e di voci spente e vive. Sento più fresco dei fiori che aprile riporta ai davanzali il fiore pinto sul vaso d’ocra giallina screziata della mia indocile balia beona. Chiudo le grigie porte secentesche rodendomi ai serrami del chiavaccio. Quale triste disabitato Eliso mi porterò nell’anima pel mondo! Padre Sarai sempre padre la voce muta di quell’oboe chiuso in un astuccio dentro la vetrina nella sala degli avi che profuma di polvere, di spiga e pergamene. Come avrei padre voluto sondare il lago perso della tua solitudine quando scrutavi il corso della luna e ti chiedevi che c’era nel fondo della parola fioca della fiamma nella gola brunita del camino, presentendo dai refoli e le fusa dei gatti sulla cenere la neve! E quando mi prendevi per la mano alle mie fragili membra chiedevi la forza che mancava alle tue fibre? La mia innocenza prensile ed inerme era forse per te una guida e un’arma. Il tuo pallore mi accendeva l’ira come un’esca e penavo nel vederti riarsa foglia riaprirti alla mia linfa. Solo quando cantavi la tua voce alzava le montagne fino al cielo e tra un turgore e l’altro di tue vene il mio orgoglio pulsava come un cuore. In un breve giro d’orizzonte si è consumato un destino di naufrago, di re senza corona, di poeta senza carmi, d’armigero senz’armi; arreso tra le mura del tuo mastio guardavi il cielo stretto tra cimase come dal pozzo un annegato, e l’albero che dal chiuso dirama della corte. Per vele avevi rauche pergamene e il frullo delle rondini alla gronda; e ancora padre ti vedo vagare in un paese strano senza sole. Senza canto mi volgi le tue spalle e sto qui ancora a darti la mia forza perché riprenda fiato, inutilmente. Nella notte Nella notte, madre, è come quando alla luce del sole avevo il tempo di parlarti e tenni chiusa in petto ogni parola. Allora almeno avevo la speranza di dirti in una volta tutto quello che per pudore non ti dissi mai. Oggi in un guscio di noce mi chiude, mi soffoca l’angoscia insostenibile del mare d’ombra in cui dilaga il silenzio di allora e quello d’oggi. Mare a Termoli Non mi ricordo s’ebbi un tempo mai un grande amore lungo questa riva, ma è come se ne avessi avuti mille se una dolce risacca mi risuona di sensi strani ad ogni fiotto lieve che mi percorrono fiume segreto. Dicembre estivo come lanci il sole sulle cime bianche del Gran Sasso che con la lunga lingua viola lambe l’acqua nero-turchina a Punta Penne! Ed è bianco il branchetto di gabbiani a ridosso della sciabica e le mura dove gridavano le donne in nero guardando i marinai nella tempesta: lo sveglia all’improvviso un tocco acuto dall’alto della torre del Borghetto e un volo d’anime s’alza dal mare. Qui m’immergo con l’ultima infanzia. Ora che, dopo tanto camminare, riapprodo a questa riva senza barche e il tempo mi lascia alla ventura, la vita cessa d’essere progetto: mi s’apre il mare come un’ala o un guado per non so quale immaginaria proda. Lettera a mia moglie Come potevi credere di perdermi se abbiamo insieme percorso la valle del Biferno e lepri e passeri ci attraversavano la strada e contavamo i cardi sulla schiena vaticinando i frutti dell’amore? Spiavamo tra i rabeschi del fogliame filigrane di colli e di vigneti. C’è ancora sentore di mare tra le chiome bianche degli ulivi. Il grano verde ci cresce nel petto. Affonderai le mani nella madia, ti gronderanno di lucido lievito e il tempo sarà quello di ieri, le violaciocche piantate dal vento le violaciocche piantate dai passeri sul campanile e i muri del Convento. Come potevi credere di perdermi se nessun’orma è stata cancellata lungo i nostri sentieri ventosi: Venezia marciva nei vespri che doravano i vetri alle bifore e l’acqua leccava gli scafi muschiosi delle case salpanti nei canali, Firenze svampiva la sera tra guaiti di cagne ai falconieri e Pietroburgo vestita di giada, un salpare di pallide ninfèe, migrava luminosa sulla Neva. Tornerai