Testo - Antonio Ferrazzani

Transcript

Testo - Antonio Ferrazzani
Il Prologo
Luise sedeva di fronte a me nel treno che ci portava
- anzi, che a volte ci trascinava - verso il sud dell’Italia. Il
convoglio ferroviario era tra i più veloci ma dopo la prima
ora di viaggio la noia ci aveva già raggiunti e fermamente
agguantati. A tratti la mia compagna cambiava posizione,
un breve movimento, quasi impercettibile per chi non
avesse lo sguardo fisso su di lei come me. Era un’esigenza
a cui “doveva soggiacere”, mi aveva spiegato una volta.
Forse un fatto nervoso, ma ogni tanto doveva cambiare
posizione, darsi una lieve, lievissima scrollatina.
Come per svegliarsi dal sonno incombente, nel caso
di momenti noiosi? O per sfuggire a un sogno poco
gradevole o...impossibile? Ne avevamo riso insieme.
Come una giovane puledra, Luise scartava, oppure
“cambiava binario”. Ma, se nei treni si avvertiva il tonfo di
quella manovra, nel suo caso non si poteva rilevare nulla o
quasi.
1
Luise, di solito - ma diciamo pure “sempre”- sedeva
di fronte a me, viaggiando nel verso del treno. Se le
carrozze avanzavano, lei avanzava, se indietreggiavano
anche lei indietreggiava. Si trattava di un’abitudine, di un
dolce costume che intendeva favorire le sue preferenze.
Una volta si leggeva, nella letteratura “sdilinquita”, che gli
innamorati offrivano un mazzetto di fiori, accompagnando la donna amata in un viaggio, e glielo porgevano allorché la incontravano. Un mazzetto che poteva servire per
affondarvi il viso, nel caso la compagnia del treno le
risultasse spiacevole o l’odore poco gradito. Un gesto
simpatico e allo stesso tempo mutamente erotico perché la
fortunata, ricevuto il cadeau, provvedeva a tuffarvi il viso
e poi a stringerlo al petto, e magari a far scivolare uno dei
fiori nell’asola della giacca. Oppure in quello della
camicetta, in audace prossimità del seno. Così che il
compagno poteva fantasticare su di un luogo tanto
significativo e delizioso; o poteva rammentarne le ombre
colorate, se fosse già l’amante della giovane donna.
Ecco, io facevo qualcosa del genere lasciandola
viaggiare nel senso di marcia.
Ma perché poi dire “giovane donna”? L’amore non
ha età e non ne ha mai avuta. E i sessuologi hanno messo a
disposizione degli interessati tutta una letteratura che
esemplifica come non soltanto l’amore non ha età ma
addirittura non l’avrebbe la fruizione sessuale - più o
meno.
A volte, osservandola in quella sua posizione fra il
riservato e il sonnacchioso, mi veniva da pensare che
Luise a tratti si ritirasse in un luogo della sua anima, e che
volasse verso un mondo lontano dal mio, in un universo
che al di là delle perfette ciglia del suo maquilla-ge la
2
cullasse con le sue speciali dolcezze. In quei mo-menti mi
sentivo come su di un altro treno, che compisse un viaggio
solo parallelo al suo. E ne soffrivo.
Altre volte mi sorprendevo a pensare che la mia
compagna, piuttosto che essere avvolta nei veli di un altro
mondo, fosse semplicemente nell’attesa di qualcosa o
forse di qualcuno. Mi sembrava che il suo atteggiamento,
fra il sognante e l’estatico, altro non fosse che il luogo
dell’aspettativa di quanto doveva prima o poi accadere.
Povera Luise, mi dicevo in quei casi, povera e cara
Luise così maltrattata dalla mia immaginazione, cosi
fraintesa dai miei occhi! Lei aspettava solo di gettarsi fra
le mie braccia, quando saremmo arrivati a destinazione,
per nutrirsi di me come io mi nutrivo di lei, entrambi
ancora insaziabili come durante i primi mesi della nostra
conoscenza.
Per carattere sono un uomo che potrebbe essere
molto violento ma non lo è perché non crede nell’efficacia della violenza. Credo di più nel tentativo della
convinzione, nelle fatiche della spiegazione e, a volte,
addirittura nell’efficacia delle metodiche di corruzione. In
fondo, la violenza è praticata da chi non ha mezzi
materiali o intellettuali, da chi non ha una vera esperienza
della vita e si riduce alla forza muscolare, addirittura
all’omicidio.
Io evito...aspetto. Attendo il mio turno. L’ho atteso
per fare parte della cattedra universitaria a cui collaboro, e
lo stesso faccio nelle altre cose più o meno importanti
della mia vita. L’attesa paga perché comunque insegna.
Con Luise in modo particolare, che è dolce, furbetta,
3
dedita al silenzio quando qualcosa non è andata per il
verso giusto e la sconfitta l’ha mortificata.
Bene, eravamo nel bel mezzo di una situazione del
genere - a causa di un costume esageratamente scosciato
che aveva voluto acquistare a Venezia - quando la porta
alle mie spalle scivolò fischiando leggermente, e la
carrozza fu invasa dal rumore delle ruote contro i binari e
dal sottile lezzo ferroviario proveniente dal di fuori, oltre
che da un uomo sulla quarantina. Alto e dai capelli rossi.
Rossi? Non proprio, piuttosto del colore dei capelli di
Robert Redford in non so quale film in cui il famoso attore
americano aveva dispiegato tutte le sue virtù amatorie e
fatto immaginare alcune delle sue capacità sessuali. Il
ricordo durò un breve istante, poi un immediato accattivante sorriso avvolse sia me che Luise, e subito
diventammo un trio. Non foss’altro perché l’uomo doveva
occupare il posto accanto a me, l’ultimo vuoto della
carrozza.
Rompere il ghiaccio non fu facile ma, ad un certo
punto, mi accorsi che Luise stava soffrendo di quell’
obbligato silenzio. Si “smuoveva” più frequentemente, e
sembrava suggerirmi con gli occhi di fare qualcosa, qualunque cosa. L’unica cosa che mi venne in mente fu offrire
al mio vicino la rivista che stavo sguardando, certamente
più interessante del catalogo di una catena di supermercati di Milano al momento nelle sue mani.
- Posso offrirle una chance intellettuale?
L’altro si volse a guardarmi, un po’ meravigliato e
anche un po’ seccato, mi parve. Di fatto, il mio non era un
modo intelligente per iniziare a condividere il breve spazio
di quel viaggio. Ma tanto mi era venuto di escogitare nei
brevi attimi in cui Luise mi chiamava a soccorrerla.
4
- Grazie. Cominciavo a essere stanco di guardare
tute e scarpe da trekking - disse poi sorridendo.
Per alcuni minuti il silenzio si richiuse su di noi, ma
Luise mi parve rasserenata. Si muoveva con maggiore
scioltezza, sporgendo il capo in avanti per guardare dal
finestrino o compiendo brevi gesti come lisciarsi i
pantaloni o esplorare la borsa che aveva in grembo.
Poi l’uomo fece sentire la sua voce, e io mi accorsi
di come essa potesse essere bassa e tinta di una riflessiva
malinconia. Quasi che parlasse con se stesso invece che a
noi, cosa del tutto inequivocabile.
- La gente parla dell’Africa come di un troppo vasto
quartiere del mondo, piuttosto che di un continente. Non
crede?
Si rivolgeva a me ma era evidente che le sue parole
fossero indirizzate anche a Luise, che a tratti gli aveva
lanciato sguardi curiosi, un po’ indiscreti ma possibili
dopo esserci specchiati tutti e tre nelle stupidaggini della
stessa rivista.
- La gente non sa cosa dire ma solo cosa fare:
vendere il giornale - l’altro continuò. - Tutte le altre cose
sono di poca importanza.
- Lo scoop, dice lei? Capisco. Ma non solo lo
scoop... Qualunque informazione oggi è inaffidabile.
Senza accorgercene, viviamo nel mondo della fantasia,
viaggiamo sui binari di pretese intuizioni ideologiche...E
su errori marchiani come le false cifre compitate con
sottolineata precisione, e le informazioni mendaci fatte
scivolare da qualche gnocca cinquantenne ben rifatta in
camerino - o altrove -, o da qualche maschietto-mezzobusto dall’impeccabile aplomb fin dove si vede...
5
Philip era Phil per gli amici, e anche noi lo
chiamammo così. Si trattava di un uomo più o meno
“piacione” - un po’ meno di qualcuno e un po’ di più di
qualche altro - che indossava un paio di jeans e una giacca
di daino, di cui si era liberato un attimo prima di sedersi
accanto a me. Era della mia statura e costituzione fisica,
ma la testa era di quelle che abbiamo visto più volte in
televisione o in un altro dei media. In essa si notava la
passione per il dettaglio: il colore dei capelli, gli
innumerevoli riccioletti raggruppati e accuratamente sistemati, l’inquadratura tutta che disegnava un volto che
solitamente si definisce stellare. O forse stellare leggermente allungato: non che io me ne intenda molto. E che la
fisiognomica avrebbe detto appartenere a persona un tantino effeminata.
Per quanto attiene alle idee, Phil si dimostrò un
critico della post-modernità, ma non un conservatore. La
sua caratteristica era tutta altrove, e ce ne saremmo accorti
presto. Quando parlava, sembrava che decollasse per
territori elevati, probabilmente ignoti a chi lo stava
ascoltando, e poi si stabilizzasse insieme al suo uditorio a
una “certa altezza”. Aveva un atteggiamento che tendeva
al “professorale”, una sorta di intenzione affascinatrice
mista a un’emozionalità coinvolgente. Io, che lavoro all’
università, me ne accorsi subito. Era un uomo che si
produceva in un mestiere che non conosceva, che non era
il suo. Per non parlare della lingua, colorita al punto da
essere qua e là ridondante, ma precisa, viva, provocante
nelle allusioni sessuali. Quando il discorso si fu inoltrato e
ci ritrovammo tutti e tre nell’Africa del diciassettesimo
secolo, mi chiesi se quelle doti le avesse ricevute, più che
dai suoi studi, dai suoi contatti con i bantù; se non avesse
6
sviluppato la sua capacità di coinvolgimento emozionale
nell’abitudine alle civiltà primordiali di cui trattava e dei
loro sciamani. Si sa che le popolazioni di quelle culture
sono particolarmente efficaci nel trasmettere con ampia e
diversificata fisicità i loro messaggi intellettuali, fino a
raggiungere il mimo passando per la maschera. E più
consideravo quanto sarebbe stato impossibile per me
rivivere, durante le mie lezioni, le emozioni che lui aveva
probabilmente già vissuto decine di volte in altri racconti
di illustrazione di quelle civiltà, più mi rendevo conto di
assistere a una sorta di spettacolo che mi era già sfuggito
di mano, o che mi sarebbe sfuggito di lì a poco.
E iniziai a nutrire una sorta di diffidenza per
quell’apparentemente insignificante momento di un viaggio, di per sé non molto incisivo ma che forse si incamminava verso un insospettato happening.
La cosa che presto iniziò a meravigliarmi fu l’atteggiamento di Luise. La mia fiancé aveva dapprima resistito
- forse per la sua innata discrezione - a partecipare con
dichiarata attenzione all’affastellarsi di notizie e riflessioni
di Phil, rivolgendo sguardi sfuggenti e falsamente attenti
al panorama, ma poi, liberatasi da ogni remora, aveva
iniziato a seguire attentamente il discorrere dell’altro. Ora,
io mi dissi, Luise non si era mai interessata al Continente
Nero e alle sue relazioni con l’Europa. Ci era capitato di
discuterne molto poco, forse solo in due occasioni della
nostra vita sentimentale. Nella prima le avevo spiegato che
il cannibalismo sembrava indurre la follia in coloro che lo
praticavano con frequenza; e la seconda riguardava gli usi
e costumi sessuali dei popoli che andavano praticamente
nudi ventiquattrore su ventiquattro. Come facevano le
7
ragazze a rimanere vergini in tali condizioni? - si era
chiesta e mi aveva chiesto Luise.
Si trattava di una domanda esigente, che richiedeva
una risposta complessa, e il previo esame di una diversificata casistica che evidentemente io non ero all’altezza
di fornirle. Si faceva così da noi, all’università. Di conseguenza mi ero limitato a replicare di avere ascoltato da
qualche parte - ma proprio non sapevo dove e come mai che, durante un jamboree di grandi cuochi, e alla fine di
lunghe discussioni su quel piatto o su di un altro, sulle
stranezze culinarie di una subcultura o di un’altra, il
membro più importante della compagnia, lo chef N°1 , con
un risolino fra l’accattivante e il cinico, era uscito in una
espressione inattesa: La migliore, amici miei, è la carne
umana!
A quel punto Luise si era rifiutata di proseguire ed
aveva decisamente cambiato argomento. Proprio ciò in cui
avevo confidato. Cosa ne potevo sapere io di verginità, di
sessualità femminile, a parte la fatica che mi era costata
portarmi lei a letto?
Man mano che il discorso andava avanti, e noi
risalivamo i secoli fra le parole e i sorrisi del nostro mentore, mi accorgevo che come per incanto dal volto di Luise
era scomparsa ogni traccia di quella caratteristica che lei
esibiva così spesso: l’attesa. I segni di quella muta quanto
sottaciuta aspettativa che io dovevo gestire con e per
amore, erano del tutto trascorsi. Luise non aspettava più,
era immersa nel presente. Sembrava che, se mai ci fosse
stata qualcosa da attendere per lei, era l’Africa.
Senza dubbio.
8
Phil, dopo essersi immerso fino al Capo di Buona
Speranza, e averci illustrato la natura essenzialmente
strumentale dell’interesse per tale capo della Compagnia
Olandese delle Indie Orientali, a causa del rifornimento di
quanti volessero controllare l’accesso di naviglio all’Oceano Indiano (leggi Governo Olandese), o rifornirsi di
generi alimentari recandosi per i loro commerci nelle Indie
Orientali (leggi trafficanti olandesi), aveva fatto un secco
balzo nell’era napoleonica. E qui, dopo aver illustrato
come il Capo avesse mutato padrone più di una volta,
durante i dissapori fra il Corso e la pallida Albione, ci
aveva finalmente rivelato l’origine delle sue conoscenze
specifiche a riguardo di quella parte del mondo - che di lì a
poco lui definì come il culo del mondo, in fatto di
progresso tecnologico e civile.
Per la verità la frase mi spiacque, ma, ragionandovi
su - nell’arco dei brevi secondi lasciatimi a disposizione
da Phil - mi dissi che più di una Alta Corte avrebbe
tollerato, benevola e civilmente condiscendente, tale
espressione. Fra l’altro, qualche fine giureconsulto
avrebbe argomentato che la signora non era più vergine da
un pezzo - come io sapevo benissimo -, e quindi c’era
poco da scandalizzarsi...! Insomma, una frase senza pudore, sì, ma “in qualità di intellettuale io avevo poco da
recriminare”.
In realtà la famiglia di Phil aveva fatto parte fin dai
suoi inizi dell’insediamento europeo vivamente sponsorizzato e alla fine ottenuto dalla Corona Olandese in quella
parte delle terre emerse - nel lontano 1652 - perché in quel
modo, cioè con quell’insediamento ufficiale, i problemi
relativi ai traffici commerciali sarebbero sensibilmente
diminuiti, e tutto sarebbe filato liscio in quell’angolo del
9
mondo, a giudizio del Governo Olandese e dei politici
dell’Alta Europa.
- Un lungo lunghissimo percorso, miei cari... e
numerosi membri della mia famiglia presero parte alla
colonizzazione e allo sfruttamento di vasti territori nel sud
dell’Africa. Ma, allorché “tutto il meglio accadde”, il ramo di mio nonno aveva da qualche tempo deciso di
rinunciare a vivere in quelle terre che, se non proprio
dorate, potevano diventarlo da un momento all’altro.
E si trasferì in Germania.
A questo punto il nostro mentore aveva iniziato a
parlare dell’Olanda, e di Amsterdam in particolare, non
ricordo con precisione il collegamento degli argomenti. E
le sue espressioni, la sua emozione per l’antica terra degli
avi, avevano dipinto meravigliosi paesaggi extra urbani e
squarci di antiche e nobili città. Nei suoi toni affiorava la
nostalgia per quei luoghi, che era andato poi a conoscere, e
un’emozione almeno pari a quella con cui ci aveva
raccontato di luoghi dell’Africa del sud.
Avrei potuto dire qualcosa anch’io, interferire in
qualche modo... Si trattava di uno Stato e di una città che
avevo visitato più volte...Ma non mi riuscì. Temevo, fra
l’altro, che la mia voce, a paragone della fascinosa
morbidezza di quella dell’altro, potesse apparire acuta,
forse addirittura sgradevole alle orecchie di Luise.
Poi il condizionamento dell’aria si interruppe d’improvviso, e quanti vi erano dovettero abbandonare la vettura.
Anche Phil dovette interrompere il suo racconto. Il
caldo si faceva sentire, e noi stessi ci trasferimmo in una
delle carrozze più a monte. Ma, proprio mentre ci stava-
10
mo riprendendo dall’afa che ci aveva aggredito negli
ultimi dieci o quindici minuti, Luise s’accorse di aver
lasciato il bolero di seta che aveva deciso di indossare
durante il viaggio - per non mostrare le ascelle perfettamente glabre e sensuali della sua giovinezza, cosa che a
me non era dispiaciuta - nel contenitore portaoggetti al di
sopra delle nostre teste, nella carrozza da poco abbandonata. In effetti, la temperatura del vagone era alquanto
più bassa di quella in cui avevamo viaggiato fino a
qualche momento prima, e il bolero non disdiceva. Ed io
non volevo che proprio nel momento in cui Luise era
diventata ancora più preziosa ai miei occhi a causa di
quell’estraneo, dovesse pensare che io la trascurassi. Il
mio corpo e la mia anima in quel primo pomeriggio
ribollivano per lei.
E fece per alzarsi e andare a prenderlo.
La cosa era evidentemente assurda, sia io che Phil ce
ne rendemmo conto immediatamente. Due uomini non
lasciano che una giovane donna vada a riprendersi
qualcosa che ha dimenticato in un vagone ferroviario a
due tre scompartimenti di distanza. E il suo amante? Non
provvede direttamente ma declina ad altri tale compito!?
Proprio quando io mi alzai per fare il mio dovere di
accompagnatore, lo stesso fece Phil. E fu la prima volta
che quell’istrione la toccò. La cosa mi dispiacque ma il
gesto di sfiorarle il gomito, invitandola a desistere, era
spontaneo e inteso a introdurre la sua proposta. Non era
un’avance. Intendeva recarsi lui stesso a prendere il
bolero, nella carrozza che a quel punto doveva essere
diventata un forno!
11
Compresi di essere stato dribblato e ficcato dalla
sorte nel dilemma o di mostrarmi a Luise poco cavalleresco nei suoi confronti - e di non essere interessato
dopotutto alla publicizzazione delle sue meravigliose
ascelle -, o di doverla lasciare in compagnia di Phil nella
vettura deserta... Quel toccarla, seppure con gentilezza e
giustificato motivo, non mi era piaciuto. Non mi sembrava
di buon auspicio, mi dissi. Il tempo si dilata o si restringe,
è soggettivo. La filosofia occidentale ha preso in profonda
considerazione questo suo aspetto almeno dal IV secolo,
da quando Agostino iniziò la propria indagine su di esso.
Il mio tempo, in quei brevi attimi, mi parve un gelido
mare, pallido e infinito, che mi stringesse mutamente nella
morsa di fauci impietose. Pensai alle ascelle della mia
amante - a quel punto entrate vivamente nel gioco - e ad
altre parti del suo corpo facilmente raggiungibili nell’
afosa stagione. Alle labbra tumide e fresche di lei, e a
quelle così grossier di Phil. Silenzioso, il mare già mi
lambiva le visceri ghiacciandole. Dovevo decidermi.
Di scatto mi alzai e mi precipitai verso la porta che
introduceva al resto del treno alle nostre spalle. E fui fuori,
triturato dai morsi della gelosia e dai panorami dell’immaginazione, a quel punto accesa più dai miei sentimenti che
da quelli che potevano dibattersi nella mente di Phil, o
sulla punta delle sue ricordevoli dita. E nei pochi minuti
che impiegai a divorare le due carrozze appena superate,
tutte le peggiori oscenità del mio repertorio sessualfantastico invasero la scena della mia mente, rendendomi
quasi folle per il timore di cosa poteva accadere in quel
preciso momento, e vicino ad essere malamente schienato
da un carrello con caffè, bibite e lascivi panini imbottiti, le
12
cui rotelline non erano state fermate a dovere, che quasi
mi mandò gambe all’aria.
Al mio ritorno Luise mi sorrise e senza dire una sola
parola si portò un dito alle labbra in segno di ringraziamento.
Nel contemplare la scena del tutto normale, di lei un
po’ rannicchiata nel sedile e pertanto più lontana da Phil di
quanto fosse stata prima, io mi sentii il cuore esplodere di
gioia e fui per un attimo del tutto risucchiato dal silenzio
in cui si era adagiato quella sorta di piccolo bacio. Phil le
stava dicendo qualcosa di evidentemente stupido, quando
io ero entrato nella carrozza - per non dire “vi avevo fatto
irruzione” spinto dalla mia ansia - e si era interrotto al
mio ingresso.
Senza che lei avesse dato il minimo segno di notare
lo spegnersi della sua voce, mi dissi.
Quel bacio fra noi era un segno, ed aveva una
valenza erotica ben maggiore di quanto il gesto in se
stesso potesse dire. Apparteneva alla sintassi della nostra
antologika amorosa, rappresentava un bacio intenso,
speciale, e ci piaceva appunto per la sua capacità di
dissimulare la sua vera portata allorché eravamo in
presenza di altri.
Quindi Phil, intrecciate con me poche parole sul
basso grado di temperatura dell’ambiente in un paio di
frasi senza senso, riprese la sua narrazione.
Luise taceva, ma, dopo averla guardata più volte,
dovetti ammettere che pendeva letteralmente dalle labbra
del narratore. Era come...dimentica di tutto tranne che del
racconto di Phil. E vittima del suo stesso modo di parlare,
13
di quel tono insieme affabulatorio e allusivo di un’intimità spirituale che non poteva assolutamente esistere fra lui e
Luise. Un po’ più su della divisione dei seni di Luise,
brillava il punto luce che le avevo regalato in occasione
della recente promessa matrimoniale. In quei momenti
c’eravamo ripetuti con soddisfazione che facevamo
davvero bene a sposarci. Era sembrata crescere fra noi,
oltre all’intesa e alla generosità a cui gli amanti sono tenuti
fra le lenzuola, anche quella speciale congiunzione metafisica che si chiama complicità, e che rende decisamente
solido il rapporto di due persone che vogliano vivere
insieme per tutta una vita. Il sapere cosa passasse nel
cuore dell’altra a un semplice gesto era stato motivo di
eccitazione non solo carnale ma anche spirituale. Una
sensazione di “volare” con lei e per lei, e non solo su di
lei.
Ma con Phil nulla di tutto questo poteva esistere.
Phil era nessuno, e sarebbe stato stracciato con i biglietti
del viaggio una volta giunti a destinazione.
A dispetto di tutto, nel corso di quel raccontare
Luise si “ammorbidì” ulteriormente, fino a sciogliersi del
tutto e a partecipare con il più vivo interesse a quella
“orazione” sull’Africa. Alla fine - vale a dire dei trenta
minuti di parole di Phil intervallate a una gestualità composta ed efficace, e ad altre piccole cose come il passaggio
del conduttore del treno e del carrello-bar da cui acquistai
due caffè per noi e un piccolo scotch per omaggiare
l’oratore - l’espressione del suo viso era cambiata. Era
divenuta come quella che io avevo visto sul suo volto in
momenti di particolare esaltazione, e che speravo che lei
replicasse spesso per il compimento della mia felicità, una
volta che fossimo stati marito e moglie.
14
In quegli istanti - e ancor più me ne convinsi nei
mesi a venire - i racconti di Phil (per quanto infarciti di
storia e di economia, anzi forse proprio perché in tal modo
si costituivano in autentica realtà, in prove provate)
avevano invaso la sua immaginazione, si erano fatti largo
prima nel suo cervello e poi, poco a poco, all’interno del
suo cuore. E purtroppo io, per essere l’uomo che da mesi
giaceva con lei a conoscerla biblicamente, ero senz’altro la
persona più indicata a rilevare non solo il fatto ma anche i
probabili indizi. Dalle sue labbra semiaperte, dagli zigomi
leggermente arrossati, dagli occhi lucidi e brillanti, e
dall’agitazione delle dita nevose, di cui io conoscevo la
stretta nei momenti della soddisfazione del suo estro, da
tutto insomma si vedeva apparire nel breve spicchio del
più ampio oceano dell’essere, vale a dire all’interno della
vettura ferroviaria, una nuova persona. Lo svelto rizoma
del suo corpo, fresco e segnatamente femminile, sorreggeva, nel suo scuotersi e tremare, un sorriso che esprimeva
le passioni della persona, il fiore maturo della sua
bellezza, lo stesso frutto di una finalmente liberata
personalità. Mi parve che Luise fosse diventata un’altra, al
vento africano dei racconti di quel Phil dal sangue una
volta olandese, poi boero, quindi tedesco, e ora forse
italiano.
Tuttavia, la meraviglia - intrecciata al piacere di
possedere una tale bellezza, e di potere tra poco
congiungermi a lei per tutta la vita - fu raggelata dal
pensiero che quell’estraneo fosse coinvolto nella mutazione della mia amante, e nel piacere che essa mi
procurava. Ma chi era, Phil, per essersi insinuato, e per
dover essere sopportato nell’intimità della nostra vita a
due? Nei penetrali del mio cuore e del mio corpo, laggiù,
15
nei recessi delle nostre più profonde radici che gli psicoterapeuti sostengono di conoscere solo loro oltre che Dio?
Fu un sentimento, tuttavia, che se insorse spontaneo
e violento ebbe anche vita breve. Dopotutto dovevo essere
riconoscente a Phil per aver fatto sorgere ancora una volta
sul viso della mia amante un’espressione tanto splendida
ed eccitante! In fondo ero io che l’avrei goduta, io che
avrei “degustato” quel tesoro per tutta la vita a venire.
Sarei stato io a scaldarmi alle infocate tensioni dei suoi
calori per i molti e molti anni del nostro matrimonio. Phil
era il cerino che in quel particolare momento aveva acceso
la sua fiamma, ma era mio l’incendio di cui mi sarei
nutrito in futuro, e di cui peraltro già mi nutrivo.
Proprio in quell’attimo del mio turbamento Luise
strinse fra l’indice e il pollice il punto-luce, quel costoso
suggello in cui si presagiva l’eternità del nostro amore. E
il mio cuore dette nuovamente in un balzo. Anche quello
apparteneva alla nostra erotika segreta, anche quello era
un segnale. Quello stringere delicatamente il piccolo
diamante, e insistere, insistere nel gesto finché io non lo
avessi rilevato e non avessi ricambiato con uno sguardo di
intesa. Toccarci, accarezzarci con delicatezza e con forza,
essere la stessa unica dolce cosa a dispetto di tutto e di
tutti, a dispetto del mondo...
Luise sembrava soddisfatta, felice, mentre, senza
staccare gli occhi dal suo interlocutore, stringeva il piccolo
diamante con voluta non-chalance. Dopo quel regalo, mi
aveva confessato, qualcosa era mutato nel suo cuore, nel
nostro rapporto. Si era sciolta un’ultima remora in lei, nel
cuore, nel corpo...Come se il gioiello le avesse infuso una
fiducia che ancora non aveva conosciuto. E una serena
16
semplicità nella nostra vita spirituale e...sessuale che la
incoraggiava.
Così, di tanto in tanto, in particolare quando
eravamo in presenza di estranei, raccoglieva il diamante
fra due dita e mi parlava del nostro amore, del suo
desiderio... in una rinnovata promessa per quando
saremmo stati nuovamente soli, la sera, nel buio del nostro
nido, una cosa sola per sempre nella gioia della reciproca
passione, del nostro perfetto amore. Alla piccola luce di
quel diamante.
Alla fine il mare partenopeo ci aggredì con la sua
bellezza, e tratti di aspre scogliere attraversarono il nostro
campo visivo prendendo posto fra i nostri ricordi
immortali.
Eravamo quasi giunti a destinazione, e io dissi :
- Abbiamo prenotato al Vesuvio...
Con un’espressione di pura gioia, Phil replicò:
- Alloggerò anch’io al Vesuvio. Me ne hanno parlato
molto bene.
Mi sforzai di essere compiaciuto della cosa, ma non
potetti fare a meno di rivolgere lo sguardo verso la mia
amante. Aveva gli occhi indirizzati a una dorsale di grigie
scogliere solenni e petrose degradanti verso il mare, e solo
a fatica staccò lo sguardo dall’aspro coacervo per fissare
qualcosa di inesistente nell’incavo del proprio grembo.
Mentre il piacere procuratole dall’ascolto del racconto di
Phil mi parve ancora vagare sulla perfetta miniatura del
suo volto.
- Concludo la storia, aggiunse a quel punto Phil. - La
ragione del nostro trasferimento in Germania è molto
semplice. Durante la Grande Guerra, in cui l’Inghilterra, la
17
Francia, il Belgio e il Sud Africa si erano impegnati nella
conquista dell’Africa Orientale Tedesca, molti boeri - vale
a dire gente di razza olandese trasferitisi lì - avevano
partecipato a quella sanguinosa guerra in cui trovarono la
morte 4.000 soldati africani e circa 30.000 portatori. Terre
di sangue e di leoni, e di un sole che spacca il cervello e il
cuore agli uomini che osano calcare - col rischio di
lasciarvi attaccati i piedi - quel suolo maledetto....
Nel partecipare alla terribile guerra coloniale, mio
nonno vide tali e tante efferatezze compiute dai suoi
conterranei che non volle tornare mai più in patria e,
arresosi alle forze tedesche - dichiarandosi disposto a
fornire informazioni di interesse bellico - passò dall’altra
parte. Un atto che si può giudicare “inopportuno”, lesivo
del suo onore, degno di immediata fucilazione sul campo,
ma per noi della famiglia, a cui mio nonno raccontò le
crudeltà compiute sui negri, e a volte anche sui bianchi
catturati nelle azioni di guerriglia notturna, tutto divenne
logico e alla fin fine eticamente necessario. Un soldato
deve avere come principio la difesa della patria e dei suoi
interessi e non il piacere nello scoglionare vivi i
prigionieri che si catturavano all’ombra delle dune del
Bechua-naland.
E’ proprio così, la verità a volte si rivela per una
realtà ben diversa da quella che ci appare, e di conseguenza acquista anche un sapore tutto particolare intessuta
com’è anch’essa di dubbio e fragilità umana. E’ così che
noi da olandesi diventammo tedeschi, e ora siamo
italiani...
Poi Phil, chiedendone il permesso a Luise, si
addentrò nell’enumerazione di alcune delle torture a cui
venivano sottoposti per pura ferocia i prigionieri catturati
18
nelle brevi incursioni notturne fuori campo, anche se feriti.
Poco per volta, Luise sbiancò in viso che più non avrebbe
potuto, ed io dovetti abbandonare per qualche minuto il
mio posto per prendere aria lontano dalla vista di Phil, e
fare gli sforzi necessari per non rimettere anche l’anima
sul pavimento plastificato della vettura.
Al mio rientro, il silenzio piombò su di noi come se
ciascuno di noi dovesse digerire la coscienza, oltre che
degli eventi narrati da Phil, di quel fatto terribile, di quel
tradimento che dopo tutto era stato un riconoscimento
della dignità umana, il volto palese di un soldato che
diventava un eroe e raccoglieva l’alloro delle sue azioni
proprio tradendo la sua gente. Fu un silenzio che durò per
qualche minuto, quasi che avessimo bisogno di tempo per
far luogo nelle nostre piccole anime a sentimenti così alti,
a decisioni così coraggiose e coinvolgenti.
Quindi entrammo nel territorio partenopeo, e Phil,
con eleganza e grande classe, chiuse l’argomento recitando la frase di rito.
- Mi auguro di poter visitare almeno una parte delle
rovine ancora esistenti da queste parti...delle vestigia di un
mondo che è in gran parte alle radici della nostra civiltà...Concludendo, si è sempre parlato male di Catilina ma
qualche storico, tempo fa, ha detto che bisognava
riconsiderare con maggiore attenzione e intelligenza politica quel particolare della storia di Roma, quel fatto così
sconvolgente...
Ed io ero sul punto di unirmi a quello che mi
appariva un nobile proposito quando Luise, quasi risvegliandosi da un lungo sonno, con voce squillante lo fece
per me.
19
- Oh sì, anche noi vorremmo fare qualcosa del
genere! Intendo dire...la visita alle rovine...Ma di Catilina
ne so così poco...
Poi Luise mi lanciò un breve sguardo, e fece uno di
quei quasi impercettibili movimenti che io conoscevo così
bene. Ma non di quelli che faceva in pubblico, piuttosto un
accomodarsi meglio contro il mio corpo, che era il segno
di una soddisfatta conclusione dell’amore, e in cui si
capiva come fossimo destinati uno all’altra. Di come fossimo una coppia sessualmente affiatata, attiva da cinque
anni, e che aveva sviluppato la giusta intimità.
Una cosa di cui mi ero sempre vantato con me stesso, e qualche volta con qualche amico o amica di lunga,
lunghissima data.
Appena arrivati nella magnifica camera che l’hotel
internazionale innalzava sul golfo partenopeo, ordinammo frutti di mare annegandoli in una bottiglia di ottimo
spumante, e rimanemmo vicini un’altra mezzoretta. E poi
facemmo l’amore.
Quella notte io e Luise non dormimmo molto.
Evidentemente a causa dello stato di eccitazione
causato dai racconti sull’Africa boera e sulle atrocità della
I Grande Guerra nel Continente Nero, per non parlare del
rifiuto del vecchio olandese della sua gente, della sua
razza perversa, allorché si era trovato ad essere testimone
dell’inferno che la guerra può raggiungere.
Luise fu meravigliosa, arrendevole e generosa complice come non era mai stata fino allora, ed io fui felice
perché mi parve di conoscerla finalmente un po’ meglio,
dopo quegli anni di reciproco impegno relazionale. Poi di
nuovo lei si spinse contro di me e facemmo altre due
20
chiacchiere. Quindi mangiammo dei babà innaffiati da un
ottimo e fresco rum, ci riposammo ancora, ma solo un
breve pisolino, e di nuovo facemmo l’amore. Luise sembrava...Non sapevo cosa dirmi, o come dirmelo, ma
“insaziabile” fu la parola che mi salì alle labbra in più di
un’occasione quella notte. Dire “assatanata” non mi piaceva, mi sembrava di sporcarla, anche se solo nella mia
mente. Avevo scoperto una nuova donna al mio fianco
e...E, per quanto mi riuscisse difficile confessarlo a me
stesso, in quella “liberazione liberatoria” erano certamente
coinvolte le storie dell’Africa del sud, dei bantù, e lo
scoglionamento di diversi neri ndebele che avevano combattuto, per sfortuna loro, al fianco dei tedeschi sul confine
dell’Africa Occidentale Tedesca. Era come se si fosse
aperta una nuova strada sul suo cammino, e che lei,
percorrendola con i primi passi, avesse individuato una
ulteriore meta sulla strada dell’amore. Ma il fatto che a
questo potesse aver partecipato Philip vattelapesca, pollone moderno di avi boeri, ebbene questo non voleva dire
che io non dovessi godere in quella notte del progresso
fatto nella nostra erotika, non dovessi gioire di quell’
amore selvaggio che per la verità avevo atteso nel mio
cuore da sempre. In cui, sin dal primo momento del nostro
incontro nel negozio di Wyatt, dove avevamo scoperto di
acquistare entrambi una certa qualità di tè verde e ci
eravamo dati appuntamento, avevo sperato con tutto il mio
cuore.
Il mattino successivo, in un’ora di giorno pieno in
cui l’equilibrata felicità delle condizioni atmosferiche
mantenevano le promesse delle luci e degli splendori di
cui solitamente si parlava al riguardo di quelle coste, feci
21
una veloce doccia, mi vestii a puntino, e scesi a far
colazione. Probabilmente Luise era già lì, nell’opulenta
sala da pranzo appena intravista il giorno precedente. A
consumare la colazione con quello stupido paroliere non si
sa se olandese, tedesco, o italiano.
L’idea mi era venuta in mente improvvisa, sgradevole, adatta a causare un più che leggero turbamento.
Ma subito mi dissi che potevo farci poco, e che comunque
i fastidi di quello stronzo erano senz’altro bilanciati dal
miracolo...erotico a cui la mia innamorata e io stesso
avevamo appena soggiaciuto. Cosa si può fare? La vita è
tanto strana quanto varia, tanto inarrestabile nelle sue
offerte quanto indomabile nelle sue...pretese. Intorno però
non si vedeva nessuno, aggiunsi accomodandomi a un
tavolo già apparecchiato. Neanche avevo avuto il tempo di
formulare la salomonica conclusione che, fra un sorso e
l’altro da un enorme calice di succo di pompelmo in cui
stavo uccidendo l’attesa, un giovane cameriere mi
raggiunse con un perfetto slalom fra i tavoli, tenendo in
equilibrio sulla sinistra un ampio vassoio con uova e
prosciutto, mostarda veneta, e stringendo nella destra
quella che mi parve una candida busta con biglietto.
- Ancora buon appetito signore. Da parte del
concierge - disse quando posò il tutto sul tavolo. E fu via.
Ingollai quanto restava del pompelmo nel calice e,
mentre agguantavo fra l’indice e il pollice il biglietto, mi
dissi che forse Luise era stata convinta dalla nostra recente
conoscenza a fare quattro passi sul superbo lungomare
partenopeo. E, liberato il biglietto dall’immacolato
involucro, lessi:
Amore, purtroppo le nostre strade si sono divise.
22
La vita spesso ci porta sull’orlo di scelte inevitabili
che, per quanto crudeli possano apparire, fanno parte del
nostro destino. Phil e io ci allontaniamo in silenzio per
evitarti il dolore del distacco. Chissà, forse ci rivedremo
ancora, e tu che sei così buono mi avrai completamente
perdonata. Forse avrai addirittura dimenticato quanto ci è
capitato e, in un’altra vita, potrai essere il padrino di uno
dei nostri figli. Ti ho amato, mi hai amata, lasciamoci da
persone civili, da gente moderna che sa riconoscere il
proprio dovere. Ti ricordi quello che ha fatto il nonno di
Phil? Quale nobile comportamento ha tenuto, quando si è
trovato a fronteggiare la verità? Bene, facciamo anche
noi qualcosa di simile davanti all’ineluttabile. Addio!
NB - Ti prego, in ricordo del nostro amore inviami
le cose che ho lasciato nella stanza a questo indirizzo di
Milano. Tu sei stato sempre molto buono con me. E’
l’ultima prova d’amore che ti chiedo; dal momento che la
notte scorsa è stata certamente una notte di passione, ti
chiedo di sigillarla nella reciproca memoria con questa
cortesia.
Tua fino all’alba appena trascorsa, o quasi. Luise.
Sotto i miei occhi le uova e il prosciutto si freddarono pian piano nel piatto; e i rossi, una volta perfetti,
persero ogni brillantezza mentre le palpebre dei minuti
scanditi dal mio cuore scendevano su di essi. Non sapevo
cosa pensare. Ormai ero solo, solo e fisicamente provato.
La notte e quel relativo risveglio non erano trascorsi
invano. Non sapevo cosa pensare ma egualmente consumai le uova, divorai con rabbia la mostarda veneta e, alla
fine, allorché il giovane cameriere si riavvicinò al tavolo
23
per chiedermi se volessi qualcos’altro, lo interpellai con la
fredda cortesia adatta all’occasione.
- Può mandarmi la femme de chambre della 562?
Devo dirle qualcosa. - E a conclusione gli passai una
frusciante mancia, come sapevo che si faceva in tutto il
mondo civile.
- Certamente, signore.
Poi, alla ragazza, miracolosamente apparsa dal nulla
di una porta finestra alla mia destra, dissi con una certa
non-chalance:
- Lei si prende cura della 562?
- Sì signore...?
- Bene, tutto quello che la signora che l’occupava vi
ha lasciato è suo. Buongiorno.
L’altra mi guardò un po’ meravigliata, quindi fece
un breve cenno di ringraziamento con il capo e scomparve
in direzione del concierge per assicurarsi, probabilmente,
che nulla potesse esserle imputato se avesse fatto quanto le
chiedevo, intanto che il giovane cameriere ascoltava
curioso sparecchiando un tavolo a qualche metro di
distanza.
Luise era la mia amante da cinque anni, o poco
meno, una studentessa che, partecipando al mio corso, era
venuta verso la metà dell’anno a chiedermi in quale modo
potesse superare l’impasse in cui si trovava. Era fuoricorso
da due anni, e non riusciva a sbloccare la situazione che si
faceva di mese in mese - ma anche di giorno in giorno più preoccupante perché la sua spinta verso gli studi
cominciava a lambire lo zero.
Mi parlò senza vergogna, e le parole che scivolavano fra le sue labbra giovani e tumide con tanta
24
sincerità mi convinsero che dovevo fare qualcosa. Le dissi
di portarmi il libretto perché potessi esaminare la sua
situazione, ed anche il piano di studi accettato dall’
autorità accademica. Forse “si poteva fare qualcosa”. A
quel punto i suoi occhi brillarono di felicità, e io vi lessi
una intensa luce che non avevo mai visto nello sguardo di
una donna. Prendemmo un appuntamento, che lei segnò
con cura nella sua agenda, e poi, quando capì che eravamo
arrivati al termine dell’incontro, mi porse dita fresche e
affusolate da stringere nella mia mano come al solito
macchiata di inchiostro. E fu via.
Mentre si allontanava lungo l’ampio corridoio, non
avevo potuto fare a meno di seguirne la figura che
sculettava sveltamente verso un’altra aula. Era in ritardo,
mi aveva detto abbandonando la sua mano nella mia. E il
suo sparire dalla mia vista provocò in me una sensazione
di vuoto che quasi fischiò nelle mie orecchie.
In seguito parlammo poco dell’impasse da cui avrei
dovuto sbloccarla, e, per quanto mortificato dall’insuccesso pedagogico, dovetti convenire con lei di avere incontrato pochi giovani il cui interesse per gli studi fosse tanto
vicino allo zero. Si trattò di un amore feroce che mi lasciò
poco scampo, anzi che non me ne lasciò punto. Quindi
cominciammo a convivere, e nel lustro trascorso insieme
avevo tanto apprezzato le sue labbra tumide e il suo veloce
sculettare - ma solo quando aveva fretta - che le avevo
chiesto di sposarmi.
Circa tre mesi prima.
25
I
Quel tradimento lo aveva letteralmente sconvolto. E
capire che quanto era accaduto aveva oscurato un certo
tipo di relazione sia con l’altro sesso che con l’idea dell’
amore, costituì un colpo ancora più forte per Mark.
Luise lo aveva privato di una parte di se stesso. In
alcuni momenti si sentiva incerto, diffidente della sua
sensualità e del suo gusto di vivere la vita. Schiacciato in
qualche senso e in diversi modi dal “prepotere femminile”.
Spesso gli intellettuali hanno una rigidità più o meno
inconscia, ben mascherata da una elasticità frutto di
matura ”razionalizzazione” ma pur sempre posteriore,
secondaria. E si sa che, se l’abitudine è una seconda
natura, questa seconda natura a volte deve fare i conti con
la prima. L’irreparabilità dell’evento di cui era stato
vittima gli parve segnasse un traguardo raggiunto. Il suo
atteggiamento “contemplativo” nei confronti della donna
era scomparso per sempre, era sparito, risucchiato dal
nulla. La donna non avrebbe potuto essere mai più oggetto
26
della sua attenzione e del suo piacere nel modo e nella
misura in cui lo era stato fino a poco prima. Luise gli
aveva strappato uno dei suoi cardini, la relazione, lo
spessore, il vivere di un amante.
Tutto questo, con il passare del tempo, aveva
provocato un vuoto nel suo atteggiamento quotidiano,
nella sua esistenza personale e relazionale, che lo faceva
soffrire terribilmente. In qualche modo lo aveva
disamorato della donna, che, una volta negata nella sua
precedente concezione, non riusciva ad apparirgli così
intensamente desiderabile in altra veste.
La prima parte della sua vita - egli aveva concluso doveva considerarla come quella dedicata all’uomo
“sensibile” ma immaturo nella percezione e nella gestione
della sua sensibilità/sensualità. Si trattava dell’uomo
governato dai suoi desideri, dalla natura instabile in tutti o
in molti aspetti della personalità umana.
Nella seconda parte l’uomo è stato purificato
dall’insuccesso. Da un fuoco che ha improvvisamente
distrutto le sue mete, e in buona parte quanto costituiva il
suo quotidiano, il piacevole cammino verso di esse. Una
volta sensuale, egli non lo è più perché, da essere pensante
qual è, ha compreso la debolezza dell’amore, l’insoddisfazione che esso provoca, e le conseguenze che
comporta. E la futilità di ogni difesa dalla persona che lo
nutre, quando ce ne lasciamo catturare.
A questo punto Mark si piegò sul suo lavoro di
docente universitario e, quasi disperando che quella parte
della sua vita potesse avere una rinascita, partecipò con
grande interesse e vigore alla vita dell’Ateneo, fino al
punto di essere proposto - insieme ad altri colleghi - per
passare dall’attuale posizione di associato a quella di
27
ordinario di una delle due cattedre che si erano rese
disponibili in quel periodo. E, di poco a seguire, gli venne
proposto di andare a rappresentare l’Ateneo all’estero per
un evento internazionale. Doveva scegliere fra Oslo e
Amsterdam. Si trattava di due simposi biennali, due
convegni alquanto diversi fra loro. A Oslo il tema era
Letteratura dei fiordi e sfida nazifascista; ad Amsterdam
l’argomento sarebbe stato La libertà del pensiero e
l’apporto dell’evento esistenziale: il limite di un concetto e
il concetto di un limite.
Ora, per quanto i giochi di parole non gli piacessero, gli era sembrato che il secondo tema fosse più
consono alla sua storia e alla sua personale psicologia. E
così aveva accettato l’incarico scegliendo la seconda sede.
Tra l’altro, dei fiordi ne sapeva poco, e ancora meno ne
sapeva della lotta anti-nazista che si era tenuta a quelle
vertiginose altezza di paralleli.
E poi... era tempo che si chiedeva se l’esperienza di
Luise lo avesse reso più libero o più povero. Se la sua
rinuncia a quella donna lo avesse...castrato. Se quell’
evento...
Forse quell’incontro gli avrebbe chiarito le idee.
