Testo - Antonio Ferrazzani
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Testo - Antonio Ferrazzani
Il Prologo Luise sedeva di fronte a me nel treno che ci portava - anzi, che a volte ci trascinava - verso il sud dell’Italia. Il convoglio ferroviario era tra i più veloci ma dopo la prima ora di viaggio la noia ci aveva già raggiunti e fermamente agguantati. A tratti la mia compagna cambiava posizione, un breve movimento, quasi impercettibile per chi non avesse lo sguardo fisso su di lei come me. Era un’esigenza a cui “doveva soggiacere”, mi aveva spiegato una volta. Forse un fatto nervoso, ma ogni tanto doveva cambiare posizione, darsi una lieve, lievissima scrollatina. Come per svegliarsi dal sonno incombente, nel caso di momenti noiosi? O per sfuggire a un sogno poco gradevole o...impossibile? Ne avevamo riso insieme. Come una giovane puledra, Luise scartava, oppure “cambiava binario”. Ma, se nei treni si avvertiva il tonfo di quella manovra, nel suo caso non si poteva rilevare nulla o quasi. 1 Luise, di solito - ma diciamo pure “sempre”- sedeva di fronte a me, viaggiando nel verso del treno. Se le carrozze avanzavano, lei avanzava, se indietreggiavano anche lei indietreggiava. Si trattava di un’abitudine, di un dolce costume che intendeva favorire le sue preferenze. Una volta si leggeva, nella letteratura “sdilinquita”, che gli innamorati offrivano un mazzetto di fiori, accompagnando la donna amata in un viaggio, e glielo porgevano allorché la incontravano. Un mazzetto che poteva servire per affondarvi il viso, nel caso la compagnia del treno le risultasse spiacevole o l’odore poco gradito. Un gesto simpatico e allo stesso tempo mutamente erotico perché la fortunata, ricevuto il cadeau, provvedeva a tuffarvi il viso e poi a stringerlo al petto, e magari a far scivolare uno dei fiori nell’asola della giacca. Oppure in quello della camicetta, in audace prossimità del seno. Così che il compagno poteva fantasticare su di un luogo tanto significativo e delizioso; o poteva rammentarne le ombre colorate, se fosse già l’amante della giovane donna. Ecco, io facevo qualcosa del genere lasciandola viaggiare nel senso di marcia. Ma perché poi dire “giovane donna”? L’amore non ha età e non ne ha mai avuta. E i sessuologi hanno messo a disposizione degli interessati tutta una letteratura che esemplifica come non soltanto l’amore non ha età ma addirittura non l’avrebbe la fruizione sessuale - più o meno. A volte, osservandola in quella sua posizione fra il riservato e il sonnacchioso, mi veniva da pensare che Luise a tratti si ritirasse in un luogo della sua anima, e che volasse verso un mondo lontano dal mio, in un universo che al di là delle perfette ciglia del suo maquilla-ge la 2 cullasse con le sue speciali dolcezze. In quei mo-menti mi sentivo come su di un altro treno, che compisse un viaggio solo parallelo al suo. E ne soffrivo. Altre volte mi sorprendevo a pensare che la mia compagna, piuttosto che essere avvolta nei veli di un altro mondo, fosse semplicemente nell’attesa di qualcosa o forse di qualcuno. Mi sembrava che il suo atteggiamento, fra il sognante e l’estatico, altro non fosse che il luogo dell’aspettativa di quanto doveva prima o poi accadere. Povera Luise, mi dicevo in quei casi, povera e cara Luise così maltrattata dalla mia immaginazione, cosi fraintesa dai miei occhi! Lei aspettava solo di gettarsi fra le mie braccia, quando saremmo arrivati a destinazione, per nutrirsi di me come io mi nutrivo di lei, entrambi ancora insaziabili come durante i primi mesi della nostra conoscenza. Per carattere sono un uomo che potrebbe essere molto violento ma non lo è perché non crede nell’efficacia della violenza. Credo di più nel tentativo della convinzione, nelle fatiche della spiegazione e, a volte, addirittura nell’efficacia delle metodiche di corruzione. In fondo, la violenza è praticata da chi non ha mezzi materiali o intellettuali, da chi non ha una vera esperienza della vita e si riduce alla forza muscolare, addirittura all’omicidio. Io evito...aspetto. Attendo il mio turno. L’ho atteso per fare parte della cattedra universitaria a cui collaboro, e lo stesso faccio nelle altre cose più o meno importanti della mia vita. L’attesa paga perché comunque insegna. Con Luise in modo particolare, che è dolce, furbetta, 3 dedita al silenzio quando qualcosa non è andata per il verso giusto e la sconfitta l’ha mortificata. Bene, eravamo nel bel mezzo di una situazione del genere - a causa di un costume esageratamente scosciato che aveva voluto acquistare a Venezia - quando la porta alle mie spalle scivolò fischiando leggermente, e la carrozza fu invasa dal rumore delle ruote contro i binari e dal sottile lezzo ferroviario proveniente dal di fuori, oltre che da un uomo sulla quarantina. Alto e dai capelli rossi. Rossi? Non proprio, piuttosto del colore dei capelli di Robert Redford in non so quale film in cui il famoso attore americano aveva dispiegato tutte le sue virtù amatorie e fatto immaginare alcune delle sue capacità sessuali. Il ricordo durò un breve istante, poi un