lungo i sentieri dei boschi ove i ragazzi colgono le fragole e uccidono le serpi ed i ramarri, ritornerai sull’erba del cortile tra i muri tiepidi della mia casa ove il fiato dei miei morti arriva dalla valle romita del Cervaro col quieto odore della genzianella. E tenderai le mani sulle siepi e voleranno i passeri sui fili. L’uno nell’altro ogni giorno entreremo come nell’ombra tranquilla di un viale e tra cima e cima all’imbrunire nell’odore dei fieni e degli erbai e tra i vapori lenti di marcìte sarai quiete dorata di cielo. Ai miei figli Carlo e Lucia Vi guardo da lontano fiori inermi tremanti alle raffiche col rimorso di avervi piantati in un giardino brullo senza sole, ma mi crescete in petto ogni ora, inespresso mio grido, e già vi sento garrire al vento candide bandiere. Lungo il litorale Adriatico A le stagioni d’oro si correva lungo il litorale a piedi nudi sulla sabbia calda. In altra guisa la mia corsa dura e il mare mi sta accanto come allora. Resistono ancora i canneti e i trabucchi sbilenchi, i cànapi invischiati d’alghe e i rovi. Non chiederti dove porta questa riva. I passi dei nostri compagni si son fermati in cima alla collina ed è un frullare d’ali verso il mare il fiorire di tombe bianco-allegro tra i cipressi che guardano alla fonda i battelli sul punto di salpare e il mare mi sta accanto come allora. Consigli al nipotino Riccardo Ora tu guardi come un puledrino la brughiera infinita che spaura ed ogni oggetto bruchi come un sorcio e non sai quale nome e senso dargli. Non sarà diverso il mondo quando comincerai “ad inciampare nell’uomo” e duro giuoco sarà compitare l’alfabeto dell’essere e non essere, e non saprai se avrai torto o ragione e scoprirai che un’esile farfalla può sapere più cose che gli uomini non sanno. Leggerai nella Bibbia che c’è un tempo per piangere e per ridere e che il pianto e il riso sono il sale della terra. E se il tempo verrà che avrai più amici tra i morti che tra i vivi, fà che il cuore batta sempre tenace come un maglio. E se allo specchio scoprirai le rughe per la scalata raddoppia lo slancio. Sogna lontani approdi e resta fermo, abbarbicato al suolo come quercia che i succhi della terra sugge e lancia nelle ramaglie pieghevoli e ferme al sole, al vento, all’acqua e alle bufere. Cercherai sempre un paese perduto, una bella stagione senza luogo; armati, per trovarli, d’ali e sogni e vola rondine che parte e torna, e gira su te stesso come il turbine, trova pace nell’occhio del ciclone e cerca sempre un alvo per rinascere con la tenacia invitta della Thala che agonizzando brulica di vita. E con fili di seta, rame e acciaio trama la vita e inventala ogni giorno, addentala vorace la tua vita come la tigre addenta la gazzella e guarda il sole anche se l’aria è scura. Se perdi e ridi e se vinci piangendo avrai il giusto sentore dell’essere. Percorrerai la terra dei tuoi avi, la rude terra dei Pentri e dei Frentani, vedrai la valle del pigro Biferno che sembra non arrivi mai al mare, e la valle romita del Cervaro dove bevono i morti alle peschiere, vedrai boschi colore aragosta, le fughe delle volpi sulle nevi, nelle colline danze di puledri, le forche tra la pula d’oro al sole vedrai la quercia del Pontone che da secoli vive e più di te vivrà nei secoli e scoprirai dalle voci dei vichi che il tarlo ti sotterra e non la morte. Il tarlo è ruggine che mangia il ferro. L’anima sgombra, aperto cielo azzurro, d’ogni sudicia scorcia che l’oscuri. Sarai quarzo e non stoppia di conocchia e ruscelletto torpido e tortuoso che come il solco gli fai poi si rigira. E se tu vuoi che il puledro cammini non seguire il consiglio delle volpi, ma ad arte allenta e tira la cavezza se vuoi sbrogliare il nodo della vita. Ed altro scoprirai nella mia terra tra le farfalle più belle d’Europa e le serpi che fanno festa al sole. Fà che la verità sia come l’olio, che venga sempre luminosa a