Di fatto conosceva Amsterdam sin dagli anni
universitari. Quella città era stata parte delle sue mete per
un contatto più realistico, per un incontro ravvicinato con
la cultura e la vita d’Europa al di fuori dell’Italia. E lo
aveva sempre affascinato la conquista compiuta dagli
olandesi di buona parte del suolo su cui vivevano. La
considerava un’opera specialmente significativa, in
qualche modo l’icona, più di molte altre cose, del dominio
sul mondo e del successo dell’homo faber. Gli metteva
28
sempre i brividi, durante i suoi soggiorni ad Amsterdam o
in altre località dei Paesi Bassi, pensare che solo una
cintura di cemento, pietra e acciaio lo dividesse dall’
oceano e dall’annegamento. Una cintura costruita dalla
sapiente mano dell’uomo, che gli permetteva di sopravvivere alle onde del mare gelido, il frutto di un’epopea che
attraversava secoli e secoli, e che aveva compiuto la stessa
benefica operazione nei confronti di milioni di persone che
avevano vissuto e che ancora vivevano lì. Si trattava di un
brivido in cui l’angoscia era sufficientemente sommersa
dall’orgoglio di appartenere lui stesso al genere umano,
che aveva compiuto quell’ operazione spinto dalla necessità, dal progresso, dalla stessa volontà di conquista.
Una conquista a cui era stata necessaria una grande
forza e una paziente inarrestabile intelligenza. Come intellettuale se ne rendeva perfettamente conto.
Oltre questo c’era dell’altro che, nonostante tutto, lo
legava ad A’dam - come molti chiamavano la città. Nel
primo periodo, dopo il brusco abbandono della promessa
sposa, si era trovato ad attraversare una fase di religiosità
in cui aveva ardentemente sperato che Dio gli rendesse la
sua donna, insieme al passato/futuro che era stato così
dolce quando l’aveva avuta accanto. Come una spinta
religiosa che inspiegabilmente intendesse guidarlo verso
l’Olanda, la nazione che era saltata fuori nel racconto della
vita del suo nemico, dell’uomo che gli aveva strappato
Luise dal fianco, e che aveva rappresentato con le sue
parole - davanti agli occhi di lei - la modernità a tratti
sfrenata della “Venezia del Nord”, la forza e la leggerezza
del suo destino di luogo di orizzonti conquistati, lo
splendore della sua golden age. Uno sfondo sicuramente
29
eccitante per lei che, in quei lontani momenti, pendeva
letteralmente dalle labbra dello sconosciuto in giacchetta
di daino. Forse, nella sua immaginazione, anche il ricordo
delle sue visite giovanili a quella città, insieme all’istintivo
desiderio di riassaporare il gusto di quella età, a un certo
punto lo avevano spinto a convincersi che Luise fosse
stata portata lì dal nuovo compagno. Magari a seguito
della richiesta della donna, che doveva vedere negli
accenni a quel paradiso di modernità urbana tout-court il
fondale, se non la culla del nuovo amore. Poteva incontrarvela e convincerla a un passo indietro. Luise era
romantica, e attaccata alle piccole cose come ai ricordi
minimi.
Quell’idea gli si era conficcata nella mente fino al
punto che, dopo sei mesi di lontananza dell’amante, aveva
deciso di chiedere quindici giorni di sospensione di un
corso che stava tenendo, o di sostituzione nel suo
svolgimento da parte di qualcuno dei giovani ricercatori in
grado di farsene carico. Altrimenti sarebbe ricorso
all’anno sabbatico, se il consiglio di facoltà non avesse
voluto sentire ragione.
Ma la licenza gli era stata accordata, il corso - La
demotivazione in letteratura come corollario all’avanzata
del progresso tecnologico: fatti e idee - avrebbe subìto una
sospensione di due settimane, per riprendere agevolmente
vita al suo ritorno. Lui ne era stato felice. Gli era
sembrato che quella decisione accademica, unitamente alla
spinta verso quella meta, avesse una natura profetica, gli
parlasse delle sue speranze e della concreta possibilità di
riavere Luise.
30
In quell’occasione qualcosa lo aveva insieme turbato
e interrogato. Turbato per le evidenti coincidenze e disponibilità del Consiglio di Facoltà. che aveva incontrato nel
percorso di quella breve liberazione; e interrogato da una
domanda scolpita nel cielo della sua mente e della sua
fede: davvero Dio pensava a lui, si interessava del suo
amore - era mai possibile?
Tutto a quel punto poteva cambiare nella sua vita.
Ed era partito.
Ma, una volta arrivato ad Amsterdam, le cose si
erano dimostrate più difficili di quanto avesse immaginato,
e alla fine il suo piano si era rivelato impossibile a
realizzarsi. Come poteva, e dove poteva incontrare Luise e
il nuovo amante? Aveva vagato per intere giornate nel
centro della città, in diversi musei, nei ristoranti dove si
riversavano i turisti e che potevano essere affrontati dalla
finanze dei due. Non credeva che l’altro fosse un creso, né
pensava che Luise disponesse di molto denaro; ma era uno
degli aspetti del loro vivere insieme in cui lui non aveva
mai voluto ficcare il naso. E dopo la prima settimana era
crollato. Da quel momento in poi quella visita guidata,
anzi sospinta da una speranza religiosa, e dalla presunta
visione che un nuovo mondo si potesse aprire davanti a lui
proprio per l’evento “profetico” di quel viaggio, si mutò in
un angosciante e insensato aggirarsi per strade e bar, per
canali e negozietti, e in cento altri luoghi “interessanti” per
i turisti che lei certamente avrebbe voluto visitare, ma
scendendo sempre più giù, di gradino in gradino, verso la
disperazione che lo colse l’ultimo giorno di permanenza in
città.
Quel mattino, tenebroso di nebbia e di una lingua di
cui a stento capiva l’assolutamente necessario, si era detto
31
di essere stato uno sciocco a credere che potesse avverarsi
quello in cui aveva sperato, che Dio potesse interessarsi
alla sua piccola storia. A quel morsello di vita che
rappresentavano sia lui che Luise. Si era trattato dello
snodo debole di un evento deludente e malinconico,
nient’altro. E, quasi a cancellare con un atto di solido
razionalismo scientifico le speranze in quella sorta di
miracolo che sarebbe stato imbattersi in Luise, aveva
visitato per l’ultima volta l’Oudemannhuispoort , uno tra i
più vecchi e famosi passaggi coperti della città per i
banchi di antichità librarie che allogava, una sorta di degna
appendice agli edifici occupati dall’Università di
Amsterdam. Era sabato, un giorno in cui il luogo
esplodeva dei suoi visitatori come a volte sembra che il
guscio di un uovo fresco possa esplodere del suo
contenuto. L’attraversamento durò circa una trentina di
minuti durante i quali i suoi occhi continuarono a scrutare
i volti che lo circondavano, ancora increduli del suo
destino e di quello che ormai appariva come un definitivo
oltre che consumato abbandono da parte dell’amante: se
neanche Dio si occupava del loro impossibile ricongiungimento... Un breve tratto di tempo in cui la testa e il
cuore accolsero tutta l’amarezza che poteva essere accolta
da ciascuna di quelle parti della sua persona.
Poi fu la chiusura, l’abbandono di ogni speranza che
l’impossibile fosse a portata di mano. In qualche ora aveva
guadagnato dapprima la stazione centrale e poi Schiphol.
Si può dire che, durante il viaggio di ritorno, si
compisse l’assoluta purificazione che lo aveva invitato a
dimenticare, anche se non del tutto, quanto era accaduto.
Sul volo della KLM c’era una giovane hostess inglese che
32
gli si era proposta con uno speciale smagliante sorriso su
gambe perfette. Era stata una sua alunna a F e lo aveva
riconosciuto subito. Ancora si ricordava di qualche breve
colloquio in cui...
Ma per cosa, poi, utilizzarla?!
Dopo anni di studio, e di considerazioni insieme
generali e vaghe, incominciava a pensare che il fondamento, vale a dire il nucleo della singola vita umana, non
fosse l’esercizio della sua sensualità - e quindi della
sessualità, per quanto questa dovesse provvedere alla
prosecuzione della specie -, ma piuttosto la percezione
crescente, anche se così spesso fragile, che l’essere sia una
continua - magari sottaciuta, o addirittura inconscia - lotta
contro l’insignificanza.
Perché una cosa? A quale scopo?
Lui non era di quelli che pensavano che la vita avesse un’assurda doppia valenza, da una parte l’avvicinarsi a
sempre maggiori traguardi dell’intelligenza, e dall’altra lo
scivolare verso la morte. Che senso ha crescere per
morire? Svilupparsi per dissolversi nel nulla? Acquistare
coscienza, penetrazione del reale dirigendosi verso una
fine/distruzione? Una simile concezione gli era sembrata
sempre una cosa assurda, ma anche un’autentica introduzione al mistero del suo esistere. E lui preferiva
accettarne il mistero, accettare l’incomprensibilità dell’atto
di vivere di alcuni momenti, sperando che il futuro, poco
alla volta, gliene spiegasse le vere motivazioni.
In un simile modo in parte oscuro, anche le dighe, i
canali, la lotta contro le acque, acquistavano un nuovo
profilo - si era detto quando l’aereo aveva iniziato a
alzarsi. Quella stupenda opera di ingegneria idraulica che
33
permetteva ai Paesi bassi di esistere, era qualcosa di più di
una vittoria per l’immediato, per il quotidiano. C’era più
senso nelle dighe e nei canali, in quella loro potenza
vittoriosa. Quasi una metafora, ma non semplicemente in
quanto opera dell’homo faber. La violenza delle acque non
doveva prevalere, era scritto nel cuore degli uomini che
avevano lottato per quella terra. E se mai si verificava una
sconfitta, questa non poteva essere definitiva. Quasi che la
dominanza dell’uomo fosse così profonda in lui da
costituirne buona parte dell’essenza. Era così che leggeva
quelle dighe e quei canali, e tutta la vita e la cultura che lo
circondavano.
Forse il domani lo avrebbe attrezzato con una
risposta ai suoi interrogativi migliore, più soddisfacente.
Con una risposta di maggiore intelligenza; era questo che
gli suggerivano la sua stessa esperienza e il suo lavoro.
Bisognava vivere aspettando che il tempo...
Anche se tutto è gestito da una scansione a volte
crudele, che ci fa soffrire...
Così, se ogni cosa doveva avere un suo senso, per il
momento non gli sembrava che un’eventuale notte
trascorsa con una bella e giovane donna avesse davvero un
senso. Non in quel momento. Sarebbe stato piacevole
spogliarla in un’elegante suite d’albergo, un luogo da far
sognare entrambi; o nel suo pied-a-terre di Milano,
ricordando il tempo in cui l’aveva avuta come alunna.
Senz’altro una grande scopata, ma senza significato...
L’alba del suo seno - i cui capezzoli marcavano così
decisamente la leggera blusa della compagnia - sarebbe
stata presto un giorno come tutti gli altri. Un frutto dolce
sotto i denti ma inutile ai fini della sua vita più interiore.
34
Della vita che contava davvero. Perché vivere deve essere
un atto all’altezza dell’uomo.
E proprio quella conclusione, proprio quel rifiutarsi
di fare quella cosa giusto per farla, aveva sigillato
quell’infelice “esperienza religiosa”. Ma allo stesso tempo,
invece che conficcare in lui l’amarezza della sconfitta, gli
aveva lasciato il sapore dei giorni a venire. Come il
profumo di un bosco si attacca a noi, e noi, una volta
all’aperto, per qualche momento ancora lo sentiamo, dopo
che le piante sono definitivamente alle nostre spalle.
Amsterdam era il testimone di un infelice passato e
allo stesso tempo il punto di partenza verso un nuovo
futuro. E lui sarebbe andato in Olanda a vedere, a sentire
come “l’evento influisce sulla libertà del pensiero umano”.
Si era anche preparato per quella partecipazione al
convegno. Almeno un po’.
Allorché il “capo” lo aveva chiamato per chiedergli
quale fosse la decisione in merito ai due congressi, lui gli
aveva comunicato la sua scelta fornendogli alcune delle
ragioni che lo spingevano verso Amsterdam. Certamente
non quelle personali. Sapeva che chiarire, a volte, può
essere considerato un indice di debolezza, ma motivare
brevemente una scelta non era poi sempre autolesionistico. Poteva significare lucidità, impegno. E il “capo”
era la persona che aveva sollecitato la sua candidatura per
una delle due cattedre che si erano liberate. Qualche
collega lo chiamava “l’occhio” perché osservava e
ricordava tutto. Oltre al fatto che quelli che si conoscono
meglio sono anche quelli che si gestiscono con più facilità.
E questo a lui non poteva fare danno.
35
L’altro aveva incamerato la sua comunicazione,
quindi aveva preso dal tavolo un volumetto che profumava di libreria e glielo aveva passato.
- Allora questo è per te. Non ho capito bene il
motivo ma ce l‘hanno recapitato insieme all’altro materiale per l’incontro fra “le fredde acque dei canali”.
Affinché potessero passarsi il volume, avevano
dovuto chinarsi entrambi un po’ in avanti. La scrivania, da
uno dei cui angoli l’altro aveva preso il volumetto, era
enorme. Se non fosse stata nuova di zecca, o quasi, se ne
sarebbe potuta sospettare una radice fascista. Una grande
scrivania in un ufficio grande; se ne era parlato in
Amministrazione di quell’ufficio, gelato d’inverno e di
una misura al di là di ogni effettiva necessità. Così
avevano deciso di ristrutturarlo per aumentarne la tenuta
termica, ma a quel punto nessuno aveva più accennato alla
scrivania-piazza d’armi. Basta con le spese di rappresentanza.
Si trattava di una collezione di racconti di Musil, tre
storie intitolate Congiungimenti. Un titolo a primo acchito
un po’ strano. Si poteva sospettare un’opera di mascherata
lascivia, ma trattandosi di Musil era difficile fare una
simile ipotesi. Non ne sapeva molto dell’austriaco, ma non
credeva che appartenesse alla lobby degli autori erotici.
In verità, lui doveva far poco in casi del genere, magari
pochissimo piuttosto che creare problemi, era così che gli
dicevano di comportarsi quando doveva rappre-sentare
l’Ateneo senza avere una competenza specifica nei temi
che sarebbero stati trattati. Ma, da buon intellettuale,
aveva avvertito l’esigenza di sapere summa capita di cosa
avrebbero parlato. Non voleva rendersi conto, ma almeno
36
essere in grado di “annusare” quanto sarebbe accaduto
intorno a lui. Musil non rientrava fra le sue letture
preferite, e il suo interesse era stato sempre sospinto
lontano dalla sponda di quell’autore e della sua opera
maggiore. Forse doveva vergognarsene, ma non aveva
avuto il coraggio di trascorrere tanto tempo in compagnia
di un autore così massiccio, che non riscuoteva il suo
specifico interesse né era collegato al proprio lavoro. Gli
erano bastati Joyce e Mann per sapere qualcosa dei “Padri
Fondatori” della Moderna Letteratura europea - era così
che qualcuno aveva detto a un congresso. Musil no. Troppe pagine, troppo tempo, aveva sicuramente altro da fare.
Ma una sbirciatina a qualcosa della sua produzione
voleva dargliela, e visto che si era imbattuto nei
Congiungimenti, avrebbe letto quei racconti di donne - si
disse già nell’ascensore che lo portava al piano terra, dopo
averne sguardato l’indice. Poi le porte fischiarono e lui fu
fuori, nella luce e nell’aria ossigenata dell’ingresso.
Il direttore gli aveva detto:”Dunque rifiuti di vedere
le pseudo-Alpi Scandinave? Di calpestare lo scudo
baltico?”
Lui aveva sorriso, e aveva detto semplicemente “sì”.
Il volume era rimasto per qualche giorno a pencolare
sul bordo del tavolino d’ingresso di casa sua, e ogni volta
che il suo sguardo si imbatteva in esso, si convinceva
sempre più di aver fatto bene ad evitare Oslo e la
Norvegia. Quella splendida ma ghiacciata terra di fiordi,
che esibiva il “sole di mezzanotte” nei mesi estivi. Sentiva
che da solo quelle cose non le avrebbe gustate. Alla fine,
scivolando in terra, il libro gli si era ricordato con il modo
tutto speciale di un tonfo. Lui l’aveva raccolto e aveva
37
deciso che doveva farne subito qualcosa, altrimenti non ne
avrebbe fatto mai niente. E ad Amsterdam, questa volta,
sarebbe stato più che mai un sordo in una sala da concerti.
Era così che si era trovato a fronteggiare un universo
in cui la vita sembrava guidata da impulsi fisiologici, da
una psicologia che gli sembrava minuta, nonché da un
passato di influenti esperienze. Ma non gli era sembrato
che tutto ciò avesse molto a che fare con Freud, né aveva
avuto modo di cambiare opinione nel prosieguo della
lettura. Le donne d quei racconti, Viktoria, Veronica e
Claudine in modo particolare, erano soggette a una vita
sentimentale in cui lui riconosceva molto poco di quanto
solitamente considerava il carattere, il temperamento
umano. La capacità dell’uomo e della donna di desiderio,
di passioni, e di esaminare, di discer-nere, di scegliere, ed
eventualmente di sottrarsi. La prosa era nuova, un
esercizio di scrittura che gli aveva ricordato - da una
grande distanza - Joyce. Non tanto la Wolf quanto Joyce.
Anche se in alcuni momenti aveva pensato il contrario. Un
complesso - e a volte “psicologicamente infinito” arabesco in cui bisognava muoversi con estrema cautela
per non rimanerne sommersi.
D’altro canto, gli era parso che gli stessi personaggi
fossero dotati - ma si poteva dire? - di “una eminente
capacità di essere sommersi da se stessi”? O, forse, di non
possedere affatto un se stesso capace di costruire la
propria piccola o grande storia, che partiva da una sottesa
ideologia di essere qualcosa o qualcuno. Aveva vissuto
quelle pagine come un continuo subirsi, e un “quasi
vuoto” di quanto pure esiste ed è importante nella vita di
una donna, la progettualità nel campo intellettivo, e il
culto degli affetti, delle passioni in quello della vita di
38
relazione. Della vita sessuale in particolare. Tutto questo
l’aveva un po’ deluso. In effetti, si trovava dinanzi alla
testimonianza del suo tempo. Ma una testimonianza a
volte disperata. Così aveva letto lui. Non vi erano
autentiche proposte per vincere la dominanza del ricordo,
della traccia cerebrale, della tentazione, dell’impulso
fisiologico-carnale; dopotutto, bisognava anche dire dell’
“inconscio”.
In quei racconti, Musil gli era apparso come un
testimone particolare, un fiume di riflessi, di smalti a volte
opachi, una foresta di misteriose ricostruzioni mentali, e di
immagini ardite fino al punto di rimanere in alcuni casi
sigillate. Si disse che quell’universo di realtà sottratte ad
una reale umana concatenazione non lo interessava. Per un
attimo, richiudendo il volume dei racconti, aveva
rimpianto Oslo e quel nazifascismo antigiudaico che
immediatamente risvegliava quanto c’era di meglio nel
lettore-non-patologico. Il Fuehrer agglutinava subito un
fronte compatto e consapevole contro lui e i suoi “operai”.
La fantasmagorica descrizione di quei percorsi di donna
sembrava quasi non prendere in considerazione che
l’essere umano ha un’etica fondante, anche se fragile, e
pertanto profondamente bisognosa di essere difesa e
aiutata nel suo svilupparsi, un’etica e un’ideologia al cuore
della sua dimensione.
Questo lo aveva un po’ infastidito, come si può
rimanere infastiditi da un’immaginazione che osa troppo
nello sfiorare l’irreale. Nelle sue visitazioni del mondoche-non-c’è?!
Ma la cosa era ormai decisa, in quindici giorni
sarebbe partito da Milano e in poche ore sarebbe stato
accolto da quella fantastica città, in quella nazione che, a
39
pensarci bene, poteva apparire un zoo di cristallo circondato dalla pressione dell’onda oceanica.
E aveva riposto il volume.
Amsterdam era una città che aveva sempre riscosso
il suo interesse. Gli sembrava che avesse anche un merito,
oltre alle ferite sociali e a quei discutibili primati di cui
spesso si parlava - ammesso che poi lo fossero davvero. Si
parlava dell’uso delle droghe, della comunità gay, della
pornografia che coinvolgeva i minori. Negli ultimi tempi
tutto sembrava destinato ad essere assaggiato, osato, e non
solo in Olanda. Ma, a suo parere, A’dam - e probabilmente
tutta l’Olanda - se permetteva che la gente si fiondasse in
avventure drammatiche e tanto spesso tragiche era anche
capace di riconoscere i propri errori, le valutazioni affrettate se non irresponsabili, e di cercare di porvi riparo.
C’era un pragmatismo, che probabilmente risaliva al
secolo in cui la nazione aveva - non improvvisamente ma
quasi - cambiato religione, ai giorni in cui il Protestantesimo aveva trionfato nei Paesi Bassi. Il punto di svolta
era stata la rivolta iconoclasta di Anversa che aveva
convinto i maggiorenti a permettere l’esercizio del culto
calvinista in una chiesa francescana già incursionata dagli
anti-cattolici, piuttosto che opporsi al popolo che attaccava
e distruggeva luoghi sacri al cattolicesimo. Alla fine, con
Guglielmo d’Orange, c’era stata l’Alteratie dopo la vittoria
sugli Spagnoli in ritirata. Così la dirigenza cattolica era
stata sostituita, quasi dalla sera alla mattina, dalla
contemporanea linfa protestante. Avevano giudicato che
non si potesse agire diversamente. E il gioco era stato fatto
senza troppo spargimento di sangue, certamente con molte
vittime ma senza veri e propri massacri. In quattro e
40
quattro otto. Qualcuno diceva: con semplicità. Almeno
così aveva capito lui.
Su Amsterdam e sui Paesi Bassi era cambiato il
cielo, ma la cosa che lo meravigliava di più non era
l’abiura con cui erano stati sostituiti gli dei e le idee, ma
piuttosto la decisa semplicità con cui l’operazione epocale
era stata portata a termine. Una nazione cattolica al 98 per
cento fino al 1500, in un secolo aveva mutato le sue fondamenta “metafisiche” con un pragmatismo che in seguito
non sarebbe più scomparso dai canali di quelle terre
strappate al mare con invidiabile decisione, intelligenza, e
coraggio.
Non c’era stato nulla da fare dopo la ritirata
spagnola...
Ma in tutto quello c’era qualcosa che trovava
apprezzabile, riconoscere gli errori pur nella incapacità di
disfarsene. Di tanto in tanto gli sembrava che accadesse
così, lassù, nella terra in cui a un certo punto della sua
storia erano riapparse le calzature di legno, dopo che
quelle di pelle erano state alla portata di tutti lungo un
periodo di felice abbondanza. Era un fare quello che si
poteva, un accettare la realtà. Una caratteristica che gli
sembrava essere allo stesso tempo alle fonti del cristianesimo in generale, nella teologia della grazia e in quella
della predestinazione non agostiniana del protestantesimo.
L’uomo è una creatura debole e di tanto in tanto non può
che prendere atto di tale condizione. A dispetto del sangue
dei martiri. Per quanto illuminata dall’Incarnazione, la
nostra vita si svolge spesso nel grembo del buio. E lui, che
non aveva perso la sua fede, si sentiva appunto nel grembo
del buio.
41
Questa era un’altra delle ragioni che gli avevano
fatto preferire A’dam ad Oslo.
42
II
Giunto ad Amsterdam, vi era stato subito l’incontro
con Luise, la compagna con cui aveva deciso di trascorrere
la vita, e non solo per condividere con lei la propria
passione, il loro erotismo, e assaporare la profonda
soddisfazione sessuale che ne traeva. Luise che era
schizzata via di casa per un uomo conosciuto da meno di
ventiquattrore. La donna che era stata fino a quel momento
le sue stagioni, le ore felici dei suoi giorni e delle sue
notti; la luce che aveva illuminato i momenti bui che lo
avevano colpito come colpiscono chiunque. La donna in
cui si era conosciuto un essere vivo; anzi “riconosciuto
come l’essere vivo segnato dalla sua identità”. La donna di
un sogno durato cinque anni, che, dopo essere scivolata
via dal suo fianco, era improvvisamente ripiombata
nell’arco del suo orizzonte in occasione di quel simposio.
E di quella passeggiata estemporanea che quel mattino,
speciale per temperatura, per aria pulita e luce, lo aveva
indotto a fare.
43
Incontrata per una banale casualità.
- Ciao. Come stai?!
Le aveva detto così senza pensarci, senza rendersene
conto. Una frase come le altre per non dare inizio a un
imbarazzante silenzio.
Un incontro che lo agganciava all’antica amante,
mentre il vederne l’immagine attuale generava in lui non
solo la forte onda del ricordo, ma anche amarezza e
curiosità... Anzi, una sorta di dolorante meraviglia nel
leggere lo sfiorire di quel viso, di quel corpo; di quella
carne ancora così viva nel suo ricordo, così presente sotto
la carezza delle sue mani, sotto lo sfiorarla delle sue
labbra, della sua lingua...
Si sentì impigliato nei rami di un’ampia macchia
d’alberi, catturato dalla foresta della memoria, che con le
sue lontane luci accendeva la sorpresa e la naturale ansia
per quella trasformazione...
Per lo spegnersi del suo meraviglioso sorriso.
Il viso, e tutta la persona della donna, sembravano
quelli di una fotografia trasportata su di un tessuto leggero
che, una volta incorniciato, ne avesse distorto l’immagine.
Un’immagine montata male, qui tirata, lì lasciata con una
certa mollezza...Una persona violata...Non cancellata del
tutto nel suoi tratti ma non più quella che era stata. A
cominciare dalla freschezza degli occhi, e dalle labbra
attentamente disegnate dal trucco ma non più quelle che
lui aveva conosciuto e su cui si era avventato con
insaziabile desiderio. Le cose che lo avevano affascinato
in una lontana stagione ora potevano essere intraviste
soltanto con sforzo, solo faticosamente riconquistate. Uno
sforzo della mente e del cuore che potevano ricostruire re-
44
immaginando in una plastica del ricordo. Un’identità colta
oltre l’ombra di se stessa, al di là delle asprezze della vita.
E, man mano che se ne rendeva conto, rimaneva
maggiormente vittima dell’amarezza di quell’esperienza
visiva operata con sguardo per quanto possibile non
indiscreto, al di là delle lenti reattive all’intensità della
luce; e di quella rivisitazione del cuore.
E nel considerarla fu catturato da un senso di colpa.
Forse era anche lui responsabile... Se...
E più il ricordo di lei si rinnovava, più lo sfidavano
le cose che di lei emergevano in quel momento collegandosi al passato, e più la sua amarezza per tutto quanto era
accaduto scendeva su di lui, in lui, quasi perforasse il suo
cervello, il suo cuore.
Le chiese di incontrarla di nuovo, ma se ne pentì che
ancora le parole erano vicine alle sue labbra. Poi, durante
il resto della giornata, si disse che tutto andava bene:
sarebbe rimasto solo pochi giorni in Olanda. Nelle “terre
basse”, come gli olandesi dicevano con l’orgogliosa puntigliosità di chi le aveva strappate al fondo del mare e fatte
diventare la culla di una nazione.
La mattina seguente non tornò al lavoro, non doveva
parlare né doveva intervenire ai tavoli di discussione e
preparazione dei resoconti. Così rimase in albergo, a
riflettere e a riposarsi da un senso di stanchezza che senza
dubbio aveva a che fare con l’incontro con Luise.
Quasi non credeva a quanto gli era capitato. Allo
stesso tempo - in una surreale “contemporanea” -, ebbe
modo di riflettere e di accorgersi che quanto stava vivendo
in qualche modo echeggiava sotto le volte di quel piccolo
congresso letterario che intendeva sottolineare i
45
turbamenti che da tempo s’intrecciavano in quel secolo, e
che avevano trovato autorevole connotazione nella
Weltanschauung di uno dei più grandi autori di quel
tempo. Musil, appunto.
L’esperienza di quel giorno rispecchiava una parte
del dramma umano, interiore e sociale che si era consumato nella I Guerra Mondiale, e che ancor più dopo di
essa aveva trovato modo e necessità di esprimersi nelle
arti, e si sarebbe chiamato secondo i diversi punti di vista,
o di operatività, arte informale, morte dell’uomo, rifiuto
del naturalismo che aveva trionfato nell’Ottocento e
ancora agli inizi del Novecento, anti-specismo, e tante
altre cose. Tante altre cose nella stessa considerazione di
Freud e di Darwin.
Tutte a infierire sul padrone di casa, sul re dell’
universo. E sulla donna, la sua compagna di elezione.
Conosceva poco Musil. Ne aveva letto solo racconti,
ma gli sembrava di averne colto un po’ l'antropologia, che
si può dire trasparisse dal titolo stesso della sua incompiuta opera maggiore, L’uomo senza qualità. Il mondo, e
lo stesso universo, non erano e non sarebbero stati mai più
quelli di una volta. Viktoria, Claudine e Veronika rappresentavano, nella ideazione delle storie di cui erano le
indiscusse protagoniste, il più sostanzioso epitaffio all’
Ottocento e al suo concetto di vita, oltre alla più esplicita
negazione della donna di un tempo - ma anche dell’uomo.
Il XX secolo sembrava voler mostrare una più crudele
verità. E c’era riuscito.
In tal modo, nel contesto di specialisti e durante la
lettura delle comunicazioni di quelli che non avevano
46
potuto partecipare fisicamente ai lavori, si era parlato
anche di quello.
A suo modesto avviso, il panorama offerto da quanto
aveva letto era il frutto dell’intreccio di un’inestricabile
foresta di rami spinosi e dell’ammasso di ciarpame psicologico e non - che una burrasca marina potesse
sospingere alla riva dell’esperienza umana, così che questa
ne rimanesse dapprima atterrita e poi definitivamente sommersa.
Aveva letto, aveva ascoltato le riflessioni dei
colleghi, aveva riflettuto sull’orizzonte offerto dai
racconti. E ne aveva concluso che gli sembrava trattarsi
dell’incompiuta penetrazione del suo oggetto, l’uomo. E,
allo stesso tempo, di una sorta di resa a quanto era
ingestibile, non solo nei fatti ma anche nell’ipotesi della
sua essenza. Almeno a lui sembrava così.
Nelle storie che aveva letto, la vita era un coacervo
di cose e di sentimenti, di persone, di eventi, che spesso
non aveva un senso. Un mare di realtà che non aveva un
progetto se non quello di “viversi”. E a questo viversi era
bruciato ogni attimo, ogni grano di incenso della propria
energia, del proprio esistere senza un atteggiamento
maturamente critico. In Claudine, per esempio, c’era la
donna nella sua istintualità e naturalezza, ma non c’era o
c’era molto poco della donna-persona. Claudine si lascia
scopare da un uomo che le dà disgusto. E in più, acme
della coscienza di se stessa, il racconto termina con la
meraviglia che, nonostante tutto, l’atto di congiungimento
le dia piacere. Un piacere che le rammenta l’idea di Dio
che può avere un adolescente.
E quel congiungimento - simile per certi aspetti a
quello di colomba sul cornicione del nostro balcone, o di
47
una coniglia nell’orto - non era casuale nell’aneddotica
dell’autore, ma vicino a un altro, a quello della
protagonista di un altro racconto, di Viktoria. “In quelle
processioni descrittive di assoluta modernità” - così aveva
detto uno dei congressisti, e c’era da credergli - secondo
lui mancava tutto il senso e l’aspetto del progetto.
Mancava la connotazione umana dell’atto, e quindi la
persona. Insomma, tutto ciò che era stato importante e
centrale una volta nella grande letteratura si era disciolto
nei nervi, nella sensibilità, nella sensualità “minore”, nella
memoria, se non nell’immaginazione (o fantasia toutcourt) delle protagoniste .
Per questo gli veniva da pensare alla morte dell’
uomo, e all’antispecismo. Forse anche ai paradisi artificiali, anzi all’artificialità, all’irrealtà di certi paradisi. Una
volta gli avevano parlato di una particolare patologia
psichica che rendeva un soggetto praticamente schiavo di
un altro, senza più una volontà propria...
Quelle storie rumoreggiavano pianamente di un
universo di realtà prive di serie motivazioni, di motivazioni e di sentimenti “umani”. Gli sembravano quasi la
descrizione di sistemi stellari che hanno come unica legge
l’esistere, senza una motivata libera dinamica interiore; un
esistere senza un senso in se stessi, senza un evidente
scopo. Nella descrizione di quelle donne, gli era parso di
leggere l’anima come un magma cieco e quasi impalpabile costituito da elementi non aventi autentiche mete
verso cui dirigersi.
Dal punto di vista storicistico, quei racconti erano
intriganti, anche se in alcuni punti molto complessi - anzi
troppo complessi per un normale lettore -, dagli audaci
accostamenti e dalle metafore a volte oscure. Un tutto
48
interessante, ma purtroppo non si era detto altro
sull’essenza della donna. Quasi che quelle eroine - o antieroine - non fossero state vissute come donne.
Le tre protagoniste si vivevano quasi vittime di se
stesse. In una bruta minimalistica misteriosità.
E in questa mancanza di senso gli era sembrato di
individuare la loro fragilità essenziale. E come in effetti ne
diventassero schiave. Una fragilità che esse avrebbero
indotto anche in chi si fosse abbandonato a loro. Johannes
era stato pronto a spararsi per l’amore non corrisposto per
Veronika. Viktoria, dal canto suo, trascurava gli incontri
con la figlia, un’adolescente collegiale.
La mancanza di uno scopo non è solo mancanza di
organizzazione interiore, non è semplice mancanza di
orientamento, ma è mancanza di auto-realizzazione, perché la vita è cogliere finalità e dirigersi verso di esse.
Realizzare un traguardo fra le nebbie e indirizzarvisi.
E’ riconoscere il proprio io.
Nel momento in cui lo scopo viene a mancare, la
volontà perde ogni impulso dinamico, e allo stesso tempo
ogni strutturazione interiore. Ogni complessa consistenza
personale si discioglie miseramente.
Alla fine non si sa più chi si è.
E tutto ciò che di umano è stato nell’aria sino a quel
momento - magari inconsciamente umano - esplode dando
luogo a una galassia di frammenti, a una luccicante fredda
polvere di meteorite che sembra polvere di stelle ma che
non è più nulla. Una cometa, uno sfavillio di luci che
attraversa l’etere verso il completo disfacimento. Verso
una morte ancora più definitiva e dura. La fine della loro
femminilità.
49
L’incontro con Luise gli aveva fatto percepire una
simile dissoluzione. E poi, durante la notte, aveva compreso come quella dissoluzione fosse stata sempre lì. Era
stata con la sua amante sin da quando l’aveva conosciuta,
e forse da sempre. Sempre con loro sin dal principio. Negli
ultimi tempi aveva avuto solo il modo di esprimersi,
appunto con l’abbandonarlo.
Quella sua sensualità, quella capacità di vivere il
momento, e l’attrazione della bellezza sensibile vissuta
tanto istintivamente...senza pudori, senza remore. Tutte
cose che per lui erano state fra i motivi di maggiore
attrazione della donna...Tutto quello che lui aveva indicato
con il termine di “semplicità”...Tutto quello che aveva
dato un colore speciale alla sua passione era stato
nient’altro che un viversi...Un atto quasi non voluto, simile
alla fiamma di una candela, che tuttavia il vento spegne
appena vuole...
Tutto ciò era al fondo dell’evidente disfacimento,
che aveva letto nei suoi occhi, nel falso sorriso,
nell’andatura non più spigliata. Come se fosse carica di un
peso invisibile.
Non avrebbe mai avuto il coraggio di chiederle se
facesse la prostituta, non questo...
Anche se quella possibilità gli dava a tratti una
vertigine di piacere, di rivincita...Di rivalsa per quanto era
accaduto tra loro. Uno status in cui era presente in qualche
misura la sua stessa responsabilità.
Ma non l’avrebbe mai fatto, anche se pensare a una
tale possibilità gli aveva reso in alcuni momenti un po’
della enorme quantità di energia che il suo abbandonarlo
gli aveva sottratto... quella grossa fetta di entusiasmo, di
50
spinta vitale che il loro amore... Non avrebbe potuto mai
chiederglielo. Non avrebbe mai potuto sopportare... voler
conoscere dalle sue stesse labbra una simile cosa.
E poi, perché?
Era possibile una sintetica rivisitazione dei cinque
anni trascorsi insieme?! Una rivisitazione che lui stesso
avrebbe dovuto fare. Una sorta di classificazione del loro
rapporto. Un rapporto costituito da fatti fondamentalmente della sfera sessuale.
Lo stesso culto dell’immagine, e il seguire la moda.
Lo stesso partecipare all’evoluzione del gusto, e all’
intelligenza e all’apprezzamento della femmina e del maschio in base ai rispettivi criteri...
Tutto il loro modo di fare, di relazionarsi, era stato
una continua scopata e un esercizio degli occhi. Una
ricerca di smalti per la soddisfazione dell’immaginazione,
a volte della fantasia...Un continuo ripetersi di eventi, un
continuo percorrere strade che, in se stesse nuove, li
avevano asciugati piuttosto che rinnovare loro e il loro
rapporto.
Così la reciproca fruizione, il gioco una volta
ardente della loro intimità - piuttosto che l’occasione per
l’insorgenza di un legame più forte e personale - si era
scolorito nell’abitudine. Fino al punto che lei era fuggita
con il primo venuto che le aveva agitato davanti agli occhi
la sua ruota di pavone. Se ne era lasciata sedurre perché se
ne era sentita rinnovata, e se ne era improvvisamente
“innamorata”.
Nell’ampio letto ottocentesco - splendidamente “aggiornato” secondo i più moderni criteri di stile - l’oscurità
51
cominciò ad opprimerlo. Volle alzarsi, ma un’altra idea si
insinuò in lui, quasi fosse penetrata con il nuovo giorno
attraverso le palpebre delle tapparelle, uscita da quelle
labbra di sottile luce per illuminarlo. Un’idea che gli
apparve tuttavia oscura, poco comprensibile, se non quasi
segreta a lui stesso. Una domanda anch’essa drammatica
la cui ombra invase la stanza e allo stesso tempo l’intero
universo: Cosa ne era di tutto quel tempo trascorso
insieme?
Non cosa ne era stato, ma cosa ne era? Qual era la
sua realtà? E cosa ne sarebbe stato?
Istintivamente avrebbe voluto cancellarlo. Anzi
riprenderselo e svuotarlo del suo marciume. Bisognava
riconquistarlo e privarlo di tutto quanto era stato superficiale, dannoso per la reciproca unione... per la loro
fedeltà... Cancellando da esso quanto era stato immaturo,
negativo, egoista. Disumano. Ciò che aveva indotto in lei
la particolare e viziosa fragilità che da una parte aveva
causato l’infrangersi della loro relazione, e dall’altra la
profonda umiliazione “personale” che da tempo lei stava
assaporando fino alla feccia.
Per non parlare della propria umiliazione.
Ma come prevalere sulla distruzione che quel tempo
aveva operato in entrambi... Come contrastare il rogo
acceso dalle cose che avevano avvelenato le loro vite, il
loro rapporto... Per non parlare di quelle che avevano
caratterizzato gli ultimi cinque anni...Ma era impossibile!
Ancora non aveva capito in quale misura tutto
questo avesse avuto un significato per la propria vita, e se
ne avrebbe avuto uno in futuro. E per quella di Luise?
Perché non riusciva a immaginare che non avesse un
52
significato per le loro persone, un senso collegato al corso
degli anni in cui scorrevano e sarebbero scorsi i loro
giorni.
Qual era il significato, il senso?
Per lei, per Luise? Aveva avuto un senso fare la
puttana? Ed avrebbe avuto un senso averlo fatto, in futuro?
E per lui?
Così, l’oggetto del suo ragionare, del suo pensare,
pian piano prese ad aggirarsi non tanto sul terreno del
riscatto dalla sconfitta - sia sua che di Luise - quanto su
quello del senso...
Più che il riscatto, il senso diventava importante in
quel modo. Ma come trovare una risposta a quell’
interrogativo?!
E quello sarebbe bastato?
In ogni caso, non avrebbe mai avuto il coraggio di
chiederle se facesse la prostituta, o se l’avesse mai fatta.
Non significava molto... C’erano tanti cervelli nelle
università che avevano dovuto pulire innumerevoli orinali
negli alberghi del mondo, o le più puzzolenti latrine dei
bar, dei ristoranti, degli ospedali; o fare lavoretti molto
intimi a chi poteva osteggiare il loro destino o facilitarlo...
E’ facile capire che tutto cambia di importanza e di
significato, che il futuro ha l’effettivo potere di cambiare il
nostro passato...e il passato di chiunque altro, se cambia il
senso, il contesto...Se trasforma la persona.
Gli tornarono alla memoria le letture appena fatte.
Viktoria, Claudine, Veronika...
Un triste ecce homo della femminilità.
L’ecce homo sembra voler fare giustizia di ogni
pretesa di grandiosità, tuttavia quei personaggi offrivano
53
una dimensione, un’antropologia che non era vissuta se
non negli ospedali psichiatrici, a suo parere; o nei gabinetti
degli psicoterapeuti. Una dimensione che era difficile ad
accettarsi da chi fosse arrivato al dolore, al dolore dell’
uomo e al dolore del mondo.
Si trattava di ipotesi della natura umana. E forse
anche un’ipotesi sulla natura di Dio. “Che dio non sia
semplicemente la tua debolezza, il tuo desiderio di vivere
altrove e altrimenti?”, si era chiesta Veronika - più o meno
quelle le sue parole. Il suo innamorato - sfuggito al
desiderio di suicidarsi per il suo rifiuto - è una boccata di
ossigeno. Si dimostra più ricco, più convincente. Non mi
sono ucciso per te, come avevo minacciato, ma piuttosto
ho deciso di sopravviverti, e mi sono conficcato in un
cumulo di detriti - il mondo, la vita, se stesso -, e lì ho
rimesso radici.
Era così che Johannes le aveva comunicato la
conclusione - forse meglio dire “l’esito” - della loro storia,
del suo amore una volta inimmaginabile per lei. Ora tu
non sei più nessuno: ma chi sei tu?
In altre parole, sono libero dalla tua malattia.
Forse lui stesso si era liberato da una simile malattia.
Ma Luise restava entro il suo orizzonte con la sua mortificazione, con tutta la sua sofferenza.
Sentì il bisogno di bere qualcosa, e di smettere di
ragionare su quanto gli stava accadendo. E arrestare i
ricordi imperiosi. Tuttavia non poteva rinunciare, non
poteva fermare il treno di pensieri che si era messo in
moto. Ma doveva concedersi una sosta, arrestare l’attacco
di quei ricordi di disabilitante crudezza. Come se, per
averli messi da parte in fretta in altri momenti, ne avesse
54
suggellato i profumi, e tutte le sfumature dei colori e delle
ombre che avevano costituito i piccoli nodi nell’arazzo
della loro felicità amorosa. Tutto contro lo spettro della
nuova Luise, contro il fondale della donna che, al di là del
tavolino di ferro smaltato di bianco e di azzurro marini,
aveva consumato con misurata avidità il primo jeniver
della sua giornata.
Un dramma a un incrocio di persone, incrocio di
destini, incrocio di miserie e di infelicità. In una Amsterdam che, incorniciata dalle acque del nord come da quelle
delle tratte oceaniche della sua marineria verso il sud del
mondo e l’Oriente - nella mente dei suoi visitatori -,
sembrava avesse scelto quel morbido mattino per
mostrargli la crudezza e il dolore che si affrettavano con
una sorta di impudicizia lungo le silenti pietre grigie dei
suoi grachten.
55
III
Trovarsi a quel punto era qualcosa che non avrebbe
mai immaginato. Scopriva solo in quel momento quanto il
futuro potesse essere inatteso. In che misura la vita possa
programmare per noi. Lo aveva già pensato in altre
occasioni, quasi tutte drammatiche, ma questa volta vi era
una sensazione di novità in più di una direzione. Una più
viva vergogna, la memoria dolorosa... Il piacere quasi
fisico che a vederlo l’aveva agguantata, dopo la prima
reazione di voler essere inghiottita dalle acque grigie del
più vicino canale.
Non sapeva cosa dire. Principalmente, cosa dirsi. Le
sembrava di essere in una bolla d’aria. Al centro di
un’enorme sfera di sapone, simile a quelle che faceva con
i ragazzi con cui giocava nel cortile del piccolo vecchio
condominio della sua infanzia.
A un certo punto quel globo sarebbe scoppiato...
Per lo spazio di qualche attimo dovette fermarsi, e
tutto l’altro intorno le sembrò scomparire. Come se, per
56
uno scherzo della mente, tutto si fosse ritirato, allontanato
intenzionalmente da lei, fatto indietro dinanzi all’immagine catturata dal suo sguardo. O ripiegato, come quei
separé che una volta si aprivano a casa sua d’estate,
quando avevano ospiti. Le vacanze in campagna costringevano alla convivenza con parenti e amici, e le stanze
della casa erano ampie ma spesso insufficienti.
In un primo momento non aveva creduto ai propri
occhi, aveva pensato a una somiglianza. Ma non aveva
potuto non fermarsi davanti a un negozio di articoli per
scrittura e guardare, frammezzo a due espositori, se si
trattasse davvero di lui. Era rimasta a osservarlo per
qualche minuto, dapprima per accertarsi, per essere sicura
di non essersi sbagliata, ma anche per decidere cosa fare.
E perché quel fatto che le procurava un terribile male,
insieme a un dolore sordo al centro del suo cervello, le
facesse anche piacere. Come capita a rivedere una cosa
che non è più nostra ma che abbiamo goduto per tanto
tempo, e intensamente. Non si può fare altro che berla con
i nostri occhi finché l’intensità dell’emozione sia sfumata.
Poi, mentre lui continuava a camminare e le passava accanto senza vederla, aveva capito che non aveva il
tempo di ragionare ma soltanto di scegliere. Sarebbe stato
facile perderlo tra la gente di quell’ora, di quell’affollato
mattino insieme fresco e solare.
E si era dovuta affidare all’impulso del cuore più che
all’intelligenza, anche se era una facoltà che al momento
le sembrava accecata piuttosto che illuminata da tutte le
possibilità che stavano affiorando alla sua mente. Quasi
che si fosse improvvisamente trovata sotto un cielo
attraversato dai proietti di batterie di fuochi cinesi. E
aveva dovuto affidarsi anche all’impulso del corpo che la
57
spingeva a seguirlo. L’unica cosa certa era che non doveva
sprecare quell’occasione, qualunque cosa potesse
accaderle, qualunque cosa il destino dovesse riservarle.
Qualunque umiliazione fosse costretta a subire. Ma non
doveva per-dere quell’istante per nessuna ragione al
mondo. E prese a seguire le spalle di lui che, un po’ rigide,
si allontanavano comparendo e scomparendo fra la folla
del gracht.
Conosceva quella zona della città, e a un certo punto
arrivarono a una sorta di strettoia causata dai tavolini di un
caffè che facevano rallentare il passo a chi proseguisse
diritto davanti a sé. Così che quelli che avevano fretta, ed
erano pratici del luogo e dell’occasionale ingorgo, di solito aggiravano il piccolo isolato by-passando sia i tavolini
del caffè sia qualche artista di strada che si esibiva nello
slargo adiacente. Così anche lei si fiondò nella stretta
viuzza tra due alti edifici. E allungò il passo. Gli sarebbe
sbucata di fianco. Ormai lui non poteva fare altro che
seguire il percorso di fronte a sé, stretto fra la gente che lo
avvolgeva. Era sicura di raggiungerlo...Lui avrebbe anche
potuto fermarsi a sguardare per qualche istante il tazebao
di solito affisso su uno degli edifici. Era una zona di
studenti, poteva capitare. E forse davvero accadde perché,
quando giunse al punto cruciale che aveva previsto, lui era
più sopra, ancora a una certa distanza.
