Piccole cubiste crescono. Spunti di riflessione sulla diffusione di

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Piccole cubiste crescono. Spunti di riflessione sulla diffusione di
Piccole cubiste crescono di B. Zumbo
Gennaio - Giugno 2009
PICCOLE CUBISTE CRESCONO. SPUNTI DI RIFLESSIONE SULLA DIFFUSIONE DI MASSA DI
COMPORTAMENTI A RISCHIO TRA GLI ADOLESCENTI E I PREADOLESCENTI
Bice Zumbo
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In una produzione televisiva -TV Diari- andata in onda l’anno scorso su un’mittente a
target principalmente adolescenziale (MTV) ogni giorno otto giovani adulti o tardo
adolescenti che dir si voglia, si raccontano ai telespettatori, proprio come in un diario,
mostrando i propri sogni e le cose che più amano, la propria “scatola dei tesori”, il cane o
la foto della fidanzata. Parlano guardando dentro la telecamera, circondati da ambienti
familiari, la cameretta o la cucina dell’appartamento dove vivono, raccontano episodi
anodini e quotidiani, oppure svelano drammi estremamente intimi, tentativi di suicidio o
traumi dell’infanzia, spesso con un tono scherzosamente controfobico.
L. ad esempio è una ragazza adottata, prima litigava tanto con sua madre, ha tentato
anche di ammazzarsi - racconta sorridendo affabile-, ma ora va meglio. La cosa che le
piace di più è fare la lap dance in un locale notturno “le piace vedere tutti quegli sfigati
che le sbavano attorno”.
Ogni partecipante alla trasmissione ha un tempo di 2 minuti per presentarsi al pubblico ;
questi poi telefonando da casa ha la possibilità di “mantenerlo in vita” (questo il lessico
usato) ascoltando il giorno dopo un altro spezzone della sua storia oppure farlo fuori e
“far nascere” un altro personaggio. Finita l’esternazione, il protagonista -con un
rovesciamento di ruoli a mio avviso estremamente pregnante- spegne il suo video
schiacciando il telecomando e con questo annulla il pubblico anonimo e, diremmo,
“autistico” interlocutore di queste confessioni talvolta tanto intime. Di recente ho saputo
che sta andando in onda la versione “per bambini” di TV Diari.
Non sono riuscita a completare la lettura del libro scritto dalla giornalista Merida
Lombardo Pijola: “Ho 12 anni, faccio la cubista, mi chiamano principessa” edito da
Bompiani: alla settima confessione mi rendo conto che più che gli episodi mi fa star male
il senso di solitudine che emanano i brevi racconti da cui è composto il libro.
Le storie, tra le altre cose, parlano di fanciulle appena puberi che escono di casa “per
andare a studiare dall’amica”, poi si cambiano prima di entrare in discoteca, indossano
perizomi e giarrettiere e si ingaggiano in sfide erotiche con le coetanee a suon di numero
di rapporti orali nell’unità di tempo costituita dal “pomeriggio giovani”. Il quadro di
riferimento di queste bambine sono famiglie nelle quali gli adulti sono ormai totalmente
muti, distratti dalla propria infelicità esistenziale o alle prese con il tentativo di superarla
attraverso agiti -che si tratti di stroncarsi di lavoro o di rifarsi il naso-. Non c’è nessuna
sfida in questi comportamenti, nessuna esibizione di autonomia, i soggetti sembrano aver
rinunciato a qualunque confronto con le figure di riferimento e anzi a casa si attengono
con la più totale compiacenza ai desiderata dei genitori.
Della stessa qualità scissa le bravate dei pariolini -che si ingaggiano nella molestia nei
confronti del compagno marginale o del professore giovane e senza vestiti di marca e poi
tornano a casa dal papà avvocato e dalla mamma depressa- oppure i racconti di vittime e
carnefici di episodi di bullismo.
Difficile capire quanto le storie siano vere piuttosto che verosimili, certo è che se le
pagine di giornale, ma anche qualche confidenza “di straforo” di figli e pazienti, hanno
almeno un po’ di realtà, la discoteca (ma anche lo stadio e le toilette di molte scuole
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Psicologa, Psicoterapeuta, Socio e Docente PsiBA.
Quaderno di Psicoterapia del Bambino e dell’Adolescente (2009) Vol. 29, pp. 31-39.
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medie, superiori ed inferiori) sembra aver acquisito caratteristiche di “extraterritorialità
morale” che sono solo in parte familiari alla nostra generazione.