immediato accattivante sorriso avvolse sia me che Luise, e subito diventammo un trio. Non foss’altro perché l’uomo doveva occupare il posto accanto a me, l’ultimo vuoto della carrozza. Rompere il ghiaccio non fu facile ma, ad un certo punto, mi accorsi che Luise stava soffrendo di quell’ obbligato silenzio. Si “smuoveva” più frequentemente, e sembrava suggerirmi con gli occhi di fare qualcosa, qualunque cosa. L’unica cosa che mi venne in mente fu offrire al mio vicino la rivista che stavo sguardando, certamente più interessante del catalogo di una catena di supermercati di Milano al momento nelle sue mani. - Posso offrirle una chance intellettuale? L’altro si volse a guardarmi, un po’ meravigliato e anche un po’ seccato, mi parve. Di fatto, il mio non era un modo intelligente per iniziare a condividere il breve spazio di quel viaggio. Ma tanto mi era venuto di escogitare nei brevi attimi in cui Luise mi chiamava a soccorrerla. 4 - Grazie. Cominciavo a essere stanco di guardare tute e scarpe da trekking - disse poi sorridendo. Per alcuni minuti il silenzio si richiuse su di noi, ma Luise mi parve rasserenata. Si muoveva con maggiore scioltezza, sporgendo il capo in avanti per guardare dal finestrino o compiendo brevi gesti come lisciarsi i pantaloni o esplorare la borsa che aveva in grembo. Poi l’uomo fece sentire la sua voce, e io mi accorsi di come essa potesse essere bassa e tinta di una riflessiva malinconia. Quasi che parlasse con se stesso invece che a noi, cosa del tutto inequivocabile. - La gente parla dell’Africa come di un troppo vasto quartiere del mondo, piuttosto che di un continente. Non crede? Si rivolgeva a me ma era evidente che le sue parole fossero indirizzate anche a Luise, che a tratti gli aveva lanciato sguardi curiosi, un po’ indiscreti ma possibili dopo esserci specchiati tutti e tre nelle stupidaggini della stessa rivista. - La gente non sa cosa dire ma solo cosa fare: vendere il giornale - l’altro continuò. - Tutte le altre cose sono di poca importanza. - Lo scoop, dice lei? Capisco. Ma non solo lo scoop... Qualunque informazione oggi è inaffidabile. Senza accorgercene, viviamo nel mondo della fantasia, viaggiamo sui binari di pretese intuizioni ideologiche...E su errori marchiani come le false cifre compitate con sottolineata precisione, e le informazioni mendaci fatte scivolare da qualche gnocca cinquantenne ben rifatta in camerino - o altrove -, o da qualche maschietto-mezzobusto dall’impeccabile aplomb fin dove si vede... 5 Philip era Phil per gli amici, e anche noi lo chiamammo così. Si trattava di un uomo più o meno “piacione” - un po’ meno di qualcuno e un po’ di più di qualche altro - che indossava un paio di jeans e una giacca di daino, di cui si era liberato un attimo prima di sedersi accanto a me. Era della mia statura e costituzione fisica, ma la testa era di quelle che abbiamo visto più volte in televisione o in un altro dei media. In essa si notava la passione per il dettaglio: il colore dei capelli, gli innumerevoli riccioletti raggruppati e accuratamente sistemati, l’inquadratura tutta che disegnava un volto che solitamente si definisce stellare. O forse stellare leggermente allungato: non che io me ne intenda molto. E che la fisiognomica avrebbe detto appartenere a persona un tantino effeminata. Per quanto attiene alle idee, Phil si dimostrò un critico della post-modernità, ma non un conservatore. La sua caratteristica era tutta altrove, e ce ne saremmo accorti presto. Quando parlava, sembrava che decollasse per territori elevati, probabilmente ignoti a chi lo stava ascoltando, e poi si stabilizzasse insieme al suo uditorio a una “certa altezza”. Aveva un atteggiamento che tendeva al “professorale”, una sorta di intenzione affascinatrice mista a un’emozionalità coinvolgente. Io, che lavoro all’ università, me ne accorsi subito. Era un uomo che si produceva in un mestiere che non conosceva, che non era il suo. Per non parlare della lingua, colorita al punto da essere qua e là ridondante, ma precisa, viva, provocante nelle allusioni sessuali. Quando il discorso si fu inoltrato e ci ritrovammo tutti e tre nell’Africa del diciassettesimo secolo, mi chiesi se quelle doti le avesse ricevute, più che dai suoi studi, dai suoi contatti con i bantù; se non avesse 6 sviluppato la sua capacità di coinvolgimento emozionale nell’abitudine alle civiltà primordiali di cui trattava e dei loro sciamani. Si sa che le popolazioni di quelle culture sono particolarmente efficaci nel trasmettere con ampia e diversificata fisicità i loro messaggi intellettuali, fino a raggiungere il mimo passando per la maschera. E più consideravo quanto sarebbe stato impossibile per me rivivere, durante le mie lezioni, le emozioni che lui aveva probabilmente già vissuto decine di volte in altri racconti di illustrazione di quelle civiltà, più mi rendevo conto di assistere a una sorta di spettacolo che mi era già sfuggito di mano, o che mi sarebbe sfuggito di lì a poco. E iniziai a nutrire una sorta di diffidenza per quell’apparentemente insignificante momento di un