galla! Non dire come la mosca sul collo del bove: anche oggi abbiamo arato insieme. Le tue azioni non siano rumore di forbici taglienti senza lama. Disegna ad arte, taglia ed imbastisci la tua cappa, il tuo cappello e le parole che non siano acqua nel crivello, liscivia nella cesta, o piombo al cuore. Scava le tue parole come pietre, a colpi di bidente dalle zolle, dalle memorie più antiche del mondo. Gli occhi non stanno in fronte alle ginocchia, guarda dritto negli occhi della gente, non attaccarti mai alla fuliggine, abbrancati alla corda del pensiero, alla coscienza netta senza orpelli, alla coscienza netta senza incroci, dimentica te stesso per trovarti, e non farti vittima degli altri, offa sacrificale del potere. E se tu perdi gli anelli ricordati che le tue dita stanno sempre in piedi. Non essere porco con la spiga in bocca ma rosa che si striga dalle spine. Si scioglierà la vita tra le mani come la neve raccolta per giuoco; ti resterà il problema della morte. Si dice nella terra dei Frentani: la morte non s’accorda con l’argento, la morte paga tutte le cambiali. Ho consultato Heidegger che argomenta: “la morte è solo possibilità l’impossibilità semplice e pura dell’esserci, l’immanenza sovrastante; l’essere per la morte, per la fine, dell’essere dell’esserci fa parte”. Queste parole di colore oscuro non mi hanno mai dato giusta lumiera. Chissà se meno ignudo di sapere tu fra cent’anni squarcerai il velo di tanto buio e bandirai per sempre la tristezza, l’orrore e la paura di quell’evento che si chiama morte, putta che ghigna e prende a tradimento. Ma forse anche tu dirai come i bifolchi della frentania, la morte è nà pazziella de quatrare (la morte è un gioco da bambini). Amore fraterno Ci prendevamo per mano cantando nei girotondi sul sagrato a sera, oggi il fiele negli occhi misuriamo. Il nostro petto è un vulcano rovente: non sappiamo nemmeno dalla cima quanta lava riversi sui versanti. Ci offrivamo le fragole e le felci raccolte lungo i sentieri dei boschi, oggi porgiamo abissi di silenzio. Nessuno sa dove porta l’amore: una volta spezzato il tenue filo conserveremo gli estratti dei conti perché cruda nei libri maestri quadri la partita del dare e dell’avere. Non sbocciano più fiori da donare sulle colline della nostra infanzia. Nessuno sa dove porta l’amore campane che intonate a tarda sera l’ora dei girotondi, inutilmente, sui sagrati deserti, senza gridi. Murato Murato dentro me stesso batto le nocche. La storia folle del mondo è un battere di nocche senza repliche. Il tocco finale Sono stanco di dipingermi. La tavolozza gremita di tinte non ha il colore del tocco finale. Così morire Nella sala dei miei avi sul grande tavolo di quercia mio padre nella bara in marsina di vigogna! Così morire, al canto delle rondini una sera, adagiato nella bara sul grande tavolo di quercia nella sala dei miei avi! E intorno il silenzio dei contadini che portan nelle scarpe l’erba dei prati! L’amore si perde L’amore si perde ad ogni rinvio di tenerezza. II tempo ci consuma a decifrare l’essenza di un rapporto: impresa difficile perché fondo è l’abisso da cui esplode la scintilla che dovrebbe bruciare l’universo e si accende e si spegne lucciola nottinga lasciandoci in bilico sull’orlo dell’essere. Resteremo sempre in ascolto di voci remote di mani che non stringeremo mai. Limbo Come il vespero si estenua ogni finestra è un loculo, ogni luce un fuoco fatuo. Il limbo è quest’assenza che fa deserti i vicoli. Nel greto dell’anima Perfectum opus est. Vado in pensione. Lascio i miei fidi compagni di viaggio dentro la navicella di una scuola in rotta verso Sirio in cima all’Eur. Mi pesa, crudo affanno, il grave dubbio di non aver saputo donare, di non aver saputo guadagnare una parola che restasse ferma come pietra nel greto dell’anima o dolce boa in mezzo a un mare infido. Morte Morte! Ascoltami Ungaretti, non “un arido velo” del