Aveva affrettato il passo dimentica di tutto ciò che la
circondava sia in quel momento che nella sua storia. Come
ottenebrata in qualunque ragionamento che cercasse di
iniziare, in qualunque ipotesi le presentasse l’immaginazione, o la stessa fantasia. Come se nulla potesse illuminarla in quel momento, al centro della sua bolla di sapone.
58
I piedi svelti, l’intenzione chiara, lanciata in una sorta di
corsa che la faceva scivolare fra quelli che la fiancheggiavano. Solo per un attimo la sua alacrità era stata messa
in dubbio. L’ultimo cliente l’aveva pagata in dollari, e non
le riusciva di immaginare come giustificare la presenza
della valuta straniera nelle sua borsa. Quasi dovesse
aspettarsi che lui, come prima cosa del loro incontro, le
frugasse le tasche. E che leggesse sui biglietti verdi il
prezzo di una marchetta. Perché sui biglietti di banca lei
stessa leggeva quel messaggio, semplice ma sempre
vivido, stampato a fuoco. E che poi, a dispetto di tutto,
sarebbe scivolato via dalla sua memoria, intanto che
sentiva ancora la schiena e le cosce umide della svelta
doccia che aveva fatto dopo l’incontro, e di cui non si era
curata di asciugare bene le tracce. Diffidente dell’asciugamano a volte unico e già usato da lui. Una volta un
americano l’aveva pagata con banconote di piccolo taglio,
e lei dopo averle contate era rimasta con gli occhi fissi sui
biglietti verdi perché le sembrava che il conto non tornasse. E lui le aveva detto ridacchiando: that’s no mirror,
kid...and no tricks with me...
Se lui si fosse accorto che aveva quei dollari con sé,
avrebbe immaginato soldi per una puttana?
Il solo pensiero fu come un mattone che l’avesse
colpita alla testa, e che per un istante l’avesse svuotata di
ogni intenzione e di ogni forza, resa incapace di continuare
quanto stava facendo.
Ma fu solo per un attimo che le gambe quasi le si
fermarono, insieme al cuore e al coraggio, un breve istante
in cui il suo slancio si arrestò. Ma lei non si specchiava in
quelle banconote, non doveva farlo. Sapeva che non
doveva farlo, istintivamente...E una sorta di inerzia riprese
59
a sospingerla avanti, un’energia sia della mente che del
corpo. Come se un volano al centro di se stessa non intendesse obbedire alla sua paura, alla sua improvvisa
autocoscienza. Quel denaro, quel denaro lurido...era nulla.
Un nulla in una lingua di un altro luogo...Non sarebbe
stato quello a fermarla a quel punto, non ora...
E riprese il passo svelto fra la tiepida meravigliata
indifferenza di alcuni che la incrociavano.
- Ciao. Come stai?!
- Non c’è male, grazie. E tu?
Sedere di fronte a lui a quel tavolo all’aperto del
cafè, ripropose il tipo di sensazione che l’aveva sorpresa
allorché l’aveva intravisto nella folla. In un attimo il
tempo si era cancellato, e il milione di cose che la
circondavano si erano nascoste dietro l’impossibile presente. Come se loro due stessero a quel tavolo sorretti da
una di quelle piattaforme mobili usate nel cinema dagli
operatori alla macchina e dal regista. Galleggiare nell’aria:
era parte dell’irrealtà a dispetto di se stessa, di ogni buon
senso. Di ogni ragionevole umana aspettativa. Si sentiva,
anzi sentiva entrambi estranei alle persone e alle cose che
li circondavano. Una sistemazione fisica che rassomigliava a volare e che - lo intuì per un brevissimo istante,
per fortuna senza essere schiacciata dall’idea - era forse
l’unico modo per sopportare quel presente a cui non solo
non era sfuggita, come altre donne avrebbero fatto, ma di
cui in un certo senso era responsabile con il suo escamotage di incontrarlo per caso, dopo la breve corsa lungo il
gracht. Lei era lì, come sprofondata in un sofà di bambagia, o di consistenti soffici nuvole, e lui sedeva di fronte
60
a lei come era stato seduto per centinaia di volte allorché
erano stati insieme.
Loro due soli, assolutamente fuori del mondo. E
sull’orlo di qualcosa non solo sconosciuta ma decisamente
imprevedibile. In ascolto di un discorso di cui non solo
non conosceva la sintassi ma neanche conosceva le parole.
Una sensazione non del tutto piacevole ma un’autentica
sensazione d’attesa del corpo e della mente, in cui la
curiosità del suo animo a tratti lasciava il posto allo
stupore della realtà. A mezz’aria in una condizione che
non sapeva se sarebbe stata in grado di gestire. Una realtà
personale e interpersonale senza nessuna guida, il minimo
suggerimento.
Nei primi momenti al tavolo del café a cui lui l’aveva invitata per un aperitivo, non le riuscì di percepire quasi
nulla di quanto lui diceva. Vedeva solo le sue labbra
muoversi, scorgeva i denti regolari e un po’ corti. Ma non
percepiva suoni, e ancor meno il significato di quello che
diceva. Non riusciva a capire le parole stesse che uscivano
dalla sua bocca. Come se il cervello, i suoi sensi, non
fossero in grado di concentrarsi. Come se il suo corpo,
anzi tutta se stessa non fosse in grado di ricevere i normali
stimoli di quel comune quotidiano. Similmente a quanto le
era capitato da ragazzina, la volta in cui era stata sfiorata
da un’auto e gettata in terra. Era rimasta per un poco sotto
lo schiaffo della sorpresa, della meraviglia.
Forse parlava dell’aperitivo perché a un certo punto
le aveva passato la “carta” con i suggerimenti della casa.
E, avendo compreso dal suo atteggiamento e dal tono della
voce che non aveva intenzioni violente, aveva anche
dismesso il timore che l’aveva agguantata alla gola quando
61
lui le aveva chiesto di prendere qualcosa insieme. Il suo
mestiere l’aveva esposta a rischi di ogni genere. . . Il café
era lì per quello, alla fine gli aveva sentito dire. Con un
sorriso appena accennato, evidentemente anche lui
incapace di superare del tutto le circostanze.
Non aveva trovato in sé la forza di negarsi, di
tagliare via qualunque contatto. Di far regredire il passato
che in un attimo l’aveva investita, l’aveva avvolta come un
improvviso uragano dal vento irresistibile. E, per un breve
attimo, come un freddo sudario.
Poi, pian piano, quel senso di smarrimento fisico e
spirituale, quell’angoscia del buio, l’avevano lasciata, e i
suoi movimenti avevano cominciato a sciogliersi, a
diventare naturali, anche se come al solito a volte quasi
impercettibili. E quello sciogliersi le parve venire dal
cuore, non più stretto dall’asfissia che l’aggrediva negli
ultimi tempi; come se si fossero finalmente risvegliati i
sensi e lo stesso cervello.
Abbandonata nella poltroncina di ferro smaltata di
crudo bianco marinaresco, era poco a poco riemersa dall’
apnea a cui le emozioni l’avevano costretta, e per metà
aveva vissuto e per metà riflettuto su quanto lui le diceva.
Lui che non era impegnato in altro se non nel descrivere la
giornata, bellissima, splendida, e ad argomentare sulle
sorprese che Amsterdam era capace di offrirgli ogni volta
che la visitava. Ma in un modo tanto leggero e impersonale che non era sicura se alludesse al sole e alla brezza
marina che di tanto in tanto li raggiungeva, piuttosto che al
loro incontro. E non ebbe il coraggio di spiccare una sola
parola in risposta temendo di dire un’ insulsaggine.
Poi accadde qualcosa...qualcosa che la prese a
tradimento, a cui non riuscì a sottrarsi. Anzi, a cui non
62
avrebbe rinunciato per tutto l’oro del mondo. Una sorta di
processo nervoso che lentamente si compì in una discesa
nel passato di tutti i suoi sensi e del suo stesso animo,
della sua immaginazione. A un tratto la tensione nervosa si
allentò e la distanza da ciò che era stato prima degli ultimi
cinque anni fu come annullata. Pur cosciente di quale
fosse il presente, l’occasione non fu più la stessa e lei fu
sospinta verso il passato comune. La sua vita per brevi
istanti non fu più quella che stava vivendo, scomparvero i
dollari dal portafogli che aveva nella borsa, e la
contemporaneità cadde come cade una vela allorché il
vento gira di novanta gradi. Una sorta di fulminea regressione. E fu lì con l’amante, a prendere un aperitivo nello
stato di gioiosa quiete che aveva governato la sua vita
finché erano stati insieme. Una sensazione di felice
freschezza interiore, appena casualmente intaccata dai
piccoli dissensi che si incastravano nelle varie e gradevoli
sensazioni di cui erano disseminati i suoi giorni e le sue
notti. Quando il sesso era ancora un piacere da condividere con lui; o da concedergli con una certa superiorità
velata di arrendevole tenerezza. E dopo essere scivolata
nel passato vi rimase ancorata finché poté, fino a che
l’irrealtà di quel sentimento da una parte si rese
insopportabile e dall’altra fece scorrere sul suo viso una
lacrima, che lei occultò con uno svelto movimento della
mano.
L’unica cosa che riuscì a pensare in quegli istanti di
commozione fu che da quelle antiche sensazioni, da quel
vecchio mondo...e dall’amore di lui, non avrebbe dovuto
mai separarsi...E che di quella realtà ormai morta lei
poteva ancora assaporarne l’ombra, che le giungeva dalla
63
memoria fino all’impossibile, e fino a che le sarebbe ancora giunta... Ma non c’era altro...
A quel punto un sorta di calma intervenne a dare
riposo ai suoi nervi, e ossigeno alla sua capacità di proseguire in quello che, a dispetto della quiete che li circondava, era comunque un confronto.
Arrivarono gli aperitivi. Lei addentò un canapè,
quindi sorseggiò un po’ di vino bianco mentre lui faceva
lo stesso con la sua Lager. E nel breve silenzio intervenuto
si chiese ancora cosa volesse da lei, quasi dimenticando
che era stata lei a provocare l’incontro. Poi si disse che lui
avrebbe potuto rifiutare il riconoscimento, oppure salutare e non invitarla a prendere da bere. Era la sua
abitudine, un effetto della sua nuova natura per la
frequentazione dei troiai a cui era solitamente esposta, che
la portava a chiedersi cosa volessero i maschi che le
stavano di fronte. Cosa volessero loro da lei e cosa lei
potesse aspettarsi da loro. Insomma, quale tipo di eventuali clienti la fronteggiasse, e in quali casini potevano
metterla. Era vero che lei aveva architettato l’incontro, ma
non c’è nessun amante che debba sposarsi entro pochi
mesi con la donna della sua vita - era l’espressione che lui
spesso usava - che debba intrattenersi con lei dopo essere
stato lasciato in tronco - da puttana, si disse - e offrirle da
bere.
O, forse, si trattava di una sorta di sindrome della
terra di nessuno? Di quella terra straniera a entrambi, in
cui era possibile sospendere per un attimo gli odi, dimenticare per un breve tempo i peggiori rancori e sopravvivere
a quanto era stato? Un difendersi sospendendo per qualche
64
attimo la battaglia su quel fronte? Era una sorta di limbo
quello a cui lui l’aveva invitata? Un territorio di tregua?
Erano rimasti in silenzio per alcuni minuti consumando l’aperitivo, e questo aveva creato una sorta di
imbarazzo che entrambi superarono con la scioltezza di
volontà determinate a scorgere cosa c’è nella successiva
pagina del libro. Poi lui, sentendosi responsabile d’essere
entrambi a quel tavolo, ricominciò a parlare della città,
della sua speciale natura, e delle stranezze che possono
capitare trovandosi all’estero. E le raccontò di quando era
studente e aveva incontrato sul traghetto per Dover un
amico che non vedeva da anni, un pittore pieno di
entusiasmo e di energia da cui aveva acquistato in seguito
alcune tele. E concluse: un amico affondato nel nulla, per
quanto lui lo apprezzasse e ne apprezzasse i lavori. Quindi
si interruppe bruscamente, quasi che il racconto di
quell’avvenimento lontano potesse servire da chiave di
un’amara lettura del loro incontro. Ciascuno vede le cose a
modo suo: lei vi avrebbe trovato qualcosa di negativo nei
suoi confronti? Un rimprovero? Un giudizio?
Mentre parlava a voce bassa per non disturbare
quelli dei tavoli vicini, la guardava. Con un imbarazzo che
sempre più scivolava verso il disagio, le parve di intuire.
Ma cosa ci facevano loro due a quel tavolo?
Perché erano seduti lì, insieme?
65
IV
Non aveva il coraggio di tornare in quel cafè.
La volta precedente era andata bene, ma per una
sorta di miracolo. Entrambi avevano ignorato quanto c’era
stato fra loro, di gradevole e di sgradevole, ammesso che
si potesse dire così. Questa volta sarebbe stato diverso. Il
passato è come un ramo carico di frutti e di foglie che
prima o poi si inclina su di noi, se non siamo proprio noi a
tirarlo giù. E’ la vita.
Sarebbe stata qualcosa del genere anche con lei?
Aveva ancora negli occhi, oltre al viso sbattuto di
Luise, e l’abbraccio cordiale con la prostituta prima che
quest’ultima prendesse servizio alla finestra, nel quartiere
a luci rosse. Vi era andato perché, sebbene conoscesse
Amsterdam da tempo - fra l’altro per conferenze a cui gli
era stato richiesto di presenziare da parte della sua
università, o per incontri su questo o quell’autore a cui
aveva partecipato per il suo lavoro -, non aveva mai
66
dedicato grande attenzione a quella parte della città,
neanche da giovane, un luogo che immaginava squallido.
Sapeva che era un pregiudizio, ma sapeva anche che
quel quartiere non poteva essere altro. A fare un giro da
quelle parti lo aveva sollecitato l’informazione ironica di
un collega statunitense che gli aveva raccontato come, nel
Medioevo, le prostitute che fuggivano dall’area designata
allo svolgimento della loro professione - e che pertanto si
sottraevano alla tassa da pagare al bailiff - venivano
rintracciate e convinte a tornare al loro destino - nonché
all’abbraccio del bailiff - da una sorta di guardia civica
che, con flauti e tamburelli, una volta scoperto il loro
rifugio rimaneva a suonare sotto le loro finestre finché le
disgraziate non facevano ritorno al loro mestiere e al seno
dell’amministratore cittadino. Il Medioevo lo aveva
sempre interessato ma non si era mai imbattuto in
un’usanza così musicale, in un costume allo stesso tempo
così gentile e crudele. E questo ancor prima che il
protestantesimo sventolasse le sue bandiere di
predestinazione non-agostiniana. Così, quel giorno, si era
spinto fino al Oude Zjids Achterburgwal, un punto al
cuore del Red Lights District, curiosando a destra e a
manca finché, davanti a una finestra delle più semplici
sotto la sua viva luce rossa, aveva visto due ragazze
abbracciarsi in un veloce saluto, e poi una di loro
scomparire dentro la casa, facendo ancora un cenno
all’altra mentre indicava il proprio orologio.
A quel punto aveva ricordato un altro particolare
raccontatogli dal collega imparentato con i redskins, gli
indiani di Colombo - aveva un naso davvero enorme.
L’affitto di quei cubicoli con vetrina e finestra era molto
67
alto, e quelle che li occupavano non avevano intenzione di
gettare via il loro tempo che era denaro contante.
Ma quell’incontro gli sarebbe passato di mente se,
quando l’aveva incontrata la volta precedente, nel prendere posto al tavolino del bar, lei non si fosse girata per un
attimo e lui non le avesse visto la schiena dove, in basso,
sul gluteo destro, era disegnato un getto di fiori gialli che
riproduceva l’impronta di una mano. L’aveva già scorto,
quel nodo di fiori, per un solo istante. Era sull’abito della
giovane donna che, dopo un attimo d’incertezza davanti
alla finestra di lavoro dell’amica, era andata via mostrandogli il fianco, mentre lui restava a riflettere sullo
spettacolo offerto da quel luogo, e a ricordare quanto
“chiamami-jack” gli aveva raccontato al riguardo della
“gestione” della prostituzione da parte dei bailiff medievali. Poi la tendina si era aperta e la ragazza aveva preso
posto in costume succinto in una poltrona di velluto
cremisi che coniugava in sottaciuto squallore la modernità all’erotismo cortigiano.
Allora non l’aveva riconosciuta. Forse solo per un
attimo aveva pensato che gli ricordava una donna. Alta,
slanciata, dall’andatura discretamente femminile.
Insomma, c’erano state diverse cose che lo avevano
aiutato a leggere il volto di Luise, e a formulare un’ipotesi
che concordasse con quanto i suoi occhi vedevano di lei, e
con quanto aveva visto delle sue frequentazioni. Le ipotesi sono sempre un rischio ma i nostri sentimenti, le nostre
emozioni spesso ci guidano verso un’inconfessabile verità
che lampeggia nel buio davanti a noi. A volte un’indiscussa quanto indiscutibile verità.
La familiarità mostrata con quella prostituta...
68
Gli erano sembrate due vecchie amiche...Era stato il
modo di fare di colleghe in un normale ambiente di lavoro.
Almeno nella maggior parte dei paesi europei. Cosa
faceva Luise ad Amsterdam? Come viveva? Forse era
ancora con lui? O faceva lo stesso lavoro dell’amica?
“Chiamami-jack” gli aveva detto che solo qualche anno
prima il quartiere a luci rosse aveva vissuto gravi difficoltà
per l’aids, ormai conclamato in Europa, e che una buona
parte delle ragazze si erano rifugiate in club accoglienti e a
minor rischio. Forse lei lavorava in uno di quei club...
Insomma, non proprio la puttana che un bailiff potesse
richiamare al mestiere dal suo ufficio... ma comunque
puttana lo stesso. Quel getto di fiori gialli, l’impronta
allegra quanto allusiva di quella mano...
Anche se quello non significava niente...
Avrebbe avuto il coraggio di confessarglielo, se
fosse stata la verità?
Ma perché pensarci?
E perché non farlo?, dopo cinque anni di
convivenza, e un matrimonio a cui era stata lei a
mancare... Come non chiedersi...?
Allorché gli sembrava di essere stato messo con le
spalle al muro da quegli interrogativi, ecco giungere la
risposta liberatoria: era tutto finito. Non erano più fatti
suoi. Si erano incontrati per caso, e basta. Si erano solo
incontrati per un maledetto caso. La loro storia era
scomparsa nel passato, nel gorgo degli ultimi cinque
anni...Di un lustro. E un lustro non è poco, in nessuna
lingua e in nessuna storia, pubblica o privata. Perché
avrebbe dovuto interessarsene, dopotutto? Non era
Importante che lui l’avesse vista con l’amica troia. E lei
poteva aver continuato la sua storia, una vita regola-
69
rissima, con quel maxi-stronzo dalla giacca di daino e
dall’avo boero per cui lei l’aveva lasciato.
Anzi ex-boero.
Basta così, nessuna domanda, nessuna risposta,
nessun obbligo di informazione reciproca su fatti così
gravi. Non erano affari suoi, né erano affari di lei in cui
potesse impicciarsi. Neanche si poteva dire che fossero
amici, dopo che lei l’aveva fottuto così di brutto.
Questo restava, e sarebbe restato per sempre.
E fu con un animo alquanto rasserenato che
s’incamminò con passo leggero verso il piccolo cafè dai
colori bianco e azzurro, e dalle poltroncine di metallo con
lo schienale su cui campeggiava una simpatica ancora
traforata; e dai sottobicchieri di smerlata carta lucida.
70
V
La notte, si era svegliata all’improvviso.
Dopo il profondo sonno che l’aveva sottratta al gelo
della mente di cui era stata preda per quanto era accaduto
la sera precedente, un sogno o qualcos’altro l’aveva
scaraventata fuori dell’ingannevole soporifera calma. E
tutto era ripartito daccapo, a cominciare dalla meraviglia
ingenerata in lei dall’incontro, e dal non sapere cosa fare.
Era stato un colpo che non si aspettava, Stare allo
stesso tavolo dell’ex-amante - anzi dell’ex-innamorato, dal
momento che stavano per sposarsi - le era sembrato un
sogno ad occhi aperti, qualcosa di impossibile, di
irraggiungibile. Inesauribile nella sua sorpresa, inimmaginabile ormai. Era una prostituta. Faceva la puttana, si
diceva così nella lingua a cui era da anni abituata, nella
lingua di lui. E questo fatto era comunque indelebile in lei
stessa. In lei che lo avrebbe ricordato ogni momento di
una qualunque vita a venire. La vecchia Luise non c’era
più, e solo il dirselo le faceva un male da morire. Come se
71
le strappassero la pelle. Perché aveva vergogna di se
stessa, non solo per la vita che aveva fatto negli ultimi
anni ma anche per la propria stupidità. Per l’ingenuità che
l’aveva spinta al fondo e ve l’aveva mantenuta...E che in
effetti ancora ve la teneva.
Neanche questo poteva dimenticare.
Non lavorava nella zona a luci rosse, e quindi da un
punto di vista giuridico non era ancora considerata una
prostituta, ma... “ancora” è una parola e allo stesso tempo
un muro di carta. I club che frequentava erano in pratica
dei casini, dei luoghi di appuntamento per scivolare in una
camera d’albergo.
Quando quello stronzo di Phil l’aveva lasciata ed era
tornato in Germania, a lei erano rimasti pochi soldi. Tre
anni e quattro mesi di “duro lavoro sulla schiena”. Era così
che lui diceva credendo di scherzare, quando era ubriaco.
O “sulle ginocchia”. E ridacchiava con lo stesso sorriso
che l’aveva prima conquistata e poi convinta. Un sorriso
simpatico, strafottente, di chi sa quello che dice e che fa.
Una piega del viso rassicurante, coinvolgente, devotamente complice. Di una persona tutta dedicata a lei, a loro
due. Le erano rimasti solo i soldi che aveva consegnato a
Margot, e che nelle sue intenzioni avrebbero dovuto
servire per cambiare la macchina. Per prendere una
decappottabile con cui fare delle gite nella buona stagione
insieme a lui. Un regalo più per lui che per se stessa.
In quel momento Margot era stata importante per lei.
Oltre ad averle tenuto i soldi, le aveva consigliato il club
dove si era spostata, una volta che quello stronzo era
andato via. Sapere a chi potere affidare il suo denaro, nel
suo lavoro e nelle sue condizioni, sia prima che dopo la
72
fuga di Phil, era un punto di partenza. Lei non era pratica
di banche e aveva paura che la fregassero anche lì, o che si
accorgessero che faceva il mestiere. Aveva vergogna
anche del suo sudato denaro. Ma l’amica era stata ancora
più importante. Margot, le aveva indicato diversi posti da
frequentare. La conclusione degli anni ’80 era stato un
momento duro per tutte le prostitute del quartiere a luci
rosse. L’aids, ormai conclamato in Europa, aveva
impaurito sia i clienti che le ragazze, e lei non avrebbe
saputo cosa e come farlo se l’amica non l’avesse spinta
nella giusta direzione. Certo in una direzione non diversa
da quella in cui l’aveva spinta il suo amante. Un momento
di disperazione e insieme di euforia, quando lui le aveva
offerto quella soluzione con belle parole e su di un piatto
d’argento. Si trattava di superare quel periodo in cui non
trovavano lavoro. Poi si sarebbero sposati e avrebbero
dimenticato, lei da una parte e lui dall’altra ma sempre
insieme. Perché ormai si amavano, lui l’amava da non
poterla dimenticare, da non poterla lasciare.
Diceva così il bastardo.
Ci voleva un poco di buona volontà, un poco di
ottimismo, e poi quel periodo sarebbe stato per sempre alle
loro spalle. Dimenticato. Per sempre, per sempre. E le
aveva sorriso, innamorato, complice, strafottente, da
persona che sapeva quello che diceva e quello che faceva.
Incredibile.
Phil era davvero un grande stronzo, un vigliacco che
più schifoso non ce n’era. Un uomo nato per quel
mestiere. Ma anche lei...Era stata stupida come solo una
donna innamorata può esserlo. E si era imbarcata
nell’avventura per ritrovarsi con pochi soldi che aveva
73
messo da parte, un gruzzolo che avrebbe dovuto crescere
ancora parecchio per poter cambiare la macchina e andare
in giro nelle belle giornate di primavera o d’estate, per fare
pic-nic e prendere per il culo quelli che non potevano
permetterselo.
Così era passata nella seconda categoria, fra quelli
che non potevano permetterselo, mentre lui se l’era filata
all’inglese.
Non che avesse intenzione di ricordare, di
raccontarsi di nuovo la propria storia, ma a tratti, alcune
cose le balzavano in mente come scimmie che
s’aggrappassero ai suoi pensieri, e non la lasciassero prima
di essersi dondolate per un po’ vagando fra cento altri
ricordi.
Il primo cliente era stato un console onorario sudamericano che avrebbe trascorso una breve vacanza in
patria. Questa gente ha bisogno di essere re-indottrinata di
tanto in tanto dal Governo. E torna per un po’ e riprende le
vecchie abitudini. E’ un uomo di mezza età che non ha
portato la moglie e si sente solo, le aveva detto. C’è da
spillargli un sacco di denaro e poi mandarlo a fare in culo.
Potrai levarti anche questa soddisfazione, se vorrai. Ma
prima bisogna prendergli la grana. Sperando che tu gli
piaccia. Devi solo andare all’Ange Noir e cenare con lui.
Poi vedremo quello che si potrà fare. Tu sai chi è un
console onorario, no?! E’ gente carica di denaro, e nel
caso di questo stufa di carne caffèlatte. Si getterà su di te
come su un agnellino. Ma tu non sei un agnellino e dovrai
mungerlo. Andrà via presto, il tempo di ricevere nuove
istruzioni da qualche funzionario del Governo, e poi basta.
74
Nessuno saprà niente, e noi avremo tanto denaro da
poterci prendere una vacanza di un po’ di mesi.
A quel punto della loro storia il denaro era finito da
un pezzo e andavano avanti con prestiti di amici. Nel caso
di lui, si trattava di bari o di gente che era coinvolta nella
pornografia minorile, nello spaccio al minuto di droga, o
in imbrogli per gonzi - e queste erano le cose migliori. Nel
caso suo, le amiche potevano prestarle poco. Di alcune
sapeva che facevano le mantenute, di qualcuna sospettava
che facesse marchette. Ma era gente piccola, e così il
denaro che riuscivano a spillare era poco, e sempre di
meno. Una delle amiche, un giorno, le aveva detto: Ma
perché non ti metti a fare la puttana? E’ un mestiere come
gli altri, un lavoro legale. Paghi le tasse e nessuno ti rompe
il cazzo...Ed è finita con l’umiliazione di tutto questo
andirivieni per quattro soldi, di questo leccare il culo a
gente che non meriterebbe neanche di essere salutata da
te...Un po’ di dignità, cazzo, un po’ di dignità femminile.
Baas in eigen buik. Padrona del tuo ventre...Puoi e devi
farne quello che vuoi. E mangiarci su è senz’altro un
motivo sufficiente per fare la prostituta...Indipendenza,
carina, fare la puttana è lavorare, è una cosa che da’
dignità...E’ un fatto di democrazia, di diritti della
donna...E’ una parte della modernità.
La ragazza aveva fatto un anno e mezzo all’
Università Libera di Amsterdam. Di diritti e di scienze
sociale se ne intendeva.
Phil l’aveva pregata, scongiurata. Incoraggiata. La
loro storia non doveva finire per mancanza di denaro...Lei
avrebbe voluto tornarsene a casa dai suoi, almeno per un
po’. Per vedere come si poteva venire fuori da quella
situazione. Ma Phil non aveva voluto. Potevano farcela. E
75
così erano cominciati i quaranta mesi in cui aveva
praticamente lavorato per lui... Poi se n’era andato e le
aveva lasciato gli spiccioli che lei aveva messo nelle mani
di Margot. Di Margot che le aveva detto: noi non ci
diremo mai “adieu”.
Comunque avrebbe dovuto immaginare che le cose
potevano finire così. Durante il tempo trascorso insieme mentre lei “lavorava sulla schiena” -, aveva voluto
dimenticare quello che lui, ancora al principio, le aveva
raccontato per ridicolizzare il suo ex. Uno stronzo fottuto
che leggeva raccontini, e indottrinava giovani uomini a
farsi seghe...Era così che parlava di lui e del suo lavoro
all’università. Una sera in cui era ubriaco fradicio le
aveva raccontato la vera storia del nonno. Il vecchio era un
grandissimo figlio di puttana, altro che eroe. Anzi era
proprio un eroe del cazzo...La storia del nonno che aveva
raccontato sul treno a lei e al suo fiancé non era andata
proprio in quel modo...Suo nonno che, vedendo le crudeltà
praticate dai suoi commilitoni sul fronte, si era ribellato ed
era passato al nemico bla bla...?! Una sonora castroneria.
In Africa suo nonno aveva violentato una ragazzina che
aveva trovato sulla riva di un ruscello durante un
pattugliamento. Una bambina di una decina d’anni. E poi,
quando un compagno lo aveva denunciato all’ufficiale in
comando, aveva detto a sua discolpa che le “bambine” lì
maturavano più in fretta che fra i grachten, e che dieci
anni erano più o meno l’età giusta per cominciare a
scopare. Volenti o nolenti, come accade a tutte le
latitudini...Lei mi ha guardato, e così io...
Phil aveva riso come un matto, e singhiozzando
aveva rigettato un mare di birra che aveva inondato la
76
camera. Poi, mentre lei cercava di riparare il danno con
degli stracci e un abito dismesso, aveva aggiunto che il
vecchio, lui sì che sapeva quello che faceva e come ci si
deve comportare nella vita. Quella stessa notte era fuggito
dopo aver pugnalato la sentinella che gli avevano messo
davanti alla tenda ed era passato ai tedeschi. Non aveva
nessuna intenzione di essere portato davanti al tribunale
militare presieduto da un calvinista - il comandante
dell’unità - che lo avrebbe fatto fucilare la sera stessa del
giorno successivo. Lui ce l’avrebbe comunque fatta perché
avrebbe passato ai tedeschi informazioni militari, o
raccontato delle balle che si sarebbe inventato su due
piedi, se ai crucchi non bastava quello che poteva
raccontargli di vero. Questo era quello che era successo,
altro che gentile ...Uomo d’onore, di coscienza...Suo
nonno era un grandissimo figlio di troia.
Ma il suo fiancé, e lei stessa, si erano bevuti tutte le
puttanate che lui gli aveva rifilato. Tutte, nessuna esclusa aveva concluso Phil.
Poi era precipitato in un sonno durato più di
ventiquattrore. L’amore oltre che cieco è anche stupido. E
lei aveva dimenticato in fretta che nelle vene di Phil
scorreva il medesimo sangue. Che in lui, e nella sua
ammirazione per il nonno, scorreva lo stesso sangue che
raccontava storie fasulle, che tradiva, che uccideva senza
problemi. Un assassino e un furbo ogni volta che poteva.
A volte Mark le aveva detto “buon sangue non mente”; e
una sua collega inglese, all’università di F., aveva
continuato a dirle che una delle compagne di studio era
una gran troia, tale e quale sua madre: che i suoi genitori
conoscevano bene. Dove salta la capra salta la capretta.
77
O, nella sua lingua e con molta ironia : “blood is thicker
than water”.
Ma s’imparano solo le lezioni che si vogliono imparare. Lui era così divertente, così tosto, così macho...
Ottimista e convincente come nessun uomo era mai stato
con lei...
La teneva allegra, allegra da morire... Le era
sembrato di poter essere felice con lui.
Al principio le cose erano andate bene, e lei non
avrebbe mai potuto immaginare una simile conclusione. In
banca il conto cointestato cresceva, e lui l’aveva sempre
aiutata, in ogni crisi che aveva avuto, crisi che di tanto in
tanto tornavano. Come la mezzanotte di un orologio che
segni ventiquattrore, tarda a venire ma arriva sempre.
L’aveva aiutata con un crudele calcolo oltre ogni misura.
L’avrebbe capito quel giorno in cui dovevano andare a
cenare da “Dorrius”, come di tanto in tanto capitava. Il
locale le piaceva molto, era uno dei più importanti di
Amsterdam, dei più a la page, con i turisti e gente con i
soldi, e con grande cucina olandese. A lei piacevano
particolarmente i candidi grembiuli inamidati del
personale di servizio, e le sale pannellate di un legno
lucido e dai colori profondi, e quell’aria di opulenza che
anche loro potevano respirare. Lui, poi, le aveva
solennemente promesso di non chiederle di scoparsi
nessuno che incontrassero lì, per quanto ghiotta potesse
essere l’occasione. Glielo aveva giurato. Anzi, una volta
che un uomo a un tavolo non distante l’aveva adocchiata e
guardata con insistenza significativa, lui le aveva chiesto
di cambiare posto, “prima che vada a spaccargli la faccia,
a quello lì”. Le era sembrato una prova della sua lealtà di
78
compagno, un pegno d’oro per il suo futuro. Per il “loro”
futuro. Phil aveva mantenuto la promessa, e a lei era
bastato. In quel locale così elegante le sembrava di toccare
con mano il “successo” raggiunto, e allo steso tempo di
potersi sentire, così mescolata a quella bella gente, una
turista del bel mondo appena arrivata, invece che una che
faceva la prostituta nella città “che aveva vinto il mare”.
In qualche modo anche lei aveva vinto la stessa
possibilità di vivere. Di quando in quando, ripensava
all’amica che le aveva proposto la stanza nel quartiere a
luci rosse, dicendole che si trattava di un mestiere legale, e
che nessuno aveva “il diritto di romperle il cazzo se lei
pagava le tasse”. Era stata una scoperta inattesa e allo
stesso tempo un’assicurazione... anche se il mestiere lei lo
faceva in altre condizioni e le tasse non le pagava. Ma la
democrazia e i diritti delle donne sono intoccabili.
Era un’amica di Phil. E in un secondo momento lei
aveva immaginato che tutta la cosa fosse cominciata con il
suggerimento di Phil a Regane - si chiamava così la
ragazza - di farle quel discorsetto sulla legalità di quel
lavoro, sulla democrazia del nord, sulla libertà di disporre
del proprio ventre. E sulla dignità della donna. Una cosa
ben architettata.
Poi la conclusione, il traguardo di quell’inganno.
Si era svegliata che lui era uscito, e l’aveva lasciata
sola nella stanza dell’appartamentino in cui vivevano.
Aveva visto il cassetto del mobile di fronte al letto
semichiuso, e dal momento che dentro vi erano i loro
passaporti e gli altri documenti importanti per vivere
all’estero, se ne era meravigliata. Phil lo teneva sempre
chiuso a chiave. Forse...il cassetto cigolava, e lui non
79
aveva voluto svegliarla? Aveva subito cercato i passaporti
e l’assicurazione sanitaria che avevano entrambi, oltre
all’assicurazione reciproca sulla vita con i Lloyds. L’avevano rinnovata da poco. E, quando non li aveva trovati, si
era messa a frugare nei cassetti, fra altre carte, per vedere
se passaporti e assicurazioni fossero andati a finire in
mezzo ad essi. Ma proprio quei momenti sprecati le
avevano tolto ogni possibilità di raggiungerlo, quando alla
fine aveva immaginato tutto e si era precipitata in strada.
Neanche l’ombra di quel gran figlio di puttana. Subito
aveva pensato all’automobile e aveva telefonato al garage.
A quel punto neanche la risposta dell’omino di turno al
garage poteva meravigliarla. Phil era uscito con la macchina e non era ancora rientrato. Era stato il suggello a
tutta la vicenda. La macchina non era neanche intestata a
lei. L’Europarking di Marnixstraat aveva ingoiato per
sempre anche quella che fino alla sera precedente era stata
la “loro” Volvo.
Chiuso anche con quella.
Ma il peggio doveva ancora venire perché lei non
aveva mai pensato che un conto bancario cointestato e a
firme libere significasse non solo un deposito di cui essere
titolari in due, ma allo stesso tempo un conto da poter
essere legalmente svuotato da uno di loro a cui venisse
voglia di farlo. In qualunque momento, bastava che la
filiale della banca fosse aperta. Lei aveva solo pensato che
era comodo che entrambi potessero accedervi separatamente e ritirare del denaro, cosa che di solito faceva
lui. Ma che lui potesse prelevare tutto e lasciarla con il
culo per terra, questo non le era mai venuto in mente. Che
imbecille era stata! Neanche capace di fare la puttana,
80
perché alla fin fine anche la democrazia e la legalità non ti
salvano, se non tieni gli occhi bene aperti.
In banca non poteva telefonare, troppo tardi. Le
banche chiudono per i diritti di quelli che ci lavorano. E,
dopo aver chiuso alle quattro, avrebbe riaperto solo il
lunedì mattina. Sempre per i diritti di quelli che ci
lavorano. Ma immaginava.... Non era difficile “immaginare con sicurezza” quello che c’era da immaginare.
Dopo aver lasciato la Marnixstraat e l’Europarking,
aveva deciso di fare un giro a piedi. Ne aveva una grande
voglia, in modo particolare il pomeriggio di quella sera in
cui avrebbero dovuto andare da Dorrius lei e Phil. Le
avrebbe fatto bene un posto solitario, che magari lei
conosceva e che l’avrebbe accolta insieme alla sua
disperazione, alla sua infelicità. Le venne in mente il
Westerpark. Era lontano, ma con la Metro e un po’ di
fortuna ci poteva arrivare in fretta. L’Harlemmerweg, che
correva lungo il parco, le piaceva. C’era una nota di
freschezza, di semplicità, e magari anche di povertà di
periferia che le aveva sempre ricordato il suo passato.
Forse anche in quel momento l’avrebbe aiutata, confortata.
Una volta, andando a incontrare Margot che era da quelle
parti per certi suoi affari, era rimasta inchiodata davanti a
una vetrina di Harlemmerweg. Era una sorta di ampia
finestra più che un’autentica vetrina commerciale. La
donna - che viveva lì con un figlio che poteva avere
cinque o sei anni, e che si vedeva in fondo, nel cucinotto
illuminato del piccolo, ingombro appartamento - aveva
esposto cose da vendere. Aveva immaginato che fossero
cose della casa che l’altra dava via perché non le servivano
più, o perché aveva bisogno di denaro. Fra le altre c’era
81
una bistecchiera quasi nuova che non era riuscita a
immaginare come fosse arrivata lì. Certo non per il
frequente consumo di carne.
Quella finestra era parte integrante dell’abitazione di
quella povera gente, e lei era tornata sui suoi passi
fingendo di voler guardare il Westerpark al di là dell’
Harlemmerfaart ma fissando per un paio di minuti la
merce di quella piccola azienda, che altri avrebbe
considerato solo spazzatura.
Forse lì c’era anche più infelicità che da lei.
Quel pomeriggio aveva bisogno d’aria, e di qualcosa
che la tenesse lontano dal suo appartamento, dal suo
mestiere, e principalmente dal pensiero di lui. Ma non era
facile. Quel figlio di puttana di Phil era lì, presente in
tutto, la causa di tutte le disgrazie che le stavano
capitando, di quelle che già le erano capitate, e anche di
tutti i problemi che l’avrebbero cercata da quel giorno in
poi. Tra l’altro avevano parecchi debiti, non è vero che chi
ha denaro non ha debiti. E il suo mestiere aveva bisogno di
un uomo che desse una spinta. Ma lui non sarebbe stato
più lì, e le cose sarebbero diventate ancora più difficili. Il
suo eroe... L’uomo più virile che avesse incontrato, il più
simpatico... Che sapeva tirarla fuori da ogni pasticcio...
Ed erano parecchi i problemi che sarebbero giunti a
maturazione, a cominciare dall’appartamento. Il contratto
era intestato a lui, e sicuramente l’aveva disdetto ed era
andato a ritirare il deposito cauzionale. Le sarebbe arrivato
l’avviso di sfratto entro un paio di settimane. Era più o
meno quello il periodo dell’anno in cui avevano firmato...
In cui lui aveva firmato.
82
Così era rimasta per un paio d’ore fra
l’Harlemmerweg e il Wester Park, a fumare e a fissare
l’Harlemmerfaart. L’acqua del canale scorreva lenta
contro lo sfondo del parco, mentre lei passava e ripassava
davanti a quella vetrina quasi opaca per la polvere della
strada e l’età della piccola costruzione. Ma la casa era
chiusa con un grosso catenaccio sulla porta. Attraverso la
vetrina si potevano vedere gli interni, probabilmente due
stanze oltre il cucinotto in fondo più scuro che mai. Forse
la donna lasciava le porte aperte e le tendine della vetrina
raccolte ai lati affinché qualche malintenzionato di
passaggio potesse accertarsi che, a dispetto del robusto
catenaccio, non c’era nulla da rubare. Nulla da prendere e
portar via per ricavarvi qualcosa, a parte la miseria e la
solitudine che dovevano essere le costanti della famiglia.
Almeno lei aveva immaginato così.
I minuti si erano spinti l’un l’altro, mentre il fumo di
sigaretta la rincorreva attorcigliandosi su se stesso nella
mezza luce del giorno che sfumava silenziosamente. Poi
era tornata a casa, incapace di sopportare oltre quel
paesaggio silenzioso. A una casa che non era più casa sua,
e che ad ogni oggetto, ad ogni colore - per quanto scelti
con cura, con gusto - le suggeriva che non era mai stata
una casa.
Aveva dovuto aspettare lo scorrere lento di quel
week-end e le prime ore di un lunedì mattina in cui si era
svegliata troppo presto, per sapere dalla banca che sul
conto le restavano cinquecento dollari, e che allo sportello
della posta-clienti vi era una lettera per lei, oltre alle
comunicazioni bancarie non ancora ritirate. “Ho una nota
della mia collega che mi dice così, signora...”.
83
Quel “signora” avrebbe anche potuto essere una
presa per il sedere, se la “collega” incaricata ai conti
correnti avesse saputo e le avessero raccontato quello che
era successo a uno degli intestatari del conto N°xxxx. Ma
quella era solo ipocondria, non c’era da pensarvi, o
comunque da farvi gran caso.. Anzi non era neanche
ipocondria ma paranoia...Aveva ritirato 450 dei 500 dollari
e si era recata allo sportello della posta-clienti. In una delle
buste vi era l’ultimo resoconto trimestrale, evidentemente
già visionato da lui. In margine era scritto: per le piccole
spese.
Quel grandissimo pezzo di merda! Non sarebbero
bastati 5.000 dollari per saldare i debiti..E, per quanto
riguardava l’augurio, quello poteva ficcarselo direttamente...!
Ed era finita lì. Aveva dovuto abbandonare l’appartamento e trasferirsi in un’altra zona della città, ma
prima, in un giorno e una notte, aveva raccontato a Margot
tutto quello che le era successo. Erano entrambe sedute su
di una cassetta di lager perché la ditta che aveva venduto
loro i mobili aveva mandato il trasportatore per riprenderseli, dopo il secondo avviso non riscontrato da un
pagamento. E avevano bevuto e avevano riso come due
donne che non avessero altro da fare, o idee su cosa fare, a
tratti chiedendosi l’un l’altra come Phil, l’augurio, avrebbe
potuto “ficcarselo direttamente...”.
Poi avevano brindato ancora. E si erano trasferite a
casa di Margot, l’amica l’avrebbe ospitata per il tempo
necessario a trovarsi una nuova casa e un nuovo letto dove
dormire. Alla seconda bottiglia di vino rosso, comprata
nel negozio a una ventina di metri dal suo portoncino,
84
erano state entrambe ubriache fradice. E Margot aveva
alzato il bicchiere dicendo: Adieu!
Quel saluto l’aveva aiutata a sbollire la rabbia che a
tratti le saliva alla testa. L’aveva aiutata a cominciare a
dimenticare.
Phil non c’era più. Anzi, non esisteva più.
Adieu, per Margot significava la chiusura, il sigillo
di un fatto. Come una pietra tombale, un atto notarile che
ufficializzasse la scomparsa di qualcuno o di qualcosa. E
lei stessa aveva ripetuto con la bocca e con il cuore quella
sorta di saluto definitivo a quello stronzo di Phil, a quel
grandissimo figlio di troia che le aveva incasinato così
crudelmente la vita.
85
VI
- Sono Mark Bacoli, sig. Provveditore. Buongiorno.
- Buon giorno a lei, Professore. Le sono grato per
aver chiamato.
- Lei mi ha dato cortesemente il suo numero di
telefono...
- Non lo dica. E’ un numero pubblico che poteva
trovare in qualunque elenco del servizio telefonico. Se
avessi immaginato che poteva aver bisogno di me le avrei
dato il mio numero privato...In cosa posso esserle utile?
- E’ una questione che non attiene alla mia funzione
e al mio lavoro qui...
- Dica pure, Professore...Se la vita dovesse arrestarsi
ai confini dell’ufficialità, o dell’interesse di Stato...
- Avrei bisogno di un favore. Noi italiani siamo
curiosi, e forse noi studiosi italiani lo siamo più degli altri.
Chissà poi se a ragione o a torto. Ma la nostra storia è
complicata, e a volte rimarrebbe incomprensibile se
qualcuno non fosse curioso come un gatto...Devo dire,
86
comunque, che voi olandesi non lo siete meno, quando si
tratta di indagini storiche o di scienze esatte..
- Grazie. Dica pure, Professore.
- Avrei bisogno di qualche informazione su di un
vostro cittadino. Anzi su qualcuno che è stato vostro
cittadino prima di prendere una diversa cittadinanza.
Conosco il nome dell’uomo e il periodo in cui può essere
morto. Ma dal momento che è deceduto probabilmente
all’estero, questa data non sarebbe di grande aiuto...
immagino.
- Potrebbe essere così gentile da dirmi di cosa si
tratta, Professore? Di entrare un po’ più nel dettaglio. Non
vorrei che perdesse il suo tempo. Anche da noi vi sono
cose che il Governo non ama divulgare. Degli “scheletri
nell’armadio”, come dice la stampa.
A questo punto il “signor provveditore” dette in una
risatina diplomatica. Quindi proseguì con sottolineata
gentilezza:
- A meno che non vi sia un motivo preciso, una
circostanza...giustificante.
Si aspettava la richiesta. E la sua risposta fu semplice, da poter essere accettata da chiunque fosse disponibile a una certa misurata evasività, che non avesse
tuttavia conseguenze di carattere politico-amministrativo.
- Le garantisco che non vi è nessuna implicazione in
affari di Stato o cose simili. Si tratta di un lavoro a cui
attendo da qualche tempo presso l’università di F. Un’
indagine storica, di routine quasi...Nell’esame di alcuni
documenti riguardanti la I Guerra Mondiale e gli
avvenimenti coloniali ad essa connessi, è saltata fuori una
lettera che faceva riferimento a questa persona accennando
ad alcune attività da lui svolte nel periodo bellico. Niente
87
di importante, per la verità, tuttavia vorrei annotarvi in
margine un profilo essenziale. Ma non possiedo nessuna
informazione tranne il fatto che l’uomo era olandese di
nascita e di nazionalità. Almeno in quel periodo. Ho
cercato anche sul web, ma senza alcun risultato. Comunque, non credo che si tratti di persona coinvolta in fatti che
siano classificati o secretati. Un uomo insignificante,
un’ombra su di un muro grigio.