viaggio, di per sé non molto incisivo ma che forse si incamminava verso un insospettato happening. La cosa che presto iniziò a meravigliarmi fu l’atteggiamento di Luise. La mia fiancé aveva dapprima resistito - forse per la sua innata discrezione - a partecipare con dichiarata attenzione all’affastellarsi di notizie e riflessioni di Phil, rivolgendo sguardi sfuggenti e falsamente attenti al panorama, ma poi, liberatasi da ogni remora, aveva iniziato a seguire attentamente il discorrere dell’altro. Ora, io mi dissi, Luise non si era mai interessata al Continente Nero e alle sue relazioni con l’Europa. Ci era capitato di discuterne molto poco, forse solo in due occasioni della nostra vita sentimentale. Nella prima le avevo spiegato che il cannibalismo sembrava indurre la follia in coloro che lo praticavano con frequenza; e la seconda riguardava gli usi e costumi sessuali dei popoli che andavano praticamente nudi ventiquattrore su ventiquattro. Come facevano le 7 ragazze a rimanere vergini in tali condizioni? - si era chiesta e mi aveva chiesto Luise. Si trattava di una domanda esigente, che richiedeva una risposta complessa, e il previo esame di una diversificata casistica che evidentemente io non ero all’altezza di fornirle. Si faceva così da noi, all’università. Di conseguenza mi ero limitato a replicare di avere ascoltato da qualche parte - ma proprio non sapevo dove e come mai che, durante un jamboree di grandi cuochi, e alla fine di lunghe discussioni su quel piatto o su di un altro, sulle stranezze culinarie di una subcultura o di un’altra, il membro più importante della compagnia, lo chef N°1 , con un risolino fra l’accattivante e il cinico, era uscito in una espressione inattesa: La migliore, amici miei, è la carne umana! A quel punto Luise si era rifiutata di proseguire ed aveva decisamente cambiato argomento. Proprio ciò in cui avevo confidato. Cosa ne potevo sapere io di verginità, di sessualità femminile, a parte la fatica che mi era costata portarmi lei a letto? Man mano che il discorso andava avanti, e noi risalivamo i secoli fra le parole e i sorrisi del nostro mentore, mi accorgevo che come per incanto dal volto di Luise era scomparsa ogni traccia di quella caratteristica che lei esibiva così spesso: l’attesa. I segni di quella muta quanto sottaciuta aspettativa che io dovevo gestire con e per amore, erano del tutto trascorsi. Luise non aspettava più, era immersa nel presente. Sembrava che, se mai ci fosse stata qualcosa da attendere per lei, era l’Africa. Senza dubbio. 8 Phil, dopo essersi immerso fino al Capo di Buona Speranza, e averci illustrato la natura essenzialmente strumentale dell’interesse per tale capo della Compagnia Olandese delle Indie Orientali, a causa del rifornimento di quanti volessero controllare l’accesso di naviglio all’Oceano Indiano (leggi Governo Olandese), o rifornirsi di generi alimentari recandosi per i loro commerci nelle Indie Orientali (leggi trafficanti olandesi), aveva fatto un secco balzo nell’era napoleonica. E qui, dopo aver illustrato come il Capo avesse mutato padrone più di una volta, durante i dissapori fra il Corso e la pallida Albione, ci aveva finalmente rivelato l’origine delle sue conoscenze specifiche a riguardo di quella parte del mondo - che di lì a poco lui definì come il culo del mondo, in fatto di progresso tecnologico e civile. Per la verità la frase mi spiacque, ma, ragionandovi su - nell’arco dei brevi secondi lasciatimi a disposizione da Phil - mi dissi che più di una Alta Corte avrebbe tollerato, benevola e civilmente condiscendente, tale espressione. Fra l’altro, qualche fine giureconsulto avrebbe argomentato che la signora non era più vergine da un pezzo - come io sapevo benissimo -, e quindi c’era poco da scandalizzarsi...! Insomma, una frase senza pudore, sì, ma “in qualità di intellettuale io avevo poco da recriminare”. In realtà la famiglia di Phil aveva fatto parte fin dai suoi inizi dell’insediamento europeo vivamente sponsorizzato e alla fine ottenuto dalla Corona Olandese in quella parte delle terre emerse - nel lontano 1652 - perché in quel modo, cioè con quell’insediamento ufficiale, i problemi relativi ai traffici commerciali sarebbero sensibilmente diminuiti, e tutto sarebbe filato liscio in quell’angolo del 9 mondo, a giudizio del Governo Olandese e dei politici dell’Alta Europa. - Un lungo lunghissimo percorso, miei cari... e numerosi membri della mia famiglia presero parte alla colonizzazione e allo sfruttamento di vasti territori nel sud dell’Africa. Ma, allorché “tutto il meglio accadde”, il ramo di mio nonno aveva da qualche tempo deciso di rinunciare a vivere in quelle terre che, se non proprio dorate, potevano diventarlo da un momento all’altro. E si trasferì in Germania. A questo punto il nostro mentore aveva iniziato a parlare dell’Olanda, e di Amsterdam in particolare, non ricordo con precisione il collegamento degli argomenti. E le sue espressioni, la sua emozione per l’antica terra degli avi, avevano dipinto meravigliosi paesaggi extra urbani e squarci di antiche e nobili città. Nei