In altri termini ampi strati delle attuali giovani generazioni -tanto ampi da costringerci a
ripensare i comportamenti senza la, tutto sommato, rassicurante etichetta di “patologia”sembrano possedere l’idea che ci siano luoghi e situazioni dove è possibile agire
comportamenti che mettano alla prova le proprie nascenti capacità sessuali e seduttive o
di performance fisica (bere tanto, guidare nonostante l’influsso di sostanze stupefacenti,
fare a botte, distruggere) senza alcuna forma di confronto e rispecchiamento, se non con
il gruppo dei pari. Alcuni luoghi ed alcune situazioni diventano pertanto dei “non
luoghi”, ambienti scissi nei quali si possono sperimentare parti scisse di sé per tornare
poi alla propria “identità principale” come in un video gioco, senza che mamma e papà si
siano accorti di nulla.
Un ragazzo di buona famiglia visto nell’ambito di una CTU per il T.M. racconta con
ironia ma anche con profonda delusione che”lui consumava un rotolo di carta argentata
alla settimana per confezionare le stecche di fumo che vendeva e la mamma diceva –“Gli
serviranno per farsi i panini!-”.
Quando, durante gli incontri peritali alla presenza dei genitori, racconta
provocatoriamente delle sue “trombate” e di aver subito all’oratorio una molestia
sessuale la signora si copre gli occhi con una mano e cambia discorso.
In un quartiere popolare della città da cui provengo limitrofo a casa mia si starebbe
diffondendo un comportamento di cui avevo letto qualche anno fa in un articolo che si
riferiva ai quartieri degli immigrati della banlieu parigina. Trattasi della cosiddetta”gang
bang”, volendo tradurre”botta di gruppo”.
Da quel che ho appreso la ragazza (dalle mie informazioni di età intorno ai 13-14) accetta
o talvolta provoca le attenzioni sessuali anche violente di un gruppo di coetanei.
Ciò le procura uno status di eccellenza rispetto alle altre ragazze, sottoforma di
“dominio” del maggior numero di ragazzi e fornisce ai maschi una rassicurazione di
gruppo rispetto ad una esperienza che, in particolare nella primissima adolescenza, crea
nel singolo fortissime ansie da prestazione. Il passaggio dalla violenza all’accettazione
consenziente è talvolta quasi indistinguibile.
Nel parco giochi vicino a casa mia due ragazzini, evidentemente in età di scuola media
inferiore, stanno facendo una sigaretta con le cartine o più probabilmente rollando una
canna: quando mi avvicino per inseguire mio figlio che gioca la nascondono. Sono
tentata di dire loro qualcosa, ma poi lascio stare.
Una giovane paziente, fortemente inibita, arrivata in studio per una fobia scolastica che
l’aveva costretta ad abbandonare il secondo anno delle scuole superiori, durante la
terapia inizia a frequentare il gruppo degli ultras della squadra di calcio della piccola città
dove vive: durante le trasferte riesce a fare fantasie sentimentali su un altro tifoso e
durante gli scontri con le altre tifoserie, pur non partecipando attivamente alle violenze le
fiancheggia gridando slogan violenti e razzisti e parolacce profondamente in contrasto
con i suoi atteggiamenti cattolici e paesani, ma in maniera completamente egosintonica e
scissa.
Faccio una terribile fatica dentro di me ad utilizzare in terapia questi episodi secondo una
valenza evolutiva, che pure a mio parere posseggono.
Mi limito a queste vignette che, nella loro estrema eterogeneità, ritengo possano fornire
spunti per una breve riflessione su cui mi piacerebbe, in questa sede, aprire con voi un
dibattito.
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L’ipotesi preliminare da cui vorrei partire è che nella fase di adolescenza e
preadolescenza -i cui limiti temporali come sappiamo vanno sempre più sfumando e
anticipando- non sia la qualità della condotta, più o meno a rischio, più o meno lontana
dagli standard morali adulti, quanto la testura della relazione in cui la condotta è inserita
che rende i comportamenti più o meno patologici, più o meno pericolosi o viceversa
funzionali alla crescita.
E’ il rapporto con l’interlocutore adulto, la sua capacità di mettere tra parentesi la propria
soddisfazione narcisistica al fine di prendersi cura dell’altro, la sua capacità di permettere
all’altro di assumere un rischio “in presenza di un garante” che marca la condotta in
senso evolutivo o di empasse.
In adolescenza la propensione a rischiare è uno dei parametri che nella mia pratica clinica
tendo a considerare quando incontro un adolescente: di fatto la capacità di affrontare i
rischi costituiti dalla possibilità dello scacco, (che sia il rifiuto da parte di una ragazza,
oppure un insuccesso scolastico o di un’impresa sportiva) sembra essere una delle misure
della strutturazione del sé e del grado di sviluppo all’interno del processo di separazioneindividuazione nella sua declinazione adolescenziale.