All’altro capo del filo un breve silenzio, poi uno
schiarirsi della voce basso quanto possibile.
- In tal caso mi farà piacere essere utile a lei e alla
Università di F.
- La ringrazio, sig, Provveditore. I dati sono i seguenti.
Scandire le lettere che costituivano il nome del
nonno di Phil gli provocò un profondo disgusto, come se
avesse dovute staccarle a forza con la lingua da un
pavimento lordato dal passaggio di una colonna di appestati. A completare il suo racconto, Phil aveva anche
specificato la data di nascita e di morte dell’eroe; lo steso
gli accadde con queste.
- Bene, le farò sapere.
- Quando posso ritelefonarle?
- Domani, dopo le undici. So che rimarrà ancora
poco con noi.
- Purtroppo, perché devo ammettere che l’aria del
vostro Paese mi giova molto.
Questa volta la risatina fu cordiale.
- Mi fa molto piacere, Professore.
- Ancora grazie, sig. Provveditore, a domani.
Gli avevano detto che poteva chiamarlo così, sembrava che quel titolo gli spettasse, o titillasse il suo amor
88
proprio. Anche gli olandesi, di tanto in tanto, mostravano
qualche debolezza.
Il giorno successivo compose il numero del “signor
provveditore” con ansia e un certo imbarazzo. A dispetto
del suo mestiere - o proprio perché faceva quel mestiere e
ne conosceva i bassi intrallazzi e le pesanti compartecipazioni da pagare -, i secondi di attesa furono
sgradevoli quanto pieni di curioso desiderio.
Poi l’altro rispose.
- Buongiorno, sig. Provveditore...
- Buongiorno, Professore, eccomi a lei.
Delle carte frusciarono nel suo orecchio, una voce
bassa nello sfondo, forse una segretaria a cui fu chiesto:
Null’altro? - No, fu la risposta.
- Per la verità non è stato del tutto facile...Ma nulla è
facile quando si tratta di cose che hanno avuto luogo circa
un secolo fa...a dispetto di ogni buona organizzazione e di
ogni moderna digitalizzazione e informatizzazione...
- Mi dispiace di averle procurato...
- Non si preoccupi, mon amì, niente di grave. Non
aggiunga altro. Dunque...la persona su cui lei desiderava
informazioni, per quanto sia “un’ombra su di un muro
grigio”, ha sollevato il nostro interesse per un certo
periodo. Si tratta di un omocoda. Ricercato per un
decennio dalla nostra amministrazione giudiziaria e dalla
polizia di Stato per avere ucciso una ragazzina dopo averla
stuprata, durante l’avanzata delle truppe boere. Forze
militari locali a cui l’uomo si era associato contro le truppe
di occupazione tedesca nel sud-Africa. Denunciato
all’autorità del reparto da un suo commilitone, durante la
prima notte di detenzione - immagino che fosse in una
89
semplice tenda o qualcosa di egualmente “sicuro” pugnalò la sentinella di guardia e passò al nemico
fornendogli informazioni militari. Sfuggendo così alla
fucilazione che avrebbe privato di tale sostegno “solido e
fedele” le truppe tedesche in ritirata.
Qui lui immaginò che l’uomo sorridesse per
l’evidente cambiamento del tono di voce.
- Per la completezza dell’informazione, e per la
particolare funzione che lei ricopre nello svolgimento di
questa indagine, insomma per il valore scientifico di cui
essa è rivestita, tengo a precisare che questa persona non
ha mai più calcato il suolo olandese, essendogli stato
concesso al termine del conflitto dapprima l’asilo politico
in quanto disertore e poi, dopo un certo numero di anni cinque per la precisione -, la nazionalità tedesca.
Una risatina interruppe la pastosa voce del suo interlocutore.
- Non deve essere stato un furbetto da poco, quest’
uomo. Non ha mai avuto problemi con la giustizia tedesca
fino alla sua morte. Neanche una multa per divieto di
sosta...Ma questo, forse, perché non possedeva un’
automobile...E, per chiudere il capitolo, posso darle queste
informazioni in base all’attuazione di un accordo degli
anni trenta per il quale, a seguito di nostra richiesta, ci
venivano fornite informazioni su cittadini olandesi ed exolandesi, condannati e non dall’amministrazione giudiziaria tedesca, al fine di porre termine alla questione dei
danni di guerra subiti da coloro che avevano partecipato ai
conflitti coloniali e alle loro famiglie.
Dovette inghiottire un paio di volte prima di
rispondere.
90
- Non è poco, Sig. Provveditore...La ringrazio
vivamente. Cercherò di approfondire quest’ultima notizia,
ora che so come proseguire nella mia indagine. La
ringrazio ancora...
- Mi permetta di aggiungere che, a quel tempo,
dovemmo insistere per ottenere un tale tipo di
informazione. Lei ne comprende i motivi...Anche perché
lei ricorda come finì la nostra collaborazione con l’amica
Germania, non è vero?!
Poi, dopo qualche attimo:
- Immagino che abbia visitato la casa della nostra
piccola Anna...Ne è rimasto colpito?
- Certamente. E’ una ferita... una ferita che rimarrà
per sempre aperta nel cuore del mondo civile...
- Ho capito dal suo cognome che è di famiglia
ebrea...
- Solo di origine. Ora siamo quasi tutti cristianocattolici.
- Capisco.
- La ringrazio ancora sig. Proveditore. Spero di
rivederla.
- Venga pure a trovarmi, se avesse bisogno di
ulteriori...
- E’ quello che farò.
Ritornato in albergo, era salito in camera e si era
tolto giacca e scarpe, poi si era lasciato andare sul letto, in
una condizione a metà fra lo stanco e il soddisfatto.
Per la verità aveva motivo per essere soddisfatto.
Almeno in un certo senso. Quello che era accaduto era
quello che c’era da aspettarsi da Phil. Probabilmente un
uomo dalla cui bocca difficilmente usciva una verità.
Sapeva Luise di tutto questo? A quel punto fu preso da un
91
attacco di nausea. Doveva smetterla...smetterla di pensare
a lei e a lui. Era un argomento in cui non doveva
impiegare altro tempo e altre emozioni.
Si sentiva aggredito. Più che sentirsi stanco si
sentiva mentalmente incerto, insicuro.
Al mattino aveva partecipato ai lavori del suo
gruppo. Avevano parlato di Musil e della sua opera,
scendendo nei particolari di alcuni passaggi tratti dai suoi
racconti. Anche da quelli che lui aveva letto, nel volume
che gli aveva passato il suo direttore di dipartimento. Lui
non era riuscito ancora a comprendere... Non era riuscito
ancora a centrare l’autore. Questo non aveva nulla a che
fare con il suo lavoro, ma lo incuriosiva egualmente.
Avrebbe voluto capire di più, ma leggerne l’opera
maggiore significava dedicare dei mesi in un’escursione
lontana dai suoi interessi.
L’aria condizionata sospirava debolmente. Un
bicchiere d’acqua ridusse solo di poco l’arsura che sentiva.
Il volume trattava di donne, in modo particolare. Di
Veronika, Claudine e Viktoria. Le protagoniste indiscusse
dei tre racconti. Lui non sapeva cosa pensare di quei
personaggi - ma forse quello era il meno - e del loro
rapporto con l’autore. Era cosciente di non poter tentare un
profilo personale e provvisorio su quell’autore... Tuttavia
vi era un turbamento...un residuo della sua lettura...Come
una nuvola che vagasse nella sua mente carica di
interrogativi...Che, aggirandosi nella memoria, un po’ gli
mostrava le caratteristiche di quelle storie, ma un po’
oscurava con la sua presenza la penetrazione insieme
dell’opera e dell’artista.
Si poneva come ostacolo all’approfondimento.
92
Claudine... Una donna che gli era apparsa come la
negazione del profilo etico in un animo femminile. Come
se non vi fosse un autentico senso del dovere in un
amante. Che l’amore della coppia, il loro congiungimento,
non fosse percepito come l’atto esclusivo all’interno di
una sfera specialissima. L’amore non aveva raggiunto la
profondità di essere “mai più soli”, una nuova creatura a
quattro mani e un solo cuore.
Neanche gli sembrava che vi fosse un profilo attivo
della psicologia della donna, qualcosa che potesse essere
definita come habitus volitivo. Tranne che per poche cose:
togliere il chiavistello, aprire la porta, uscire sul corridoio
a verificare che lui non ci fosse - o che magari ci fosse.
Azioni peraltro inefficaci. In una negazione e accettazione
a tratti contraddittorie. Quello che Claudine fa non è né
produttivo né necessario.
Sia come sposa che come amante, è una persona fra
il poco e il nulla.
E manca anche al suo dovere di madre, manca alla
visita della figlia in collegio.
Al massimo lei rovista. E’ essenzialmente rivolta
verso l’interno, verso il ciarpame delle sue fantasie, dei
suoi ricordi, delle sue capacità interpretative e ipotetiche
su coloro e su quanto la circonda. Non è neanche una
donna molto intelligente, o molto furba. E’ un essere che
si lascia vivere. Che si abbandona al flusso di quanto
accade all’interno e all’esterno di se stessa. Se fosse un
soggetto nevrotico, potrebbe essere considerata una che
“farnetichi”? Anche se a una certa distanza dalla border
line? Ma la sua calma, il suo ozio mentale e pratico,
lasciano soltanto che le sue visitazioni alle ipotesi sessuali
- e le sue rivisitazioni del passato - si snodino come acque
93
molli di un ruscello di pianura, il cui corso si dipana con
lentezza non golosa. Con un passo misuratamente volente,
neanche avido.
Claudine non è. Quasi sempre non è.
Ora la luce delle macchine sbatteva contro l’angolo
della finestra e il cassettone anticato, riluceva sullo spigolo
del tavolino. Mentre qualche omino appariva a testa in giù
sul soffitto. Quasi gli veniva da ridere, ma era stanco, a
quel punto aveva sonno. Le strisce di luce si rincorrevano,
si rincorrevano... Chiuse gli occhi per qualche minuto, ma
lo stridere delle ruote di un’auto giù nella strada lo risvegliò. Meccanicamente riprese il filo del discorso interrotto.
L’evento conclusivo del racconto è lo sciogliersi del
suo corpo nella soddisfazione dell’estro, piuttosto che
realizzare un progetto umano, anche se turpe, o sciocco, o
vano fino alla stupidità. Claudine non è perché non è una
persona agente, un progetto. Non è una volontà che parte
da una concezione della vita, da una struttura di
sentimenti, e poi sceglie. Lei si fa vivere dal proprio
corpo, dalla propria immaginazione, dalla propria fantasia.
Da una sensualità quasi immotivata dall’esterno.
Esiste Claudine, o è solo l’ombra di un personaggio?
Solo l’opera dell’immaginazione?
A modo suo, un mito?
Lui non era in grado, a quel punto, di formulare
un’ipotesi critica...Tuttavia gli sembrava che la natura del
concedersi di Claudine fosse...
Claudine si abbandona, anche se sa che tutto questo
farebbe male al marito-amante.
E’ aggredita da tutto quanto è nella sua storia, nel
suo passato, nella sua sensibilità femminile. Dalla sua
94
sensualità. Addirittura dal luogo fisico, dalla parte precisa
del proprio corpo in cui avverrà il congiungimento con lo
straniero.
Ne ha l’immagine visiva?
Il suo è un vagare senza fine tra i flutti dell’esistenza, mentre è circondata - forse inconsciamente
assediata - da un universo di cose. Cose e fatti minimi per
lo più, che costituiscono la sua esperienza di piccola
donna, di modesto essere umano.
E andava inoltre tenuta in considerazione la presenza
di un atteggiamento “estetizzante”, nella valuta-zione
reciproca dei soggetti della coppia, nelle loro vesti di
moglie e di marito. Tutto questo unito al sospetto che
l’estetica esercitasse un equivalente peso sui rapporti con
le cose.
E Claudine realizza il tradimento, - e il proprio
piacere - senza che il partner rappresenti una reale
attrattiva, nel senso che rappresenti qualcuno di cui godere
la bellezza, l’eleganza, il fascino. Claudine si dà a un
uomo che, a suo dire, le fa schifo.
Il congiungimento può essere visto come un atto
quasi masturbatorio, in cui il piacere è la fruizione
esclusiva di se stessa, dei propri genitali; in cui l’altro non
partecipa come persona ma accende in qualche modo il
combustibile che è in lei. Attualizza la sua memoria, la sua
immaginazione, le sue fantasie.
Non c’è un’autentica attrazione nei confronti dell’
altro, la volontà di possederlo, ma solo l’abbandonarsi alla
propria sensualità, eccitata dalle parole, dalla presenza
maschile. Nonché dalle proprie elucubrazioni.
La presenza ossessiva della propria sessualità, della
corporeità degli atti.
95
La seduzione - se si vuole chiamare così ciò che
coinvolge Claudine, anche se non è tale - si realizza non
portando un oggetto del desiderio a sé, ma restandone del
tutto esclusa.
Claudine è andata dove è ora per far visita a Lilli,
sua figlia tredicenne... avuta durante il suo precedente
matrimonio da un estraneo, da un dentista americano che
l’aveva in cura... Un evento quasi casuale, che lei dismette... con la stessa semplicità, e probabilmente indifferenza,
con cui l’ha iniziato...Qualche volta manca all’appuntamento...tuttavia...
A questo punto si addormentò.
96
VII
La telefonata al provveditore non era terminata con
l’apprezzamento da parte del funzionario per la furbizia
dell’assassino, che non si era mai fatto beccare dalla
polizia tedesca, un corpo notoriamente efficace, e con una
solida storia nella considerazione internazionale. Al
termine della glossa sull’uomo che “non si era mai lasciato
alle spalle alcuna traccia”, il suo interlocutore aveva riso
pianamente poi aveva introdotto l’argomento che gli
interessava di più. Anche perché a quel punto poteva e
doveva farlo: altrimenti quando?
La voce dell’altro incalzò con una certa suadenza.
- Mi scusi Professore, se mi permetto di chiederle
anch’io un favore...Le occasioni di incontri e quindi di una
autentica comprensione delle esigenze reciproche sono
poche... dunque bisogna approfittarne. Mi risulta che,
presso l’Università statale di F, non esista un vero e
proprio fondo librario olandese. Si dice così? - Quindi,
senza attendere la risposta proseguì. - Pertanto si
97
desidererebbe sapere se, partecipando uno dei nostri
ministeri nazionali - magari lo stesso Ministero degli
Esteri - all’impianto di una tale fondazione con una
donazione di trecento volumi di varia letteratura non si
potrebbe realizzare una ulteriore collaborazione. Si
tratterebbe di una fresca testa di ponte lanciata fra i nostri
paesi che non mancherebbe di esiti culturali e di altro
genere. Insomma, un altro cespite beneaugurante di
amicizia, oltre che di interscambio... Una testa di ponte,
ma non con il significato militaresco che solitamente viene
dato a questa espressione. - Qui il fine dicitore s’interruppe e ridacchiò soddisfatto.
Trecento volumi erano una spilorceria, i Paesi Bassi si
potevano permettere molto di più. Ma l’uomo forse
intendeva negoziare solo il fatto della collaborazione, e
impiegava cifre che avrebbero comunque sostenuto
l’impatto di qualsiasi critica sia da parte dei suoi superiori
che dell’università di F. Di fatto, trecento volumi si
possono mettere in quattro scatoloni per i pelati: la exSignora dei Mari - anche Orientali - poteva permettersi
ben altro. Era la biblioteca di F. che forse avrebbe accolto
con gioia una così limitata quantità di cultura olandese a
causa della scarsità degli spazi da dedicare ai volumi, in
continuo quanto drammatico aumento. Comunque, a lui, di
tutto questo non gliene importava nulla. Un po’ di cultura
olandese ci faceva bene fra il Tirreno e l’Adriatico, a parte
la modernità di certe idee che circolavano fra i grachten
nederlandesi con un esito non del tutto gradevole. Perché,
nominalismo a parte, bisognava cercare di capire cosa
significasse davvero modernità nelle varie culture nazionali. O post-modernità - altro termine ancora non perfettamente definito.
98
Sarebbero comunque giunte esperienze che potevano
far comodo, o almeno aiutare. Il che non guastava.
La domanda poi non lo meravigliava. “Do ut des”, era
una condizione preliminare del mondo civilizzato. Ma si
poteva fare. Trecento volumi occupano uno scaffale in un
corridoio, e un paio di piastrine di metallo che etichettino
le sezioni avrebbero compiuto il miracolo di quella presenza oltremare non ancora sufficientemente realizzata. La
catalogazione, poi, avrebbe fornito motivo per l’assunzione di uno o di una stagista. Ragione per ulteriori
trattative e favori.
E neanche si potevano temere scandali: quello degli
scandali era un settore del tutto “esaurito”.
Venne anche a lui di sorridere fra sé.
- Certamente, Sig. Provveditore. Mi attiverò appena
possibile presso il Consiglio di governo della nostra università.
Il domani ha spesso spalle più robuste di quanto ci si
aspetta. Questo era ampiamente dimostrato dagli scandali
che si succedevano sugli schermi televisivi, per sparire poi
senza che fosse fornita alcun tipo di notizia capace di
soddisfare il senso di giustizia degli utenti. Utenti della
democrazia oltre che del servizio televisivo.
A quel punto un’idea lo sorprese attraversandogli inattesa la mente; come una monetina che scavalchi la folla e
colpisca il conferenziere che ne ha detta una troppo grossa.
O che ne ha fatta una ancora più grossa.
Non ebbe né il tempo né la forza per rinunciarvi.
- A questo punto, devo confessarle che avrei un’altra
richiesta da farle. Desidererei avere informazioni su di
un’altra persona. Una signora francese, in qualche modo
collegata agli studi che sto conducendo.
99
Dall’altro capo un breve silenzio, poi:
- Il sesso femminile è comunque e ovunque la metà del
mondo. Se non la metà più importante. E’ d’accordo?
- Certamente. La signora abita qui ad Amsterdam, al
momento, ed è di nazionalità italiana, dopo essere nata a
Digione. E non credo che sia collegata a fatti classificati o
secretati. Ma non ne conosco l’indirizzo, e non ho voglia
di chiederglielo, per la verità...Lei comprende bene...
- Certo...Ma vedo che lei conosce bene questa
persona...
Un attimo di incertezza, ma ora non poteva tirarsi
indietro.
- Abbastanza.
-Il suo nome..?
La risposta non si fece attendere.
- Egregio Professore, per quanto nutra per lei grande
stima e una istintiva simpatia, avrei preferito non sentirla
più al telefono...
L’unica cosa da fare era tacere. Magari schiarirsi la
gola per non parlare. Anche perché non se la sentiva di
spiccar parola.
- Le spiego. Le informazioni su persone del gentil sesso
possono rivelare drammi personali, o addirittura
causarli...E io di solito mi rifiuto di essere coinvolto a
qualunque titolo da inattese rivelazioni. Lei mi capisce...La privacy...fondamentalmente si intreccia alla natura
drammatica della vita moderna...Una volta si diceva “tutto
può essere, tutto può accadere”. Oggi io direi, con la più
viva umiltà, “tutto succede, in effetti, tutto accade”. Nulla
è escluso dal nostro stesso quotidiano...Tuttavia, a chi me
le chiede con insistenza, tali informazioni, rispondo con
100
una certa onestà, quando posso. Con l’onestà dovuta fra
gentiluomini. Per quanto questa possa risultare spesso
cruda, sono del parere che l’unica colonna che ha spalle
così larghe da sorreggere il peso della vita è la verità...Non
voglio che l’amicizia che stiamo rafforzando proprio ora
dovesse essere macchiata, domani, da un’informazione
non veritiera...Da una elegante menzogna.
-Sono d’accordo con lei.
- Lei ha detto di conoscere questa signora...
- Certamente.
- E a lei che è una persona istruita, un docente
universitario, non sfugge quale sia il più antico mestiere
del mondo...
Seguì un breve silenzio, che a lui parve opportuno
interrompere per primo. In quei frangenti bisognava
dimostrare una certa superiorità rispetto alle cose, sia per
sé che per l’informatore.
- La ringrazio...
- La nota della polizia non parla di esercizio pubblico
ma di un’attività privata. Quindi nulla che debba e possa
essere necessariamente indagato dai servizi d’ordine...
Forse solo dal servizio dei tributi. Ma un’attività modesta,
e di una sola persona...Lei capirà che non è pagante per
nessuno. E poi, una persona di un’altra nazione... Se
volessimo fare indagini così approfondite, a cui dare un
effettivo seguito...
- Certo.
Dopo qualche istante di silenzio l’altro riprese.
- Nella vita di un adulto, una delle cose più importanti
è non affrettarsi, non gettarsi a capofitto. Con gli occhi
chiusi, come dite voi italiani...Perché spesso oggi non c’è
101
spazio, non c’è più tempo per riguadagnare quanto si è
perduto...
A quel punto lui non udì altro, non potette fisicamente
sentire altro. Come se una sbarra di ferro gli avesse colpito
il capo, o un campanello suonasse così forte da impedirgli
la comprensione di ogni altro suono. Come se un lampo
gli avesse rivelato un paesaggio inimmaginato e inimmaginabile.
Intanto il funzionario, ipotizzando un guasto tecnico a
causa del suo silenzio, prese a dire:
- Hallo!... E’ ancora in linea, Professore..? Hallo..!
102
VIII
Le ultime parole dell’uomo lo avevano gelato,
innescando dopo qualche istante un’inattesa reazione che
prima gli aveva dato un senso di vuoto al cervello e poi
aveva mandato il cuore in un’insolita aritmia. Come se il
treno della sua vita avesse cambiato il binario su cui
correva, quasi che un forte vento lo avesse scaraventato al
di là di una insospettata deviazione, verso una più limpida
auto-coscienza. Nell’immobilità di quei pochi istanti
temette di restare vittima di un malessere. Poi, poco alla
volta, l’aritmia cessò, il cervello uscì fuori dalle nebbie
che lo avevano avvolto come accecante ovatta, e tutto si
ristabilì nella norma. Fu di nuovo se stesso.
E, interrotta la comunicazione, prese a camminare
con equilibrio precario fra la gente che affollava la
stradina.
Venti anni prima, quando frequentava l’università,
aveva dovuto scrivere una tesina il cui argomento aveva
103
pressappoco le stesse parole: Con gli occhi chiusi. Un
saggio su di un romanzo di Federigo Tozzi, un importante
autore italiano poco noto al grande pubblico. “Conosciuto
da troppo pochi”, aveva detto il docente di Storia della
Critica. E, ad ogni corso, il fan di Tozzi impegnava due o
tre dei suoi allievi per approfondire l’autore, segretamente
sperando che quei lavori potessero risultare nell’ampliamento del numero dei lettori. Era un uomo duro, un
piccolo siciliano di acciaio. Un uomo che sapeva quello
che faceva, e che era innamorato del suo lavoro e della sua
famiglia. E proprio a causa di quella tesina, lui aveva
avuto un rapporto speciale con quel docente, che era
sfociato in amicizia.
Era stato il primo a dirgli: Perché non passa
dall’altra parte della cattedra? Perché è difficile..., aveva
risposto lui. Quasi impossibile per uno come me. Ma
l’altro non si era arreso. Non dico di essere nitzschiani, ma
bisogna ricordarsi di Feuerbach... O almeno di Alfieri.
Volere è potere.
Si trattava di un romanzo scritto dal giovane artista
nell’ultima età che la vita avara gli aveva destinato. Parlava di una ragazza corteggiata e praticamente attesa dal
suo innamorato sin dall’infanzia. Il suo nome era Ghisola,
e la vicenda lui l’aveva ritenuta sempre come autobiografica o quasi. Ma se lo fosse stata davvero non avrebbe
potuto giurarci, troppo tempo era passato da quegli studi, e
forse la faccenda era anche un po’ intricata. Ghisola aveva
fatto vivere a Pietro - questo il nome del giovane - una
lunga lunghissima stagione di innamoramento, ma senza
un effettivo interesse per lui. Senza neanche l’ombra della
passione che lui nutriva per lei, e che mostrava ad ogni
occasione. Una giovane donna un po’ allegra e un po’
104
furbetta, di modesta condizione sociale, che in quel tira e
molla in cui Pietro si era lasciato cacciare, aveva giocato,
si era divertita un po’. Magari un po’ troppo. Finché lui
aveva scoperto che, abbandonata la famiglia, la giovane
donna si era stabilita in un casino privato, un luogo
d’incontro per prostitute di basso rango.
Ed era addirittura rimasta incinta.
Nel corso di quell’esplorazione giovanile, aveva
trovato doloroso attraversare le centocinquanta pagine del
romanzo perché era stato naturalmente portato a vivere il
dramma di quell’equivoco crudele. Quando si è giovani le
emozioni giocano brutti scherzi. Quell’attenta lettura lo
aveva spinto a vivere il dolore di Pietro e la colpevole
leggerezza della donna come elementi della propria vita; o
almeno possibili nella vita di uno come lui. Mistero
dell’empatia intrecciata alla giovinezza. Quel rimanere
attaccato all’immagine di lei, alle sue parole, alle sue
promesse... Quell’essere legato dall’amore come un galeotto al suo scalmo... Era forse stata quella sua partecipazione interiore alla vicenda che aveva portato il suo
insegnante a pronunciare quella frase: Perché non...?
Alla fine Pietro, dopo aver scoperto il luogo dove
vive la donna amata da sempre, ancora trova spazio per lei
in se stesso, fino al momento in cui vede che è gravida, ne
scorge il ventre gonfio del nascituro. A quel punto una
violenta vertigine lo agguanta, e a conclusione della storia
scopre di non amarla più.
Il romanzo di Tozzi si intitolava “Con gli occhi
chiusi”. Probabilmente a indicare la modalità dell’innamoramento sfrenato che aveva colto Pietro. Un uomo lanciato
105
in una corsa che nulla vede, che nulla capisce nello sforzo
di raggiungere la meta, di realizzare il suo amore.
Si poteva pensare che Pietro, forse, non avesse
voluto credere ai propri occhi, forse neanche alle ipotesi
della sua intelligenza. Gli ultimi tempi di quell’inganno,
in cui crudeltà e leggerezza avevano tessuto una trappola
disumana, erano stati per il giovane l’avvicinarsi sempre
più alla realizzazione del suo sogno. Ma al profilarsi del
ventre gonfio, in quella stanza d’incontri animaleschi, di
botto “aveva smesso di amarla”. Ghisola era definitivamente “morta” per lui. Di colpo era uscita dal suo
immaginario per non farvi più ritorno, mai più.
Commentando l’epilogo del romanzo, il docente
aveva deciso di non forzare la sua opinione sull’evento, e
sull’argomento in generale - l’amore, una realtà misteriosa
e misterica ecc. - e, con un sorrisetto beffardo ma senza
malevolenza o giudizio, aveva lasciato spazio ai commenti
suoi e del collega che aveva avuto la stessa tesina. Questi,
durante la presentazione del suo lavoro, aveva detto che si
poteva istituire uno speciale collegamento fra la scoperta
della prossima nascita di quel bastardino - “uso il termine
seguendo la mentalità dell’epoca”, aveva detto il
compagno - e la reazione violenta e assoluta di Pietro. Una
relazione oscura che affiorava, per le moderne conclusioni
della scienza, in campo psicologico e antropologico.
L’amore, che pure era stato così bene salvaguardato
da Pietro a dispetto di ogni leggerezza di Ghisola, sparisce
a quella nascita. A voler tentare un’interpretazione audacemente darwiniana, e forse anche freudiana, si poteva dire
che la natura anche in quel caso avesse svolto un’
importante funzione, perché aveva messo Pietro al riparo
da se stesso. Il pratico disprezzo di Ghisola per il suo
106
innamoramento, e il mestiere che a quel punto lei esercitava, non erano bastati a Pietro per ritrovare la propria
libertà riguadagnando la porta? Non ce l’aveva fatta?
Bene, ce l’aveva fatta il disgusto, una nausea metafisica
per quella gravidanza che non seguiva la linea del suo
sangue. Pietro aveva rifiutato quell’amore per sopravvivere; cosa che non si sarebbe verificata se avesse
accettato insieme Ghisola e il figlio che la giovane donna
aveva avuto da un altro. Perché Pietro non sarebbe
sopravvissuto in quella creatura, anzi... ne sarebbe stato
seppellito. Era di comune ammissione che il meretricio
provocasse infertilità...
Dunque, Pietro aveva smesso di amare la persona
che amava dalla fanciullezza per amore di se stesso. Per
sopravvivere.
La natura l’aveva posto in salvo da una donna che,
dopo avere ucciso la propria femminilità, avrebbe in
qualche modo distrutto la sua virilità, se non la sua stessa
persona. In un secolo scientista, darwiniano e freudiano, la
sopravvivenza viene offerta non come il frutto della
volontà e dell’intelligenza, ma dell’istinto che ci insegna
magari contro ogni nostra volontà. Tramite un nostro moto
profondo, forse inconscio, incontrollabile ma necessario
alla vita. Affinché non si rimanga travolti dalle possibili
negatività delle nostre esperienze.
Tutto quello gli era tornato alla mente alla luce di un
unico baleno. Alle parole del funzionario olandese: non
gettarsi a capofitto, ad occhi chiusi...Un avvertimento che
era anche un sommesso consiglio.
Ma lui si era sempre chiesto, finché quella tesina
aveva galleggiato sul pelo della sua memoria, se quello
107
fosse un punto di vista, oltre che realistico, sufficientemente esplicativo. Gli sembrava una conclusione un po’
“veloce”. Fino a chiederne scusa nel proprio cuore a quel
Federigo Tozzi, sicuramente grande autore del Novecento,
il cui “verbo” in qualche punto gli sembrava scricchiolare. Per conto suo, s’era detto che quella era la classica
risposta di chi non aveva vissuto quel drammatico evento,
e le conseguenze che esso portava con sé. Ma l’aveva mai
vissuto davvero l’amore, il suo collega? Questo era stato
l’epitaffio annotato da lui a margine dello scarno episodio.
Poi la dimenticanza aveva inghiottito Pietro, Ghisola, e Federigo Tozzi, fino a che il funzionario olandese non
era uscito in quell’espressione, e lui non era stato costretto
a riconsiderare quel fluttuante corteo di ninfee, i ricordi di
un tempo così lontano. A rivisitare dalla propria rinnovata
umiliazione quelle acque avvelenate.
Come per un forte rabbuffo di vento autunnale, che
spazzasse via ogni cosa dal cielo e dalla terra, ecco
arrivare Ghisola. E piantarsi al centro di tutto quanto era
stato fino a quel mattino, in parte chiarificatore, al cuore
dell’avventura che stava vivendo. Sulle labbra del “signor
provveditore”, in quella lingua così spesso frusciata e
altrettanto spesso saltellante di suoni che nessuna altra
lingua che lui conosceva poteva vantare, la secca espressione “ad occhi chiusi”...
Era stata un giacchio che l’aveva improvvisamente
catturato. Le poche parole avevano fatto affiorare il
ricordo di quella tesina inscritta nel proprio paleozoico e
sopravvissuta alla dimenticanza. E con essa l’interpretazione di un aspetto particolare del breve romanzo, la
gestazione della giovane prostituta. Di Ghisola, appunto.
108
Insieme a quell’ “ipotesi dell’inconscio” avanzata durante
la “tavola rotonda” - come si diceva fra loro a quei tempi,
rifacendosi al re Artù -, quel veloce seminario tenuto
affinché ciascuno degli studenti informasse gli altri su
quanto di particolare aveva incontrato nel suo approfondimento.
Ricordava che per qualche minuto si era discussa la
conclusione dell’opera, e qualcuno aveva accennato all’
oggettiva impurità che Ghisola ora avrebbe potuto offrire
al suo innamorato, invece dell’immagine che Pietro
probabilmente aveva di lei nel suo cuore. Qualcuno aveva
detto che Tozzi avrebbe potuto essere più generoso, più
idealista, qualche altro aveva replicato che la vita non è né
generosa né idealista. Poi la cosa era stata messa via
lasciandolo insoddisfatto: ma era stato quello che era stato.
“Non l’aveva ancora vissuto.”
Si ripeté più di una volta quella frase di tanti anni
prima, mentre le vivaci quinte che lo circondavano
perdevano la loro consistenza, divenivano colori e forme
senza significato. E la città diveniva un semplice fondale
di scena.
Gli sembrava di percepire i fatti che stava vivendo in
un atto che richiedeva la sua assoluta dedizione. Come se
la concentrazione della sua mente volesse escludere tutto
per cogliere una meta essenziale. Il destino lo aveva atteso
a quell’ansa del fiume della vita, dove l’uomo del vecchio
aforisma indiano attende il cadavere del suo nemico. Che
gli passa accanto sulle acque silenziose del tempo che può
apparire eterno ma non lo è.
109
Era quella la ragione del malessere che lo aveva
colto a sentir pronunciare quelle parole: ad occhi chiusi. In
quell’incontro era risorto in lui un problema, anzi la
coscienza di un problema. Cosa fosse davvero l’amore, e
se fosse possibile che esso morisse come era morto in
Pietro per Ghisola. La ragazza attesa...la donna accettata in
quella condizione di degrado. Vissuta da lui tra i fumi
dell’emozione e dell’incertezza. La donna poi morta all’
amore a causa del figlio che portava in grembo.
Cos’era l’amore di Pietro?
Con un atto inevitabile aveva accettato che la
domanda non fosse posta in quella sede universitaria,
nell’antico seminario; ma quel che era peggio, ogni
qualvolta che gli si era presentata, sotto una veste o
un’altra, non gli era riuscito di rispondere. Neanche lui
sapeva cosa fosse l’amore. La passione sì, ma l’amore?
Cos’era l’amore? Alla fine aveva cominciato a ignorare
quella domanda che la vita poneva di tanto in tanto. Era
una domanda a cui era difficile rispondere. Una domanda
che il suo corpo e la sua esperienza non riuscivano a
chiarire. Un’istanza sollevata ma mai risolta. E quindi
l’aveva dismessa. L’amore era diventato, in modo sottaciuto, portarsi a letto Luise e scoparsela fino alla gioia
dello sfinimento di entrambi. E questo per un certo
periodo lo aveva soddisfatto. Li aveva soddisfatti.
Lo stesso tradimento della sua amante non aveva
creato più luce, chiarito meglio le cose.
E ancora si trovava a fronteggiare l’interrogativo,
ancora si trovava a chiedersi quale fosse la natura del
vincolo che unisce due corpi in un’abitudine incontrovertibile. In cosa consistesse quella funzione della
110
persona umana che scaglia uno contro l’altro nella coppia
per farne una unità. Cosa aveva capito lui?
In quel momento, diverse donne lo fronteggiavano
rappresentando i più recenti elementi di riflessione da
parte sua nell’ambito che lo interessava come uomo. Le
prime erano le ultime in ordine di tempo. Viktoria,
Claudine e Veronika, quelle che si potevano definire le
anti-eroine dei racconti appena letti. Creature su cui era
bene riflettere. Viktoria gli sembrava di poterla immaginare. Una donna che si lasciava scopare da Demeter
Nagy in un rapporto che a lui sembrava tutto racchiuso
nelle parole che terminavano la breve storia. Più o meno
così: Chiudiamo l’uscio, Signorina, quell’indiscreto - il
suo attendente, o qualcosa del genere- ...è capace di
venirmi a cercare qui. Un Demeter a sua volta ben
interpretato dalle pantofole su cui era disegnato un cuore.
Questo dopo essere già stati amanti.
Solo e soltanto robaccia.
Poi Claudine, la donna innamoratissima del marito,
che non si lascia scopare sui gradini della propria casa ma
che - la volta che condurrà a un reale incontro con il
voglioso interlocutore - si lascia seguire all’interno della
propria stanza. Dal consigliere ministeriale, dopo che
questi l’ha “inseguita” su per le scale dell’hotel in cui
alloggia. Un uomo per cui la donna provava
“letteralmente” un senso di schifo. Claudine, poco prima
innamorata del marito, sentì che il suo corpo era “colmo di
piacere”. E in quel congiungimento avvertì di aver
realizzato una sua fantasia di ragazza, potersi dare a tutti
ma essere di uno solo. Intanto che trovava l’intensità di
quel congiungimento in qualche modo simile a quello che
111
i bambini hanno in mente quando dicono che “Dio è
grande”.
Poi era giunta Veronika. Convinta in un primo
momento che il suo innamorato respinto si sarebbe ucciso
per lei, ma alla fine schernita, ridicolizzata: ma chi sei...?
Da un lui che aveva trovato una via d’uscita, una
soluzione al dominio dell’altra. Che aveva superato il
proprio sentimento di totale sconfitta che l’avrebbe spinto
al suicidio. Una donna che si sente lei stessa annichilita al
confronto con quelli che l’hanno amata; e la cui vita
sessuale si riduce allo stare a volte, durante la notte, al di
là del portone, a sentire uomini che passano a poca
distanza da lei, ed essere colpita - fino al contorcimento dalla loro “vicinanza”, mentre lei è lì, in camicia da notte:
“nuda di sotto”. Che, in uno speciale atto dell’immaginazione, sfiora i passanti con la propria mano.
Quelle erano donne che aveva “incontrato” ultimamente. E una domanda gli aveva sbarrato la strada: era
dunque quella l’immagine del femminile del suo tempo?
Una creatura intessuta di sensibilità, sensualità, psicologismi, immaginazione fino alla fantasia estrema, e nient’
altro? Un essere in cui non c’era e non avrebbe potuto mai
trovare riposo il cuore di un uomo.
E che non avrebbe mai trovato riposo in se stessa.
Nei giorni trascorsi vi aveva riflettuto, e aveva
concluso che, per quanto ritenesse di avere pagato un
prezzo molto alto alla crudele divinità dell’amore, la
donna non era per niente quella. Viktoria, Claudine,
Veronika, erano solo dei ritratti a memoria di femmine
“vissute” male, caricature della verità della donna. Luise
purtroppo era una prostituta, ma la sua persona era molto
112
più spessa e complessa di Viktoria, di Claudine, e di
Veronika. Se si voleva accettarla, era comunque ingombrante, una realtà. Era un essere umano come lui conosceva gli esseri umani. Come gli esseri umani si lasciavano
conoscere nella nostra esperienza di loro.
Le pagine che narravano Claudine, Victoria,
Veronica, gli sembravano affollate dai detriti, da scaglie
minuziose e insignificanti di umanità; erano state decontestualizzazioni, e non ne rappresentavano davvero l’universo. C’entravano poco con “la donna”. Con l’oggetto e
il soggetto dell’amore umano. Luise aveva tradito lui e
distrutto il suo mondo. In quegli anni, per quanto avesse
tentato, non era riuscito a ricostruire una situazione in cui
sbocciasse lo stesso sentimento che aveva avuto per
l’antica amante. Purtroppo non era accaduto. Ma la donna,
e Luise stessa, non era la farragine a cui si riducevano le
anti-eroine dei tre racconti.
A quel punto un terribile senso di nostalgia lo aveva
agguantato, un sentimento che, pur messo a tacere durante
gli incontri che aveva avuto con lei, poteva solo ricordargli
l’immagine dell’Eden. Di quel mondo perfetto e perfettamente adeguato all’uomo e alla felicità che lui desiderava.
Di cui aveva un estremo bisogno. Un sentimento che
tendeva a distruggerlo in alcuni momenti, ma a cui riusciva a sopravvivere con la sua ragione. E tutto quello partiva
proprio dalla percezione che i sentimenti di Luise fossero
comunque qualcosa di più delle minime realtà della vita,
degli psicologismi, e di quelle indagini interiori che
descrivevano così bene la superficie dei mari in cui
navigavano le altre tre donne senza viverne le profondità.
113
In un certo senso tutto ciò costituiva anche la propria
vittoria su quel sentimento di disperazione per
l’insignificanza che lo stringeva a tratti così dappresso...
Era pur sempre una vittoria, capace anche di equilibrare la
sconfitta che lui aveva subito.
Se l’uomo è più dei suoi capelli, dei suoi denti, e
delle sue unghie, deve andare avanti anche quando non
avrà più capelli, denti, o quando la vita gli avrà strappato
gli artigli. Non è un insieme di detriti ma un essere capace
di dignità, e della felicità possibile. Per sé e per gli altri.
Magari anche incapace di realizzarsi, ma è sempre
qualcosa di grande. Qualcosa lontana dal piccolo mondo a
cui noi lo riduciamo con tanta apparente sagacia.
Con tanta ingannevole sapienza.
114
IX
Che dormisse male, quella notte, c’era da aspettarselo. Fino alle tre del nuovo giorno non c’era stato
verso di chiudere occhio. Quindi era precipitato in un
sonno durato circa tre ore. Il quadrante dell’orologio non
poteva mentire.
E fu comunque mattino.
Allo stesso tempo fu come se non avesse mai smesso
di ragionare - anche durante il sonno - su quei tre tipi di
donna in cui si era imbattuto negli ultimi mesi. La donnafemmina vagante dei racconti di Musil, la donna-troia di
Tozzi, e poi Luise... Non avrebbe saputo come connotarla,
forse “la donna dell’incontro” perché tutto era stato conseguenza del loro incontro nell’affollata stradina di Amsterdam di un mattino non lontano. Di quell’incontro che la
sera precedente era diventato metafisico. O, meglio, aveva
aperto le porte a una metafisica che lui non frequentava da
tempo.
115
Non avrebbe saputo descrivere meglio Luise perché
lei stessa non si era definita meglio, a dispetto delle ipotesi
che avevano sfiorato la sua mente, di quella innegabile
amarezza che traspariva da lei, per quanto soffusa dall’
alone di quotidianità intesa a coprire, a nascondere.
L’abito, la gestualità che tendeva a disabilitare un’autentica percezione da parte di lui della sua immagine più vera.
Forse avrebbe potuto dire “Luise, la donna-che-gli-sinascondeva”. Ma era una definizione troppo lunga e
pedante. E solo parzialmente giusta per la incoercibile
spontaneità che è in ciascuno di noi.
Luise non si era decisamente mostrata in quel
momento della sua storia... Ma il tempo non solo mantiene
il segreto del suo perdurare ma serra anche in un grembo
germinativo l’evolversi di ogni cosa e di ogni persona. E
così, nell’oscuro magma di se stesso, dà l’impressione di
poter essere eterno, ma non lo è. E l’eternità delle cose
portava con sé una grande ombra. Essere eternamente,
incuranti dei singhiozzi della morte, spingeva verso l’insignificanza delle persone e delle cose. Un’insignificanza
che poteva essere considerata, a quel punto, il rovescio
della vita. In pratica non c’era più meta per l’identità
personale. Un’identità che venisse inglobata in una
progressione senza fine di persone e di cose destinate alla
distruzione della morte perdeva ogni significato, e quindi
ogni valore.
Oltre a quell’altro postulato, che se l’identità non è
legata alla libertà, toglie egualmente a se stessa ogni senso
e ogni pregio. Scade in un meccanicismo anti-individualista; priva di ogni senso la singolarità di un individuo. Il
merito di scegliere una cosa e non un’altra, che secondo
lui era il valore ultimo di ogni uomo.
116
A questo punto ebbe luogo una svolta nei suoi
pensieri, che presero a scivolare su binari che lui avrebbe
giudicato ancora impercorribili.
In un certo senso, si scoprì a se stesso. Il re fu nudo.
Luise aveva dimostrato di poter sbagliare e gravemente, nella realtà sua e in quella degli altri. Lui, ad
esempio. E anche nel giudicare quel figlio di puttana di
Phil. Ma, a giudicare dai piccoli indizi che lui aveva
percepito da quei brevi incontri, non era affondata nel suo
“mestiere” come Ghisola. Una disgraziata da cui
traspariva una particolare insensibilità umana nella sua
storia con Pietro, se non una crudele leggerezza.
E neanche era come le protagoniste di quelle tre
storie: Viktoria che si congiungeva con un uomo dalle
pantofoline con cuoricini rosa che, dopo averla posseduta,
ancora la chiamava “Signorina”; in un atto insignificante e
animalesco. Claudine che si congiungeva con un uomo
che le faceva schifo; o Veronika, la donna dal congiungimento “spirituale e misterioso” che si era realizzato unicamente nella sua mente, di lei che aveva sentito, immaginandolo, il desiderio di lui per il proprio corpo.
Luise era stata sedotta dalla propria leggerezza, dalla
propria stupidità. Dalla propria fantasia, dalla propria
incapacità di valutare per quello che era l’amore che lui
nutriva per lei. Era stata infedele nell’unico legame che
forse davvero conta al mondo. L’infedeltà è un terribile
male perché infligge un dolore tremendo, che può diventare universale perché ci induce a diffidare di tutti e di
tutto. Ma era stata sedotta da un delinquente che si era
insinuato nella sua debolezza, e l’aveva usata e spremuta
come si mungono gli animali. Tradirlo era stato qualcosa
117
di più di quanto lui potesse sopportare, più indegno e più
grave. Qualcosa che aveva distrutto lui, oltre al loro
rapporto.
Tuttavia si trattava di azioni umane, con le loro
umane conseguenze; fra le altre, la condizione della stessa
Luise in quel momento.
Non si era trattato di sensazioni, di lievi “contorcimenti” dello spirito, di fantasie passeggere, di morselli
d’immondizia, di relitti che vagavano sul pelo del suo
animo, eccitazioni che incoraggiavano a vivere quando
non erano esche per una trappola mortale. Incombenze
dell’immaginario che avevano poco a che fare con la
persona di una donna. Elementi di una condizione
femminile che gli faceva pena.
Lei non era un meccanismo sensuale travolto da se
stesso, uno strumento di sensibilità in cui non affiorava
nessuna spiritualità, nessuna codifica etica. Luise era stata
quello che era, una prostituta, proprio come lui l’aveva
vista tra la folla, ma non era stoltificata nella propria autoidentificazione. Non era coseificata, quasi marmorizzata
nel suo essere. Aveva voluto diventare qualcos’altro, qualcosa di diverso dall’essere la sua amante, o la sua
compagna per la vita, aveva voluto essere felice di una
felicità inesistente. Ma quella era la scelta di un essere
umano, anche se sciocca e disonorevole.
Dei tre tipi di donna - Ghisola, le donne di Musil, e
lei - il suo era quello che, a suo parere, rispondeva di più
alla realtà di un essere umano, di una persona che viveva e
pensava sotto il cielo.
Non per nulla, piuttosto che essere il personaggio di
un romanzo, o di un racconto, era una persona viva, era la
donna che lui aveva amato, con cui aveva fatto l’amore
118
per cinque anni. Cinque anni lunghissimi, eppure così
brevi da essere cancellati nel giro di un giorno e di una
notte.
Si alzò, bevve dalla bottiglietta di acqua minerale
fornita dall’albergo un paio di sorsi dell’ormai tiepido
liquido. Poi la ripose quasi vuota sul piano del tavolino,
facendo attenzione che non si rovesciasse e spandesse
quanto vi restava in direzione dei suoi appunti e di qualche libro.
Aveva la testa in fiamme. Si disse che aveva ragionato troppo.
Aveva pensato troppo, ma quell’incontro casuale...