suoi toni affiorava la nostalgia per quei luoghi, che era andato poi a conoscere, e un’emozione almeno pari a quella con cui ci aveva raccontato di luoghi dell’Africa del sud. Avrei potuto dire qualcosa anch’io, interferire in qualche modo... Si trattava di uno Stato e di una città che avevo visitato più volte...Ma non mi riuscì. Temevo, fra l’altro, che la mia voce, a paragone della fascinosa morbidezza di quella dell’altro, potesse apparire acuta, forse addirittura sgradevole alle orecchie di Luise. Poi il condizionamento dell’aria si interruppe d’improvviso, e quanti vi erano dovettero abbandonare la vettura. Anche Phil dovette interrompere il suo racconto. Il caldo si faceva sentire, e noi stessi ci trasferimmo in una delle carrozze più a monte. Ma, proprio mentre ci stava- 10 mo riprendendo dall’afa che ci aveva aggredito negli ultimi dieci o quindici minuti, Luise s’accorse di aver lasciato il bolero di seta che aveva deciso di indossare durante il viaggio - per non mostrare le ascelle perfettamente glabre e sensuali della sua giovinezza, cosa che a me non era dispiaciuta - nel contenitore portaoggetti al di sopra delle nostre teste, nella carrozza da poco abbandonata. In effetti, la temperatura del vagone era alquanto più bassa di quella in cui avevamo viaggiato fino a qualche momento prima, e il bolero non disdiceva. Ed io non volevo che proprio nel momento in cui Luise era diventata ancora più preziosa ai miei occhi a causa di quell’estraneo, dovesse pensare che io la trascurassi. Il mio corpo e la mia anima in quel primo pomeriggio ribollivano per lei. E fece per alzarsi e andare a prenderlo. La cosa era evidentemente assurda, sia io che Phil ce ne rendemmo conto immediatamente. Due uomini non lasciano che una giovane donna vada a riprendersi qualcosa che ha dimenticato in un vagone ferroviario a due tre scompartimenti di distanza. E il suo amante? Non provvede direttamente ma declina ad altri tale compito!? Proprio quando io mi alzai per fare il mio dovere di accompagnatore, lo stesso fece Phil. E fu la prima volta che quell’istrione la toccò. La cosa mi dispiacque ma il gesto di sfiorarle il gomito, invitandola a desistere, era spontaneo e inteso a introdurre la sua proposta. Non era un’avance. Intendeva recarsi lui stesso a prendere il bolero, nella carrozza che a quel punto doveva essere diventata un forno! 11 Compresi di essere stato dribblato e ficcato dalla sorte nel dilemma o di mostrarmi a Luise poco cavalleresco nei suoi confronti - e di non essere interessato dopotutto alla publicizzazione delle sue meravigliose ascelle -, o di doverla lasciare in compagnia di Phil nella vettura deserta... Quel toccarla, seppure con gentilezza e giustificato motivo, non mi era piaciuto. Non mi sembrava di buon auspicio, mi dissi. Il tempo si dilata o si restringe, è soggettivo. La filosofia occidentale ha preso in profonda considerazione questo suo aspetto almeno dal IV secolo, da quando Agostino iniziò la propria indagine su di esso. Il mio tempo, in quei brevi attimi, mi parve un gelido mare, pallido e infinito, che mi stringesse mutamente nella morsa di fauci impietose. Pensai alle ascelle della mia amante - a quel punto entrate vivamente nel gioco - e ad altre parti del suo corpo facilmente raggiungibili nell’ afosa stagione. Alle labbra tumide e fresche di lei, e a quelle così grossier di Phil. Silenzioso, il mare già mi lambiva le visceri ghiacciandole. Dovevo decidermi. Di scatto mi alzai e mi precipitai verso la porta che introduceva al resto del treno alle nostre spalle. E fui fuori, triturato dai morsi della gelosia e dai panorami dell’immaginazione, a quel punto accesa più dai miei sentimenti che da quelli che potevano dibattersi nella mente di Phil, o sulla punta delle sue ricordevoli dita. E nei pochi minuti che impiegai a divorare le due carrozze appena superate, tutte le peggiori oscenità del mio repertorio sessualfantastico invasero la scena della mia mente, rendendomi quasi folle per il timore di cosa poteva accadere in quel preciso momento, e vicino ad essere malamente schienato da un carrello con caffè, bibite e lascivi panini imbottiti, le 12 cui rotelline non erano state fermate a dovere, che quasi mi mandò gambe all’aria. Al mio ritorno Luise mi sorrise e senza dire una sola parola si portò un dito alle labbra in segno di ringraziamento. Nel contemplare la scena del tutto normale, di lei un po’ rannicchiata nel sedile e pertanto più lontana da Phil di quanto fosse stata prima, io mi sentii il cuore esplodere di gioia e fui per un attimo del tutto risucchiato dal silenzio in cui si era adagiato quella sorta di piccolo bacio. Phil le stava dicendo qualcosa di evidentemente stupido, quando io ero entrato nella carrozza - per non dire “vi avevo fatto irruzione” spinto dalla mia ansia - e si era interrotto al mio ingresso. Senza che lei avesse dato il minimo segno di notare lo spegnersi della sua voce, mi dissi. Quel bacio fra noi era un segno, ed aveva una valenza erotica ben maggiore di quanto il gesto in se stesso potesse dire. Apparteneva alla