Benché l’adolescente deviante o portato all’agito salti con più frequenza agli onori della
cronaca, (forse anche perché la sua violenza e la sua energia vitale scatena nell’adulto
timori legati alla propria crescente vulnerabilità) nello mio studio privato e nel lavoro
peritale che svolgo su incarico del T.M. principalmente con ragazzi coinvolti all’interno
di separazioni conflittuali, mi imbatto più facilmente in giovani che viceversa sono
impastoiati in forme di inibizione e apatia anche gravi legati alla difficoltà di assumere
rischi e di accedere a comportamenti sessuali, esplorativi o genericamente di “messa alla
prova” delle proprie nascenti abilità relazionali e di performance corporea e intellettiva.
Queste condotte oggettivamente possono talvolta sfociare anche in situazioni a rischio,
ma l’evitamento di tali “prove” può anche costituire una severa forma di inibizione dello
sviluppo.
Il rischio è in quest’ottica una indispensabile premessa della crescita: infatti non pare
dato di crescere senza affrontare rischi che tuttavia non possono essere simulacri di
rischio, mere rappresentazioni simboliche -pensiamo alla cruenza delle prove di
iniziazione nelle società tradizionali- ma devono davvero mettere alla prova le nascenti
capacità dell’individuo e la sua capacità di affrontarli. Perciò nell’affrontare tali cimenti
non solo non è possibile il supporto diretto del genitore reale, ma il soggetto deve anche
riuscire a porsi in maniera critica rispetto al genitore interiorizzato, col quale ora può
intessere un contrasto dialettico.
Tuttavia, com’è noto, si rischia davvero e con successo solo in presenza di una rete, si
esplora, riportando a casa la pelle e i diari di viaggio solo se si lascia un porto sicuro o
una Penelope paziente. In mancanza di contenitori disponibili e solidi il viaggio diventa
fuga, il rischio azzardo, effige di un’avventura che si svolge lontano da se stessi, che non
contribuisce a crescere e può diventare tragedia.
A qualcuno di noi sarà capitato di far un viaggio in situazioni psicologiche non ottimali,
partendo per noia o disperazione, privo forse di oggetti interni positivi: al ritorno tutto era
come prima e quasi non c’era contatto con il “me stesso” dell’avventura esotica.
I comportamenti tratteggiati negli esempi precedenti hanno caratteristiche di massa e ciò
significa che rappresentano un modo di divenire grandi che, ci piaccia o no, ha a che
vedere con la nostra epoca e che non può essere liquidato come “deviante”.
Sono condotte che hanno la caratteristica a mio parere di essere agiti in assenza di oggetti
di riferimento. Meglio possiamo dire che sono agiti in presenza di oggetti assenti o
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deanimati, -la madre depressa, lo spettatore anonimo che si può spegnere con il
telecomando- oppure chiusi ed inservibili a causa dell’uso narcisistico che fanno della
relazione con il soggetto in crescita oppure ancora (ed è una situazione in cui ho visto
facilmente anche colleghi in qualità di terapeuti) di adulti resi sordi dalla paura perché, a
loro volta, non sono stati in grado in prima persona di correre rischi evolutivi a suo
tempo.
Non sono comportamenti sintomatici e non solo per motivi epidemiologici. Ricordiamo
l’acuta interpretazione di Winnicott del furto in adolescenza come sintomo di richiesta e
di speranza.
Ciò vale credo per tutti i sintomi: il sintomo si struttura come richiamo ed implica un
bersaglio e l’aspettativa che questi in qualche maniera riceva e risponda al messaggio.
Mi viene in mente come emblematica in tal senso una mia paziente adolescente, bambina
da sempre parentizzata di una famiglia gravemente malata, che comincia a farsi tagli con
le forbici dopo il nostro primo contatto.
Anna O. tossiva, come ricorderemo, prendendo a prestito la tosse dal suo amato padre,
che si potrebbe dire rappresentava sia il modello che il bersaglio del sintomo.
La stessa etimologia della parola sintomo richiama il concetto di “prendere insieme”,
come se il sintomo fosse un segnale la cui caratteristica principale è di essere
comprensibile in modo condiviso, e che, come ci insegnano gli studi di etnopsichiatria, si
sviluppa se e solo se rappresenta un significante a cui un interlocutore può dare
significato.