Niente di tutto quell’intenso ragionare - o sragionare sarebbe stato se, al primo incontro, non fosse stato colto da
un piccolo lampo, da un guizzo di empatia che poi lo
aveva invaso, travolto. Lui ne era rimasto preso perché
non aveva scelto la cecità, o la vendetta per la donna che
aveva distrutto il suo futuro, oltre che il proprio. Che gli
aveva dato delusione in cambio del suo amore; e che
aveva allargato il confine delle possibili illusioni fino ad
orizzonti di mai immaginata ampiezza.
Ritornò nella piccola toilette, si tolse la camicia, si
lavò le mani e il viso lasciando che l’acqua corresse sulla
sua pelle. Un’acqua che non diventava mai fresca. Poi si
asciugò con cura, e alla fine ripose l’asciugamani sulla
sbarretta di metallo. Quindi rientrò nella piccola stanza.
Ma non c’era nulla di strano in quanto gli stava
capitando. Ciò che non è direttamente vissuto - o che non
si possa ricondurre a una nostra esperienza - difficilmente
riesce ad esistere per noi. Questo è un limite dell’uomo.
119
Ma proprio nella gestione di questo limite a volte è
deposto il nostro valore. Nel chiudere gli occhi, o
nell’approfittare del minimo indizio. E nel tenerli aperti
dopo aver visto - gli venne da aggiungere a inevitabile
corollario. Pietro aveva riconosciuto una puttana nella
donna di cui era innamorato da sempre, e così se ne era
liberato. Di lei e del suo amore. Lui, al contrario, aveva
riconosciuto la donna in una puttana che aveva incontrato
in una strada di Amsterdam...
A quel punto si accorse che l’acqua continuava a
fluire dal bordo del bicchiere senza rinfrescarsi mai. Era
tornato nella toilette con una rinnovata quanto irragionevole speranza di frescura... E chiuse definitivamente il
rubinetto. Nulla da fare. Sconsolato, rovesciò il contenuto
del bicchiere e osservò il liquido mentre, compiuti un paio
di giri al fondo del lavello, defluiva gorgogliando nelle
visceri del sistema di scarico. Quindi tornò nella camera
chiudendosi la porta alle spalle. Come se avesse sentito il
bisogno di ridurre la misura dell’ambiente che lo
circondava, di limitare l’ampiezza di quanto toccava al suo
sguardo di gestire.
Non voleva essere distratto...
Ed era stanco. Sebbene ancora vestito, si stese sul
letto, tirò su bene le gambe, e fu risucchiato in un breve
sonno, da cui si svegliò di colpo smaniando. Anzi
annaspando, si disse, allorché completamente sveglio
rivisse il sogno che lo aveva scaraventato di nuovo nella
solida dimensione della veglia.
Nuotava in un mare notturno, ed era stato sorpreso
da una terribile onda che gli si faceva incontro minacciando di soffocarlo. Un’onda lontana, dapprima alta
quanto un bastimento e poi quanto un grattacielo, di una
120
solida acqua blu scuro che alla fine lo scagliò semplicemente sulla riva di una sabbia petrosa e sconosciuta.
Ancora seduto sulla sponda del letto, gli venne di
collegare la gigantesca massa d’acqua - iridescente dei
rifiuti di tutto quel tratto d’oceano - al mondo da cui era
circondato in quel momento: al piccolo universo di cose e
di persone, di passato, di presente, di futuro. Dei suoi
problemi e di quelli degli altri. Quasi che tutte quelle cose
avessero deciso di andargli incontro per seppellirlo. E che
l’unico pensiero che gli si facesse accanto calmando la sua
ansia, la sua angoscia di essere schiacciato dalla vita per
tutte le sue amarezze e i suoi inganni, era quello di porgere
una mano a Luise. Quel pensiero gli scaldava il cuore, il
sangue, tutto il suo corpo. Anzi, gli sembrava che gli
squarciasse il petto con quel suo calore e invadesse il
mondo che lo circondava, irrefrenabile, e in una maniera
misteriosa liberatorio. La donna che aveva amato e con cui
aveva fatto l’amore per una brevissima eternità, giorno
dopo giorno, notte dopo notte... Che lui aveva conosciuto
nella sua bellezza e nei suoi limiti, nella sua povertà ma
anche nel suo desiderio di riscatto... Perché era quello che
si leggeva al fondo dei suoi occhi, e che lei cercava di
nascondere per un moto d’orgoglio a quel punto assurdo,
irragionevole. Ne aveva scoperto qualche lacrima durante
quegli ultimi incontri. Ma noi siamo irragionevoli, e le
donne più degli uomini. Istintive fino al sacrificio, al
sacrificio della loro stessa gioia.
La riva sconosciuta, invasa dalla sabbia e dalle pietre
che graffiavano la sua schiena... Nel sogno, lo tratteneva a
sé impedendogli di scivolare in quel nero mare per esserne
inghiottito definitivamente. Mentre quell’idea pulsava
dietro la sua fronte, che non ci fosse altra via di fuga
121
dall’oceano onnivoro che sottrarre Luise all’autodistruzione. Come la riva petrosa e sconosciuta aveva
sottratto lui all’onda terribile dell’incubo...Nella sua mente
le parole, i concetti, la realtà e i sogni si mescolarono in
una coscienza man mano sempre più profonda e lucida a
riguardo di cosa lui dovesse fare.
122
X
Quando fu sull’aereo, in attesa che si chiudesse il
portellone e la hostess facesse i soliti buffi gesti per richiamare l’attenzione dei passeggeri, si disse che dopotutto gli sembrava di essere giunto a una conclusione
dignitosa per un essere umano.
Avevano deciso senza decidere. Le aveva semplicemente offerto un passaggio per l’Italia e l’aiuto necessario
per ricominciare. Per quanto si sentisse reticente ad
affrontare quel discorso nei particolari, e a chiederle di
prendere in fretta una decisione... Ma a quel punto lui
doveva tornare a F... Quando si era deciso a parlargliene,
lei non aveva mostrato né sorpresa né il minimo segno di
liberazione, solo un lampo negli occhi. Un lampo che si
era sciolto nell’ombra di una gioia sottaciuta, mentre
volgeva altrove lo sguardo. Era stata fredda, di pochissime
parole, come se non avesse sentito quello che lui diceva; o
almeno non lo capisse. Aveva accettato quasi solo con un
123
cenno del capo, e poi si era avvolta in un silenzio difficile
da interpretare.
Ma non si può chiedere a un naufrago di ringraziarci
civilmente e profondersi in espressioni della più “viva
riconoscenza” mentre agguanta la cima che lo salverà da
una morte sicura. Così lui non aveva pensato alla
riconoscenza in quel momento, non era il caso. La
riconoscenza è’ un sentimento che deve essere decantato,
esaminato in tutti i suoi aspetti. Che crea impegni morali.
Tutto questo lei non poteva farlo nella sua condizione e in
quel momento. Forse un’altra donna gli avrebbe buttato le
braccia al collo per ringraziarlo, ma una prostituta... Una
puttana che non vuol fare più la puttana è pur sempre
preda del suo passato, e quelle forme che negli altri esseri
umani, nelle donne in particolare, sono un suggello di
soddisfazione senza essere necessariamente una promessa,
sfuggivano alla sua disponibilità. Immaginava che rimanesse in lei non soltanto il pudore e il desiderio del
silenzio su quanto era stato, ma anche l’orgoglio. Un
orgoglio risvegliato proprio dalla salvezza vicina, proprio
dal fatto che il prossimo balzo al di là delle nuvole le
avrebbe ridato uno status di persona... normale. E quell’
orgoglio le impediva di dimostrargli in un modo spontaneo, istintivo, la gioia che le procurava.
Una donna come lei aveva le sue abitudini mentali,
un suo codice di comportamento. Qualunque essere umano
ha delle reazioni particolari per certi fatti specialmente
uniti alla sua vita “unica”. Cose difficili da abbandonare, a
cui rinunciare. Solo la riflessione, e il mutar pelle strappandosela di dosso con le proprie mani, giorno dopo giorno, avrebbero potuto creare uno spazio per essere nuovamente...Insomma, per dimenticare. I colpi di coltello non
124
sono graffi...E ora lei sapeva con certezza che lui
intendeva aiutarla, perché aveva intuito quello che lui
sapeva, e che volesse “tirarla fuori”.
Gli ultimi passeggeri smisero di sistemarsi, il portellone fu definitivamente chiuso.
Allacciarsi le cinture. Dovette trafficare per qualche
seconto prima di riuscire ad allacciare la sua al di sopra
della giacchettina bianca a piccoli pois neri. Alla fine,
quando si fu sistemata, si abbandonò nel sedile e chiuse gli
occhi.
Il fatto che ora sapesse quanto ferma e definitiva
fosse la sua decisione non voleva dire altro se non che
doveva scoprirne le ragioni. Perché lui si prestava a tutto
quel fastidio, e a quelle spese? Cosa c’era al fondo di tutto
quello? Forse non aveva capito ancora nulla, e continuò a
domandarselo mentre si faceva scudo dietro una delle
poche armi di cui disponeva, il silenzio.
Lui invece aveva capito; se non fosse valso ad altro,
aveva capito meglio cosa fosse l’amore. O almeno si era
avvicinato un po’ di più al suo segreto misterioso. E’un
atto in cui si intrecciano aspetti molto diversi uno
dall’altro. Uno è la passione, l’attrazione fisica; e quello
era il più facile a rilevarsi perché è anche il più facile a
cogliersi. Un’ esperienza fondamentale nella specie e nel
mondo ani-male. Un’altro era il senso e il desiderio di
fusione con l’altro, qualcosa che si vuole e che di tanto in
tanto si sperimenta. L’unità assoluta con la compagna
della vita. Una condizione che alla fine ci appassiona più
del godimento fisico, più della soddisfazione di un sogno
fatto di nudità, di arrendevolezza, di partecipazione al
125
nostro erotismo. Un’unione “personale” che supera
l’empatia e diventa una pietà a cui non si può più sfuggire.
Una pietà che ci lega all’altro in modo definitivo; e che
più è messa alla prova più si rivela profonda, essenziale
allo stesso atto di unirsi all’altra persona. Necessaria.
Tutto assume un altro senso, e si passa dal desiderio
dell’altro alla donazio-ne di se stessi nella realizzazione di
tale desiderio.
Guardandola, scoprendo i segni delle lacrime cancellate via con furba sveltezza, anche in quel mattino...,
quel segno del rimpianto che si maturava in pentimento, in
un’abiura di quanto era stato... Lui aveva scoperto in se
stesso quel tipo di tensione nei confronti della donna. E
aveva risposto in quel modo. Questo non voleva dire nulla
al riguardo del futuro, ma aveva capito che averla amata
era stato diventare il suo referente in quella condizione
drammatica. E che quel sentimento di pietà non poteva
essere in nessun caso cancellato, anche se lei faceva la
puttana. E, in nome di quell’amore che ancora sentiva
aggirarsi nella sua mente come in un labirinto, aveva
sentito l’urgenza di tradurre in fatti anche soltanto l’ombra
di quel sentimento. Forse addirittura le sue spoglie.
L’obbligo viscerale di aiutarla a venirne fuori.
Impossibile fare diversamente.
L’avrebbe fatto anche solo per se stesso, si disse alla
fine mentre la hostess, una morettina che si agitava in
cima all’aereo, iniziava a fare le sue segnalazioni.
Luise gli dava lo spazio perché esistesse una speranza di rinascita, la speranza di un possibile nuovo inizio.
Incarnava un progetto e un significato. Ma non si trattava
del problema di tornare a lui, di rifarsi una verginità per
quanto possibile, era piuttosto la realtà umana di Luise
126
che mostrava i segni dell’amarezza, dello sconforto
estremo, del pentimento. Del prezzo che aveva già pagato
e che ogni giorno pagava. Qui esisteva lo spazio per un
aiuto, per un interessamento che potesse dimostrarsi
proficuo. La patita delusione, la nostalgia per un altro
mondo, le lacrime inghiottite al Cafè dalle seggette di
metallo bianco traforato, avevano il sapore della speranza
che qualcosa finalmente accadesse. In tutta la loro amarezza. E questo gli permetteva di crearsi, come intellettuale, una prospettiva positiva e premiante. Di cogliere un
senso e un futuro anche per se stesso.
Aveva sentito in lei la presenza del desiderio del
recupero. E forse proprio del recupero di qualcosa di
simile al tempo trascorso con lui, al suo amore, a come
erano stati felici insieme. L’istanza di una resurrezione.
In una mostra fotografica, davanti a una città
bombardata nelle ultime ore del secondo conflitto mondiale, nel cuore di un’area diroccata, di fronte al cumulo di
macerie impietose quanto crudamente imponenti, un
omino con una pala e un berrettino in testa è quanto era
bastato per rialzare il capo e guardare il futuro che
avanzava all’orizzonte, quel filo d’acciaio luminoso di
speranza. Un piccolo omino che non si fa vincere dalla
disperazione. Nei suoi gesti antichi e modesti, nulla è
perduto per sempre, nulla e nessuno.
La foto sembrava chiedersi: dove sta la vittoria della
distruzione, dell’annichilimento? Finché c’è l’amore, finché c’è uno scopo, ogni distruzione è un buon motivo per
ricominciare.
Ma spesso noi non riconosciamo il nostro destino,
anche se ne percorriamo le strade con lucida intelligenza.
Poi il cellulare dell’altra squillò.
127
Era Margot.
- Scusami...perdonami...
La sera precedente era andata a farle visita con due
bottiglie di sherry, sapeva che l’amica lo “adorava”. E in
un’ora erano state ambedue ubriache fradice. E avevano
cominciato a scherzare, e poi a pungersi, finché l’altra le
aveva detto: ora te ne vai in Italia, a fare la verginella dopo
tutti i cazzi che ti sei goduta in Olanda...!
C’era rimasta male. L’invidia poteva capirla... E la
compagna poteva anche farle pena, un male al cuore per la
gratitudine che nutriva per lei... per il suo futuro...Ma
quella frase, così cruda, così fotografica...così indimenticabile...Non era riuscita a perdonargliela. Era anche una
testimonianza di futuri ricordi, di inevitabili amarezze. Di
crudeli premonizioni.
Si era alzata ed era scappata via, quasi perdendo una
scarpa per la strada.
Ora le telefonava per chiederle scusa, per fare
ammenda...per riparare come poteva...Cercò nella sua testa
qualcosa che potesse ricambiare quel sentimento di
amicizia, che potesse valere un perdono totale, una garanzia di dimenticanza. Ma mentre ancora cercava, l’altra
incalzò: Adieu carina, adieu. Poi cadde la linea.
A quel punto l’hostess le si fece vicina e le disse in
modo gentile ma deciso:
- Signora, siamo in volo. Spenga l’apparecchio.
E lei dovette spegnerlo.
Adieu. Quando qualcosa era finita, Margot diceva
adieu, e la cosa, qualunque essa fosse, era davvero finita.
Era una delle poche leggi che si era data. In quel caso, non
segnava la fine della loro amicizia, piuttosto era un
128
augurio, sottolineava la fine della loro vicinanza fisica e di
destini. Era un augurio fatto col cuore. Adieu, Luise, tu
non farai mai più la puttana, te lo auguro con tutto il
cuore...e un po’ lo sento anche in tutta me stessa. La nostra
vicinanza è giunta al termine, le nostre strade si dividono.
Adieu.
129
Epilogo
Quando Peter compì il suo primo anno, ci dicemmo
che bisognava festeggiare e, chiamata una baby-sitter che
aveva anche seguito un corso di dog-sitter in una delle
“più popolari università svizzere” (sic!), una ragazza
conosciuta e apprezzata nel quartiere, le affidammo Peter
e Brick e ce ne andammo a vedere una vecchia pellicola,
“La conversazione”, con Gene Hackman, attore
principale, e Francis Ford Coppola regista. La davano in
un piccolo cinema d’essay, una sala di proiezioni dalle
dimensioni contenute e forse leggermente pessimiste (o
che proprio quella sera si rivelarono tali). Gene è un
beneamino, un sessantenne diavoletto - allora - che dava
generoso spettacolo della sua bravura, ed erano stati in
molti a non voler perdere la proiezione, ultima della serie.
Ci accorgemmo subito che i posti si sarebbero
dimostrati, nel migliore dei casi, appena sufficienti perché,
entrando nella strada dove la sala apriva le porte, ci
ritrovammo alle spalle di due nutriti gruppetti di fans di
130
Hackman e di Coppola. E neanche potevamo sperare che
qualcuno si fermasse davanti a una vetrina, in quella strada
di squallida periferia con solo due vetrine che potessero
innescare l’immaginazione dei passanti. Una era quella di
un coiffeur per entrambi i sessi con femminucce dalle
mirabolanti acconciature ed evidenti capezzoli, e l’altra
quella di un gommista che, a parte un paio di gomme
nuove di zecca, per i passanti esibiva solo un calendario da
camionista e la relativa gigantografia in allegato, entrambi
indubbiamente efficaci per provocare seri danni sia in città
che fuori.
Per fortuna trovammo posto, e occupammo due delle
tre sedie praticamente “in offerta” a ridosso di una
camerina interna - si pensò al principio, quando ci
fiondammo verso di esse -, che però si rivelò per la stretta
anticamera della toilette. Una volta lì non avemmo il
coraggio di tornare indietro, e ci sedemmo sperando a
bassa voce che nel pubblico ci fosse un basso numero di
prostatici o incontinenti d’altro genere. E a dire la verità
poche volte ho goduto una pellicola più intensamente,
aiutato in questo dalla calma silenziosa che mi circondava,
anche se dovevamo soprassedere al fatto che di tanto in
tanto - secondo l’estro del vento - una corrente gelida,
penetrando evidentemente dal finestrino della toilette, ci
investiva rinnovando l’aria delle immediate vicinanze.
Poi la pellicola giunse al termine, con la più viva e
talvolta partecipata soddisfazione dei presenti che avevano
scelto di vincere la loro disperata solitudine con quella
illusione cinematografica. A quel punto la mia compagna
schizzò in piedi e, mentre la musica ancora non si
arrendeva alla parola end così chiaramente visibile sul
fotogramma finale, iniziò la sua traversata per uscire fuori
131
all’aria e correre verso Peter e la sua biondina, con coda di
cavallo e auricolare costantemente avvitato in un
minuscolo orecchio ormai diventato prensile a garanzia
dell’ascolto: la nostra baby-sitter con specializzazione
canina.
Dopotutto non avevamo tutti i torti affrontando in tal
modo la realtà. Nostro figlio non solo si chiamava Peter
per un mio lontano zio che aveva una fabbrica di mobili
nello Utah, ma era stato soprannominato “Peter Pan” per
la decisa propensione che aveva a gettarsi di sotto dalla tre
finestre del nostro appartamentino, dopo essere salito
sulla prima o sulla seconda delle sedie che si trovavano a
portata delle sue manine. Questo, mia moglie non poteva
assolutamente dimenticarlo, con o senza la baby-dogsitter, e tendeva a realizzare fulminei ritorni alla cruda
perigliosa realtà dopo che ci capitava di aver assunto
qualche nutrimento della fantasia per cui valesse la pena di
gettar via le tre ore necessarie. Cosa che capitava sempre
più di rado. Di fronte a tanta appaurata decisione, il mio
atteggiamento era mite e arrendevole. Niente, io ero
condannato alla torre d’avorio e non avrei mai potuto
ascoltare le intelligenti osservazioni di quelli che avevano
assistito alla pellicola senza aver fatto come me un pellegrinaggio con conseguente corso ad Harward - breve
quanto si vuole ma sempre su invito di quella prestigiosa
Agenzia del Sapere.
Questo era il mio destino, altro che il film!
A dir la verità, Peter Pan ci teneva sempre all’erta,
quasi in ostaggio nel piccolo attico di periferia per le sue
continue sfide alla sorte, al punto da indurre in mia moglie
il bisogno quasi estremo di essere rassicurata a regolari
132
quanto brevi intervalli dalla vista del bimbo e dalle
sensazioni tattili ricevute dal suo corpicino.
Quando fummo a casa, e la mia compagna potette
stringere finalmente al petto il sangue del suo sangue,
felice che Yoana avesse tenuto chiuse le tre finestre di
casa - come promesso con giuramento perpetuo -, ci
fermammo tutti e tre davanti alla gigantografia di un
quartiere di New York. Per la verità più che un quartiere
era il Chrisler Buiding e la zona di Midtown immediatamente circostante e illuminata dalle sue luci. Quando
avevamo visto quel poster, avevamo subito pensato che
nella nostra vita confusionata del XXI secolo era necessario avere un simile punto di riferimento, un centro
intorno a cui girare in qualche modo. Ma la mia
compagna, con acutezza tutta femminile, aveva
argomentato che i punti di riferimento, oltre ad essere
diversi da persona a persona, cambiano. Non di giorno in
giorno, ma cambiano. In altri termini noi cresciamo, il
mondo cresce, tutto cambia, e cambiano anche i punti di
riferimento. Insomma il Chrisler Building, per quanto
fascinoso in quella prospettiva, e al centro di un mare di
costruzioni, poteva diventare presto obsoleto se gli avessimo dato un nome ben definito, se ne avessimo fatto
un’unica icona delle nostre speranze, del nostro
dinamismo familiare. Allora io proposi che ognuno dei
due lo tenesse come l’immagine del suo momento particolare nella piccola storia della sua vita, immagine di
qualcosa che sarebbe cambiata quando lei ed io avremmo
voluto. Sarebbe stato quasi un gioco. Un giorno, anzi quel
giorno, per me sarebbe stato Sabine, il ricercatore che
aveva lottato contro la poliomelite: nostro figlio si era da
poco ammalato ed era stato sottoposto ad una cura con un
133
modernissimo medicinale; e Ford, il grande costruttore di
automobili, per la mia compagna, dal momento che nelle
ultime settimane lei non faceva che entrare ed uscire dalla
macchina. Oppure Don Giovanni, o Mozart; per
quell’incisione che le avevo appena regalato, un’esecuzione di Boeme che le era particolarmente piaciuta.
Un gioco in cui avremmo potuto scambiarci esperienze, raccontarci le nostre reazioni. La gente fa tante
cose stupide per fare qualcosa insieme, questa non sarebbe
stata poi tanto stupida, e avremmo parlato della realtà e
anche della nostra immaginazione. Della fantasia che
ancora ci resta in questo secolo ardentemente tecnologico.
Così partimmo io con Sabine, il benefico guaritore, e lei
con Mozart per non essere da meno. Ma in quella stessa
occasione mettemmo un quadratino di carta bianca alla
base del Chrysler Building, e ci sforzammo di insegnare a
Peter a toccarlo o a indicarlo con il piccolo dito. Anche lui
doveva avere un suo adeguato punto di riferimento,
doveva crescere con un centro, e non subissato da un mare
di cemento armato.
Quella notte io mi svegliai e pensai al sesso.
Sarebbe stato logico che il punto centrale con cui
incominciare quel gioco fosse stato il sesso, scelto almeno
da uno di noi due. Da me per esempio.
Ma non era stato così.
Era ancora un tabù. Gli anni trascorsi insieme, e il
sesso fatto con reciproca soddisfazione, non erano riusciti
a cancellare il vecchio mestiere di Luise. Io mi sforzavo, e
anche lei faceva del suo meglio per ignorare quella cosa e
ogni collegamento che potesse farla schizzare fuori dal
grande armadio della memoria. E per questi tentativi di
134
entrambi, a se volte un po’ goffi ed evidenti, le cose erano
migliorate ma non del tutto superate.
Alla fine, dopo che Morfeo mi ebbe respinto più di
una volta, mi alzai pian piano in modo che lei non mi
sentisse, o che avesse un dignitoso alibi per ignorare il mio
abbandono del letto, e andai nel soggiorno. Un goccio di
porto non mi avrebbe fatto male. Un goccio o due, non di
più. E versato il vino, accesi la lampada d’angolo.
L’effetto del Chrysler Building fu ancora più forte,
mentre lo fissavo dalla dolciastra solitudine di quelle due
dita di porto. Intorno l’oscurità di Midtown schizzata di
piccoli radi punti gialli...
Mi rendevo conto del rischio a cui eravamo entrambi
esposti per l’incombere di quel passato. Ma, se di ciò che
pensava, e che soffriva lei io non sapevo quasi nulla, di me
conoscevo il terribile richiamo che dalla memoria mi
veniva, il richiamo dell’amore che avevamo goduto prima
e che ora non era più.
Insieme ai miei tentativi di mettere a tacere quel
ricordo.
Qualche tempo prima, di ritorno da una proiezione
d’essay su Kubrick a cui ci avevano invitato alcuni amici,
immaginando che avremmo fatto l’amore una volta a casa
- con tutto quel che seguiva nella mia fantasia, e che io
dovevo gestire - avevo pensato che quel ricordo potesse
essere accostato per la sua forza al lamento di Hal nel
2001:Odissea nello spazio. Alla struggente dolce
preghiera della macchina affinché Bowman non la
riducesse al nulla della morte. Al fondo di me stesso
sentivo un terribile bisogno di un sesso simile a quello che
facevamo prima che lei mi lasciasse. Una realtà fatta di un
135
trasporto privo di qualunque macchia, e pieno di fiducia
reciproca, di una donazione che immaginavo totale...Ma,
contemporanea-mente, avvertivo tutta l’impossibilità che
quella meravi-gliosa sensazione potesse essere rivissuta da
me, da noi due, come una volta era stata. E cercavo di
spegnere quel ricordo, di tacitarlo finché fosse scomparso
del tutto. Ma, allo stesso tempo, sentivo al profondo di me
stesso quella preghiera di Hal, il rinnovarsi di quello
straziante lamento così umano di non spegnere quel
ricordo, di non disatti-vare i meccanismi di quella traccia
cerebrale. Di non cancellare la memoria di qualcosa che
ormai poteva esistere solo attraversando il tempo come
ombra, come spoglia di quanto era stato.
Almeno di lasciarmene il ricordo, mi diceva la voce
di Hal...della dolcezza delle mie visceri, dell’irrecuperabile sensazione di possesso, di unità, di paradiso, che
aveva invaso la mia mente, il mio cuore...tanto tempo
prima.
E rimanevo profondamente turbato riconoscendomi
troppo debole per tagliar corto e rinunciare anche a quello.
Perché la struggente dolcezza dell’invito era in effetti
un’istigazione a disperare. Avvelenava il presente, lo macchiava di tutto quanto la mia immaginazione e la mia
fantasia potessero gonfiarsi. La suadenza di quella voce
era insieme penetrante e omicida, perché la gioia del
sesso, l’unione del momento, venivano avvelenate da
quella voce straziante che illuminava crudelmente la mia
compagna con il suo cono di luce.
Alla seconda razione di porto, fui sorpreso da
un’altra considerazione.
136
Già qualche altra volta avevo riflettuto su quel fatto,
ma senza sottolinearlo a sufficienza. Tanto tempo prima,
quando Luise mi aveva lasciato per Phil, avevo immaginato - per una serie di pensieri e coincidenze, di una
sorta di istigazione nella mia mente - che Dio mi mandasse
a Amsterdam per ritrovare la mia amante, per riaverla. Ma
non era stato così, ed io me ne ero tornato con la coda fra
le gambe, mortificato, deluso. Per metà convinto che
quanto mi era accaduto non fosse altro che ciò che dovevo
aspettarmi, e dall’altra quasi incredulo che Dio non si
fosse interessato al mio amore, al mio dolore. Ma poi le
cose erano cambiate. E quando ero tornato in Olanda per
conto dell’università, l’avevo davvero incontrata, proprio
come ero stato incoraggiato a sperare la prima volta. Ma
con una diversa disposizione mentale. Non ero più l’uomo
che l’avrebbe implorata a tornare al suo fianco per riscaldargli il letto e dargli tutto il sesso che gli mancava e
urlava in lui, ma come una persona che l’aveva vista e
l’aveva pensata in un modo diverso. E che aveva in un
certo senso conosciuto un nuovo se stesso, e con esso gli si
era aperto un nuovo orizzonte. L’amore che ancora nutrivo
per lei mi aveva mostrato il proprio volto di pietà e tutto
era successo. In un certo senso, era accaduto quello che
avevo chiesto a Dio la prima volta ma in una maniera
diversa, con una profondità umana maggiore. In un coinvolgimento che aveva fatto fare a entrambi un balzo in
avanti nella vita dei nostri sentimenti, e anche delle nostre
intelligenze, della nostra capacità di percezione della
realtà. Alla fine tutto era davvero accaduto, ma tutto era
stato anche molto diverso e più grande, più importante di
quanto avevo chiesto. Ebbene, ora, proprio alla fine di
quel secondo bicchiere - senza il quale forse non sarei
137
stato capace di restare in piedi di fronte a quella
gigantografia della Grande Mela nella stanza fredda - , ora
dovevo chiedere a Dio anche quello. Di trasformare il
veleno del nostro amore in qualcosa di dolce, di
dolcissimo, come era stato una volta. Di spogliarlo della
loro reciproca sfiducia - perché di fatto colpiva entrambi -,
e della vecchia concezione di possesso, per darci qualcosa
di nuovo. Qualcosa che scacciasse tutta la negatività che
ancora occupava un enorme spazio nelle nostre anime e
nei nostri corpi. Di fare insomma come aveva già fatto.
Che tutto fosse più grande, più importante... Un amore del
tutto nuovo per entrambi, al punto di essere il nostro
amore e di appartenere a ciascuno di noi in modo totale ed
esclusivo.
Bevvi le ultime gocce al fondo del piccolo calice, e
poggiandolo sul tavolo mi dissi: Si vedrà... Qualcosa
certamente accadrà. E decisi di tornarmene a letto, non
senza aver prima poggiato la punta del dito indice sul
quadratino bianco su cui Peter Pan poggiava il suo, chissà
pensando cosa, magari a uno dei voli della sua
immaginazione di fiducioso bambino.
Quella sera avevamo assistito ad una proiezione
impegnativa, mi dissi alla fine sfilandomi la vestaglia e
appendendola a un pomello nel bagno. Hackman era stato
splendido nella sua interpretazione. Ma, secondo me,
aveva davvero superato se stesso nella foga e nelle
emozioni espresse nell’ultima scena. Avevano fatto a lui
quello che solitamente lui faceva agli altri. Avevano
distrutto la sua privacy. Erano entrati nella sua casa e vita
privata. Vi avevano addirittura installato gadgets che lo
avrebbero mostrato in mutande giorno e notte, e che lo
138
avrebbero messo nelle mani altrui. E che lui non era
riuscito a scovare...
Ma, a parte il contrappasso, cosa ne avevano pensato
gli altri che avevano assistito alla proiezione..?
Qualcuno aveva sonnecchiato, qualcuno aveva lo
sguardo incuriosito. Uno, sul lato opposto della piccola
sala, aveva lo sguardo intelligente...
La cosa singolare era stata la conclusione, quell’
assolo musicale, quel concentrarsi di Hackman sul suo
sassofono e trarne, una alla volta, le note in una palpabile
concentrata soddisfazione. Un atto erotico, un fatto di
unione e di gioia... Abbracciare il suo strumento preferito
gli faceva dimenticare l’intrusione nel suo presente e nel
suo futuro...? Quasi che vivere l’istante magico - dopo che
il suo appartamento era stato smontato da lui pezzo per
pezzo, se non praticamente distrutto nella ricerca di
“cimici” e simili - lo avesse acquietato della sgradevole
possibilità che altri avrebbe conosciuto troppe delle sue
azioni future...
Nell’abbraccio di quello strumento, nella fisicità di
quella musica...c’era tutto il piacere, tutta la gioia di cui
poteva disporre...E lui se la stringeva al petto... Quel
placarsi della sua angoscia, della sua volontà distruttiva,
quasi il dimenticare la sua incapacità di superare quella
che era la realtà per mezzo di quell’elevazione a cui
accedeva tramite la simbiosi artistica... quella fascinazione
del produrre e allo stesso tempo del fruire la sua musica...
Perché tutto era cancellato dalla poesia di quelle
note... Ogni amarezza poteva essere sepolta; per sempre
dimenticata per quella passione, per l’eccessiva dolcezza
del fatto in cui era coinvolto. Perché la gioia di quella
139
solitaria esecuzione riusciva a cancellare tutto, se lui
poneva attenzione alle note, alle dita, al ricordo, al cuore...
La felice serenità di produrre bellezza e di goderla...
poteva farcela...avrebbe vinto.
D’improvviso qualcosa mi tornò in mente, qualcosa che
non ricordavo da anni. Anzi qualcuno.
Nella mia famiglia c’erano delle ombre che mio padre
non accettava di buon grado, ombre che tuttavia restavano.
Una di queste era un fratello di mia madre, un jazzista bianco
che si trovò a passare per l’Italia con il suo complesso quando
io fui battezzato...Meglio tardi che mai. Così uncle Lionel si
presentò a Milano, il lunedì successivo, dicendo “non
credevo che faceste queste cose di domenica”...
Era già ubriaco, ma rimase il tempo sufficiente per
consegnarmi il regalo acquistato nelle vicinanze di casa
nostra - un paio di guantoni da boxe, che c’entravano poco
con un ragazzino di dieci anni - e per incoraggiarmi sulla
strada che avrei scelto.
“Ho lavorato con Roy Eldridge e so come è arrivato
dove alle fine è arrivato... Dopo che l’orchestra di Gene
Kupra l’ebbe guardato dall’alto in basso perché era nero... e
che Ella Fitzgerald gli aveva dato così poco spazio... Ma lui
ce l’ha fatta lo stesso...Ho suonato con lui e con il suo
sassofonista, Illinois Jacquet...Roy mi sentì al piano e mi
chiese se volevo fare la stagione con lui..Poi disse a Jacquet:
Hi, Ill, prova Cloudy day con il ragazzo... Jacquet fece un
paio di accordi, ed io lo seguii...Un grande sassofonista,
grande, grande... Una musica dolce ma anche asciutta, da
uomo... Che prima ti lasciava sentire l’umido della pioggia
sulle labbra, e poi ti faceva domande che non ti eri mai
fatto...”
140
Mentre raccontava quelle cose, mio zio era sobrio come
non avrebbe potuto esserlo se non avesse bevuto un solo
goccio. Sobrio e serio. Mi fece una grande impressione, è uno
dei pochi ricordi di quell’età...Anche perché era molto alto.
Un uomo possente, che quando suonava il piano - questo me
lo disse mia madre quando ci comunicarono la sua morte sembrava un aquila sul nido...
Un altro sassofono quella sera era ricomparso nella mia
vita, un altro invito a viverla con tutta la speranza di cui
potevo ancora disporre a quarant’anni e più...
Forse era stato il nome di Kupra - Gene - a tirare fuori
mio zio dalle ombre di quel tempo sbiadito... Non so...
E qualcosa mi sorprese come un picco dell’assolo di
Hackman: spesso noi non riconosciamo il nostro destino,
anche se ne percorriamo le strade con lucida intelligenza.
Era l’ombra di un satori? - mentre l’accappatoio scivolava dal pomello su cui l’avevo appiccato, approdando in un
dolce ralenti sul mattonellato del bagno...?
141
Oskar
Nel periodo in cui mi imbattei in lui ero abbastanza
impegnato. Avevo da poco iniziato un lavoro che si
riprometteva interessante, e che era allo stesso tempo non
definitivo per definizione. Di natura filosofica, insomma,
mi aggiravo nei territori della causalità.
Avevo sempre desiderato di mettere giù - sotto forma di
articolo o di saggio, se mai vi fossi riuscito - qualche
osservazione circa le conseguenze sul piano psicologico
individuale del passaggio dall’innatismo (delle idee) alla
filosofia di Locke, e quindi all’empirismo di Berkeley e
all’associazionismo scetticista di Hume.
Ho sempre immaginato - indifferente a ogni contrario
parere di qualcuno che se ne intendeva di intelletto, e che
probabilmente mi dava in cuor suo dell’imbecille - che i
nostri pensieri volteggino alti nel tempio del nostro animo,
e che tale breve e allo stesso tempo potenzialmente
142
infinito ecosistema dimostri un’estrema sensibilità all’
intrusione di estranei.
Ora, quel tempio, quelle alte e a modo loro precipitose
volte e i loro abitanti, come avrebbero reagito all’
incursione di nuovi arrivi? Quale sarebbe stata la reazione
della viva struttura interiore di un uomo sottoposto al fatto
di cui sopra?! Lungo l’unica strada di cui l’uomo dispone
nel tempo, l’umbratile foresta dell’esperienza ove, ad ogni
giorno, la sua coscienza s’inoltra sempre più?
Di solito mi capitava di avere un tale oggetto di
riflessione allorché cuocevo le uova al tegamino senza
strapazzarle. Mi è sempre parso - e per la verità mi sembra
ancora oggi - che i due tuorli tendano per loro natura o a
precipitarsi uno accanto all’altro, quasi volontari sodali
nella nuova svestita condizione; o a respingersi schizzando
via ciascuno dal suo partner. Senza che tutto ciò possa
essere imputabile al recipiente, sempre lo stesso; o alla
densità dell’albume, che ad occhio nudo appare anch’essa
ininfluente.
Inutile specificare di essere indotto a tali considerazioni
d’estate, quando sono io a cuocerle, le uova, e non mia
moglie, al mare con la figlia. Pertanto si tratta di un
esperimento involontariamente voluto. A cui sono
obbligato sovente, in un seppur ristretto ambito temporale,
sia per la mia passione per le uova, sia per la facilità di
queste a concretizzarsi in una cena sufficientemente
proteica e allo stesso tempo povera di grassi. Solo di
poche gocce d’olio necessita la cottura di queste cellule
che si sviluppano con sì gustosa generosità nel corpo di un
pennuto non più volatile, quale è appunto la gallina.
Vedendo i sapidi tuorli ammiccare strabicamente uno
all’altro, o respingersi con ferma incostanza tra il fervore
143
scoppiettante dell’olio, mi torna sempre alla mente la sfida
di Hume.
Esiste poi davvero un principio di causalità?
O il propter hoc - la causalità, su cui mi sembra ancora
si fondi tanta parte del sistema scientifico moderno e
postmoderno - è tutta una balla?
Quest’alternativa nasconde l’abisso.
Tutto è cominciato, si sa bene, con la ormai arcinota
storia di una biglia che colpisce l’altra, la quale schizza via
senza che si possa dimostrare - secondo Hume - che la
prima biglia abbia avuto con il suo movimento un effetto
determinante, specificamente causale, sulla seconda.
Hume a suo tempo aveva parlato di assuefazione della
mente umana a una certa continuità fenomenica. E alla
interpretazione dell’esperienza di tale continuità, da parte
appunto dell’uomo, come causalità. Insomma, l’esperienza
ci farebbe credere che esiste un particolare nesso fra due
contigue realtà che pertanto diventerebbero un’ipotetica
causa e un ipotetico effetto. Ambedue, al contrario,
inestistenti in quanto tali, e solo susseguenti realtà nel
fluire dei tempi. Questo a parere del Nostro.
Ora, a uova del tutto fritte, subito mi sorgeva la
domanda: quale sarebbe stata la condizione mentale di un
uomo che, educato in gioventù all’innatismo, dovesse poi
attraversare le forche caudine dello scientismo di Locke e
di Berkeley e dello scetticismo di Hume? Cosa mai poteva
accadere nell’animo umano sottoposto a tali pressioni?
Ecco il dramma delle uova, e anche mio. Perché se i
tuorli se ne andavano ciascuno per conto proprio,
reciprocamente ininfluenti, la inesistenza della causalità
era bell’e dimostrata. Almeno per me.
144
Ma cosa succedeva in qualcuno educato alle idee
innate...? Cosa sarebbe accaduto nel tempio in cui, sotto
volte precipitose, si libravano le idee con i loro voli
possenti..?!
Avevo pensato che questo fosse un problema correlato
alla causalità su cui valeva la pena indagare. Ed era quello
che stavo facendo allorché Oskar riapparve nella mia vita.
Quando lo incontrai, nel locale più inadeguato della
città, un’oscura birreria - di fatto e metaforicamente - sulla
strada che andava verso il Duomo, ero arrivato più o meno
a un terzo del lavoro, allo snodo in cui accennavo a come
Hume, con toni desolanti, avesse descritto l’impossibilità
della scienza di andare al di là della pura descrizione dei
fenomeni,
Oskar era a un tavolino in fondo, solo e in atteggiamento oserei dire supplice davanti a una riproduzione del
sole di Klee, un foglio plastificato e gialliccio che poco
doveva essere stato migliore quando aveva vissuto i tempi
della sua giovinezza.
Non potrei dire in alcun caso che la sua fosse
un’adorazione estatica, o anche solo impetratoria nei
confronti dell’astro di Klee, così splendidamente
trionfante. I suoi occhi glauchi, ed esageratamente umidi
nelle orbite, vi appoggiavano semplicemente lo sguardo
senza mostrare alcuna intenzione di spostarlo in un’altra
direzione. Tutto qui.
Al mio saluto trasalì brevemente.
- Ci vediamo dopo molti anni.
- Sono felice di incontrarti.
- Trent’anni?
- O poco più.
145
- Forse quaranta. Ma ti ho subito riconosciuto.
- Come hai fatto? La fisiognomica...
- Non so come tu abbia trascorso questo tempo. Io sono
un pensionato che vive praticamente di aria, e di quel po’
di dignità che riesce ancora a sgraffignare in giro. Il
denaro è poco, quantunque ancora mi industri in
sporadiche collaborazioni ad una o all’altra rivista.
- Per questo, neanche io sono stato chiamato a
partecipare all’ultimo G8. Sebbene abbia collaborato nella
fase preparatoria.
Mi domandai se quella fosse una stoccata da parte del
mio amico. La nonchalance con cui mi consegnava la
significativa notizia mi indiceva a crederlo.
Ma risposi da gentiluomo.
- Permettimi in tal caso di congratularmi...
- Inutile dirti che il mio è un nome oscuro. Faccio una
bella fatica.
A questo punto fu chiaro come intendesse sottolineare
la sua fama nei circoli della politica e della diplomazia. La
notizia era a me sconosciuta perché non frequentavo gli
stessi entourages.
Poi, gratificato, Oskar sorrise con immediata cordialità
esibendo una modestia insieme mendace, ironica, e forse
addirittura autocanzonatoria.
Dunque credeva che io potessi immaginarlo grande e
insieme umile?! Fu quell’ipotesi a ingraziarmelo. Che i
piccoli fossero tanto sciocchi da immaginare di poter
tramutare in un credulone una persona normale come me,
era una cosa acclarata. Ma che i grandi - come lui
sosteneva di essere diventato - potessero fare lo stesso, era
cosa nuova. Forse perché io non frequentavo i loro
ambienti.
146
Quell’uomo poteva essere interessante.
Inoltre, appiccicato a lui da pochi minuti, per un attimo
mi parve di aver ritrovato una fetta della mia giovinezza.
Di quell’era lontana ormai e sotterrata sotto le spesse coltri
di glaceazione della mia vita. La mia giovinezza
intrecciata alla coda paciosa di quell’orante di Klee..?
Oskar era elegantemente avvolto in sete di discreta
policromia, secondo uno stile appena trascorso e che
rimandava ai diplomatici di Graham Green, o agli
accademici di Snow. La sua era una trasandatezza
ricercata e costosa, che tuttavia rimaneva e intendeva
rimanere se stessa. Qualcosa di britannico ma anche di
sovranazionale. Come è giusto che sia quanto attiene al
servizio diplomatico, e che quindi allude alla saggia
pacatezza di chi sa, e allo stesso tempo al gusto di chi ha
sempre saputo. Da secoli e secoli.
Poteva essere la mia verde età agganciata a qualcuno
del genere?
Perché no?!, mi dissi, mentre una calda onda emozionale proveniente dal passato già mi investiva.
Decisi di riprendere i rapporti, se mai lui me ne avesse
dato il modo. Ciò che non avevo voluto fare in tutti quegli
anni - sapevo bene che abitava nella mia stessa città - per
evitare il sospetto di piaggeria e la derivante umiliazione,
ora mi si presentava come una quasi-necessità.
La modestia non riesce a mantenersi in piedi se non è
sorretta da una ragionevole dose di orgoglio. Ma vi è
anche una terza gamba che spesso decide per il meglio. Il
buon senso ci spinge in una determinata direzione a
seguito di un’indagine tanto sintetica quanto a-priori,
147
direbbe Kant. In una cognizione oscura, esso ci induce con
vigore istintuale a una determinata scelta.
E io fui indotto ad accostarmi a lui.
Man mano che il tempo passava, fra le parole e gli
accadimenti del nostro presente - del suo presente, in
modo particolare, io avevo poco da raccontare riaffiorarono ricordi. O anche solo frammenti di essi,
capaci tuttavia di scaraventarmi verso le scogliere
dulcoamare dell’antico tempo trascorso insieme. Scheggie
capaci di farmi sanguinare quella lontana vita.
Cosa non avevamo fatto, sia al liceo che all’università!
Quanta incoscienza, e quanta freschezza.
Quante speranze e quanta energia!
Dopo due ore lo spleen mi teneva saldamente, e quando
i lampioni all’esterno del locale albicarono d’un rosa per
metà fluorescente e per metà caramelloso, avevo il cuore a
pezzi. Al punto che, allorché lui disse che era tardi e
doveva andar via, risposi che io sarei invece rimasto per
fare un paio di telefonate e per prosciugare un’ultima
birra.
Non mi sembrava di avere sufficiente forza nelle
gambe; di poter disporre così su due piedi della necessaria
energia per varcare il basso portale della mescita e
attendere il passaggio del bus che mi avrebbe scaricato
davanti casa.
Come ultimo omaggio Oskar mi regalò un sigaro, un
enorme siluro di cui decantò brevemente i pregi. I quali,
però, “si dispiegavano al loro meglio nella cantilenante
postprandialità d’un giorno di festa”, aggiunse.
Per questo me lo proponeva. Si trattava di eccellenza. E
la prima volta deve essere al meglio. Poi tutto cambia.
148
- Qualcosa di cui non ti pentirai. Che ti offrirà un
orizzonte sconosciuto. E’ questa la vera scoperta del
tabacco in un tale stato allotropico. Un orizzonte a cui non
ci si può sottrarre.
Oskar poteva parlare molto fino, sia per le sue
ascendenze diplomatiche che per la familiarità con diverse
puttane politiche d’alto bordo, come avrei avuto modo di
apprendere a breve.
Andando via, il vecchio amico si lasciò alle spalle la
discrezione di un elegante anello con monogramma, che
portava alla sinistra, e di una corta ma pesante catena
d’oro - che appariva e spariva massiccia sotto la giacca -,
di quelle con la maglia martellata - a cui era agganciato un
piccolo orologio da tasca dello stesso metallo.
Per alcuni minuti a seguire la sua scomparsa oltre la
porta del locale, la sua ombra palpitò al vento delle luci
cangianti, incisa nella mia memoria visiva.
Soprapensiero, accostai le labbra al bicchiere paio di
volte. Fra poco la solita ragazza si sarebbe seduta al piano.
Un’ombra po’ biancastra, per la verità, quella di Oskar
ora. Quasi un fantasma. Solo fermata, nel ripetitivo soffio
luminoso, dai punti aurei di quei gioielli.