sintassi della nostra antologika amorosa, rappresentava un bacio intenso, speciale, e ci piaceva appunto per la sua capacità di dissimulare la sua vera portata allorché eravamo in presenza di altri. Quindi Phil, intrecciate con me poche parole sul basso grado di temperatura dell’ambiente in un paio di frasi senza senso, riprese la sua narrazione. Luise taceva, ma, dopo averla guardata più volte, dovetti ammettere che pendeva letteralmente dalle labbra del narratore. Era come...dimentica di tutto tranne che del racconto di Phil. E vittima del suo stesso modo di parlare, 13 di quel tono insieme affabulatorio e allusivo di un’intimità spirituale che non poteva assolutamente esistere fra lui e Luise. Un po’ più su della divisione dei seni di Luise, brillava il punto luce che le avevo regalato in occasione della recente promessa matrimoniale. In quei momenti c’eravamo ripetuti con soddisfazione che facevamo davvero bene a sposarci. Era sembrata crescere fra noi, oltre all’intesa e alla generosità a cui gli amanti sono tenuti fra le lenzuola, anche quella speciale congiunzione metafisica che si chiama complicità, e che rende decisamente solido il rapporto di due persone che vogliano vivere insieme per tutta una vita. Il sapere cosa passasse nel cuore dell’altra a un semplice gesto era stato motivo di eccitazione non solo carnale ma anche spirituale. Una sensazione di “volare” con lei e per lei, e non solo su di lei. Ma con Phil nulla di tutto questo poteva esistere. Phil era nessuno, e sarebbe stato stracciato con i biglietti del viaggio una volta giunti a destinazione. A dispetto di tutto, nel corso di quel raccontare Luise si “ammorbidì” ulteriormente, fino a sciogliersi del tutto e a partecipare con il più vivo interesse a quella “orazione” sull’Africa. Alla fine - vale a dire dei trenta minuti di parole di Phil intervallate a una gestualità composta ed efficace, e ad altre piccole cose come il passaggio del conduttore del treno e del carrello-bar da cui acquistai due caffè per noi e un piccolo scotch per omaggiare l’oratore - l’espressione del suo viso era cambiata. Era divenuta come quella che io avevo visto sul suo volto in momenti di particolare esaltazione, e che speravo che lei replicasse spesso per il compimento della mia felicità, una volta che fossimo stati marito e moglie. 14 In quegli istanti - e ancor più me ne convinsi nei mesi a venire - i racconti di Phil (per quanto infarciti di storia e di economia, anzi forse proprio perché in tal modo si costituivano in autentica realtà, in prove provate) avevano invaso la sua immaginazione, si erano fatti largo prima nel suo cervello e poi, poco a poco, all’interno del suo cuore. E purtroppo io, per essere l’uomo che da mesi giaceva con lei a conoscerla biblicamente, ero senz’altro la persona più indicata a rilevare non solo il fatto ma anche i probabili indizi. Dalle sue labbra semiaperte, dagli zigomi leggermente arrossati, dagli occhi lucidi e brillanti, e dall’agitazione delle dita nevose, di cui io conoscevo la stretta nei momenti della soddisfazione del suo estro, da tutto insomma si vedeva apparire nel breve spicchio del più ampio oceano dell’essere, vale a dire all’interno della vettura ferroviaria, una nuova persona. Lo svelto rizoma del suo corpo, fresco e segnatamente femminile, sorreggeva, nel suo scuotersi e tremare, un sorriso che esprimeva le passioni della persona, il fiore maturo della sua bellezza, lo stesso frutto di una finalmente liberata personalità. Mi parve che Luise fosse diventata un’altra, al vento africano dei racconti di quel Phil dal sangue una volta olandese, poi boero, quindi tedesco, e ora forse italiano. Tuttavia, la meraviglia - intrecciata al piacere di possedere una tale bellezza, e di potere tra poco congiungermi a lei per tutta la vita - fu raggelata dal pensiero che quell’estraneo fosse coinvolto nella mutazione della mia amante, e nel piacere che essa mi procurava. Ma chi era, Phil, per essersi insinuato, e per dover essere sopportato nell’intimità della nostra vita a due? Nei penetrali del mio cuore e del mio corpo, laggiù, 15 nei recessi delle nostre più profonde radici che gli psicoterapeuti sostengono di conoscere solo loro oltre che Dio? Fu un sentimento, tuttavia, che se insorse spontaneo e violento ebbe anche vita breve. Dopotutto dovevo essere riconoscente a Phil per aver fatto sorgere ancora una volta sul viso della mia amante un’espressione tanto splendida ed eccitante! In fondo ero io che l’avrei goduta, io che avrei “degustato” quel tesoro per tutta la vita a venire. Sarei stato io a scaldarmi alle infocate tensioni dei suoi calori per i molti e molti anni del nostro matrimonio. Phil era il cerino che in quel particolare momento aveva acceso la sua fiamma, ma era mio l’incendio di cui mi sarei nutrito in futuro, e di cui peraltro già mi nutrivo. Proprio in quell’attimo del mio turbamento Luise strinse fra l’indice e il pollice il punto-luce, quel costoso suggello in cui si presagiva l’eternità del nostro amore. E il mio cuore dette nuovamente in un balzo. Anche quello