fremito di vela occasione propizia per togliersi di dosso al dosso estremo. Potrà essere una raffica un dolce languire, o quel che è peggio un urlo strozzato, ma tieni viva l’estrema curiosità dell’essere. E sia la mia morte fremito di bandiera di fuoco che garrisce conficcata nel gelo della carne. A Roma con Rafael Alberti Ho avuto per un’ora al fianco la Spagna ed il silenzio di Rafael Alberti. Roma quella notte di giugno odorava di rose e gelsomini ma mi fiorivano accanto las hiérbas, las hiérbas dell’Andalusia ed il silenzio di Rafael Alberti. Libavo la notte come un miele ma mi colavano in gola le stelle di Toledo, Granada, Saragozza. Ed era grande l’ombra del cielo ma l’ombra del tuo corpo immane, Rafael, roccia di quarzo arroventata e il tuo silenzio un mare sterminato. Il tuo silenzio ha l’umiltà del seme, il tuo silenzio ha l’ero della spiga, il tuo silenzio è rugiada sul sonno dei fiori, pioggia fitta sull’arido maggese, sindone bianca con le spine e il riso di Lorca e Don Chisciotte, specchio lucente con gli occhi neri, i capelli di seta e la bocca rossa della Spagna. Sulla collina verde dei Parioli ti lasciai quella notte nell’ombra con la mano alzata nel saluto pallida statua tra veli di allori. Il vento alzava il tuo mantello a ruota ed apparisti un pavone regale alla tua Maria Teresa Leòn. Che grume rovente di Spagna Maria Teresa Leòn, sola, universa, amorosa sorgiva come la luna in un cielo d’agosto! Rafael, nessuno t’alzi un monumento in pietra o in bronzo al monte o alla marina: la rinnovata coscienza del mondo è la tua statua di rosso granito, le mareggiate di spighe e foreste, le praterie libere dei mari portano l’oro ed il verde e l’azzurro che ti nutrirono il cuore randagio. Rafael, dimmi, con quale incanto è nato dal tosco, dalla cenere e dal sangue quel dolce fiore che si chiama Spagna e il tuo canto gitano che riaccende il sangue delle rose e della morte? Mistero Abbiamo il mistero a portata di mano. A rompere il velame basterebbe un colpo di revolver e invece impieghiamo millenni a nutrirci di dubbi, ma forse ne vale la pena se basta ad illuderei al di là di un cancello di giardino un quieto fiorire d’aprile. Figli Cerco il senso del nostro rapporto come si cerca il destino di un albero da una foglia, la vita di un uomo dai segni della mano. Da quale abisso vengono le nostre parole? Vorrei con esse vestire i vostri corpi nudi e non vi tocco per pudore tanto è forte l’amore che da voi mi divide come l’eco di un grido che s’alza da un esilio remoto dove mai potrò mettere piede. I mondi che nascondiamo dentro di noi sono simili e diversi eppure siamo tanto vicini da sentire il calore delle nostre carni pulsanti. Differiamo ad altro luogo e ad altro tempo i nostri incontri interrotti a un crocevia. E intanto guardo il mare in attesa di arrivi e di partenze. La mia casa Sono l’uccello sull’albero d’olivo, la colomba tra i tegoli del tetto, la formica nell’acquaio, lo scorpione sulla parete e la pulce nella rete la termite nella trave, il silenzio interrotto dal tocco della campana sono tutte le cose che vivono pronte a morire un giorno; morendo so che divento quello che oggi è la mia casa, polvere, pietre gelate dalla neve, bruciate dal sole, pietra che ospita l’erba portata dal vento, pietra molle e dura come il cuore. Casa che invecchi come invecchia il mio corpo, con le stesse rughe della mia pelle, con gli stessi tonfi misteriosi, gli stessi silenzi, le stesse ombre, gli stessi nascondigli, con lo stesso battito del tempo, la stessa voce della vita e della morte dolci avventure... Morire Ho appreso a morire. Viene il momento che ti guarda fissa la morte senza parlare e non la vedi, perché si maschera col volto delle cose ancora vive. Quando ti prende continui a non vederla. Dinanzi fino all’ultimo avrai le cose e soltanto le cose come quando a letto leggi il giornale e il sonno ti prende.