Quando uscii, le lampade della strada dardeggiavano
con pubblica condiscendenza dall’alto dei loro lunghi ed
esili colli d’acciaio, gettando una luce dubbiamente
convincente sulle profilate formelle rosa, in pvc, che
riempivano i tanga del negozio alla fermata del bus. Un
profondo rilucente quadrangolare vuoto a cannocchiale,
che, al di là delle grosse maglie della saracinesca smaltata
di rosso, esibiva così tanti profumi da lasciare in dubbio se
vi si vendesse intimo o cosmetica.
149
Poi il bus arrivò dalla curva in fondo, un po’ allegro e
inchinato sul fianco, ed io vi saltai sopra come altre volte
avevo fatto su di un cavallo bianco in un eroico sogno, per
essere depositato - ancora e sempre in quella reverie in cui
stringevo delicatamente il sigaro come fosse una bomba dinanzi alle fauci grigioferrose della mia modesta, condominiale, quanto al momento solitaria dimora.
Eravamo di luglio, mese di vacanze per la piccola
accaldata borghesia, intimamente ma non misteriosamente
defatigata dai rigori invernali.
Perché mai ero stato così sciocco da non mantenermi in
contatto con Oskar? Una volta eravamo stati ottimi amici.
Fratelli siamesi o quasi.
Era un tipo simpatico.
Con la sua improvvisa apparizione, Oskar aveva turbato
la mia vita. Ora posso dirlo con cognizione di causa.
Causa: una benedetta parola in cui continuo a incespicare di giorno e di notte!
Neanche le stelle riescono a mettere in fuga, con tutti
gli anni della loro luce, i dubbi del mio cuore. Quegli
immoti compagni nell’universo dell’animo, che pencolano
a volte sinistri sul mio pensiero. Sebbene esso si sforzi di
essere differenziato, mutevole, positivo e ottimista, sotto le
alte volte dell’animo. Ma esiste poi la causalità?!
La presenza di Oskar mi molceva il cuore. Poco alla
volta - sullo stesso piano fisico - dal presente della sua
figura emerse la giovanile freschezza dei tempi andati.
Piuttosto che corpulento, occhialuto e dai capelli un po’
troppo lunghi sul colletto della giacca grigia a righine,
Oskar mi apparve magro, scattante, dai capelli corti all’
150
americana. Come si portavano in quella stagione del
nostro tempo.
Proprio così, la presente trasandata quanto ricercata
eleganza era venuta sicuramente dopo. Il diplomatico, il
rappresentante del potere in carica, il plenipotenziario,
erano tutta un’altra cosa. In altri momenti era stato un
giovane uomo dal busto eretto e dallo sguardo
lungimirante, in cui non sarebbe stato difficile presagire il
tecnico d’alto bordo che poi si era rivelato. E che si era
fatto conoscere - per quanto a un livello non eccelso,
Kissinger aveva fatto di meglio - su scala internazionale.
E questa trasparenza fisica del passato attraverso
l’incontro con Oskar, risultava per me in un contagio.
Tendeva ad azzerare il passare del tempo; e quando ero in
sua compagnia, apparivo a me stesso trenta o quaranta
anni più giovane. Con tutti i capelli e tutti i denti, e con la
falange del dito piccolo del piede ancora in sito. Una parte
del corpo che mi sarebbe stata in seguito asportata, in
modo inatteso quanto fraudolento, da un furetto che su di
una spiaggia del più basso adriatico si esibiva in esercizi
evidentemente a lui poco graditi, per alleviare gli animi
villeggianti costipati dal calore e dalle crude esigenze della
balneazione.
Mai come nell’arte circense la medaglia dell’essere ha
due facce.
Inoltre, la vicinanza fisica dell’antico compagno
compiva in me una speciale magia. Essa mi riportava
senza nessuna evidente causa - ecco ancora quel concetto!
- verso la speranza della mia giovinezza, come se
risvegliasse in me l’enorme cuore che una volta mi aveva
spinto, con fervore quasi estatico - si potrà dire così? lo
spero - lungo il cammino della vita, all’attiva ricerca di un
151
tempo dalle ricche spoglie che non avrei poi mai
incontrato. Ma non solo questo: io venivo risospinto a
nutrire nuove speranze senza un alcun motivo.
Con metafora linguistica, in compagnia di Oskar io
gustavo il “futuro nel passato”, una modalità verbale che
indica qualcosa che avrebbe potuto accadere ma che non si
era mai verificata. Che avrebbe dovuto essere, secondo le
mie più fervide speranze, ma che non si era mai avverata.
Il futuro del mio lontano passato, con Oskar, riviveva.
Ed io con esso.
La parola “rinascere” non appartiene al mio
vocabolario. Ne rifuggo per evitare sia la religione che le
false speranze da visionari. Tuttavia, devo ammettere che
la vicinanza di Oskar operava in me qualcosa che non
avrei saputo definire altrimenti. Induceva nel mio corpo
un’incalcolabile dose di energia; istillava nel mio animo
un vigore, una freschezza, di cui anche il solo ricordo
qualche tempo prima era per me assolutamente
inconquistabile.
Con Oskar io rinascevo, è la verità.
E per quanto sospettassi la natura fallace di quella sorta
di droga che egli rappresentava per me, me ne curavo
poco.
Tra i ricordi scolastici, i comuni amici, le ragazze con
cui avevamo a turno pomiciato, noi sguazzavamo
piacevolmente in una specie di circoscritta eternità, in un
dolce tempo senza tempo. Seduto nell’ombra del mio
decaduto presente, io guardavo con leggerezza e gioia un
po’ infantile le policrome diapositive che la presenza
dell’amico faceva riapparire, e ancora tanto luminose.
Gli studi spesso distratti, la scuola fino ad un certo
punto violata, le amichette a cui avevamo sbottonato con
152
rispettosa cura la camicetta quasi immacolata, i film di
quei tempi ruggenti, la musica che ci travolgeva fino
all’estenuazione. Tutto diveniva un passato presente, o un
presente solo da poco passato, e si sistemava in una
incoraggiante vicinanza, invece che rimanere distante
quaranta o cinquant’anni.
Lo stesso crepuscolo dei nostri dei si riscopriva per un
cielo fisso, in cui accimierati guerrieri erano ancora
immobili nelle più vaghe posture di impavida belligeranza.
E la caduta degli dei, insieme alla nostra crescente
abitudine ad essa, sembrava un nulla, solo uno scherzo
dell’immaginazione.
Oskar spesso ghignava, particolarmente corpulento in
quella zona del viso che unisce la mandibola al resto del
cranio; io lo seguivo, solo modestamente corpulento
intorno alla vita. Dalle parti che in seguito furono
chiamate le maniglie dell’amore. La sua era una taglia
grande, poderosa; s’intende, senza che lui mai avesse
davvero acquistato un “taglia grande”. I suoi abiti erano
certamente confezioni di atelier per uomini importanti.
Guardandolo, un giorno mi era venuto da pensare come il
cinemascope fosse un inevitabile frutto dell’accrescimento
della cultura tecnologica. Anche se non si poteva parlare
in nessun caso di “sviluppo della civiltà”.
Belle serate davvero furono quelle che trascorremmo
insieme in quel mese di forzata solitudine coniugale da
parte mia. Oskar era grande, anche se non era davvero un
autentico grand’uomo.
Poi giunse agosto. Mia moglie rientrò dalle vacanze
con mia figlia, così liberandomi ancora una volta da una
delle mie costanti preoccupazioni, il loro rapimento con il
conseguente esborso di un riscatto, e contempo-
153
raneamente Oskar partì per la Costa Azzurra. Impegni
politico-mondani lo chiamavano a svolgere il suo ruolo
diplomatico. E “a mostrar le chiappe chiare”, come dice la
bella canzone. Proprio con quest’ultima citazione ci
lasciammo in grande rinnovata amicizia.
Per l’occasione il mio amico mi offrì un altro dei suoi
sigari. Questa volta in un sottile tubo argenteo.
Raccomandandomi di badare a quello che facevo. La
delicatezza di quella sottile foglia scura era particolare.
Tutto poteva essere compromesso - se non addirittura
distrutto - da uno sbalzo di temperatura, o dall’aria troppo
secca. Così come dalle mefitiche esalazioni della toilette.
Lo sapeva per esperienza diretta per le sue frequentazioni giovanili delle latrine militari al corso ufficiali.
Non si fuma il sigaro in bagno. Avrei dovuto attenermi
a quella regola con assoluta fermezza. Ed io promisi di
farlo, mentre la sua macchina targata CD scivolava via
nell’accalorato silenzio dell’ora tarda.
Sì come algide brume introducono una rigida giornata
invernale, l’oscura afa precedeva un’estiva notte maledica,
mi dissi guardando scomparire l’enorme risplendente
ferreo catorcio che lo portava verso l’orizzonte urbano. Il
caldo era davvero intenso. E ancora una volta mi chiesi
come mai avessi, se non proprio perduto le sue tracce,
interrotto i rapporti con un così simpatico commensale.
Ma si poteva poi usare quel termine, “commensale”,
per ciò che io ed Oskar consumavamo di solito ai tavolini
dei caffè?
Tanto fu, per allora.
Nell’accendersi di sempre più brevi splendori
autunnali, una stagione per definizione ebbra dei giochi
154
dell’ozio e pertanto giustamente ammalata della sua
corruzione, attesi a lungo che Oskar mi telefonasse. Ma,
evidentemente, i suoi impegni lo trattenevano oltre il
consueto nell’opulenta Francia a riposo.
D’altro canto, io non rimasi con le mani in mano - o a
braccia conserte, come si diceva ai nostri tempi. E mi detti
da fare con il mio articolo sulla “coscienza di un soggetto
pensante, al progresso dall’innatismo leibniziano allo
scentismo berkeleyiano”. L’unico problema che mi
sembrava a quel punto evidente era l’impiego della parola
progresso, che nei miei intendimenti avrebbe dovuto avere
una valenza unicamente dinamico-temporale, ma che nei
fatti poteva essere assunta con una sottolineatura di
approvazione. In una prospettiva che mi era dopotutto
alquanto estranea.
Ed ero ancora a uno snodo quando Oskar mi telefonò.
Mi stavo attardando sul modo in cui Leibniz aveva
liquidato l’innatismo: un’idea per essere tale deve essere
presente nella trasparenza della nostra coscienza. Ora
poiché ciò non accade e noi le idee le acquisiamo - la
maturazione psicologica è tutta un acquisizione di idee, e
così la maturazione culturale - l’innatismo è una fandonia.
L’obiezione mi sembrava così convincente da essere
decisiva, e proprio a questo punto - verso l’ottavo
paragrafo della mia breve dissertazione - il telefono
squillò. Andava bene per il pomeriggio, alle quattro?
Presso quel famoso albergo? Mi meravigliai silenziosamente per l’ora, ma dissi che l’incontro si attagliava alla
perfezione alle esigenze della mia giornata.
Arrivederci, e Oskar sparì dal mio orecchio anche se
non dal mio cuore. Perché poi il pomeriggio?, continuai a
ripetermi in quello scorcio di giornata nella piacevole
155
attesa dell’incontro. Comunque avevo fatto bene a non
eccepire verbo.
Ma quando e perché avevo smesso la frequentazione di
quell’amico così congeniale e simpatico?! Oskar continuava a sembrarmi il compagno perfetto per trascorrere di
tanto in tanto un pomeriggio fra uomini soli.
Lo vidi in un salottino riservato del famoso albergo, un
elegantissimo privé ove compresi un po’ di più. Oskar era
praticamente disteso su una sorta di dormeuse sistemata lì
per lui, ed esibiva una gorgiera sanitaria nobilissima
nell’essenzialità delle sue linee e nel candore dei tessuti.
- Una debolezza cervicale, da cui sono periodicamente
colpito, mi costringe all’immobilizzazione del collo. E a
questa buffa posizione che vedi. Sembro una puttana, o mi
sbaglio? Un’autentica citazione di Lautrec nel suo periodo
di maggior frequentazione delle maisons. Collare
elisabettiano a parte, s’intende!
Risi per spazzar via ogni ombra di perplessità, e allo
stesso tempo per fare eco alla sua allegria non sapevo fino
a che punto sincera. Un ampio sorriso sparso sui candidi
lini e le preziose fiandre dell’addobbo.
Ehi, Lautrec, si vede che siete del mestiere, gli disse
Degas - Oskar spocchiò poi leggermente.
- Credo che Lawrence Olivier andasse soggetto a un
problema del genere. Ma un gigione come lui ne traeva
maggiore fastidio di quanto capiti a me. Non credi?!
Credetti, come non credere?
E per tutto il tempo che trascorremmo piacevolmente
insieme, incoraggiati
da qualche biscotto di
Castellammare e da una bottiglia di Porto, io continuai a
domandarmi quale fosse il giusto ritornello di quella
156
canzoncina televisiva in cui appariva l’immagine di un
gatto surreale, mentre una bella vocina andava su e giù per
il facile refrain, Oskar, Oskar, chiamatemi Oskar.
D’improvviso mi era venuto in mente quel vecchio sketch
e il suo famoso personaggio. A causa del nome, s’intende.
Quel gatto mi era apparso sempre un po’ inamidato, se
non del tutto steccato. Proprio come ora appariva il mio
amico.
Quando me ne andai fui gratificato con il solito sigaro.
Questa volta, un affare più corto ma ancor più panciuto e
robusto. E fui di nuovo il bersaglio delle sue considerazioni sugli aspetti perniciosi del filtraggio dell’aria del
cesso attraverso un tabacco così delicato da essere financo
prezioso. Ci pensassi bene. Adieu!
Oskar poteva essere grande, ma di tanto in tanto aveva
la debolezza di volerlo apparire. E diventava un autentico
rompicoglioni.
Nei giorni che seguirono mi concentrai con pertinace
decisione sull’ultimo svincolo del mio articolo. Su quello
che io consideravo il collo di bottiglia del tutto: il luogo
logico che mi avrebbe condotto a una conclusione
autentica, reale, verosimile. E così via.
Volevo che fosse una zona di artica razionalità, e allo
stesso tempo una manciata di righe capace di suscitare le
più profonde e elevate emozioni nel lettore. Una cascata di
sensazioni fondamentali e di principi quasi primi.
Ma come, con precisione?
Per la verità avevo rintracciato, nelle mie ultime
frequentazioni di Locke, il decisivo passo in cui egli
dichiara che il fatto di avere un’idea significa averne la
coscienza. Avevo riflettuto a lungo a tale riguardo, e
157
avevo setacciato severamente i brani in cui il filosofo
sostiene che l’atto di autocoscienza è immediato, intuitivo.
Del tutto involontario.
Insomma, colui si sistemava in una posizione simile a
quella cartesiana, cogito ergo sum...
Quindi avevo riletto i passi di Hume preso dallo
sconforto del proprio scetticismo, e dalla convinzione che
la persona non fosse che un fascio di abitudini, il luogo
dell’accorpamento di occasioni individue, singole.
Ed ero perplesso, come al solito, circa la natura e gli
effetti del progredire dell’indagine filosofica in quei tempi.
Insomma, l’autocoscienza era intuitiva tout-court??
E l’autodeterminazione dell’io?
Insomma, qual era il legame fra l’uomo e la sua
esistenza?
Subivamo anche in quel caso la fallace illusione delle
biglie?!
Cosa pensare al riguardo?
Cosa fare, se avessi percorso io la storia in quegli anni:
dall’innatismo leibniziano allo scetticismo di Hume,
passando per lo scientismo di Locke e di Berkeley?! Come
regolarsi, se fossi stato io? Cosa e come avrei pensato di
me stesso?
Fu allora che il telefono squillò. Era Oskar.
- Carissimo...
- Perbacco, mi hai fatto preoccupare. Il telefono di casa
tua sembrava morto negli ultimi giorni. Ed ho smarrito i
numeri dei tuoi portatili:
- Niente di grave, mio caro. Ma sono purtroppo a letto.
Soffro limitatamente, e mi farebbe piacere vederti. Oggi la
cuoca ha il giorno libero, e il cameriere è in vacanza. Ma
alle cinque mio nipote sarà qui, da me, per farmi firmare
158
certe carte. E’ anche lui nella Carriera. Potrà aprirti l’uscio
e fare gli onori di casa.
Si fa per dire, amico mio, si fa per dire... come puoi ben
immaginare...
- Non preoccuparti. Sarò lì per le cinque. A bien tot.
Oskar quel giorno non portava gorgiera, né era su di un
autentico letto.
Era invece come imballato e assicurato su uno di quegli
affari d’ospedale da cui sembra che si possa precipitare in
terra da un momento all’altro. Di fatto due robuste cinture
di tela verde ne fermavano il corpo rendendolo solidale
all’alto “coso” di rilucente alluminio.
Mi sorrise quando feci il mio ingresso alle spalle del
nipote nell’allungato candido locale - una volta era stata
una piccola pinacoteca, La Quadreria, mi avrebbe
spiegato in seguito Oskar -, un giovane sui trent’anni, dai
capelli tagliati cortissimi, in completo di seta antracite e
camicia e cravatta tinta su tinta. Davanti ai miei piedi le
scarpe dell’uomo avevano discretamente frusciato con
costoso piacere lungo i soffici tappeti che correvano nei
corridoi abbuiati dell’ampia dimora.
- Ecco, lì... Posso vederti meglio in quella posizione.
E mentre lo slanciato fascio di seta calzato
lussuosamente - “anche lui in Carriera” - si ritirava, Oskar
mi fece segno con lo sguardo alla seggetta di ferro
smaltato non distante da quella sorta di moderna barella.
- Mi perdonerai, ma non possiamo sottrarci di tanto in
tanto alla precarietà. Tutta la vita è un po’ precaria, a dire
il vero.
Bevemmo uno sherry dorato accompagnandolo con
biscotti dolci. E Oskar mi disse: Andrebbero meglio con
159
del buon Malaga. Ma l’ultima bottiglia davvero buona non
ricordo più quando l’ho bevuta. Tutto si consuma, guarda
un po’ qui. - E l’uomo si indicò con “evidente” modestia.
Da parte mia pensai che si fosse consumato poco fino a
quel momento, a dire il vero. La sua mole era ancora tutta
lì. Ma non feci obiezioni, piuttosto cercai di tenerlo su.
Anche se ero alquanto incavolato che, pur sapendo del mio
arrivo, non avesse provveduto altrimenti, ed ora mi facesse
sedere su quel cesso mascherato.
Ma ero triste per il suo stato, e pian piano mi accorsi
che lui stesso era triste. Cercai di capire se potessi fare
qualcosa per lui, fino a chiederglielo apertamente.
- Purtroppo nulla, amico mio. Nulla di nulla. Giunti a
queste condizioni bisogna soltanto accettare i fatti per
quelli che sono. L’uomo padrone dell’altro uomo.
Dominatore. Dominante come quasi tutti i maschi di
innumeri razze canine. Ma non bisogna lasciarsi gestire
dall’angoscia, né lasciarsi abbattere dalla realtà. Mio
nipote dispone della mia firma. Imprudentemente abbiamo
conti cointestati. Sono suo ostaggio. Si verifica quanto io
ho sempre pensato. L’uomo padrone dell’altro uomo.
Non so se Marcuse abbia mai davvero pensato che le
cose potessero mutare con la rivoluzione. Un uomo
intelligente, colto. L’ho incontrato una volta in una dacia
fuori Mosca, insieme a vecchi comunisti riciclati. Per la
verità dalle facce di beoni e dalle espressioni alquanto
rincoglionite. Ma lui era un vecchietto arzillo, pimpante.
Fumava parecchio, se ricordo bene.
Stavo quasi per dirgli che non era da lui ritenere
possibile che il mondo mutasse, e che la dominanza
potesse non essere più l’aspetto fondamentale delle
relazioni umane.
160
Poi vi rinunciai. Non ne valeva la pena. Tra poco
sarebbe morto. A che pro farlo?!
- Il sessantotto è stata qualcosa a metà strada fra
l’equivoco metafisico e l’illusione politica. Nient’altro.
Non credi?
Fu a quel punto che un fulmine attraversò la mia mente,
alla livida luce del quale si chiarirono molte cose. Seppi,
soprattutto, perché la nostra frequentazione si fosse
interrotta in un giorno lontano.
- E’ finita?
- E’ finita.
- Non ci credo...Tutto quello sgobbare...
- Ma certo: è finita!
Eravamo gli unici due a non aver né parenti né amici al
seguito. Soli all’esame di laurea. Soli con il nostro
“massimo”. Soli con una gioia, con una soddisfazione che
a quel punto appariva a entrambi... non del tutto
soddisfacente.
- Non pensavo che fosse così.
- Mm...
Anche allora Oskar poteva essere tribunizio e allo
stesso tempo moderato, o del tutto silente.
- Dopotutto doveva finire in qualche modo.
- Proprio vero.
- Sei incazzato?
- Basterà un altro amaro.
- Proprio incazzato?
- No.
- Perché Laura non è venuta? Non te l’ho chiesto prima
intenzionalmente. Non volevo che entrassi turbato...
- Io...!?
161
- Tu.
- E perché?
- Per Laura.
- Per quella puttanella?
- Cosa vuol dire?
- L’ho mollata. Oggi è il primo giorno di una vita
nuova.
L’amore è una cosa che va e che viene, avevo pensato.
Domani saranno di nuovo insieme. Magari mi chiederà le
chiavi della stanza. E’ avaro e preferisce risparmiare.
- Oggi mi sono laureato, comincia una nuova vita.
- Anch’io ho sempre pensato così. Ma cosa c’entra
Laura?
Ero stato innamorato di Laura prima di lui
- Laura è nessuno, e io voglio entrare in Carriera.
Quello lo sapevo da tempo. Una delle cose che mi avevano impressionato nella mia vita universitaria erano stati
i libri che Oskar accatastava intorno al suo letto, nella
stanzina che divideva con un compagno. Libri di storia, di
diritto internazionale, di cronaca diplomatica.
Perché lui sarebbe entrato in Carriera. Non leggo
altro, mi aveva confessato.
- Nient’altro?
- Assolutamente. Io so come si fa a entrare in
diplomazia. E voglio sfondare.
Conosceva cinque lingue, e aveva avuto una ragazza
inglese per un anno e una tedesca l’estate di quello
successivo. Per fare pratica.
“Sono esperte di lingua”, mi diceva ridacchiando. Ma
solo in seguito avevo compreso a cosa alludesse. Era stata
ingenua la mia interpretazione erotica della frase, proprio
ingenua.
162
Sedemmo per un pezzo sugli scomodi sediolini del bar,
a festeggiare in amichevole solitudine quel “massimo”
così faticosamente raggiunto.
Poi, dopo un breve erutto - l’amaro doveva aver
compiuto una delle sue misteriose operazioni nel suo
stomaco -, mi sembrò che Oskar si distendesse. Poggiasse
perfino il capo alla parete di legno. Tutte cose strane per
lui che era solitamente misurato e composto.
- E’ qualcosa che ho capito da tempo. Non bisogna dar
tregua alla sorte. Bisogna darci sotto perché l’uomo è
nemico dell’altro uomo. L’unica via d’uscita è la guerra,
perché solo la guerra ti darà la vittoria. Ti ricordi:
Nella realtà sociale, a dispetto dei persistenti
cambiamenti, il dominio dell’uomo sull’uomo resta il
continuum storico che unisce la Ragione pre-tecnologica
a quella tecnologica.
O qualcosa del genere.
Deve essere Marcuse. Quell’uomo non è mai stato il
mio forte, ma la vita è dominio, e bisogna procurarsi le
armi per dominare. Laura è una stupida illusa. Dalle lampo
troppo facili. E non è colpa mia. L’ho trovata così.
La nostra è stata solo...un’amicizia. Abbiamo trascorso
un po’ di tempo insieme. Una parte del viaggio di
ciascuno.
E sono addirittura benevolo con lei a trattarla così.
Credimi.
Ribollendo, tutto mi tornava alla memoria.
Laura, così dolce, così sensuale, e un po’ troietta...
Per me era stato un colpo di fulmine.
Quel giorno la frase mi aveva letteralmente gelato. Non
quella su Laura ma l’altra. Quella citazione marcusiana.
163
Anche perché, a rifletterci bene, costituiva la
giustificazione logica, la perfetta cornice per il
comportamento a volte strano, se non incomprensibile, di
Oskar. Per le sue fisime, le sua improvvise e apparentemente ingiustificate arroganze, la sua piccineria con la
gente di poco valore sociale. D’un tratto quello che in lui
mi era sembrato poco comprensibile si compose in un
quadro ben preciso e razionale.
Improvvisamente compresi chi fosse al cuore del suo
cuore il mio migliore amico.
Oskar era quello che aveva detto.
Il giovane rampante che mi stava di fronte in atteggiamento disteso, tanto disteso da apparire festivocampagnolo, rappresentava il suo concetto della vita. Era
un uomo in corsa per la carriera diplomatica, che se ne
fregava di tutto e di tutti, a cominciare dalla ragazza con
cui era andato a letto per due anni e mezzo - potevo tenere
i conti perché ero io a fornirgli la stanza singola e solitaria.
Oskar era di quei parassiti che si lasciano cadere in
corsa quando si accorgono che l’animale da cui succhiano
il sangue è ammalato o alla fine; un tipo di ratto
sensibilissimo, pronto ad abbandonare ancor prima degli
altri la nave che cola a picco.
Il mio amico era l’idea del dominio, della vita fatta di
servi e padroni, di schiavi e proprietari. La sua sicura
freddezza era la forza che gli derivava dall’aver
conosciuto il segreto dell’esistenza.
Il modulo dell’essere era la dominanza.
Guardandolo ancora sorridente, avevo compreso come
egli rappresentasse tutto quanto io non volevo essere, né
volevo avere per me o per gli altri. Improvvisamente la
164
sua sicura placidità eccitò in me una ripugnanza che
aumen-tava mano a mano che i minuti passavano.
Come avevo fatto a non capirlo prima?
Quello non era l’amico che avevo creduto di avere al
fianco per tanti anni.
Di Laura neanche a me importava molto oramai. Aveva
avuto davvero le lampo un po’ troppo facili, quando lui
l’aveva conosciuta. Quel fatto poteva al massimo produrre
dolore nella mia fantasia, per lei che non aveva mai
immaginato una conclusione del genere. Ma non era
quello a produrre la ripugnanza, l’avversione totale che
avvertivo nel mio intelletto, in quel momento.
Per quanto atteneva Laura, Oskar era probabilmente un
mascalzone per quei tempi. Un egoista, un mentitore, un
ipocrita. Mi dispiaceva per lei.
Ma per quanto riguardava il dominio dell’uomo
sull’uomo, e la modularità di questo aspetto riguardo al
tutto, alla vita e al mondo, ebbene era proprio questo a
costituirlo mio nemico. Non mio personale nemico, ma
piuttosto il Nemico. L’avversario di tutti coloro che come
me pensavano che il mondo umano fosse costituito da
esseri di una natura superiore, spirituale, oltre che
animalesca.
Era qui il luogo e il motivo della mia ripugnanza. Della
profonda avversione che iniziavo a sentire per lui.
Lui che era alla fine diventato l’altra faccia della luna,
l’ultima scoperta. Quella che fino a quel momento non
avevo visto, e che non avrei mai voluto vedere.
Oskar era stato serio nel dire quello che aveva detto.
Credeva in quella concezione della vita, dell’essere. E
quindi era il nemico per eccellenza.
Il suo, in fin dei conti, era un mondo di bestie.
165
Per quel motivo non avevo potuto più stargli vicino.
Mi ricordai anche delle casuali occorrenze e della deriva che non ci aveva fatto più incontrare. Avevo tirato un
sospiro di sollievo. Era oltre l’angolo, e questo mi bastava.
Ecco il perché della fine della nostra amicizia.
Guardandolo sul lettino, drammaticamente impannucciato nei preziosi lini, in una stanza che dalle candide
pareti ancora proiettava da squadrate differenze di colore i
fantasmi di antichi quadri d’autore al momento assenti,
compresi di più e meglio.
E compresi anche meglio il suo atteggiamento in quel
nostro rincontrarci. Almeno mi parve di dover reinterpretare la sua amichevole benevolenza.
Per lui io non ero nessuno. Solo una persona che si era
lasciato dietro, molto dietro, tanti anni prima. E verso cui
si rivolgeva come un uomo si può rivolgere a un cane.
C’era stata una sottaciuta condiscendenza che, se era stata
da me involontariamente favorita con la mia cortesia verso
un antico compagno che avevo piacere di frequentare dopo
tanti anni, poggiava per natura sua sulla sicurezza della
dominanza.
Anche lui, dopotutto, mi blandiva. Ma per il semplice
fatto che io non valevo nulla. Non valevo la pena. Al
momento gli costava meno blandirmi.
Potevo addirittura intrattenerlo, sedendo su quel piccolo
cesso di fortuna. E fumare i suoi sigari.
Per brevi tratti, nell’umido pomeriggio appiccicaticcio
la mia mente fu invasa dal ricordo di quegli attimi di
profonda ripugnanza che avevo provato per lui in quel
lontano giorno, nella saletta del bar di fronte all’Ateneo. E
la mortificazione di quell’approfondimento, della
166
conoscenza delle vere motivazioni e del reale sentimento
dell’altro nei miei confronti, divennero sempre più l’attualizzazione di quella lontana ripugnanza.
Oskar era ancora il Nemico. Ma ora sapevo che era
anche uno stupido, se non aveva compreso meglio la vita
dopo averne vissuto una così larga parte.
Poteva anche essere un uomo dal brillante piacevole
aforisma: “la Carriera, dopotutto, è il luogo in cui si
riuniscono tutti i punti della mia vita in cui sono riuscito a
gestire il potere che mi serviva derivandolo da quello che
mi veniva negato. La lingua della diplomazia non è falsa
o ipocrita, è soltanto una disperata forma di
comunicazione di persone che si rassicurano
vicendevolmente circa una realtà su cui non possiedono
alcun effettivo dominio, sul futuro. Si tratta di una forma
di reciproco ipnotico convincimento insieme occulto e
palese.”
Me ne aveva indirizzate tante di quelle frasi divertenti,
durante i nostri incontri.
Oskar mi disse anche che forse avrebbe navigato in
migliori acque se avesse sposato Laura.
Laura dalle cosce dolci e dalle lampo facili.
Quasi sobbalzai irritato sulla seggetta. E per un attimo
ebbi il timore che l’abitudine a rimestare nella feccia dei
piani alti gli avesse conferito la capacità di leggere nei
miei pensieri. Sarebbe stato imbarazzante essere colto in
flagrante al suo capezzale da quella specie di mummia. E,
poi, mentre sedevo su quel provvisorio cesso da campo
così poco dignitoso.
Andando via dovetti portare con me - sotto gli occhi un
po’ truci del riapparso nipote in abito scuro - un altro
167
sigaro. Questa volta Oskar mi disse che, dal momento che
non sapeva quando ci saremmo ancora rivisti, mi pregava
di accettare un leggero portasigari d’argento, oltre al
consueto sigaro. Da non fumarsi mai in latrina, assolutamente.
Tuttavia sperava di star meglio in breve tempo.
Dopotutto la vita può anche sorprenderci felicemente, pur
rimanendo quello che è. Il dominio dell’uomo sull’uomo.
E mi sorrise malizioso ma certamente non cosciente dei
miei pensieri.
Una volta in strada, mi fu facile liberarmi anche di
quello “stato allotropico” e del suo contenitore gettandolo,
unitamente al portasigari, in uno dei cestini dei rifiuti di
cui quell’opulenta parte della città era ampiamente fornita.
Era una fortuna che non fumassi da quasi vent’anni.
E per quanto modesta e piccolo borghese, a casa mia
non aveva cessi o latrine, ma una toilette e un minuscolo
bagno di servizio.
Povero Oskar! Se solo avesse immaginato la fine del
suo squisito tabacco e del suo invlucro d’argento.
Ma non mi dispiaceva che la legge contro il fumo nei
locali pubblici avesse difeso quell’aspetto della mia
privacy. Come intascare il suo sigaro quando l’avevo tanto
gradito? E come accettarlo, quando avevo desiderato
gettarlo via ancora nella sua sottile camicia d’argento?
Povero Oskar, che non avevo alcuna intenzione di
rivedere.
Di nuovo a casa sentii il bisogno di rimettermi al
lavoro. Anche se imbruniva.
O forse fu proprio per quello?
168
Ero ancora al punto in cui da una parte Locke sosteneva
che avere un’idea significava averne la coscienza, e
dall’altra Hume diceva che non esiste alcuna sostanza
spirituale, né alcuna causa.
Che le nostre attività psichiche sono tutte da ricondursi
a particolari processi associativi, e nulla più.
Altro che Io intuitivo lockiano, altro che immediatezza
della coscienza! Altro che istintiva autodeterminazione.
Ora, quale poteva essere la reazione psichica di un
uomo che, provenendo dall’innatismo, e passando sotto le
luci crude dello scientismo empirista e dell’istintiva
autocoscienza di Locke, avesse dovuto fronteggiare il
pessimismo scetticista di Hume?!
L’interrogativo era tuttora appiccato lassù, sotto le volte
del mio animo.
Dovevo lavorarci ancora, confrontare con cura quelle
accezioni dell’essere. Ma mi sembrava di essere alquanto
più vicino al traguardo, a quel punto. Stranamente vicino.
169
Rose del deserto e palle di ossidiana
Mi chiamo Andreas, ma a dispetto di questo nome
tedesco ho vissuto in Germania solo la metà dei miei anni.
Per l’altra metà bisognerebbe rivolgersi all’Italia - sia del
nord, che del sud e del centro - e alla Francia meridionale,
per ricerche che volessero ottenere ampia notizia sulla
seconda e ultima parte della mia esistenza.
Quella che ho vissuto accanto a Ermione, per
intenderci. Accanto alla donna della mia vita, a cui al
momento stringo affettuosamente la mano per confortarla.
Mia moglie ha gli zigomi fortemente arrossati e le guance
tese. Nella lieve penombra, l’acceso contrasto la fa
sembrare molto più giovane.
Ermione, io, e qualche amico intimo, ci troviamo in una
piccola stanza di ospedale che s’illumina della sua delicata
bellezza come di una luce obliqua e discreta. Questo
candido ambiente asettico è l’unica soluzione che i miei
sforzi - e quelli dei miei amici e degli amici dei miei amici
170
- sono riusciti a scovare nel momento del dolore e della
probabile separazione.
La morte - come dicono perfino i libri rosa e la
letteratura del crimine - giunge spesso improvvisa anche
se a volte non inattesa.
Essa mantiene la capacità di meravigliarci, oltre a
quella di distenderci; di stupirci, dopo quella di
rintracciarci ovunque siamo.
Penso a questo mentre nel silenzio della sofferenza,
quasi palpabile in quel limitato spazio, Ermione mi guarda
e intreccia alle mie le sue dita delicate.
La morte, un argomento a cui sono avvezzo.
Sposai mia moglie verso la fine degli anni sessanta, e
presto ci rendemmo conto che la sua delicatezza
esistenziale altro non era se non una cagionevole salute.
Ermione era un fiore dal profumo esotico, dalle carni
delicate, dalla serica pelle quasi trasparente, e dalla
sensibilità estrema e reattiva a molte, troppe cose. Ma, allo
stesso tempo, era un fiore la cui corolla poteva essere
facilmente lacerata dai venti della vita.
Ce lo disse chiaramente il nostro amico e medico di
famiglia, Oreste Degas, fuoriuscito algerino che aveva
preferito la nostra città di provincia alla lama d’acciaio
con cui in patria venivano giustiziati i traditori
collaborazionisti. Una pugnalata nel petto, o un deciso
colpo trasversale che sgozzava chi doveva essere
eliminato; oppure, in mancanza di comoda intimità al
momento fatidico, una rivoltellata in pieno viso in una
stradina del souk.
Considerando le radiografie di Ermione, o il conteggio
delle mie piastrine, Oreste ci aveva raccontato tutta la sua
171
vita e la sua disgrazia. Ma anche tutto il suo dolore per
aver dovuto lasciare la bella Algeri il giorno che fu,
quando si accorse che stavano affilando per lui il coltello
dall’acciaio ricurvo e dall’impugnatura tondeggiante; così
come stavano certamente anche caricando la famosa
rivoltella: non si può mai sapere!
La rivoluzione deve andare avanti.
Tutto ciò ci aveva disposti bene nei confronti del
medico algerino. Era un giovane simpatico, un valido
professionista. Personalmente gli avevo affidato la salute
cagionevole di Ermione, unitamente alla mia capacità di
coagulare.
Avrebbe fatto del suo meglio. Almeno lo speravamo.
E poiché lui aveva certamente bisogno di aiuto nella
nostra piccola città, anche noi avremmo fatto quello che
potevamo. Intanto gli avevamo offerto la nostra amicizia.
Dopo averci narrato la sua storia, e averci fornito in un
certo senso le credenziali del suo lavoro, Oreste aveva
anche chiesto a mia moglie - con galanteria mediterranea e
allo stesso tempo da centesimo arrondissement parigino se il nome le venisse, in un certo senso, dalla gente di
Menelao o direttamente dall’Olimpo.
Ero rimasto perplesso.
Sapevo come mia moglie aveva ascendenze in
Provenza, due zii nella Saar, e un lontano cugino a
Milano, in quella parte della città che per prima fu
rovistata dai Lanzichenecchi, quella volta. Ma non avrei
mai sospettato che la sua famiglia potesse lambire il
mondo greco antico; o addirittura essere collegata ad esso
sia sotto forma di Atridi che di divinità olimpiche.
E quell’uomo che veniva dalla “provincia d’oltremare”,
come aveva detto De Gaulle, era lì a leccarci il naso con
172
notizie sulla classicità? Che era dopotutto un patrimonio
occidentale, ormai, più che mediterraneo.
Sì, lui aveva un famoso cognome francese, ma i veri
occidentali eravamo noi. Me lo confermavano ad ogni
momento i suoi occhi vivi e mobilissimi, due tizzoni
ardenti evidentemente divertiti dallo spettacolo della vita.
Oltre che lievemente preoccupati per i valori delle analisi
di Ermione; e per il conteggio dei miei globuli, sia rossi
che bianchi.
Oreste si era spiegato. La classicità mediterranea è
ripetitiva oltre che complessa. Aveva inteso informarsi se
mia moglie Ermione fosse Ermione-Armonia, figlia di
Marte e di Venere, e poi sposa di Cadmo. O, piuttosto, si
chiamava così perché la mamma e il papà l’avevano messa
sotto la protezione di Menelao e di Elena?
Difatti di Ermione ce ne erano ben due di importanti,
nell’antico mondo greco.
Lui, Oreste aggiunse, avrebbe preferito la seconda
versione, per quanto imbarazzante potesse risultare.
Ermione degli Atridi aveva di fatto sposato un Oreste - il
“suo” Oreste -, quando Pirro figlio di Achille le aveva
preferito Andromaca.
A quel punto del nostro incontro in fondo alla veranda,
dove nel clima torrido il whisky con ghiaccio si
corrompeva morbidamente intiepidendosi, il nostro
medico sorrise e disse che ne sarebbe stato davvero
onorato. A parte il rispetto che intendeva mantenere per
entrambi noi, suoi nuovi amici; ma pure nell’ammirata
considerazione di una così bella signora, mia moglie.
Appunto in una delle stagioni più luminose della vita.
173
Dimenticavo di dire che Oreste era stato da noi
convocato non proprio al capezzale di Ermione ma quasi,
per leggere delle radiografie un po’ preoccupanti da lei
fatte recentemente.
Concludendo, Oreste ci aveva detto che Ermione stava
bene. Le radiografie non significavano quasi nulla. Si
tenesse lontana dalle correnti d’aria, riguardata nel
costume - durante le serate estive era necessario che
indossasse almeno uno scialle di seta -, e andasse avanti
per la sua strada.
Le donne sono forti, fortissime. Altrimenti domineddio
non avrebbe affidato al loro la continuazione della specie
in modo particolare.
Anch’io dovevo stare attento. Essere preciso
nell’assunzione delle madicine e costante nelle analisi. Le
piastrine andavano tenute sotto controllo. La mia emostasi
dipendeva in buona parte da loro.
A dirle così, le cose sembrano uno scherzo. Ma non vi è
nulla nella vita che sia davvero uno scherzo; specialmente
quando si tratta di vite intrecciate nell’amore e nel
matrimonio, come erano le nostre.
Le radiografie di Ermione mi avevano preoccupato, al
contrario delle mie piastrine, che mi sembravano
un’assoluta castroneria. Bastava vedere il nome: piastrine.
Non vi è malattia seria, che io ricordi, nel cui nome siano
implicate queste piastrine. Per Ermione la cosa era diversa.
Mi era sembrato di leggere un certo tremore nella voce del
giovane medico, mentre le spiegava aspetti della sua
condizione.
Quel timbro profondo, parlando vibrava, dicendo si
tradiva. Ermione, il mio amore, la vita della mia vita...
174
Fu quella la prima volta in cui io pensai seriamente alle
seconde nozze.
Di fatto, agosto d’un tratto s’accasciò sotto il peso del
suo caldo rovente, e si ruppero molte brocche lassù in
cielo. Così che, giunto settembre, buona parte del lavoro
era già stata fatta dal giardiniere. L’estate era un ricordo,
una breve memoria e nulla più.
Dal canto suo, Ermione prese a tossire.
Riconvocammo Oreste, che giunse a spron battuto.
Dov’è la bella signora? La padrona della casa, la
splendida ospite d’una storia lontana e greca in cui io ero
l’uomo più fortunato della terra?
Per fortuna si trattava soltanto di un problema apicale
di poca importanza. Potevamo stare tranquilli. Non vi era
motivo di temere. Ed Oreste, dopo averci convinti in due ma forse anche in tre -, me lo ridisse quando fummo soli
mentre l’accompagnavo alla macchina, un bolide rosso
appena immatricolato.
La faccia riposare. La tenga calma. E’ una donna molto
delicata. Bisogna prendersi cura di fiori del genere, se per
caso ce ne capita uno nel nostro giardino. La massima
cura.
Ed io stavo pensando a ribellarmi a quella espressione,
“per caso”, quando il coupè schizzò via in maniera
inattesa. Così d’improvviso da far pensare a una scortesia,
se non fossi stato certo della sua non intenzionalità.
Fu allora che fui sorpreso per la prima volta dall’idea. E
se Ermione fosse morta?!
Cosa sarebbe accaduto se mia moglie mi avesse
lasciato, se fossi rimasto d’improvviso solo?
175
Non che la nostra fosse la più tenera delle età, ma ero
ancora giovane. E delle mie analisi, per la verità, me ne
fregavo altamente. Si sarebbero messe a posto per conto
loro, come capita da sempre.
Ma cosa pensare, a quel punto, di Ermione?
E, soprattutto, cosa fare?
Costanza era una mia lontana cugina, persa di vista più
o meno all’epoca del mio matrimonio. Una creatura
particolare, che univa alla bellezza classica della famiglia
di sua madre una tendenza all’introspezione, che
certamente le veniva da quella di mio padre, fratello di suo
padre. All’epoca del nostro fidanzamento - mio e di
Ermione -, anzi un po’ prima, avevo addirittura pensato di
sposarla. Una giovane donna riflessiva, e che allo stesso
tempo aveva un seno bello e fresco, non mancava di
attrattive per la mia età.
E poi le famiglie si conoscevano. La madre era di buon
carattere, chiamata da tutti i parenti familiarmente
“boccioni” per il petto florido che ancora esibiva, allorché
la figlia aveva da poco passato la ventina.
Il futuro non mi era sembrato tanto male con lei. E quel
particolare anatomico, unito alla sua affidabile riflessività,
avrebbe potuto farmi innamorare seriamente se Ermione
non fosse d’improvviso comparsa all’orizzonte.
Ma ora che la salute della mia diafana moglie
minacciava l’orizzonte, cosa fare di meglio se non
informarsi su quale fosse stato il destino della fresca e
dolce Costanza, dal petto sodo e generoso, e la mente in
un affidabile continuo quanto silenzioso sobollimento?
Costanza era stata certamente innamorata di me in quel
periodo, e il suo trasporto mi aveva quasi convinto a
176
gettarmi fra le sue braccia. Si era trattato di una questione
di giorni. Se Ermione non fosse comparsa nelle due
settimane successive al nostro ultimo incontro, certamente
io le avrei chiesto di sposarmi.
Da cosa nasce cosa. Ero sicuro che un po’ la sua
silenziosa intelligenza e un po’ il seno espressivo ci
avrebbero spinti al grande passo.
La porta della piccola stanza si aprì. Gli ospedali, come
d’altronde le cliniche private dei vari noti falchi e
girifalchi, hanno un che di misterioso e continuamente
inatteso che accade... di continuo.
L’infermiera doveva ritirare la sacca in cui si
depositavano le poche urine che il tempo ancora distillava
tremebonde ed incerte. Strinsi la mano di Ermione. Il
futuro, ebbene il futuro davvero non si conosce. Lo pensai
e cercai di dirglielo con lo sguardo, mentre lei con dolce
fermezza liberava le sue dita dall’intreccio con le mie.
Oreste, un po’ imbarazzato, ci guardava sottecchi. Mi
dissi che la medicina è spesso benevola con i pazienti
svelando i misteri dei loro mali, ma è anche spesso
malevola con il personale medico e paramedico,
sollevando la coltre di misteri diversamente piacevoli,
dissacrando a volte la bellezza delle loro visioni.
Poi la giovane infermiera fu via con la sacca gialliccia.
Dopo la ormai lontana visita di Oreste, avevo pensato
molto a Costanza e alla possibilità di rimanere vedovo. E
quindi di dovervi provvedere per tempo.
Il ricordo di mia cugina aveva cominciato a imperversare nella mia fantasia di notte e di giorno.
177
Per la verità, me ne sentivo colpevole, “macchiato”. Mi
consideravo un immondo demone. Ma il petto fresco di
Costanza aveva preso a imperversare nella mia
immaginazione, a partorire idee ed erotismi neanche
allontanati più di tanto dai brevi secchi colpi di tosse della
povera Ermione.
Era scattata qualcosa che aveva il profumo, se non
proprio il sapore, della novità; e che aveva
improvvisamente rinnovato il mio antico interesse per
quell’articolo femminile che, sposando Ermione - una
splendida silfide -, avevo dovuto un po’ mettere da parte.
Quei seni comparivano dappertutto. La lattaia ne aveva
due uguali, e così la figlia del tabaccaio, mi dissi una volta
mentre mi consegnava una scatola di sigari olandesi. Alle
corse c’erano sempre un paio di signore che, in quei
momenti di campestre alleggerimento della mia angoscia e
insieme della noia, ne esibivano un paio notevoli. Tosti,
perfettamente inguainati; e sembrava anche facilmente
“solvibili”, sciolti da quelli che immaginai dovevano
essere i morsi della guepiere, se mai avessi voluto
intraprendere tentativi a quel riguardo.
Ma ero un marito fedele. Lo ero e lo sono ancora. Altro
è procurarsi una moglie perché quella che si aveva non c’è
più, altro è tradire la compagna della mia vita. L’essere
con cui mi sono scambiato promesse di fedeltà. E mai i
“boccioni” con cui sono entrato in casuale contatto hanno
avuto modo di fare breccia nella mia vita sentimentale, di
indurmi a tradire.
Ed è stato meglio così.