apparteneva alla nostra erotika segreta, anche quello era un segnale. Quello stringere delicatamente il piccolo diamante, e insistere, insistere nel gesto finché io non lo avessi rilevato e non avessi ricambiato con uno sguardo di intesa. Toccarci, accarezzarci con delicatezza e con forza, essere la stessa unica dolce cosa a dispetto di tutto e di tutti, a dispetto del mondo... Luise sembrava soddisfatta, felice, mentre, senza staccare gli occhi dal suo interlocutore, stringeva il piccolo diamante con voluta non-chalance. Dopo quel regalo, mi aveva confessato, qualcosa era mutato nel suo cuore, nel nostro rapporto. Si era sciolta un’ultima remora in lei, nel cuore, nel corpo...Come se il gioiello le avesse infuso una fiducia che ancora non aveva conosciuto. E una serena 16 semplicità nella nostra vita spirituale e...sessuale che la incoraggiava. Così, di tanto in tanto, in particolare quando eravamo in presenza di estranei, raccoglieva il diamante fra due dita e mi parlava del nostro amore, del suo desiderio... in una rinnovata promessa per quando saremmo stati nuovamente soli, la sera, nel buio del nostro nido, una cosa sola per sempre nella gioia della reciproca passione, del nostro perfetto amore. Alla piccola luce di quel diamante. Alla fine il mare partenopeo ci aggredì con la sua bellezza, e tratti di aspre scogliere attraversarono il nostro campo visivo prendendo posto fra i nostri ricordi immortali. Eravamo quasi giunti a destinazione, e io dissi : - Abbiamo prenotato al Vesuvio... Con un’espressione di pura gioia, Phil replicò: - Alloggerò anch’io al Vesuvio. Me ne hanno parlato molto bene. Mi sforzai di essere compiaciuto della cosa, ma non potetti fare a meno di rivolgere lo sguardo verso la mia amante. Aveva gli occhi indirizzati a una dorsale di grigie scogliere solenni e petrose degradanti verso il mare, e solo a fatica staccò lo sguardo dall’aspro coacervo per fissare qualcosa di inesistente nell’incavo del proprio grembo. Mentre il piacere procuratole dall’ascolto del racconto di Phil mi parve ancora vagare sulla perfetta miniatura del suo volto. - Concludo la storia, aggiunse a quel punto Phil. - La ragione del nostro trasferimento in Germania è molto semplice. Durante la Grande Guerra, in cui l’Inghilterra, la 17 Francia, il Belgio e il Sud Africa si erano impegnati nella conquista dell’Africa Orientale Tedesca, molti boeri - vale a dire gente di razza olandese trasferitisi lì - avevano partecipato a quella sanguinosa guerra in cui trovarono la morte 4.000 soldati africani e circa 30.000 portatori. Terre di sangue e di leoni, e di un sole che spacca il cervello e il cuore agli uomini che osano calcare - col rischio di lasciarvi attaccati i piedi - quel suolo maledetto.... Nel partecipare alla terribile guerra coloniale, mio nonno vide tali e tante efferatezze compiute dai suoi conterranei che non volle tornare mai più in patria e, arresosi alle forze tedesche - dichiarandosi disposto a fornire informazioni di interesse bellico - passò dall’altra parte. Un atto che si può giudicare “inopportuno”, lesivo del suo onore, degno di immediata fucilazione sul campo, ma per noi della famiglia, a cui mio nonno raccontò le crudeltà compiute sui negri, e a volte anche sui bianchi catturati nelle azioni di guerriglia notturna, tutto divenne logico e alla fin fine eticamente necessario. Un soldato deve avere come principio la difesa della patria e dei suoi interessi e non il piacere nello scoglionare vivi i prigionieri che si catturavano all’ombra delle dune del Bechua-naland. E’ proprio così, la verità a volte si rivela per una realtà ben diversa da quella che ci appare, e di conseguenza acquista anche un sapore tutto particolare intessuta com’è anch’essa di dubbio e fragilità umana. E’ così che noi da olandesi diventammo tedeschi, e ora siamo italiani... Poi Phil, chiedendone il permesso a Luise, si addentrò nell’enumerazione di alcune delle torture a cui venivano sottoposti per pura ferocia i prigionieri catturati 18 nelle brevi incursioni notturne fuori campo, anche se feriti. Poco per volta, Luise sbiancò in viso che più non avrebbe potuto, ed io dovetti abbandonare per qualche minuto il mio posto per prendere aria lontano dalla vista di Phil, e fare gli sforzi necessari per non rimettere anche l’anima sul pavimento plastificato della vettura. Al mio rientro, il silenzio piombò su di noi come se ciascuno di noi dovesse digerire la coscienza, oltre che degli eventi narrati da Phil, di quel fatto terribile, di quel tradimento che dopo tutto era stato un riconoscimento della dignità umana, il volto palese di un soldato che diventava un eroe e raccoglieva l’alloro delle sue azioni proprio tradendo la sua gente. Fu un silenzio che durò per qualche minuto, quasi che avessimo bisogno di tempo per far luogo nelle nostre piccole anime a sentimenti così alti, a decisioni così coraggiose e coinvolgenti. Quindi entrammo nel territorio partenopeo, e Phil, con eleganza e grande classe, chiuse l’argomento recitando la frase di rito. - Mi auguro di poter visitare almeno una parte