Si potrebbe ipotizzare che nelle più gravi patologie e nei ritiri autistici il sintomo senza
cambiare sostanzialmente questo significato di segnale e richiamo, divenga opaco alla
comunicazione come la lingua di una civiltà perduta che, sommersa dalle sabbie del
tempo e divenuta incomprensibile, non per questo perde il suo valore comunicativo e il
suo senso. Non a caso il messaggio psicotico o autistico inizia a diventare intelleggibile
quando il terapeuta, con tatto e determinazione, nel tempo inizia a costituirsi come
presenza, progressivamente più vitale e separata.
Pertanto ritengo che le condotte di massa, per quanto disfunzionali, non possano essere
considerate sintomi non solo per questioni statistiche, ma soprattutto perché non paiono
informate da intenzioni comunicative.
Gli adolescenti per statuto si fanno da sempre carico di assumere in sé e trasformare i
valori e le condotte della generazione precedente: nel nostro caso, qualunque siano le
nostre idee politiche e che ci piaccia o no, sopra ogni valore etico, i valori a mio parere
sono quelli del mercato e dell’efficienza fisica e intellettuale.
Tuttavia, essendo in parte venuta meno la differenza tra le generazioni, il salto tra adultiormai sempre giovani nel fisico e nella mente - e giovani, - dalla nascita pensati come
oggetti sessuali e di consumo-, è venuta meno anche la possibilità di avere un
interlocutore al quale inviare i propri sintomi.
Queste condotte a rischio non sono più, a mio parere richieste di aiuto e pertanto vengono
consumate in luoghi separati della mente e dell’esistenza, come tentativi di autocura o di
scarica pulsionale che non permette riflessione ed elaborazione.
Mi vengono in mente le parole di un collega, esperto e conosciuto medico ed
etnopsichiatra, che, alla sua prima esperienza peritale, di fronte alla virulenza del
conflitto tra genitori, persone sane e socialmente ben riuscite che tuttavia non
risparmiavano né a sé né ai figli qualunque nefandezza, mi disse, quasi a lenire il proprio
sconcerto: “Noi siamo abituati ai nostri pazienti, che sono persone che soffrono,
riflettono, chiedono aiuto. Qui è tutta un’altra cosa, questa è la gente normale!”.
Se è vero quanto dice Meltzer il quale collega la maturazione dell’adolescente alla sua
capacità di spostarsi in modo elastico (ovvero integrato e non scisso) dalla famiglia alla
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scuola e al gruppo dei pari, possiamo dire che vaste aree della popolazione giovanile non
sono in grado di accedere ad una crescita reale che li porti ad una maturità creativa e
responsabile. Come abbiamo visto gli ambiti e le immagini di sé restano quasi
impermeabili gli uni agli altri. Bambini per sempre in famiglia durante la settimana e
porno star o devianti onnipotenti del sabato sera, la maturazione sembra strutturarsi
sull’onda di più “Falsi Sé” che di fatto, a differenza della struttura che conosciamo, non
sembrano proteggere alcun nucleo identitario.
Pertanto ritengo inutile e moralista catalogare questi comportamenti in base alla
pericolosità oggettiva, all’illegalità o a criteri etici.
Il parametro individuale è relativo, conta maggiormente la dinamica collettiva, proprio
come in guerra o nelle situazioni estreme sono ben pochi i soggetti che riescono a
sottrarsi ad alcune condotte tipiche del contesto basandosi sulle proprie risorse personali.
Ciò naturalmente non elimina né la responsabilità individuale, né tanto meno l’influenza
della strutturazione e della storia personale: la resilienza rispetto all’accesso a condotte
più o meno a rischio e più o meno devianti è evidentemente funzione delle proprie
caratteristiche individuali e dell’ambiente relazionale da cui si proviene.
Tuttavia qualunque discorso parta da un giudizio a priori o anche da una informazione
rispetto alla gravità del rischio, come si è visto per esempio nelle ricerche-intervento sul
rischio in adolescenza (si vedano i lavori del Minotauro) si rivela fallimentare se non
riesce a penetrare la cortina di chiusura ed esclusione che mai come in questa
generazione, a mio parere, circonda e delimita le giovani generazioni.
Nel film Little Miss Sunshine (nomination al Sindacato americano degli autori) una
famiglia piena di affetti quanto stravagante affronta un viaggio tra mille peripezie per
accompagnare la piccola Olive a coronare il suo sogno: partecipare al concorso di
bellezza per bambine concorrendo per il titolo di Miss Sunshine.
Il gruppo è composto da un padre fallito che scrive libri su come avere successo, uno zio
aspirante suicida, un fratello adolescente che non parla mai, un nonno cocainomane che
compra giornaletti porno, una madre che cerca di tenere tutti insieme. La bambina è un
personaggio dolce, ancora immersa nella calda atmosfera delle relazioni familiari
infantili e osserva con giudiziosa e distaccata attenzione i drammi degli adulti che le
stanno accanto.