Fatti i miei conti, decisi di recarmi a Verona per mia
cugina, luogo dove aveva sempre vissuto. Ma, in seguito,
178
a indagini fatte, venni a sapere che Costanza era convolata
a giuste nozze ancor prima di me.
E che non era venuta al nostro matrimonio perché, dopo
cinque mesi dal fatidico capodanno in cui avevo incontrato
Ermione, le era nato un bel maschietto.
Perbacco! Fu una vera delusione.
Inoltre, a causa di una troppo semplice matematica,
dovetti ammettere che Costanza, sebbene “evidentemente”
illanguidita di me, quella volta di tanto tempo prima,
aveva giocato per certo su due tavoli. Per parlare solo di
tavoli. Ed era evidentemente rimasta incinta di qualcun
altro mentre, abbracciandomi teneramente, appuntava lo
sguardo riflessivo nei miei occhi sognanti.
Per fortuna Ermione non sospettò mai nulla. Anzi, al
ritorno, dopo sette giorni, mi parve che l’assenza - che
avevamo temuto potesse risultarle di fastidio, se non di
vero nocumento - le avesse consentito un po’ di riposo,
una certa distensione. E mi attendeva eccitata.
Insomma, si trattava di un momento sentimentalmente
fortunato, ci dicemmo ritrovandoci.
Il mio amore riprese a star meglio. Riguadagnò il colore
dei petali, la freschezza del sorriso. Oltre a un certo
interesse sessuale che per un po’ aveva languito, a dire la
verità, probabilmente a causa della sua ammalata
stanchezza.
Credo che a ciò avesse voluto alludere Oreste,
parlandomi di una possibile depressione ormonale di mia
moglie, causata dai suoi malesseri.
Questo ancor prima della mia partenza.
Ma non ne sono sicuro. I medici è difficile capirli.
D’altro canto, essi non sono come i maestri. Non devono
179
farsi capire ma piuttosto risolvere i nostri problemi.
Devono fare.
Tuttavia Costanza, sfiorita come possibilità futura, e
personalmente anche un po’ sputtanata dal suo modo di
fare, era stata solo la prima delle possibili sostitute della
mia amata Ermione. Ammetto che la mia mente fosse
subito ricorsa a lei nel momento del bisogno. Ma ve ne
furono altre, a cui però giunsi con maggiore fatica.
Colette sopra tutte è rimasta nelle maglie rosa dei miei
ricordi.
Finché Ermione stette bene in salute, finché prese
qualche chilo e si interessò del nostro amore, tutto andò
per il meglio. Ma poi, trascorso qualche anno, la sua
astenia si ripresentò, la sua tosse si fece risentire. E Oreste
ci disse che aveva bisogno di una cura, oltre che di essere
lasciata un po’ in pace dagli obblighi della casa, dagli
impegni del tran tran quotidiano, e anche forse dalle miei
moine.
Bastò quello.
D’improvviso fui riagguantato dal timore. L’antico
pericolo della solitudine in cui la sua morte mi avrebbe
ricacciato mi si rifece accosto. E in quella prossimità io
ebbi ancora paura. Il mio animo ancora fremette.
Cosa sarebbe accaduto alla dipartita di Ermione?
Ero letteralmente terrorizzato dall’idea. Bisognava fare
qualcosa, essere previdenti. Provvedere.
Anzi, questa volta fui quasi agguantato dalla
disperazione. Erano passati altri sette anni della nostra vita
matrimoniale. Io non ero più un ragazzo. Poche donne mi
guardavano per la strada con interesse, e sempre meno
giovani. Ma le mie pulsioni erotiche sembravano essere le
180
stesse, seppur in una vita sessuale che si era un po’
diradata, in particolare - quale coincidenza! - nel periodo
che era culminato con il rinnovato malessere di Ermione.
L’idea continuava a tormentarmi: cosa sarebbe stato di
me, se Ermione...? Se mi avesse lasciato a sognarla per le
notti a venire nella candida quasi trasparente guaina della
sua pelle, che qui e lì mostrava le diradate fantasie del suo
sistema venoso...?
Bisognava ripensare a una seconda moglie. Provvedere
nel prevedere. O prevedere per provvedere?
Comunque, dovevo darmi da fare.
Questa volta, tuttavia, non mi lasciai affascinare dalle
piacevolezze di un corpo eccitante. Le forme muliebri
hanno un che di labirintico in cui ci si perde
piacevolmente, è vero, ma le loro qualità “afrodisiache”
sono in un certo senso “generalizzanti”. Intendo dire che
perdersi nell’appeal del loro corpo, soggiacere alle
attrattive che presiedono più immediatamente alla
continuazione della specie - seni, fianchi, eccetera -, può
farci smarrire in “labirinti” molto frequentati.
Al limite, potremmo trovarci a dover fronteggiare un
piccolo esercito di Minotauri.
E questa è una cosa per nulla gradevole. Nient’affatto.
Almeno per me, e in un vincolo matrimoniale come era
quello che io volevo stringere. Dunque bisognava lasciare
da parte i seni promettenti, rinunciare alle nervose gambe
su tacchi a spillo. Specialmente se spuntavano da
vertiginose minigonne.
Quella volta mi concentrai sul volto. Qual era la donna
che eventualmente avrebbe potuto prendere il posto di
Ermione, in occasione della sua dipartita? S’intende, fra
181
quelle che conoscevo, o almeno che s’aggirassero nel più
immediato habitat. Bisogna essere concreti. Non si può
andare a cercare una nuova moglie, nel mondo moderno,
mentre quella che abbiamo accanto deperisce e se ne va.
Non c’è l’occasione , e non c’è n’è il tempo. In pratica,
non ce n’è il modo.
Alla fine riuscii a focalizzare un viso insieme noto e
affascinante. Ma non si trattava di una vera conoscenza.
Era una giovane vedova - così mi assicurò il giornalaio che abitava nei pressi della stazione, e che, di tanto in
tanto, per motivi a lui ignoti gravitava nel nostro quartiere.
Aveva un volto delizioso. Mi ricordava qualche viso del
Pollaiolo. Una morbidezza di tratto che ridondava
certamente sul suo carattere. Una sorta di purezza che, se
era anche un po’ amara, investiva il suo sguardo
rendendolo terribilmente attraente.
La stessa Ermione, una volta che eravamo insieme al
supermercato per il rifornimento quindicinale, me la fece
notare.
- Non ti ricorda qualcosa, qualcuno?
Stavo per risponderle, ma riuscii a trattenermi e a
cederle il passo nei percorsi della conoscenza pittorica,
mia e sua. Limitata quanto si voglia, ma in quel caso
irresistibile.
- Pollaiolo... Mi ricorda il Pollaiolo.
Mi sembrò un’avvisaglia del destino. E per quanto
conoscessi il Pollaiolo, e i “nidi” da cui a volte Colui
chiamava le sue modelle, la cosa mi convinse.
Il civile e pressoché abituale sorriso di Ermione si era
illuminato d’improvviso. E, assentendo a fior di labbra,
avvertii un turbamento. La gioia della mia deperibile
182
moglie si era rinnovata proprio nell’individuazione di quel
volto che forse apparteneva a colei che l’avrebbe
sostituita.
Una volta che fosse morta, s’intende.
E giunsi a concepire l’occasione come un preciso segno
della sorte. Era quella la donna che mi avrebbe impedito di
cadere nella solitudine, nell’amarezza della vecchiaia.
Nell’assoluto decadimento dell’anima e del corpo.
Dovevo conoscerla.
Le donne dal volto affascinante hanno un che di
misteriosamente imperativo. Esercitano un dominio
segreto che solo loro conoscono. Non imponendosi con
articoli appariscenti come tosti freschissimi decolté, o
gambe da capogiro; il dominio che esercitano è sottile e
nascosto. E deve rimanere tale. Le loro attrattive non sono
esercitate su alcuni aspetti del nostro desiderio, ma si
rivolgono cogenti alla fantasia e alle attraenti nebbie
dell’animo. A quei brandelli di realtà che, pure imperiosi,
sfuggono allo sguardo diretto. Non si impongono
all’immaginazione erotica ma suscitano nel nostro animo
un diverso possibile mondo, quello dei sogni e
dell’irrealtà. Ma quale cosa è più affascinante dell’irreale
volto di una bella donna?
Il vincolo che così si instaura è quasi spirituale, affidato
com’è a quella parte così nobile del corpo umano. E anche
in un certo senso arcana, che è appunto il viso,
l’espressione.
La curvatura delle labbra, la linea delle sopracciglia...
L’intimità può far scoprire l’importanza di ciglia
lunghissime. Le fossette ai lati della bocca, poi, sono veri
trabocchetti per i frequentatori di ricercate sensualità.
183
E le orecchie piccole hanno un richiamo anch’esse
erotico. E così, per noi occidentali, gli zigomi alti,
unitamente alle espressioni più o meno segretamente
feline.
Per non parlare di narici frementi, e del fiato caldo che
d’improvviso
c’investirà,
insieme
inatteso
e
inimmaginabile dalle labbra socchiuse.
Un volto è un mondo, un mondo di sogni. Ed io mi
persi nel comune futuro a pensare a quel mondo, in modo
particolare quando a maggio Ermione prese di nuovo a
tossire.
- Credo di essere allergica. Forse quindici giorni il
collina.
Una breve frase in cima a un ancor più breve ridere.
Io la guardavo e assentivo. Immaginavo che il nostro
amico Oreste l’avesse indotta all’invenzione di quell’
allergia per renderle le cose più facili, più accettabili.
Perché il volto di Ermione a volte si sbiancava. Ed io ne
provavo pietà insieme a una curiosità un po’ malsana.
Quanto sarebbe ancora durata? Fino a Ferragosto? O a
Natale? Si poteva pensare a Capodanno?
Dovevo sbrigarmi. Bisognava mandarla in collina.
Per quanto mi riguardava, avrei trascorso quel periodo
facendo ricerche in città sulla giovane vedova.
Una sera decidemmo il da farsi insieme ad Oreste. E il
mattino successivo passammo tutti e tre per la farmacia e,
dopo aver acquistato i necessari medicinali, accompagnai
Ermione in collina. Due giorni con lei e fui di ritorno.
Si era aperta la caccia per il mio futuro.
184
La zona alle spalle della stazione ferroviaria delle
grandi città è spesso una zona malfamata. Anzi, alquanto
malfamata.
A pensarvi mi commossi.
Un volto del Pollaiolo in una zona sospetta era già una
cosa triste. Un’ombra dolorosa su quei lineamente sottili,
affilati, deliziosamente scolpiti.
Se poi pensavo a quel volto nobilissimo contro lo
sfondo di una zona solitamente frequentata da prostitute,
effeminati e spacciatori, la cosa mi turbava tanto da farmi
venire meno il cuore.
Come avrei potuto pensare a lei in quei luoghi, intanto
che Ermione trovava il modo e il tempo di spegnersi?
Come avrei fatto?
Come avremmo fatto, noi?, se mai fossi riuscito a
contattarla e a farle intendere la profonda attrazione che
sentivo per lei. Il profondo bisogno che la mia vita aveva
di lei per essere.
La sua era una piccola fiaccola, ma anche una viva
torcia a cui rinfocolarmi per gli anni - forse anche troppi che ancora avevo da vivere.
L’assenza, il vuoto, è ciò che ci distrugge.
Proprio in questo momento sento che il vuoto mi
prende. La mano di Ermione si fa pesante come il
piombo. E il mio stesso mento scivola verso il petto.
Vorrei vegliare, vorrei guardarla, parlarle, dirle tutto il mio
amore...
Ma non ce la faccio.
185
Ritengo il risveglio una delle cose più singolari della
vita. Davvero la fine di una piccola diuturna morte, come
si dice in alcune religioni.
A me accade sempre come se fossi in una sala
cinematografica, e mi fossi appisolato durante la
proiezione. Anzi, fra un tempo e l’altro. Senza riuscire mai
a svegliarmi allorché la seconda parte del film inizia. C’è
sempre qualcosa che mi sono perso. Mi sveglio un po’
dopo, quasi in un’altra storia. Nella storia che è andata un
po’ troppo avanti, per la verità. Mi ci raccapezzo solo a
fatica.
Ci vuole del tempo. Ecco, proprio così.
L’amicizia di Oreste Degas ha avuto delle
caratteristiche sue proprie. Non ho, anzi non avevamo mai
avuto una reale frequentazione con gente che provenisse
dal mondo ex-coloniale.
E’ un mondo strano. Un mondo di parvenues, ci dissero
una volta degli amici che erano solitamente derubati
all’uscita dal teatro da gente che loro chiamavano
apaches; e la cui casa era stata ripetutamente svuotata
mentre loro erano a teatro.
Un mondo di parvenues, tuttavia, molto bene attrezzato.
Terribilmente attrezzato. Come loro stessi potevano
testimoniare.
Nel caso d’Oreste, un medico non più giovanissimo,
che nel tempo si era scavata una discreta piccola miniera
di pazienti, era diverso. Lui non doveva rubare nulla a
nessuno. Era un topo nel formaggio. La civiltà occidentale
è corrotta e pullula di malattie. A volta addirittura
infettive, esantematiche, o immaginarie. E immaginarie in
molti modi perché la nostra civiltà è ammalata di sazietà e
186
illusioni. Qualcuna di queste malattie è inguaribile. Ma il
medico ci vuole lo stesso.
E, comunque, non esistono malati davvero immaginari.
La più volatile delle facoltà umane, la fantasia, in campo
medico esige un “giustamente considerevole cachet”.
Le malattie inguaribili, poi, sono addirittura le più
lucrose. Morire nelle mani del proprio medico è tanto
difficile per un ammalato grave che spegnersi fra le
braccia di un’amante di vent’anni.
Una cosa di per sé quasi inattuabile.
Oreste era diverso. Decisamente diverso dai pirati più o
meno metropolitani che la storia ci ha consegnato. Dagli
apaches dei nostri sfortunati amici. Vi era inoltre una
dimensione culturale nella sua esistenza che tendeva a
espandersi. Come sembra che lo stesso universo faccia,
almeno così si dice da un po’ di tempo a questa parte. Una
cosa misteriosa, di cui ancora non sono venuto a capo.
Insieme a miliardi di altre persone, immagino.
Tale espansione del medico coinvolgeva anche gli
amici. Ermione e me, nella fattispecie che più mi era
consueta.
Oreste aveva il pregio dell’affabulazione, l’abilità di
raccontare. Di raccontarsi e di raccontarci della sua terra.
Della sua civiltà. Del dolore e del sangue sparsi in Algeria.
Ma faceva tutto ciò con una tale grazia e intelligenza da
lasciare nell’animo di chi lo ascoltava sentimenti di
rimorso e di esigita giustizia.
- L’Algeria è il mio amore. Ed io affondo le mani nella
vostra terra per cercare un amore eguale, ora che essa mi è
stata strappata per sempre.
Amor con amor si paga? Non è forse così che dice il
Poeta?!
187
Ma certo che il Poeta diceva così.
La cultura di Oreste era internazionale. Citava perfino
Ezra Pound. Una volta, lo sorpresi addirittura a ripetere
cantilenando alcuni versi di Ginsberg, mentre era da solo a
tavola, al mattino. Bivaccavamo nella nostra casetta di
campagna, un tetto che a stento si mantiene in piedi,
assolutamente inaffidabile, e Oreste, paludato in una
vestaglia di soie japonaise, era davanti a un piatto di uova
strapazzate, sua abituale colazione.
...mentre l’India divorava rabbiosi cani gonfi di
pioggia...
mai più l’uomo timorato di Dio porrà piede in quei
luoghi per il fetore delle putrefatte uova d’America...
Gli chiesi se qualcosa non andasse nella colazione
preparata per lui dalla cura di una campagnola giovane e
dalle chiappe sode. Ma lui rispose che si trattava soltanto
di poesia. Le uova nel suo piatto erano deliziose e cotte a
puntino. Si scusava, inoltre, per la certamente imprecisa
citazione. Non era più un giovanotto.
Aveva dieci anni meno di me e cinque meno di
Ermione, il nostro Degas.
A me non dispiace se, al risveglio, la mia mente vaga
un po’ e , mentre tiro su il mento, Oreste e le sue storie mi
tornano vivide alla memoria. Il francese, dopotutto, ha
arricchito la nostra vita. Oltre ad essere stato il primo ad
avvertirmi di possibili sgradevoli conseguenze, i-e. di un
evento patologico relativo ai miei valori ematici.
In modo particolare l’ha arricchita da un punto di vista
politico. Dell’immaginazione politica.
Fuoriuscito degli anni settanta, Degas andava
continuamente su e giù per la sua storia. Per la storia del
188
suo paese voglio dire, dell’Algeria. L’ombelico di tutta la
faccenda era tuttavia molto mobile. Una volta si trattava
degli accordi di Evian del ’61, in cui, a detta di Oreste, De
Gaulle non se ne era fregato nulla dell’Algeria ma aveva
piuttosto voluto pensare ad ottenere un forte potere
direzionale all’interno delle forze che guidavano la
Francia; un’altra volta era il tormento delle opposizioni,
anzi il tormento della violenza.
La democrazia nei paesi ex-coloniali stenta ad
insediarsi senza aver inzuppato abbondantemente il sacro
suolo con il sangue causato dai diversi estremismi, o,
meglio, dagli opposti desideri di potere - piuttosto che di
libertà. Ma questo è normale, appartiene alla fisiologia
della violenza.
L’Algeria, in altri termini, era stata martire della
Francia, poi martire di un De Gaulle estremamente
cosciente dei pericoli interni della Francia di quegli anni; e
infine era martire di se stessa e del suo fondamentalismo.
Lo stesso Massù, fedele seguace di vecchia data di De
Gaulle, non aveva potuto continuare a combattere per
l’Algeria francese. Ad un certo punto i due amici avevano
dovuto spezzare l’antico sodalizio.
Lui stesso, Oreste, era un martire.
Lui che era un fiore del futuro, che avrebbe potuto
essere l’innesto perfetto del souf algerino sulla odierna
cultura occidentale, era piuttosto una sorta di sgorbio.
Quasi un aborto.
Piuttosto che un essere splendido con i piedi nell’acqua
che scorre sotto la pelle del deserto algerino, e la testa nel
fuoco del sole d’Africa - come deve essere una rigogliosa
palma -, lui era un disadattato con i piedi nello sterco dell’
189
odierno mondo consumistico, e la testa esposta alle
temperie di un inconsistente pensiero moderno.
Di una logica che da tempo non era più tale.
Lui stesso non era più colui che era stato, confessò una
volta. Il vero algerino ha palle di ossidiana e calcoli come
rose del deserto. L’uomo d’Algeria è un uomo forte che
soffre vivendo.
Spesso io mi commuovevo - e così Ermione - a quelle
sue sfuriate, a dire il vero un po’ maturate dal vino
borgognone della nostra cantinetta. E mi perdevo con lo
sguardo fissando a tratti i suoi piedi momentaneamente
privi delle costose quanto disdegnate scarpe di
coccodrillo; o sulle sue dita capaci di giocherellare per ore
con un accendisigari d’oro che aveva pagato - a suo dire con gli emolumenti di alcuni mesi di professione.
Perché Oreste Degas, pur odiando de Gaulle che in
definitiva aveva scaricato le responsabilità francesi negli
affari algerini su altri, ad Evian nel ’61, aveva una
grandeur che da nessun altro poteva aver imparato se non
dal grande vecchio di Francia. Dal condottiero che dai
mari internazionali aveva raggiunto le aquile hitleriane
con gli spruzzi del suo disdegno.
Oreste è fatto così. Medico e demone belligerante in
cuor suo; appassionato quando moderno democratico - a
parte l’abolizione delle elezioni in cui il FIS aveva vinto -;
e amante di innumerevoli donne velate, a suo dire da lui
disvelate, quando ancora era in Algeri. Per lui patria
dell’amore, di ogni amore.
In fin dei conti, anche degli amori che avrebbe poi
incontrato in Francia.
Perché amor con amor si paga: non è così?!
190
Quando finalmente riuscii a provocare un incontro, il
bel volto del Pollaiolo mi era diventato tanto familiare per
i numerosi appostamenti, per le sue rivisitazioni nel
segreto della memoria, per la sua quasi-fruizione al cuore
delle mie fantasie e delle mie speranze, che, sedendole di
fronte al tavolino del bar, mi parve di conoscerla da anni;
di avere già alle spalle una lunga frequentazione della sua
bellezza.
- Non so se sono davvero interessata a una nuova
assicurazione.
Da vicino aveva anche un buon profumo. Che saliva su
dai capelli ben curati. O forse dal seno. Piccolo ma ben
fatto. I seni piccoli durano di più. Anche quelli di Ermione
erano piccoli, e si erano mantenuti bene fino a quel
momento.
- Non è una semplice assicurazione E’ un’operazione
finanziaria che comporta anche un fatto assicurativo sulla
vita. A vantaggio di chi lei vorrà indicare, e per un limitato
importo. La parte più interessante è quella finanziaria. In
effetti è un investimento che rassomiglia a
un’obbligazione.
Nell’ufficio postale vi era un invitante manifesto che
avevo già sguardato più di una volta. E per averlo
leggiucchiato in tal modo, ora ne conoscevo il contenuto
quasi a memoria. Praticamente Investimenti di Stato. A un
tasso quasi fisso. Per gonzi che non sapevano cosa fosse
un borsino, o per gente che non voleva farsi togliere anche
le mutande dal borsino sotto casa.
Vi potevano essere, tuttavia, dei vantaggi, avevo
ammesso con una certa provocatoria serietà.
191
Era così che avevo iniziato la nostra conversazione. In
una fila alla posta, di fronte al manifesto di lancio di quei
titoli.
Al momento ho fretta, e non potrei spiegarle meglio.
Ma questo pomeriggio...Spesso prendo un caffè al bar qui
all’angolo.
Lei mi aveva fissato con il suo sguardo insieme dritto e
modesto. Era possibile che si fosse fermata con lo sguardo
sul mio Rolex, intanto che mi passavo una mano sulla
fronte? E poi mi aveva detto: Anch’io prendo l’ultimo
caffè in quel bar. Ma la sera.
- Ci rivediamo, allora. Verso le otto?
- Verso le dieci, ma domani.
Uscendo dalla posta qualche minuto dopo di lei, che mi
precedeva di un paio di persone, credetti di poter svenire
dalla gioia.
Era stato facile, essenziale.
E mi parve di avere un breve ma consistente capogiro.
Ma forse era dovuto alla differenza fra l’aria condizionata
dell’ufficio e il tepore marcio che saliva dal prato. La
figura della donna, ancora visibile in lontananza, parve
salutarmi con una breve ritmico cenno dei fianchi svelti.
Avevo mai visto dorsi di Pollaiolo? Alcuni si
specializzano su determinati aspetti e particolari anatomici
del corpo umano. A casa avrei dato uno sguardo a qualche
libro d’arte, indagato sulle schiene di Colui.
Ma allorché la mia mente si soffermò sul concetto
d’immagine, d’improvviso vi fu qualcosa che
nell’incoscio si mosse. Come se un problema irrisolto
tentasse di salire a galla da laggiù.
Sul momento non riuscii a venirne a capo, ma la sera,
mentre Ermione si spogliava e discutevamo insieme di una
192
prossima eventuale visita di Degas, la grossa bolla
compressa nella memoria prima tremò e poi esplose
nell’atmosfera quieta della mia mente già disposta al
sonno.
Era lui dunque!?
Nel manifesto dell’operazione finanziario-assicurativa
vi era la fotografia di un grottesco uomo dagli stranamente
noti baffetti che diceva: Lo guardo io il vostro denaro!.
Penso sempre agli interessi della Francia. Mi ero chiesto
chi fosse quel viso familiare, ma lì nell’ufficio delle poste
non ero riuscito a ricordarlo. Forse anche perché la mia
mentre era tutta presa dal volto a qualche metro da me.
Ma ora lo sapevo. Era Massù. Il famoso comandante
dei paracadutisti che aveva dato sì buona prova di sé prima
a Suez e poi ad Algeri.
Nel badare agli interessi dei francesi.
Dissi a Ermione di quello strano incontro postale con
Massù, mentre andavo a comprare dei francobolli, e ne
ridemmo insieme.
Trovata bene quella frase: Penso sempre agli interessi
della Francia.
Comunque non era il caso di investire in quel modo. I
consulenti di Ermione sapevano certamente far di meglio,
con tutto quello che lei pagava. Poi ci demmo la buona
notte.
Quella sera chiusi gli occhi con in mente il sodalizio fra
Massù e De Gaulle, che in Algeria aveva retto così bene
fino al momento in cui Nasone aveva cominciato a
pensare che era il momento di salvare la Francia, piuttosto
che l’Algeria.
Ma erano poi vere le storie degli electrochoc ai testicoli
dei prigionieri, laggiù fra le dune infuocate, nei patrii
193
sotterranei? E Massù aveva avuto nulla a che fare con tutto
ciò? Si dice qualunque cosa della gente in vista. Dei
militari sul teatro d’operazioni più che degli altri.
La gente vorrebbe fare la guerra con i cioccolatini, e
rimane scandalizzata quando sente parlare di sangue. O,
nel caso degli electrochoc, di arrosti.
Il giorno successivo vissi di eccitazione fino a sera
inoltrata.
Parte della mia vita era in gioco, tutto il futuro ancora
possibile. Si trattava delle seconde nozze, e francamente
non volevo fare una brutta figura. Per gli aspetti fisici del
possesso vi sono farmaci moderni che aiutano, stimolano;
sostengono validamente, sembrerebbe. Ma gli aspetti
spirituali dell’attrazione non possono essere manipolati.
Qui sta la differenza con gli animali, qui il valore
spirituale dell’uomo. E’ il peso del fascino dell’uomo,
come dell’attrazione muliebre.
Ma ero ben deciso a difendere ad oltranza il mio
interesse, ad agguantare quella trasparente bellezza dalle
carni delicate, dense di uno sconosciuto profumo. A
goderne il sorriso ossimorico di fanciulla e insieme di
donna “saputa”.
Uno sguardo perfino duro, a volte, mi era sembrato.
Non avrei pensato mai che una tale donna potesse
risvegliare il mio desiderio, catturare tanto il mio interesse.
Era molto più elegante di sera che di mattino. E il
profumo che mi giungeva da lei aveva qualcosa di
conturbante. Inoltre il leggero abito a giacca che
indossava, per una qualche ragione che non mi riuscì né
sul momento né in seguito di appurare, sembrava solo
appoggiato sul suo corpo nudo.
194
Come fosse caratterizzato da una sensuale precarietà;
quasi avesse un che dell’invito ad essere sfilato.
Quando pensiamo di sapere tutto sulle donne, ecco che
il gentil sesso ci sorprende di nuovo.
- Si tratta di progetti di ottimizzazione, spesso si
chiamano così, il cui capitale è garantito, e che allo stesso
tempo hanno un rendimento annuo variabile. Da qui a
qualche anno lei può trovarsi con un interesse doppio di
quello che le è fissato ora. Dipende dal mercato, dai flussi
di investimento.
In più c’è l’aspetto assicurativo.
Che è di minore importanza ma che pure esiste.
Ordinammo vino bianco, secco, di una zona vicina a
quella dove si produce lo champagne. Una marca e una
qualità che conoscevo per averla gustata con Ermione in
occasione di ospiti poco importanti.
E più io la guardavo, più il suo volto mi affascinava, mi
conquistava. Aveva un sorriso in cui si spegneva ogni
asprezza che poteva essersi accesa negli occhi un attimo
prima. Un sorriso incantevole, seducente, quasi erotico.
Qualcosa che congiungeva l’allegria del cuore al piacere
fisico.
In quei momenti mi scioglievo dentro.
Non sarebbe stato tanto male il secondo matrimonio.
Anche se mi dispiaceva per Ermione. Aveva trascorso
tutta la vita con me; ed io ormai la maggior parte della vita
con lei. Ma un uomo della mia età, delle mie esigenze, non
poteva non convolare a seconde nozze. Tuttavia mi
tormentavo sinceramente per lei, povera Ermione!
Poi, mentre il cameriere andava a prendere il vino, lei
mi disse che doveva fare una telefonata. Mi alzai
195
educatamente, e lei si avviò verso le due cabine
telefoniche in fondo al locale.
Probabilmente fu il movimento a causare il fastidio, ma
quell’alzarsi e sedersi avevano disturbato la mia prostata.
Ne soffro da qualche tempo. E mi venne una tremenda
voglia di urinare. Oreste insiste nel tenerla sotto il più
stretto controllo. Assieme alle mie piastrine. Le piastrine
sono importanti. La loro funzione è vitale. Mai
sottovalutarla. Un consiglio da amico. Mi dice così lui.
Ero fortunato, mi dissi. Forse lei, Colette - si chiamava
così -, neanche si sarebbe accorta di nulla. Una prostata
insofferente sottolinea l’età...è un indizio...Sarei andato e
tornato intanto che telefonava. E mi fiondai nel semibuio
corridoio sovrastato dal piccolo cartello toilette.
Era uno strano budello, curvo, a gomiti. Che girava un
po’ sul locale. Alla fine fui davanti al candido sanitario
verticale. Lurido, nel mezzo, del suo tempo, e roso dalla
ruggine. Ma neanche avevo iniziato ad attendere alla
minzione che la voce di Colette mi raggiunse, un po’
soffocata ma chiara.
- Hallò!?
Sì, era certamente la sua voce. Mi era subito piaciuta
perché, di tanto in tanto, corrotta come da un movimento
del cuore, o dal desiderio, dal piacere. Evidentemente la
parete divideva le toilette - si fa per dire - dall’ingresso del
locale, dove vi erano appunto i due telefoni a muro.
Una voce decisamente eccitante. Io me ne intendo.
Erotica ed esaltante.
Ero imbarazzato. Mi pareva indelicato ascoltarla senza
che lei ne avesse coscienza...
196
Ma tant’è. Le azioni involontarie sono incolpevoli. E la
prostata è la prostata.
- Sono già qui.
Urinando, pensai a una madre in ansia. O a una zia
affettuosa.
- Ora stiamo aspettando il vino.
O forse aveva già parlato di me a qualche amica?
L’intuito femminile... Oppure la semplice preoccupazione
di essere aggredita da un perfetto sconosciuto.
- Vieni tra quarantacinque minuti esatti.
Voleva presentarmi a qualcuno?
- Ma gira intorno al bar, sul retro.
O forse voleva semplicemente un parere sul mio
aspetto.
- Sì, ha ancora quell’orologio. Sono certa che non è una
patacca. Me ne intendo, io. Ogni tanto ne incontro
qualcuno di questi sfondati in cerca di puttane. E’ il mio
mestiere.
A quel punto il mio pensiero si fermò, come se si
coagulasse nell’improvvisa realizzazione della realtà,
insomma in una sorta di satori. E anche la minzione decise
di essere giunta al suo termine.
- Non c’è bisogno di colpirlo. Te lo ripeto. Ha una
faccia da macrò, ma è solo un imbecille... Che pensa
d’aver rimorchiato con la storia dell’assicurazione. Tu
mostragli l’affare, e prima ti darà l’orologio e il portafogli,
e poi schizzerà via come una lepre... Contento di riportare
la pelle a casa. E’ soltanto uno stronzo.
Un po’ ignominiosamente, decisi di sottrarmi al
prevedibile quanto dissacrante confronto con il complice
della bella signora. Chiedendomi, lungo la strada di un
malinconico ritorno, quanto e cosa Lombroso avrebbe
197
potuto dire su quel viso d’angelo, che in effetti era la
faccia di una mignotta che faceva,come secondo lavoro l’
adescatrice per grassatori.
Comunque, mi ripromisi di dedicare una più rispettosa
parte del mio tempo allo studio del Pollaiolo, per trarne
implicazioni e conclusioni che mi aiutassero, da quel
momento in poi, nella ricerca del nuovo amore. L’arte
svolge sempre un’efficace mallevadoria per chi cerca di
avanzare nella strada della verità.
La bellezza del matrimonio è l’aspetto intimo del
rapporto, una sorta di binario in cui si può convogliare
confidenzialmente tutto quanto ci passa per la testa. Dalle
cose più banali alle più ardite mozioni erotiche. A letto,
quella sera, sentii tutta la bellezza di quella benedetta
condizione.
Ma purtroppo non avrei potuto mai raccontare a mia
moglie qualcosa che solo a mia moglie avrei desiderato e
potuto dire con tutta la confidenza di chi non si senta e non
voglia sentirsi giudicato.
Il vincolo matrimoniale è una cosa davvero
meravigliosa ma...
Vorrei ancora indugiare nel ricordo, nella
considerazione tanto piacevole di tale amore, ma il sonno
mi riprende, intanto che la mano di Ermione si intreccia
alla mia, essa stessa immobile. Come fosse esanime, ma
certo non lo è.
Poi Ermione si e risvegliata, e mi ha risvegliato. Ma
non mi sembrava avere molta voglia di parlare, così che io
son potuto tornare all’argomento su cui mi ero da poco
intrattenuto.
198
La storia di Massù aveva toccato il cuore della Francia,
oltre che i molti suoi interessi. L’uomo era stato per un po’
di tempo una leggenda. Aveva giganteggiato in Europa
quando l’Europa non sapeva se finisse al di qua o al di là
del Mediterraneo, appunto con la “provincia d’oltremare”
d’Algeria.
Colui era stato al fianco di De Gaulle praticamente sin
dallo scoppio della seconda guerra mondiale. Su, su, fino
al ’60, quando Carlo il lungo aveva pensato che l’Algeria che tutti o quasi avevano voluto trattenere - era ormai
irrimediabilmente perduta.
Ma cosa c’entrava Massù con le accuse di violenza che
da più parte gli erano state mosse? Qual era la verità?
Avevo sentito storielle crudeli e ciniche sui
maltrattamenti dei patrioti algerini, sulle torture praticate
contro di loro. Non è solo una questione di electrochoc ai
testicoli. Mettono delle piccole piastrine in fondo agli
elettrodi. Così quando si dà la corrente, la carne brucia e
sfrigge come in padella. E si sente un odorino per tutto il
piano. Un profumo che terrorizza quelli che aspettano il
loro turno.
L’odore della carne umana è speciale.
D’improvviso dovetti confessare che vi era anche
un’altra bolla collegata a quel viso del manifesto degli
“investimenti sicuri a tasso variabile”.
Ma non sapevo, non mi riusciva di capire.
Mi sforzai, cercai nella mia mente che, purtroppo, mi
sembrò assolutamente vuota. Nulla da fare. Cosa mi
volesse dire quel volto, cosa mi ricordassero quei baffetti,
non mi riusciva per nulla di capirlo.
Chissà, forse più tardi.
199
Il mese scorso Ermione ha ripreso a tossire. Io ho
subito drizzato le orecchie. E i miei timori sono rinverditi.
Cosa fare? Come fare?
L’aspetto generale di Ermione non era dei peggiori
prima che le cose precipitassero improvvisamente.
La mano di Ermione stringe la mia.
Siamo soli. Neanche Oreste è con noi. L’infermiera
entra per un istante, dà uno sconsolato sguardo alla sacca
delle urine praticamente vuota, e scompare.
- Devo parlarti.
- Dimmi tutto, amore mio. Dimmi tutto.
Ermione mi stringe ancora di più le dita con uno sforzo
particolare. E’ il linguaggio che usiamo durante l’amore.
A volte lei si rinvigorisce d’improvviso.
- In questi momenti in cui è possibile un distacco...
La voce di Ermione è quasi un sospiro. Mi riesce
difficile percepirla perfettamente.
- In questi attimi decisivi è necessario liberarsi dei
nostri errori, dei nostri debiti. Io vorrei che tu in un certo
senso...mi benedicessi...
- Cosa dici, mia cara. Ma certo...
- Ma con piena coscienza di quella che io sono e che
sono stata...
- Per me tu, Ermione, sei e sei stata...
- Aspetta. Devi sapere. Purtroppo, io ti ho tradito...
Non riuscivo a credere. La mano di Eremione, con una
forza che io non sapevo da dove le giungesse, aveva
artigliato la mia e la stringeva come se dovesse strizzarla
fino in fondo.
- Mi fai male.
200
- Scusa. Voglio confessarti tutto prima di ricevere la
benedizione che sono certa tu vorrai ancora darmi. La
prima volta è stato tanti anni fa, quando sei andato a
Verona. Quel viaggio improvviso mi sconvolse. Non
sapevo cosa pensare...E in un momento di debolezza...Mi
devi credere, un momento di fragilità...
Chi di noi non è fragile? Dillo, dillo...Chi non è fragile?
Il capo di Ermione si è abbassato, e io non ho saputo
fare altro, nel profondo sconvolgimento del mio cuore, che
pensare che la vita è sempre nuova. Che mai si può dire di
averla davvero conosciuta. L’esperienza...E’ come se ci
riciclasse di continuo...
L’esperienza è un animale dall’ignota fisiologia. Dalla
sconosciuta filosofia. Una bestia imbattibile...
Altrimenti perché sarebbe necessario continuare a
farne?
- Un’altra volta è accaduto quando hai deciso di
mandarmi in vacanza in collina. Durante quei giorni
ancora sono stata presa dalla fragilità...ancora non ho
saputo difendere il tuo onore ed il mio...
A questo punto la camera prende a girarmi intorno,.
Un’infermiera, appena entrata, al mio gesticolare accorre
accanto al letto e mi dà un leggero ma secco schiaffo.
Poi guarda la sacca dell’urina e scuote il capo
sormontato dalla querula cuffietta..
- Si tiri su...per amor di Dio...E sia uomo...
Alla fine sono svenuto.
Mi sono ripreso. Ermione non è più accanto a me. Un
po’ me ne sono avuto a male, e un po’ ho pensato che non
avrei potuto perdonarla e magari benedirla, se non si fosse
posta a tiro della mia voce.
201
Vorrei anche chiederle di confessare il nome dei suoi
amanti. Almeno quello. Mi sembra che abbia il diritto di
saperlo. ...
La porta si apre, e Oreste e lei entrano mano nella
mano.
A questo punto capisco. Con quel moderno maquillage
lei appare ancora tanto giovane e fresca.
La stanza ha ripreso a girare.
L’infermiera ritorna, dà un altro sguardo alla sacca
delle mie urine, da tempo asciutta come una duna
desertica, e alla fine si decide per un altro schiaffo.
Leggero ma più secco del primo.
Forse è stato proprio questo colpo a farmi raggiungere
l’ultimo grado di coscienza.
D’improvviso la bolla che avevo sentito agitarsi nel
mio animo, cercare di liberarsi da alcuni giorni, si è
staccata ed è esplosa. La faccia di Massù sul manifesto
non rassomiglia ad altro se non a quella di Oreste! Gli
stessi baffetti, lo stesso sorriso insieme mediorientale,
sfottente, e ammaliatore. Gli stessi occhi acuti.
Sarò io a guardare il vostro denaro.
A difendere gli interessi della Francia.
E mentre scivolo di nuovo nel deliquio mi raggiunge un
odore...come di hamburger appena cotti sulla piastra,
contemporaneamente a una sorta di sfrigolio simile a
quello di cui si parlava a riguardo dei patrioti algerini
catturati dai regolari. Poi, tutt’intorno a me, la vita per un
attimo ancora spara la visione di morbide luminose dune
rosa da cui affiorano le famose rose... sotto un cielo di
cobalto in cui danzano mollemente globi della nera roccia
vetrosa chiamata ossidiana.
202
E una voce prende a ripetermi, sempre più lentamente,
nella parte più nascosta del mio cervello: Sta attento alle
piastrine. Sono quelle che ti fregano. Sono le piastrine che
decidono della nostra vita e della nostra morte.
203
Rolls-Royce
Tutto giunge alla sua fine naturale, o innaturale. Questa
legge dell’universo coinvolge qualunque realtà, dal granello di sabbia alla sfera terrestre, dalla fiamma di un cerino a
quella del sole. La gerarchia ecclesiastica e i suoi incarichi
pastorali ed amministrativi non ne sono esclusi.
Il molto reverendo Homer Chass-Potter continuava a
ripetersi le parole del suo pastore, intanto che il segno del
liquido scuro scendeva con santa discrezione lungo il
fianco della bottiglia di porto, fra le quattro mura della
vecchia casa annessa alla parrocchia. Il vescovo, quel
brav’uomo, gliel’aveva detto chiaro e tondo. A
settantacinque anni aveva il dovere di togliersi dai piedi,
proprio come avrebbe fatto lui stesso fra qualche anno.
Vi erano precise ragioni canoniche...costumi ormai
consolidati. Insomma, doveva andarsene.
Il suo successore, il giovane Rev. John Smerling - forse
tuttora reverendo per il semplice fatto che non era sceso
204
ancora in campo -, aveva portato lui stesso la lettera di
presentazione di Sua Eccellenza, insieme a quella letterina
personale con cui S.E. gli aveva spiegato per l’ennesima
volta come e quando dovesse togliersi dai piedi, perbacco.
Con tanta carità cristiana, con tanto affetto fraterno, ma
anche con assoluta precisione.
Erano alcuni anni che andava avanti quella manfrina. A
quel punto - pur non confessandolo né a se stesso né agli
altri - il molto reverendo aveva intenzione di rinunciare
alla sua carica e al suo incarico non foss’altro perché la
cosa diventava noiosa.
E a lui le cose noiose non piacevano affatto.
Il vescovo voleva fare a meno di lui? Pensava che
questo Smerling avrebbe fatto meglio? Al diavolo tutti e
due. Anzi tutti e tre, lui compreso.
Ma alla colazione dei Prucett ci sarebbe andato ancora
lui in qualità di parroco. Magari accompagnato da quello
Smerling. Un affare basso, grassoccio, che doveva avere
sangue di colonia nelle vene, scuro com’era di capelli e di
carnagione. Ma lui non aveva fatto domande. Siamo tutti
figli di Dio, bianchi e neri - come si dice -, magri e grassi,
alti e bassi. Imbecilli e non. E con quello gli era sembrata
chiusa la discussione. Ed era tempo che lo fosse.
D’altro canto il buon Dio aveva certamente le sue
ragioni per far sì che la sua Chiesa si desse quelle leggi, e
che i suoi vescovi le imponessero con determinazione.
Il porto scese un’altra ombra, poi il prelato tappò bene
la bottiglia verdescuro e la ripose nel sottile canterano di
origine scozzese che - se ricordava bene - gli veniva dal
fratello della nonna. Un ribaldo, un delinquente, che però
aveva posseduto bei canterani, evidentemente.
205
Poi Homer Chass-Potter, quasi ex-parroco, chiamò la
perpetua.
Cosa posso fare per lei, Padre?
Mi chiami il rev. Smerling. Devo parlargli.
Non avrebbe mai potuto dire “voglio parlargli”. Se
c’era qualcosa di cui avrebbe fatto a meno era proprio una
conversazione con il suo scuro successore. Per quanto
breve e contenuta entro i limiti della più stretta necessità.
Certamente il buon Dio doveva avere un piano. Il
reverendo parroco continuava a ripeterselo. La vita ha
bisogno di interpretazione.
Noi stessi ne abbiamo bisogno. Un piano che,
probabilmente, lui non avrebbe visto nel suo dipanarsi a
causa dell’età.
Per la verità, di fatto un po’ avanzata. Il vescovo non
aveva tutti i torti.
La provvidenza divina lavora a nostra insaputa. Magari
contro la nostra volontà, ma a nostro vantaggio.
E’ questo che, dopotutto, ce la fa risultare simpatica.
E qualche volta ci fa addirittura partecipare
coscientemente alle sue opere. Dio è la miscela di cui noi
siamo i detonatori.
Durante la seconda guerra mondiale era stato nei
guastatori, e di quelle cose ne serbava ancora il ricordo,
pallido ma efficace sul piano pastorale.
Lui, dai Prucett, ci voleva andare per un motivo
particolare. Addirittura per la sua attività di pastore
d’anime, delle anime della sua quasi ex- parrocchia.
Prucett, in fondo era una brava persona, magari un po’
stupido e parecchio ignorante, ma essenzialmente un uomo
che aveva sgobbato tutta la vita e aveva partecipato quasi
206
sempre alle messe di precetto della comunità. Oltre ad
essersi impegnato con generosità nella ricostruzione del
campanile. Piccolo ma in fondo necessario, prima e dopo
il crollo. E prima di andar via, prima di scomparire
dall’uscio dell’ovile, lui intendeva dirgli cosa ne pensasse
di lui la Chiesa - nelle modestissime vesti del suo parroco,
s’intende. E che gli faceva tanti auguri per il futuro dei
figli e per il suo. Id est, per quando avrebbe tirato le cuoia
lui stesso. Sapeva che ne aveva una paura tremenda, ma
che allo stesso tempo non aveva il coraggio di prepararsi
al grande passo. Sentiva di doverglielo quasi, a
quell’uomo nonostante tutto ancora affascinato, se non
arpionato dalle sirene della vita.
E poi, per quanto non blasonato, Prucett aveva messo
insieme una discreta fortuna, e chissà cosa poteva fare per
la parrocchia e i suoi poveri, al momento della fine. Alle
soglie del Grande Viaggio. Quel grande viaggio che non
c’entrava niente con il tour dell’Europa continentale che
ormai facevano quasi tutti i rampolli delle famiglie agiate.
Perché era quello che sarebbe stato il Grande Viaggio
davvero.
Prucett sarebbe stato l’ultima sponda del suo bigliardo,
l’ultimo incontro con una pecorella che era anche un po’
un pecorone, date le dimensioni.
E il reverendo Chass-Potter si abbandonò ad una breve
risata con se stesso nell’intimità della sua camera, un
locale rettangolare al cuore della casetta con il tetto d’erba.
La dimora dei Prucett era in cima a un dosso.
Proprio così, si trattava di un dosso. Dove finiva il
bosco, il terreno singhiozzava brevemente, si innalzava di
qualche metro allargandosi anche all’intorno, e su quel
207
dosso la modesta costruzione si ergeva con tutto l’orgoglio
di una magione settecentesca. Ma non si poteva definire
quella parte del territorio se non un “dosso”, collinetta
sarebbe stato già troppo. Si trattava di un singhiozzo del
suolo e niente più. Il rev. Homer, da giovane, aveva
svolto funzioni di cappellano presso famiglie davvero
nobili, per quanto al momento in via di grave
decadimento, e di queste cose lui se ne intendeva.
Lo dimostra il fatto che le sue non erano state
previsioni affrettate, o arrischiate. Non c’era stata una di
loro che si fosse salvata. Tranne i Daniels-Evicara, che,
venduto tutto, avevano tagliato la corda ed ora ogni
quattro o cinque anni gli mandavano gli auguri per il Santo
Natale da Boston.
Di solito i Prucett parlavano del loro terreno - o del loro
dosso - come di una collina con casa patrizia. Quel pallone
gonfiato del padre, una volta, aveva accennato a Prucett
Meadows per indicare il fazzoletto di terra che aveva
acquistato. Un’assoluta buffonata, di gente che neanche si
era arricchita ma che pensava di esserlo.
Tuttavia, dai Prucett voleva andarci lui. Ci teneva ad
imporre per l’ultima volta la sua presenza in qualità di
parroco, prima di tornarsene da sua sorella nel Norfolk; o
di ritirarsi, se vi avesse trovato posto, in quel convitto per
preti anziani dalle parti di Nottingham.