delle rovine ancora esistenti da queste parti...delle vestigia di un mondo che è in gran parte alle radici della nostra civiltà...Concludendo, si è sempre parlato male di Catilina ma qualche storico, tempo fa, ha detto che bisognava riconsiderare con maggiore attenzione e intelligenza politica quel particolare della storia di Roma, quel fatto così sconvolgente... Ed io ero sul punto di unirmi a quello che mi appariva un nobile proposito quando Luise, quasi risvegliandosi da un lungo sonno, con voce squillante lo fece per me. 19 - Oh sì, anche noi vorremmo fare qualcosa del genere! Intendo dire...la visita alle rovine...Ma di Catilina ne so così poco... Poi Luise mi lanciò un breve sguardo, e fece uno di quei quasi impercettibili movimenti che io conoscevo così bene. Ma non di quelli che faceva in pubblico, piuttosto un accomodarsi meglio contro il mio corpo, che era il segno di una soddisfatta conclusione dell’amore, e in cui si capiva come fossimo destinati uno all’altra. Di come fossimo una coppia sessualmente affiatata, attiva da cinque anni, e che aveva sviluppato la giusta intimità. Una cosa di cui mi ero sempre vantato con me stesso, e qualche volta con qualche amico o amica di lunga, lunghissima data. Appena arrivati nella magnifica camera che l’hotel internazionale innalzava sul golfo partenopeo, ordinammo frutti di mare annegandoli in una bottiglia di ottimo spumante, e rimanemmo vicini un’altra mezzoretta. E poi facemmo l’amore. Quella notte io e Luise non dormimmo molto. Evidentemente a causa dello stato di eccitazione causato dai racconti sull’Africa boera e sulle atrocità della I Grande Guerra nel Continente Nero, per non parlare del rifiuto del vecchio olandese della sua gente, della sua razza perversa, allorché si era trovato ad essere testimone dell’inferno che la guerra può raggiungere. Luise fu meravigliosa, arrendevole e generosa complice come non era mai stata fino allora, ed io fui felice perché mi parve di conoscerla finalmente un po’ meglio, dopo quegli anni di reciproco impegno relazionale. Poi di nuovo lei si spinse contro di me e facemmo altre due 20 chiacchiere. Quindi mangiammo dei babà innaffiati da un ottimo e fresco rum, ci riposammo ancora, ma solo un breve pisolino, e di nuovo facemmo l’amore. Luise sembrava...Non sapevo cosa dirmi, o come dirmelo, ma “insaziabile” fu la parola che mi salì alle labbra in più di un’occasione quella notte. Dire “assatanata” non mi piaceva, mi sembrava di sporcarla, anche se solo nella mia mente. Avevo scoperto una nuova donna al mio fianco e...E, per quanto mi riuscisse difficile confessarlo a me stesso, in quella “liberazione liberatoria” erano certamente coinvolte le storie dell’Africa del sud, dei bantù, e lo scoglionamento di diversi neri ndebele che avevano combattuto, per sfortuna loro, al fianco dei tedeschi sul confine dell’Africa Occidentale Tedesca. Era come se si fosse aperta una nuova strada sul suo cammino, e che lei, percorrendola con i primi passi, avesse individuato una ulteriore meta sulla strada dell’amore. Ma il fatto che a questo potesse aver partecipato Philip vattelapesca, pollone moderno di avi boeri, ebbene questo non voleva dire che io non dovessi godere in quella notte del progresso fatto nella nostra erotika, non dovessi gioire di quell’ amore selvaggio che per la verità avevo atteso nel mio cuore da sempre. In cui, sin dal primo momento del nostro incontro nel negozio di Wyatt, dove avevamo scoperto di acquistare entrambi una certa qualità di tè verde e ci eravamo dati appuntamento, avevo sperato con tutto il mio cuore. Il mattino successivo, in un’ora di giorno pieno in cui l’equilibrata felicità delle condizioni atmosferiche mantenevano le promesse delle luci e degli splendori di cui solitamente si parlava al riguardo di quelle coste, feci 21 una veloce doccia, mi vestii a puntino, e scesi a far colazione. Probabilmente Luise era già lì, nell’opulenta sala da pranzo appena intravista il giorno precedente. A consumare la colazione con quello stupido paroliere non si sa se olandese, tedesco, o italiano. L’idea mi era venuta in mente improvvisa, sgradevole, adatta a causare un più che leggero turbamento. Ma subito mi dissi che potevo farci poco, e che comunque i fastidi di quello stronzo erano senz’altro bilanciati dal miracolo...erotico a cui la mia innamorata e io stesso avevamo appena soggiaciuto. Cosa si può fare? La vita è tanto strana quanto varia, tanto inarrestabile nelle sue offerte quanto indomabile nelle sue...pretese. Intorno però non si vedeva nessuno, aggiunsi accomodandomi a un tavolo già apparecchiato. Neanche avevo avuto il tempo di formulare la salomonica conclusione che, fra un sorso e l’altro da un enorme calice di succo di pompelmo in cui stavo uccidendo l’attesa, un giovane cameriere mi raggiunse con un perfetto slalom fra i tavoli, tenendo in equilibrio sulla sinistra un ampio vassoio con uova e prosciutto, mostarda veneta, e stringendo nella destra quella che mi parve una candida busta con biglietto. - Ancora buon appetito signore. Da parte del concierge - disse quando posò il tutto sul tavolo. E fu via. Ingollai quanto restava del pompelmo nel calice e, mentre agguantavo fra l’indice e il pollice il biglietto, mi dissi che forse Luise era stata convinta dalla nostra recente conoscenza a fare quattro passi sul superbo lungomare partenopeo. E, liberato il biglietto dall’immacolato involucro, lessi: Amore, purtroppo le nostre strade si sono divise. 