La relazione più importante e struggente è quella col nonno: è con lui che Olivia sta
preparando il numero con il quale si presenterà alla competizione. L’anziano e la
bambina provano il numero mille volte ma fino alla fine allo spettatore -e neppure agli
altri componenti della famiglia- sarà dato di sapere in cosa il piccolo spettacolo consista.
Finalmente, dopo aver affrontato, tra le altre cose, la fine dei sogni di gloria del padre,
diverse panne del vecchio furgone che li trasporta tutti, e, non ultima, la morte nel sonno
dell’amato nonno e relativo grottesco occultamento del cadavere, il gruppo giunge alla
meta.
Il concorso si tiene in un grande albergo situato nel nulla delle praterie americane: l’hotel
è invaso da ninfette, con sorrisi di plastica e capelli impiastricciati di lacca,
accompagnate da mamme tanto trepidanti quanto narcisisticamente e impietosamente
impegnate al raggiungimento dell’agognato riconoscimento.
Solo quando Olivia sale sul palco capiremo che il nonno, vecchio viveur, ha costruito il
numero per la nipote rifacendosi agli spettacoli che gli erano evidentemente più familiari,
ovvero gli spogliarelli dei locali notturni della sua epoca, con il loro armamentario di
cilindro e guanti lunghi, gli sculettamenti e le gambe aperte a cavalcioni sulla sedia di
rito.
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Nella sala grande dell’hotel il pubblico esplode di indignazione, mentre il gruppo
familiare, dopo un primo momento di sconcerto, si ricompatta per applaudire la bambina
con l’entusiasmo e la commozione che solo i genitori ad una recita scolastica sanno
avere. La figura di questa bimba di 10 anni e la sua interpretazione sono straordinarie e
tenerissime.
Lo spettatore è portato a domandarsi: perché la piccola Olivia, che pure si presenta in
abiti succinti ed interpreta nel numero l’immaginario erotico di un uomo adulto, col suo
corpo ancora teneramente infantile, non è oscena? Perché riesce a mantenere il divino
distacco dai drammi e dalle passioni adulte che solo l’infanzia felice e ben accudita sa
avere, mentre le sue rivali, fasciate nei loro abiti costosi dal gusto quasi circense e alle
prese con numeri di abilità, danza o canto da cagnetto ammaestrato risultano
inevitabilmente lascive ed impudiche, oltre che infelici in modo straziante?
La risposta credo vada trovata nello sguardo del nonno cocainomane: è la sua casta
passionalità nei confronti della nipote che assurge ai suoi occhi al ruolo di eterno
femminino senza che mai ciò tracimi in un utilizzo incestuale della relazione, è la sua
profonda ed istintiva consapevolezza del suo ruolo genitoriale -che forse gli viene a sua
volta dall’aver sperimentato e rischiato- è la sua dedizione, persino la sua disciplina nelle
prove che trasformano la sessualità nascente della bambina in gioco e sogno e la tengono
a riparo ancora per un po’, dandole la possibilità di avventurarsi senza rischiare.
E’, come dicevamo, la qualità della relazione con l’interlocutore adulto che rende il
comportamento più o meno a rischio e non la condotta in sé stessa: è il sogno narcisistico
del nonno che ha plasmato la nascente sessualità della bambina facendole incarnare la
sua idea di donna che si incontra col sogno narcisistico della bambina di diventare grande
e bella. Sono due narcisismi che si incontrano, ma due narcisismi “buoni”: era solo un
sogno e nessuno si fa male, perché ciascuno resta se stesso e lascia all’altro la libertà di
essere quello che è e vorrà divenire.
Viene da pensare all’opera di Senise: da un lato la sua teoria e la sua pratica clinica in cui
ha incarnato la figura dell’adulto come interlocutore capace di rispetto ma anche di
fermezza e dall’altra quella sorta di inno alla libertà (e dunque all’assunzione del rischio)
che ha intonato, quando alla relazione con l’adolescente ha dato come indispensabile
cornice l’amore per la propria libertà, in nome della quale non avrebbe mai acconsentito
a coartare la libertà altrui.
L’unica suggestione con cui mi sento di concludere è il dubbio che, forse, non si può far
altro che esserci e che non ci si può costituire come presenze, come sguardi attenti ma
rispettosi e dunque protettivi, se non si fanno i conti -e forse si affronta anche il lutto- con
il proprio amore (e la propria paura) per il rischio.
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