I Prucett non erano cattivi. A lui erano addirittura
simpatici il più delle volte. Ed amava la piccola Camille e
suo fratello “John Brown”. Era gente che si era rimboccata
le maniche, e che ancora se le rimboccava. Ma niente
Prucett Meadows, per favore.
Gli sembrava che, col tempo, la generalizzata mania di
grandezza si fosse trasformata in una malattia della vista.
208
Non era più la fantasia che ne veniva colpita, non
l’immaginazione che galoppava nei pascoli futuri, ma
piuttosto si trattava di un’alterazione della cornea che
ingrandiva le cose.
E la gente ci cadeva tristemente dentro.
Niente Prucett Meadows. O, peggio ancora, Prucett
Terrace.
Per amore di Camille e del piccolo “John Brown”.
Bartholomew Prucett era un uomo dalla voce spessa,
che sembrava addirittura sforzata a chi la sentisse per la
prima volta. Ma Henry Cotter, uno dei suoi uomini a
Londra, non la sentì per nulla particolare il mattino in cui
gli telefonò per dargli la buona notizia.
Da tempo trattava affari per Prucett ed era abituato ai
suoi toni soffocati.
- Prucett.
- Sono Cotter, Mr. Prucett.
- Questo l’ho capito - sbottò Prucett, facendo segno alla
segretaria di andare avanti con la lettera che stava
battendo.
- Volevo dirle che l’ho trovata.
Il volto sanguigno di Bartholomew sembrò gonfiarsi al
di sopra del collo della camicia. E si sarebbe detto che le
orecchie del nuovo ricco avessero fatto un mezzo giro su
se stesse per captare meglio i suoni nella cornetta.
Poi Prucett passò il telefono da un orecchio all’altro.
Forse avrebbe sentito meglio le buone nuove.
- Vada avanti, Cotter.
- E’ una macchina che ha fatto trentottomilacinquecentoventicinque chilometri. Non uno di più. E che al
momento è in garage per un controllo generale.
209
- Il prezzo?
- Siamo nella cifra che lei è disposto a spendere. Forse
cinquecento sterline in più. Ma si tratta di una macchina
fenomenale. Un modello di dieci anni fa che ne farà
sicuramente altri cinquanta di anni. Le Rolls sono così.
Sono fatte per durare.
Ancora cinquat’anni. Che roba quelle macchine!
Prucett cambiò ancora l’orecchio con cui ascoltava quel
nettare. Poi, da buon uomo d’affari, ribatté:
- Si dice sempre così.
- Mr.Prucett, una Rolls è una Rolls. L’occasione che le
viene offerta è speciale perché l’uomo che la vende non
avrebbe dovuto comprarla.
- Che significa? Se l’ha comprata, l’ha comprata. Non
voglio assurdi problemi legali...
- L’ha comprata sì, ma non era autorizzato da suo zio.
E’ un diplomatico. Ed ora lo zietto vuol rientrare nel suo a
qualunque costo. Il prezzo che lei pagherà è esattamente il
doppio del debito sussistente da parte di suo nipote, tenuto
in considerazione l’appannaggio annuo del ragazzo. Non
quello dell’auto. Ma lo zio non vuole speculare. Gli
mangia solo il doppio per punirlo. Per fargli rabbia perché
ha fatto una sciocchezza, tutto lì. Ma ci vuole contante. E
qui entra lei. Pagamento immediato per lo sheick, e la
macchina sarà consegnata a Prucett Terrace per il fine
settimana. E’ una magnifica vettura gialla e nera del ‘90.
Lei conosce certamente quel modello. Il ragazzo aveva
buon gusto. Anzi lo ha ancora. Non è morto e non lo sarà
per i prossimi cinquant’anni, prevedibilmente.
Cotter tendeva a prendersi confidenza. Bisognava
tenerlo al suo posto.
210
- Non faccia considerazioni stupide, Cotter. Piuttosto
mi mandi i documenti. Li farò verificare dal mio avvocato
prima di fare la mia contro-offerta.
- Senz’altro, Mr Prucett. Ma si prepari a pagare fino
all’ultima sterlina. E in fretta. Non vorrei che saltassero
fuori altri compratori.
- Se mi fa avere i documenti, accadrà difficilmente.
- Farò il possibile.
Il sogno di una vita si stava avverando.
Bartholomew Prucett pose, con gesto forzatamente
calmo, l’apparecchio telefonico nel moderno alloggiamento di plastica profilato alla perfezione, e si
appoggiò allo schienale della poltrona che gemette
affaticata.
Il sogno di una vita. Accadeva semplicemente quello
che aspettava da quando aveva ancora i pantaloni corti.
Una Rolls per Bartholomew Prucett. Niente di meno che
una Rolls del ’90 gialla e nera, di solo trentottomila e
passa chilometri.
C’era da beccarsi un infarto, per molto meno.
La segretaria di fronte a lui, per quanto a sei metri di
distanza, si accorse di qualcosa nel suo sguardo, e
togliendosi gli occhiali chiese con fare preoccupato:
- Una tazza di tè, Mr Prucett’? Un bicchier d’acqua? Un
piccolo whisky?
- Grazie no.
- Posso fare qualche altra cosa per lei, Mr Prucett?
- Completi quella dannata lettera, amore mio.
Prucett sapeva come trattare le donne. Era così che
aveva avuto due figli, Camille e John, da Eleanor. E’
211
necessario usare con loro tutta la spregiudicatezza di un
cuore audacemente violento.
- Se c’è qualcosa di importante sono al club.
- Va bene, Mr Prucett.
Il club era una cosa che serviva appunto a quello, a
stare in pace.
E a pensare, eventualmente, in pace. Almeno in alcune
ore del giorno e in alcuni dei suoi locali. In una comoda
poltrona; con intorno pregevoli dipinti e libri che non
scendevano mai sotto un certo standard. In un silenzio
confortevole che ad un certo punto scompariva anche
come silenzio. Per Bartholomew Prucett, il club
rappresentava in alcuni momenti della vita un parcheggio
al di fuori del mondo per il suo macchinario umano,.
Dove
sei
Bartholomew
Prucett?,
potevano
domandargli. Lui avrebbe risposto: Non lo so, ma so di
non esserci.
Finalmente con me stesso!
- Buon giorno Mr Prucett. Cosa posso..?
- Whisky con acqua e un Corona. Di quelli che fuma
Springler.
Springler era un sottosegretario che fumava molto bene.
A ciascuno il suo.
- Va bene signore.
- Se telefonano, mi passi le telefonate su questo
apparecchio.
- Sissignore.
Era la primissima cosa che si era ripromesso nella vita.
Una Rolls... Lavorare come un cane, mettere da parte ogni
sterlina, ed alla fine avere una Rolls. Anche se usata.
212
Una buona Rolls usata non è molto diversa da una Rolls
nuova. E poi, chi sa da quando hai quella macchina?
Una Rolls era stata la meta della sua vita. E’ chiaro, una
meta di natura assolutamente sentimentale. Nel senso che
quando aveva voluto scavare nel suo cuore per vedere il
fondo, e laggiù pescare uno dei sentimenti, anzi dei
desideri che gli imponevano da sempre di essere coronati,
lì in quel fondo brillava la Rolls.
Altre cose avrebbero, e in effetti avevano dovuto
precederla. Solidità economica, una bella famiglia, e
soprattutto una casa dignitosa. Appunto, Prucett Meadows
e Prucett Terrace.
Si era parlato, e ancora si parlava di status-simbol. Lui
sapeva perfettamente cosa significasse. E sapeva anche
quali erano i simboli di cui il suo stato non poteva fare a
meno. Ma la Rolls no, la Rolls era qualcosa che riguardava
lui, Bartholomew Prucett, e non la sua condizione
economica, il suo status sociale.
Nella sua mente avere la Rolls significava essere
arrivato. Assolutamente arrivato. Perché Bartholomew
Prucett era nato con la Rolls, e il tempo era semplicemente
in ritardo per la consegna di quell’accessorio essenziale
per la sua esistenza. Una parte davvero integrante di se
stesso. Tanto integrante che ora che ne stava venendo in
possesso gli sembrava di toccare il cielo con il dito. Anche
se con la freddezza che aveva imparato a imporsi.
Addirittura di non poter desiderare altro.
Gli sembrava di andare in paradiso. E si considerava
assolutamente fortunato se non gli era venuto un
coccolone.
Cotter, tuttavia, doveva fargli avere immediatamente i
documenti. In tribunale lui era di casa; e sapeva cosa e
213
come farlo. Con i documenti dell’auto in mano, avrebbe
potuto impugnare qualunque altra vendita sulla parola che
avesse voluto eventualmente tentare quel giovane
debosciato mediorentale.
Almeno così gli sembrava di aver capito.
In caso contrario il diavolo poteva metterci la coda.
Mano a mano che scorrevano i minuti l’uomo si sentiva
sempre più a proprio agio nell’ampia poltrona di pelle. Poi
arrivarono whisky e sigari, e in una sorta di trance egli
assaggiò il primo e accese un piccolo corona.
Ancora non credeva a quanto stava accadendo. Anzi
giocava a non credervi. E giocava anche col pensare che
quella fosse una svolta che il destino gli offriva. Una
ulteriore svolta oltre la prima officina che aveva acquistato
facendo un mare di debiti, e la successiva, vale a dire la
moglie che aveva sposato. Eleanor era stata una donna
ingenua anche da ragazza. Non che fosse peggiorata
ultimamente. Ma gli aveva portato un certo capitale che gli
aveva fatto molto comodo in quel momento. Gli aveva
permesso di decollare.
Ed ora gli capitava la Rolls. E lui, che aveva saputo
riconoscere fino a quel momento le occasioni che lo
avevano promosso economicamente e socialmente, ora
riconosceva anche quest’ultima.
Poi, come emergendo dall’ombra, Abraham si fece
avanti.
Il signore è desiderato al telefono. Da Londra.
Prucett. Chi parla?
Sono io, signore.
Per un solo interminabile istante temé che si trattasse di
cattive notizie. Altrimenti... perché Cotter..?
214
Di cosa si tratta, Cotter.
Stenton sale in villa a portarle i documenti, signore.
Bartholomew Prucett si passò due dita nel collo della
camicia, poi disse gelido:
Va bene, Cotter. - E riattaccò.
Per un attimo aveva temuto il peggio. Maledetto Cotter!
Anzi, benedetto Cotter, dopotutto.
E quando Abraham ritornò per chiedergli se aveva
bisogno di altro, gli porse una banconota da cinque
sterline. Di Abraham a lui non fregava nulla, ma sentiva il
bisogno di festeggiare. Ancor prima di arrivare a casa e
parlare con Eleanor di quanto gli stava accadendo. Sua
moglie era un buon orecchio. Anche se a volte un po’
sordo. Ma le donne sono solo donne.
Il cameriere, intanto, aveva fissato incredulo per alcuni
secondi l’insolita generosità. Poi, abbassando il vecchio
capo squadrato e bitorzoluto fra i radi capelli, si era
allontanato ringraziando.
E a Prucett parve che dicesse qualcosa che terminava
con lord. Good Lord? O milord?!
Perbacco!, si disse B P, come Eleanor chiamava suo
marito nei momenti di estasi, e quando azzeccava un
difficile contratto a bridge. Quindi, ancora gustando il
felice momento frutto di quel fortunato cocktail fatto di
Rolls giallo-nera, Corona di Springler e ottimo whisky
scozzese, disse a se stesso - ma anche al cameriere,
peraltro già lontano alcuni metri - “Col tempo, ragazzo
mio. Col tempo verrà anche questo.” Per ora avrebbe
atteso l’arrivo di Cotter con i documenti della Rolls. Ma
era proprio così che si cominciava!
215
E lui che, solo pochi istanti prima, aveva temuto il
peggio a riguardo della nuova quanto fortunata
acquisizione!
Ma il peggio sarebbe giunto con un certo ritardo quella
stessa notte.
Il tempio delle ombre portò anche consiglio al molto
reverendo Homer. Il vecchio pastore d’anime reggeva fra
le dita l’invito dei Prucett quando vi pensò. Smerling
aveva diritto a un piccolo regalo. Una sorta di buon
augurio per il giovanotto che entrava nelle sue scarpe, per
il suo futuro, per il suo lavoro.
Una cosa orribile, ma a cui non se la sentiva di sottrarsi.
Proprio no. Non gli riusciva.
Ma cosa regalargli? Qualcosa che facesse una buona
impressione, ma che d’altro canto non gli costasse troppo.
Anzi che non gli costasse affatto, se solo fosse stato
possibile. Ma cosa?
Quindi l’idea. Un libro!
Un libro è un regalo dignitoso. Rimane nel ricordo
perché rimane nella biblioteca. O almeno sullo scaffale,
nel caso di Smerling.
E poi nobilita sia chi lo riceve che chi lo dona. Chi lo
riceve perché è considerato un intellettuale. Ormai si sa
che solo gli intellettuali dedicano alla lettura una parte sia
pur limitata del loro tempo.
E poi nobilita chi lo dona, e questi due volte. La prima
perché è lui stesso un intellettuale, dal momento che il
dono ha sempre il profumo del donatore, e poi perché chi
lo regala ha avuto tanta considerazione per colui a cui è
stato fatto il regalo.
216
Homer guardò in aria mentre si rifaceva il segno di
croce con cui iniziava le preghiere conclusive della sua
giornata, e poi si guardò dentro.
Poteva andare.
Ora si trattava di scegliere il libro. Dalla sua collezione
privata, s’intende. Un’opera di misura. Per certo non
un’enciclopedia. E che fosse un classico.
In pratica, un dono che a lui non portasse alcun
nocumento. Né finanziario né di altro ordine. Homer
Chass-Potterr non era mai stato ricco, ma dai ricchi che
aveva conosciuto aveva imparato quella previdenza un po’
diabolica che così sovente incatena al conto bancario, per
quanto modesto questo sia.
Siamo deboli, siamo fragili. Siamo solo umani.
La sua mente cercò, cercò. E alla fine, proprio quando
avrebbe detto che era meglio abbandonarsi al sonno che
continuare, il titolo gli venne con estrema chiarezza.
Le lettere di Berlicche. Proprio così. Un libro abbastanza famoso al suo tempo. Che certamente anche Smerling
conosceva, almeno per sentito dire. Scritto da un suo excompagno di studi. Un presuntuoso che si era fatta una
strada enorme. Certamente più grande dei suoi meriti, Il
quale sosteneva di conoscere la psicologia del diavolo.
Un diavolo di nome per l’appunto Berlicche.
Man mano che Homer rimuginava questi pensieri, la
calma tornava nel suo cuore e nella sua mente. Non
avrebbe speso una sterlina, e dopotutto si sarebbe liberato
di uno stupido opuscolo che rimaneva sui suoi scaffali
neanche sapeva lui perché. Un’opera assolutamente
superflua. C.S. Lewis gli era stato sempre antipatico. Uno
sgobbone fenomenale. Un ragazzo di cui si diceva “ha
217
ingegno”. Un uomo di cui si era detto “ha ben illustrato il
nome della Nazione”.
Ma a lui quel Lewis lì non era mai andato a genio.
Niente male, per carità. Ma Homer non si univa con
facilità al plauso per gli altri. Era estremamente attento in
questo. E riteneva di essere sagace per l’esercizio di tale
misura nel concedere la propria stima.
Homer era una brava persona, un prete responsabile del
suo ministero, un parroco che aveva amato i suoi
parrocchiani e ancora li amava, ma non aveva ancora
capito bene a cosa servissero gli intellettuali.
Anzi, per loro nutriva una sottile ma ben radicata
diffidenza. Sospettava che fossero una quinta colonna del
Nemico.
Un intellettuale ragiona. E presume, a volte ,di usare il
suo cervello al di là del seminato. E questo non va bene.
E’ pericoloso. Ed Homer, giustamente, aveva paura dei
pericoli. Sia per sé che per gli altri. Era molto diverso da
colui da cui aveva preso il nome. Non amava l’avventura e
non era cieco.
Poi la pace inondò completamente il suo cuore, il
riposo si insinuò nella sua testa, e il rev. Chass-Potter
iniziò a scivolare nel sonno.
Domani stesso avrebbe tratto il volume dallo scaffale.
Ed avrebbe preparato un bel pistolotto per Smerling. Dopo
aver vergato con cura una breve severa dedica per il suo
successore.
E buona notte.
Così dicendosi, il vecchio parroco si mosse un po’
nell’ampio letto e l’invito dei Prucett, da lui inconsciamente abbandonato al suo fianco, scivolò in terra produ-
218
cendo un breve sibilo contro la lisa seta del vecchio
piumino d’oca.
Destino diverso e davvero poco conciliante al sonno
aleggiò quella notte in casa Prucett. Diciamolo, non fu
proprio un successo.
Al centro di Prucett Meadows, Prucett Terrace - la
nobile anche se piccola magione di recente acquisto dei
Prucett - sembrava dormire acquietata dal trambusto del
giorno. Ma al centro di quel centro qualcuno vegliava
nella notte. Minuto dopo minuto, ora dopo ora scandita
soffusamente ma anche diffusamente dalla pendola del
quasi nobile ingresso.
Quel qualcuno era il proprietario della dignitosa
dimora, l’uomo che, entrato in affari, era entrato in
società; e che, tra poco, sarebbe entrato anche
nell’esclusivo mondo dorato di quelli che possedevano
una Rolls Royce, vale a dire Bartholomew Prucett.
B P si girava e rigirava fra le lenzuola, mentre sua
moglie Eleanor, corredata di tappi ultramoderni e
mascherina hollywoodiana contro la luce, seguitava a
dormire al suo fianco ignara di tutto quanto covava la sorte
al di sopra di loro.
Tutto era cominciato alle due. Prucett si era ritirato
nello studio dopo l’ultimo notiziario televisivo che gli
dava i valori della borsa di New York e lì si era posto a
sedere in una comoda poltrona. Al cameriere aveva detto
semplicemente: Jack dammi dell’Armagnac e poi va’ a
letto.
Prucett era un uomo generoso che non infieriva mai
sulla propria servitù, o quasi. I camerieri sanno come
vendicarsi, e anche troppo bene.
219
Forse era stata l’anatra. O forse il dolce alle castagne
della zia Liz. Poverina, lei era morta da mezzo secolo ma
quel saporito mattone ancora circolava per le cucine e sale
da pranzo con quel nome affisso, iscritto sul dorso scuro:
dolce di zia Liz.
Maledetto sformato di oscuro cemento non edilizio.
Oppure, maledetta anatra.
Fatto sta che, d’improvviso, mentre l’Armagnac
scendeva liscio e confortante nella sua gola, per risalire
tramutato in tiepido benessere al cuore e al cervello,
un’idea probabilmente introdottasi nella corrente ascensionale raggiunse la sua coscienza. Inopportuna quanto
improvvida. Detestabile quanto precisa.
La Rolls sarebbe durata altri cinquant’anni, a detta di
Cotter, di Stenton, e di quell’imbecille troppo pagato del
suo più consultabile consulente legale.
Tutto questo significava semplicemente...
Per la prima volta nella sua vita Bartholomew ebbe
davanti qualcosa che era assolutamente insuperabile. Un
confine che per definizione avrebbe sempre visto da
lontano senza mai sfiorare. Finché non ci sarebbe stato
sopra. Di botto, magari senza neanche accorgersene
subito.
Qualcosa lo aveva sopravanzato, e in una certa misura
lo avrebbe rimesso al posto suo? Successo economico e
sociale a parte, e tutte le soddisfazioni personali, di
famiglia, di lavoro, e quant’altro ancora potesse esservi
nella sua vita. Presente, passata, e futura.
La Rolls nel tempo gli avrebbe “dato” parecchi anni.
Lo avrebbe lasciato indietro, e di molto.
220
In quell’idea vi era qualcosa di terribile che ridimensionò d’un tratto BP. Improvvisamente quanto assolutamente ed inappellabilmente.
Ma lui cosa se ne faceva della Rolls, di lì a
cinquant’anni?!
Vediamo...Avrebbe avuto niente meno che centoquattordici anni. Ma a quell’età cosa se ne fa un uomo di
una Rolls giallo e nera del’90? Appartenuta al nipote
diplomatico di uno sheick che rischiava di affondare nei
petrodollari, ogni qualvolta la borsa petrolifera faceva un
piccolissimo sgambetto all’insù?
B P ingollò subito quello che restava nel panciuto
bicchiere da cognac, una sorta di ampolla che lui amava
perché solitamente gli ricordava lo studio di Mago
Merlino.
E poi attese.
Sì, attese di star meglio.
Ma non accadde nulla.
Davanti allo schermo della sua immaginazione quelle
due uniche realtà. Un vecchio rincoglionito di centoquattordici anni, e una meravigliosa lustra macchina giallo
e nera, ancora in perfetta efficienza, che lo affiancava.
Anzi, che lo fronteggiava.
Lo scenario era inquietante.
Per la prima volta Bartholomew ebbe la sensazione di
avere il tempo segnato. La precisa sensazione che la sua
vita era una parte di un tutto che sarebbe terminata prima,
molto prima di un’altra parte di quel tutto che le stava
affianco. Una realtà in fin dei conti modesta?!
Se avesse saputo di filosofia, B P si sarebbe detto che
stava assaporando la finitezza. Se fosse stato religioso,
221
avrebbe detto che stava delibando l’amaro calice di essere
una carne mortale.
Ma B P non era né filosofo né credente. Non aveva vie
di fuga. Né la mente né il cuore gli avrebbero fornito il
possibile anche se limitato conforto.
E la morte gli picchiò violentemente contro il naso.
Lui lo aveva sempre saputo, le macchine, in fin dei
conti, sono avversarie dell’uomo. Saputo da sempre, sin
dai primi licenziamenti in cui aveva avuto modo di
indulgere, a seguito della computerizzazione degli
impianti di due delle sue aziende.
Le macchine sono le nemiche dell’uomo.
Altro Armagnac scese fra le pareti del vetro sottile, e B
P ne inalò il profumo come da un turibolo esorcizzante.
Ma tutto inutilmente. Il rito quella notte non funzionava.
Era possibile fare indietreggiare quelle ombre?
Neutralizzare quei demoni che già s’agitavano nella sua
fantasia?
La sua lucida intelligenza ne dubitò. Per quello lo
chiamavano il padrone freddo.
Suo padre era rincoglionito verso i sessantotto anni. E,
volendo usare tutto l’ottimismo che quella nazione e quel
tempo gli consentivano, avrebbe detto che lui poteva darsi
dieci anni in più. Ma, ad occhio e croce non sarebbe
andato oltre.
Ecco, forse fino a ottanta avrebbe mantenuto il
controllo. Fino a quell’età o quasi sarebbe stato ancora
compos sui. Poi avrebbe cominciato a pisciarsi sulle
scarpe senza accorgersene. Proprio come il genitore.
E B P sapeva di essere ottimista facendo quei calcoli.
222
Ottant’anni. E’ vero che la medicina moderna, che il
sangue sintetico, che le protesi d’avanguardia...
Ma ottant’anni sono ottant’anni. A quella data la Rolls
avrebbe avuto ancora da vivere tutta la vita che aveva già
vissuto con lui. Al suo servizio, intendeva dire. Anzi una
diecina di i più. Trentasei dei cinquant’anni che quegli
esperti avevano previsto.
La cosa non gli garbava. Quell’asciutta notizia
matematica gli andava sempre più di traverso.
Anzi, si trattava di tutto tranne che di un’asciutta
notizia matematica. Vi erano implicazioni. Implicazioni
personali. Umane... diciamolo pure. Che non lasciavano
per nulla indifferenti, neanche un tipo come lui.
Sentendosi un gelido sudorino su tutta la persona,
Bartholomew si versò dell’altro Armagnac. Forse avrebbe
aiutato.
Perché in quei casi, in quelle cose, c’era poco, molto
poco da essere razionali. Da restare freddi.
Ma a quel punto la parola lo trafisse.
Fu la goccia che fece traboccare il vaso. Freddo: gli
fece pensare al marmo, e la freddezza marmorea lo
rimandò subito con la mente alla...all’esito finale. Di
colpo, Bartholomew fu saldamente agguantato da
quell’idea come da un viluppo di serpi in calore.
Quella era davvero una cosa fredda. La cosa più fredda.
La realtà fredda per antonomasia.
La mano di B P corse alla panciuta bottiglia di un caldo
colore mogano, e si versò un altro paio di dita del liquido
scuro.
Basta. Doveva smetterla.
Era ora di dormire.
223
Salì di sopra, si tolse la vestaglia, e si infilò nel letto
mentre sentiva il cameriere cercarlo inutilmente nello
studio per chiedergli se poteva fare altro per lui prima di
ritirarsi.
Poi fece scivolare il piumino fino al pomo di Adamo.
Dapprincipio sembrò che l’Armagnac dovesse fare il
suo dovere da un momento all’altro. Una, due, tre.
Passarono le prime cento pecore. Poi il primo gregge. La
pendola suonò due volte, poi tre volte, mentre il sudore lo
ricopriva tutto e si gelava sulla pelle vizza, lo copriva
ancora e ancora si gelava. Un sudore condito, anzi
fecondato da quelle idee.
Da quell’immagine. Della Rolls che lo guardava dal
fondo del tempo a venire.
A lui che ne avrebbe avuto uno ben più limitato.
Alla fine B P si sentì stretto. Gli mancò l’aria. Soffocava. E tornò in biblioteca.
Avere tutti quei libri intorno gli avrebbe fatto di sicuro
bene.
La scienza conforta, sorregge. Sostiene. Lo dicono tutti.
Ma niente Armagnac.
E quando fu nella poltrona tentò di coprirsi alla meglio
con un plaid che era sempre nello scaffale in basso. Quindi
cercò di prender sonno, ma inutilmente.
Doveva essere logico a quel punto.
Il passo che stava per dare era di una importanza eccezionale. Da sempre una Rolls era stata al suo orizzonte. Ed
ora, per sole cinquecento sterline, si era assicurato il diritto
di possederne una. Stenton aveva detto che lui doveva fare
un versamento per quella cifra al fine di assicurarsi il
diritto di prelazione sul beneamato veicolo.
224
Ma, una Rolls, è poi un veicolo?
La frase che in altro momento lo avrebbe fatto sorridere
compiaciuto, quella notte - erano da poco passate le
quattro - non gli fece né caldo né freddo.
Veicolo o no, essa lo avrebbe superato, per quanto
longevo sarebbe stato.
Fosse pure vissuto solo altri quarant’anni!
Una Rolls del ’90 sarebbe stata certamente più in
forma, nel 2040, di un vecchio di centoquattro anni.
B P era preoccupato. Sembrava che la Rolls, nella sua
immaginazione, lo guardasse dall’alto del suo tempo con
un certo disprezzo. E lui non poteva fare assolutamente
nulla contro quel disprezzo, poteva solo sentirne il maligno bruciore sulla pelle dell’anima.
E la sorte aveva in più voluto che il pregevole dipinto
da lui acquistato un paio d’anni prima a un’asta di
Sotheby, e poi degnamente sistemato sopra il caminetto
della biblioteca, fosse una morte di San Sebastiano. Alla
fioca luce del candeliere elettrico, Bartholomew Prucett in
breve tempo concepì il proprio invecchiamento appunto
sotto l’egida di quel martirio. Del terribile martirio di San
Sebastiano.
Immaginò la propria corruzione nel tempo che ancora
aveva davanti, un tempo dopo tutto breve. Anche se
paragonato solo con un veicolo. E vide, ben rappresentate
da piccoli dardi cattivi, tutte le malattie che lo avrebbero
colpito negli anni a venire. Cioè nei prossimi anni.
La prima decurtazione che gli venne in mente fu quella
della sua virilità. Prima di ogni cosa se ne sarebbe andata
quella. E un uomo senza virilità sopra una Rolls è come un
pavone castrato che fa la ruota. Un essere inutile, un bruto
225
incapace. Uno stupido uccello che non ha una vera
coscienza della realtà.
E lui non voleva essere quell’uccello.
Già Eleanor - e qualche altra amicizia occasionale e
allo stesso tempo ben pagata - l’avevano guardato di
sottecchi in più di un’occasione.
Poi vi sarebbero stati i dolori diffusi. Primi fra tutti ai
denti. Al momento portava una protesi che avrebbe dovuto
cambiare già da un po’. Rischiava la dentiera completa,
aveva minacciato Sir Raymond, l’ultima volta che si era
recato al suo studio. Dolori ben rappresentati dal breve
dardo che in San Sebastiano attraversava entrambe le
guance.
Quindi una insistente diffusa cefalea, che di tanto in
tanto già lo colpiva.
E certamente sarebbero aumentati i suoi problemi
prostatici. La prostata è solo la prostata, amico mio, gli
aveva detto Du Barry, l’ultima volta che si era recato nel
suo studio di Parigi. Una pompa, anzi una pompetta che si
tira via.
La prostata era un ostacolo insormontabile. Bisognava
gettarla ai cani prima o poi. Era quello che sosteneva il
luminare
Si tira via un corno, maledettissimo imbecille, lui aveva
pensato. Ai cani ci devi andare tu, maledettissima
sanguisuga. Ma quella notte si chiese chi era l’imbecille,
se Du Barry o lui.
E poi vi sarebbero state le solite fitte al plesso, i
problemi di circolazione che lui già sperimentava così
bene. E si sarebbe aggravato quel principio di sordità all’
orecchio sinistro di cui già soffriva, e di cui San
Sebastiano aveva anche lui per certo sofferto, a giudicare
226
dalla freccia conficcata poco sopra un lobo auricolare, nel
quadro sul caminetto. Il dardo era lì, preciso nell’orecchio.
Né poteva dimenticare il cuore; la respirazione
polmonare; il bolo intestinale.
E la debolezza alle ginocchia che sentiva spesso,
specialmente al mattino, quando, infilate le pantofole,
muoveva i primi passi.
Quelle diverse malattie, e i vari quanto dolorosi crucci,
con le conseguenti disabilitazioni, lo raggiungevano come
ondate successive di un malevolo oceano. Che batteva,
batteva, batteva contro il suo povero corpo.
E contro la mente affaticata come contro un portone da
sfondare.
Alla Rolls era possibile rifare i circuiti, la carburazione.
Sostituire i fanali, cambiare i tubi di scappamento. Lo
sapeva bene.
Quella macchina regale poteva essere riverniciata,
oliata, comunque rimessa su. Potevano addirittura
cambiarle il motore.
Certamente sostituirle i pistoni.
Ma a lui cosa avrebbero potuto cambiare?
L’angoscia prendeva e lasciava B P in quel maledetto
dormiveglia, squassandolo come fosse stata un’enorme
mano. La mano gigantesca del destino. Che lo strizzava, lo
strizzava, lo strizzava, quasi volesse cavargli l’anima.
Spremergliela dal naso.
Alla fine, con la sua sottile capacità di valutazione, B P
si disse che tutto quello che gli stava accadendo era colpa
della Rolls.
Tutto era causato da essa!
227
E con la sua solita decisione - quella che lo aveva reso
famoso nel suo ambiente - stabilì che non l’avrebbe più
acquistata.
Niente Rolls, niente San Sebastiano, niente pensieri di
morte.
Basta. Quella Rolls gialla e nera per lui non andava
bene. Nient’affatto. Bisognava farne a meno. Quella
macchina non doveva sopravvivergli.
E basta così!
Quando B P tornò a letto sua moglie Eleanor si sveglio,
si volse su di un fianco, e allorché lui le disse: Oggi
dormo, non mi svegliate, pensò che suo marito fosse
ubriaco come non era mai stato in vita sua.
E quel mattino B P lo trascorse davvero russando. Non
avrebbe potuto vincere la serpeggiante angoscia che lo
fronteggiava senza darsi un po’ di autentico riposo.
Di effettiva assenza da se stesso.
Al suo risveglio Bartholomew Prucett aveva gli occhi
cisposi; le borse di un colore che andava dal viola delle
demoiselles d’Avignon a un vero e proprio “melanzana”; e
il suo umore era intrattabile.
Sua moglie Eleanor, per tastare il terreno, la gettò lì:
- Il Reverendo Homer ha telefonato per dire che, se a
noi non dispiace, verrà a colazione insieme a un giovane
prete che viene da Londra. Credo che sia il suo successore.
O qualcosa del genere. Per quanto sia in gamba, Homer
Chass-Potter è una cariatide ormai. Non si può pretendere
che le gerarchie cattoliche avversino validamente quelli
della Chiesa Alta quando non hanno più il fiato per salire
le scale dell’ingresso. Gli Anglicani hanno un maggior
228
senso realistico. Sono semplicemente più elastici. Forse è
una loro dote che si riflette sugli aspetti fisici, oltre che su
quelli religiosi.
- E quelli della Chiesa Bassa sono anche più tosti ribatté Prucett che nella Chiesa Bassa aveva lontani
parenti.
- Si chiama Smerling, l’uomo. John Smerling.
A sentire quel nome, Prucett smise di grattare i resti
delle uova strapazzate sul fondo del piatto e alzò il naso.
Lo faceva spesso quando qualcosa colpiva la sua
immaginazione, e ancor di più quando un ricordo era
sollecitato. Come se tentasse di prendere meglio con il
fiuto la traccia di realtà che le orecchie, sia pur malamente,
avevano convogliato al suo cervello.
- Smerling... da Londra. C’è un campanello che suona
nella mia testa. Che sia parente di quello Smerling che
voleva sistemare un ripetitore nello Yucatan? John
Smerling, hai detto. Ma allora sono parenti di Edward
Camelot Smerling. E’ un nostro console itinerante. Si
dovrebbe interessare del nostro commercio nelle zone
centroamericane. Ecco il perché dello Yucatan. Ma, detto
fra noi, quell’uomo si interessa principalmente, se non
esclusivamente, dei cavoli suoi. Ecco dove vanno a finire i
soldi dei contribuenti. Windsor e Yucatan!
Poi, mentre infilzava con garbo brandelli giallicci di
uova strapazzate, proseguì a bassa voce parlando a se
stesso più che a sua moglie.
- Mi fa molto piacere. Forse...
Ma a quel punto arrivò la cameriera. Prucett infilzò gli
ultimi resti, bevve quanto rimaneva del caffè, e dopo aver
salutato brevemente sua moglie fu via.
Voleva vedere un cavallo prima degli aperitivi.
229
Avrebbe impiegato così quel fine settimana. Sentiva il
bisogno di svagarsi.
- Dunque, Padre, lei è nuovo dei paraggi?
- In realtà l’Inghilterra finiva davanti casa sua fino a
pochi giorni fa. Prucett Meadows è stato per me solo un
nome, quando il reverendo Homer mi ha detto dell’ invito.
Un’autentica cortesia da parte sua.
- Per carità, padre. Per noi è un piacere. Smerling da
Londra, dunque, lei? Così capisco.
- Non precisamente. La mia famiglia ha avuto un
pezzetto di terra nel Sussex per alcune centinaia di anni.
Ma la corruzione del costume agricolo, le mutazioni
economiche, la sfida del commercio transoceanico. Lei sa
come vanno queste cose.
- Certamente. La terra è ormai un lusso. Guardi un po’
Windsor. E poi lei ha una vocazione tutta sua, John, non è
vero? Mi permette di chiamarla John? Il mio nome di
battesimo è Bartholomew. Ma lei lo sa già, ne sono sicuro.
- Certamente, Bartholomew, certamente.
- Una volta ho conosciuto uno Smerling di Camelot.
Edward. Parente forse?
- Di secondo grado.
- Una persona simpatica. Ma quelli che sono nel
commercio internazionale hanno sempre un bel sorriso.
- Evidente, hanno di che sorridere.
- E magari di che ridere.
B P e il rev. John Smerling, per ora quasi-viceparroco
di Prucett Terrace, risero insieme di cuore.
Quella stessa sera, poco prima di ritirarsi nelle
rispettive stanze dell’austera canonica, il molto rev.
230
Homer Chass-Potter, rivolgendosi al suo pupillo e futuro
successore, disse:
- Ho visto che ha legato con Prucett, stamani.
- Un buon uomo. Una persona onesta, mi sembra.
- Questo lo sa Dio solo. Noi assolviamo in nomine
Domini. Non è affar nostro. Per ora, possiamo dire
soltanto che è un buon commerciante. Ma bisogna stare
attenti con lui. E’ un gran furbone.
John Smerling era solo un giovane prete, ma di sincera
vocazione, di austeri costumi, e degno di reggere il piccolo
gregge che il suo vescovo gli aveva proposto, e che padre
Homer in breve tempo gli avrebbe consegnato. Ora, come
chiunque nelle sue scarpe, con le sue disposizioni e la sua
inesperienza, inghiottì male.
Cosa voleva dire il suo ospite e maestro?
E lui, aveva già fatto forse qualcosa che non andava?
- Mi ha solo offerto cinquanta sterline per proporre una
macchina a mio cugino Edward. Immagino che lei sappia
chi è. Un diplomatico incaricato dalla Corona del commercio con alcuni gruppi industriali ed agricoli del centro
America.
- Prucett dà via la Rover?
- No. Si tratta di una Rolls giallo-nera.
- Quella che intende comprare? Me ne aveva parlato.
- Ora sembra che non gli interessi più.
- Cosa? - Homer Chass-Potter era sinceramente
meravigliato. Quel pescecane rinunciava alla Rolls?! - E
lei a questo punto cosa c’entra,John?
- Purtroppo Prucett ha già dato una caparra di cinquecento sterline e mi ha chiesto di aiutarlo a rientrare...
- E lei cosa ha detto?
231
- Che forse mio cugino Edward poteva essere interessato.
- E ha fatto male.
- Ma è vero.
- Lei non è un mediatore, ma un pastore. Si interessa di
greggi, non di autosaloni. Anche se la sua non è una
cultura agricola, certamente capirà la differenza.
La frase tagliente del vecchio parroco tolse il respiro al
pretino che gli stava di fronte. Poi il molto reverendo si
alzò e si avviò alla porta.
- Ma ormai è fatta!?? -, John Smerling tastò il terreno.
- Sembra sempre così. Ma, delle cose, non se ne vede la
fine prima che giungano al loro termine. Se lo ricordi,
Smerling. E’ una buona regola di prudenza. Anche per un
prete che conosca a memoria l’Apocalisse.
Cosa fare?, si chiese a quel punto John Smerling.
Aveva già telefonato a suo cugino. E cosa fatta capo ha.
Dicevano così anche i latini. Gente famosa, antica, e di
grande civiltà. Anche giuridicamente...
La “fine vera delle cose” giunse in breve tempo.
- Non le porto i saluti del Cardinale.
Per quanto sofferente, John Smerling avrebbe voluto
dire: lo immaginavo. Ma tacque. La sua posizione era
quella di una necessariamente sottomessa attesa. A tanto
lo obbligava il candido lettino d’ospedale oltre che i voti
emessi da poco, tutto sommato..
- Sua Eminenza si è detto molto meravigliato.
Testualmente: “Pensavo che venisse da Londra, non da un
asilo per giovani imbecilli”.
E poi mi ha chiesto di rimanere al mio posto per un
altro semestre. Il tempo necessario affinché lei si
232
ristabilisca. Che si rimetta in piedi e conosca un po’ a
fondo il circondario.
Il molto reverendo Homer Chass-Potter tacque per
qualche istante. Poi:
- Ma la cosa più stupida l’ha fatta sedendosi avanti,
accanto al guidatore.
- Bartholomew...Mr Prucett mi ha detto che da quel
posto si godeva una stupenda vista del paesaggio.
- Quello lì lo chiamano il posto della morte. Ringrazi il
Signore se non ci ha lasciato la pelle.
- Ma scollinavamo soltanto...Edward...
- Non mi faccia dir nulla di suo cugino, la prego.
- Comunque mi è andata bene.
- Certamente. Non la si può dichiarare eretico, e buttare
fuori dalla chiesa a calci nel sedere. Ma lei ha fatto una
cosa molto stupida. Se lo lasci dire da uno che potrebbe
essere suo nonno, se non avesse considerato la verginità
come un sacro quotidiano impegno.
- Sissignore.
- Che bisogno c’era di fare quel giro?
- Erano tutti felici, eccitati. Anch’io. Avevo già avuto
le mie cinquanta sterline.
- A maggior ragione. A maggior ragione doveva
schizzar via.
Bel tipo anche quel suo cugino.
- Edward, poveraccio, non aveva mai guidato una
Rolls. E l’ha detto salendo in macchina.
Homer Chass-Potter alzò il dito.
- Vede John!? Lei è un giovane intelligente, istruito, di
buona famiglia, ma è anche uno stupido. O mi sbaglio? Ha
visto poco denaro nella sua vita, ma abbastanza per
ubriacarsene. Ha detto lei stesso che aveva già ricevuto il
233
compenso e che suo cugino era una persona inesperta. Ma
lei ha sentito il diabolico profumo del mondo del denaro....
- Non è così, signore. Non sono sciocco come lei mi fa
sembrare. - Smerling cercò di difendere il suo onore e la
sua integrità, ma senza troppa convinzione.
- Altroché, mio caro. Vedrà. Avrà tutto il tempo per
rendersene conto. Intanto, per parte mia, le anticipo il
regalo che volevo farle andando via.
Chass-Potter si fermò per dare all’altro il tempo di
ringraziarlo, come era giusto.
- Grazie, signore.
- Si tratta di un libro. Che lei probabilmente conoscerà
per sentito dire.
Prima di proseguire Homer si arrestò ancora per un
attimo. Forse la suspense avrebbe arricchito il dono.
Chissà. La mente dei giovani moderni, oltre che
improvvida, è anche tanto strana. Appunto tanto moderna,
- Si tratta delle Lettere di Berlicche, di C.S.Lewis. Un
mio grande amico, oltre ad essere un uomo che ha
illustrato il genio nazionale in patria e sino ai confini del
mondo civile. Abbiamo studiato per alcuni anni nello
stesso college.
Quell’aggettivo, “civile”, ci voleva. Lewis era troppo
sgobbone per poter essere avvicinato dagli aborigeni.
- E nel farle il dono le anticipo il contenuto. Si tratta
della scienza del demonio. Berlicche è un vecchio diavolo
che parla a un apprendista-diavolo, suo nipote Malacoda.
Un libro interessante sin dalle prime pagine.
Di fatto erano le uniche che Chass-Potter avesse letto,
magari per potervi accennare nel caso se ne fosse data
l’opportunità.
234
- In cui, appunto, il diavolo spiega al nipotino che uno
dei modi principe per allontanare gli uomini da Dio è far
loro credere che una cosa è la fede e un’altra la realtà di
questo mondo. La realtà vera di ogni giorno. Il quotidiano,
la vita di ciascuno e di chiunque. Le sue cinquanta sterline,
per intenderci.
In realtà, Dio ha i suoi piani sull’uomo, e la sua
provvidenza per realizzarli. Piani che possono andare
avanti allorché l’uomo ha fede.
Pertanto bisogna che l’uomo abbia il capo chino sulla
“realtà della vita” senza capire in fondo cosa sia
l’autentica Realtà, perché possa essere travolto dal
demonio e dal suo mondo.
Perché se comincia a ragionare sul serio, sono guai,
dice Berlicche al nipote Malacoda. Sono guai seri per il
demonio.
Le ripeto, John, Dio ha i suoi imperscrutabili piani.
Efficaci oltre le nostre miserie, ed egualmente lontani da
esse. Dalle sue cinquanta sterline.
E poi voglio dirle un’ultima cosa, vecchio mio. Lo
consideri il mio testamento spirituale di parroco. Noi non
siamo al servizio di Dio, non ne saremmo stati mai capaci.
E’ Dio che è al nostro servizio. Noi siamo solo servi
inutili. Legga l‘evangelo, si documenti. Questa verità
teologica è il fondamento e l’espressione più sintetica - ma
anche assolutamente compiuta - della buona novella. E’
lui che ci chiama, battezzati e non. Non si metta in testa di
fare grandi cose. Qui non ci sono grandi cose da fare e
nessuno che è qui sarebbe in grado comunque di farle. Chi
vuol fare grandi cose è qualcuno che non conosce il suo
posto.
235
Piuttosto si metta tranquillo, il lavoro non mancherà. La
messe è molta ma gli operai eccetera... Un lavoro che lei
comprenderà forse di rado, cui spesso non conoscerà
l’esito...Dio è segreto oltre che misterioso. Ma non faccia
casotti, né da cinquanta sterline in su né da cinquanta
sterline in giù...
Era notte inoltrata.
Prucett Terrace sonnecchiava al centro di Prucett
Meadows. E le cose andavano meglio di come sarebbero
potute andare, si diceva B P in cuor suo, nello studio quasi
al centro della sua magione. Non sapeva cosa sarebbe
accaduto, se fosse stato lui accanto al guidatore. Alla sua
età. Con la fragilità conseguente alla sua osteoporosi di
sessantaquattrenne.
La calcificazione della tibia andava bene. Forse anche
un po’ troppo bene, aveva detto Sir Henry. Perché il callo
osseo era più consistente di quanto avrebbe dovuto.
B P si tastò la parte in questione, e anche a lui parve
che il callo osseo fosse esagerato. Ma solo un poco, per
non spaventarsi troppo.
Ora, c’era da chiedersi se quel callo osseo fosse in
collegamento con una delle malattie che San Sebastiano di
fronte a lui gli ricordava costantemente.
In altre parole, il decadimento dei prossimi anni diciamo dei prossimi quarant’anni - era già iniziato?
E c’entrava qualcosa l’irritazione emorroidaria di cui
soffriva da qualche tempo? O era semplicemente dovuta
alla cucina piccante della nuova cuoca, come diceva
Eleanor?
Ma quali erano le malattie da cui si sarebbe dovuto
guardare con maggior cura?
236
Bisognava stilare un elenco, e soffermarsi su di
un’accurata anamnesi. L’avrebbe detto a Sir Raymond, ed
anche a Du Barry quando ne avrebbe avuto l’occasione.
Lo sguardo di Bartholomew Prucett vagò incerto per la
stanza. Ma sarebbe stato, dopotutto, prudente spostare quel
nobile quadro dalla biblioteca?
Alla fine i suoi occhi incontrarono la busta che aveva
contenuto prima le cinquecento sterline dell’acconto per la
Rolls, poi i documenti della suddetta, e infine le rimanenti
quattrocentocinquanta sterline per pura fortuna ricuperate
dallo Smerling di Camelot.
Quella Rolls non l’avrebbe mai dimenticata.
Non avrebbe potuto. Sarebbe stata sempre al suo
orizzonte.
Splendido ridondante cenotafio. Urna ancora vuota: ma
per quanto?
Maledetta automobile.
Confine intoccabile? In un certo senso sì. Limite del
suo essere, al di là del suo essere.
Opulenta ombra giallo-nera proiettata dalla sua fine sul
suo orizzonte. Mina vagante su cui molte cose sembravano
essere esplose.
Probabilmente sarebbe stato imprudente disfarsi del
quadro di S. Sebastiano, si disse B P.
Quindi l’uomo abbassò le palpebre assonnate, mentre
con il restante pensiero cercava di concentrarsi sulla
propria finitezza e su Dio.
Era tempo che cominciasse a farlo, gli aveva detto quel
maledetto Chass-Potter dopo avergli amministrato
“l’unzione degli infermi”.
237
Poi tutti dormirono il riposo dei giusti, o quasi, a
Prucett Terrace, nel bel mezzo di Prucett Meadows o
quasi.
238