22 La vita spesso ci porta sull’orlo di scelte inevitabili che, per quanto crudeli possano apparire, fanno parte del nostro destino. Phil e io ci allontaniamo in silenzio per evitarti il dolore del distacco. Chissà, forse ci rivedremo ancora, e tu che sei così buono mi avrai completamente perdonata. Forse avrai addirittura dimenticato quanto ci è capitato e, in un’altra vita, potrai essere il padrino di uno dei nostri figli. Ti ho amato, mi hai amata, lasciamoci da persone civili, da gente moderna che sa riconoscere il proprio dovere. Ti ricordi quello che ha fatto il nonno di Phil? Quale nobile comportamento ha tenuto, quando si è trovato a fronteggiare la verità? Bene, facciamo anche noi qualcosa di simile davanti all’ineluttabile. Addio! NB - Ti prego, in ricordo del nostro amore inviami le cose che ho lasciato nella stanza a questo indirizzo di Milano. Tu sei stato sempre molto buono con me. E’ l’ultima prova d’amore che ti chiedo; dal momento che la notte scorsa è stata certamente una notte di passione, ti chiedo di sigillarla nella reciproca memoria con questa cortesia. Tua fino all’alba appena trascorsa, o quasi. Luise. Sotto i miei occhi le uova e il prosciutto si freddarono pian piano nel piatto; e i rossi, una volta perfetti, persero ogni brillantezza mentre le palpebre dei minuti scanditi dal mio cuore scendevano su di essi. Non sapevo cosa pensare. Ormai ero solo, solo e fisicamente provato. La notte e quel relativo risveglio non erano trascorsi invano. Non sapevo cosa pensare ma egualmente consumai le uova, divorai con rabbia la mostarda veneta e, alla fine, allorché il giovane cameriere si riavvicinò al tavolo 23 per chiedermi se volessi qualcos’altro, lo interpellai con la fredda cortesia adatta all’occasione. - Può mandarmi la femme de chambre della 562? Devo dirle qualcosa. - E a conclusione gli passai una frusciante mancia, come sapevo che si faceva in tutto il mondo civile. - Certamente, signore. Poi, alla ragazza, miracolosamente apparsa dal nulla di una porta finestra alla mia destra, dissi con una certa non-chalance: - Lei si prende cura della 562? - Sì signore...? - Bene, tutto quello che la signora che l’occupava vi ha lasciato è suo. Buongiorno. L’altra mi guardò un po’ meravigliata, quindi fece un breve cenno di ringraziamento con il capo e scomparve in direzione del concierge per assicurarsi, probabilmente, che nulla potesse esserle imputato se avesse fatto quanto le chiedevo, intanto che il giovane cameriere ascoltava curioso sparecchiando un tavolo a qualche metro di distanza. Luise era la mia amante da cinque anni, o poco meno, una studentessa che, partecipando al mio corso, era venuta verso la metà dell’anno a chiedermi in quale modo potesse superare l’impasse in cui si trovava. Era fuoricorso da due anni, e non riusciva a sbloccare la situazione che si faceva di mese in mese - ma anche di giorno in giorno più preoccupante perché la sua spinta verso gli studi cominciava a lambire lo zero. Mi parlò senza vergogna, e le parole che scivolavano fra le sue labbra giovani e tumide con tanta 24 sincerità mi convinsero che dovevo fare qualcosa. Le dissi di portarmi il libretto perché potessi esaminare la sua situazione, ed anche il piano di studi accettato dall’ autorità accademica. Forse “si poteva fare qualcosa”. A quel punto i suoi occhi brillarono di felicità, e io vi lessi una intensa luce che non avevo mai visto nello sguardo di una donna. Prendemmo un appuntamento, che lei segnò con cura nella sua agenda, e poi, quando capì che eravamo arrivati al termine dell’incontro, mi porse dita fresche e affusolate da stringere nella mia mano come al solito macchiata di inchiostro. E fu via. Mentre si allontanava lungo l’ampio corridoio, non avevo potuto fare a meno di seguirne la figura che sculettava sveltamente verso un’altra aula. Era in ritardo, mi aveva detto abbandonando la sua mano nella mia. E il suo sparire dalla mia vista provocò in me una sensazione di vuoto che quasi fischiò nelle mie orecchie. In seguito parlammo poco dell’impasse da cui avrei dovuto sbloccarla, e, per quanto mortificato dall’insuccesso pedagogico, dovetti convenire con lei di avere incontrato pochi giovani il cui interesse per gli studi fosse tanto vicino allo zero. Si trattò di un amore feroce che mi lasciò poco scampo, anzi che non me ne lasciò punto. Quindi cominciammo a convivere, e nel lustro trascorso insieme avevo tanto apprezzato le sue labbra tumide e il suo veloce sculettare - ma solo quando aveva fretta - che le avevo chiesto di sposarmi. Circa tre mesi prima. 25 I Quel tradimento lo aveva letteralmente sconvolto. E capire che quanto era accaduto aveva oscurato un certo tipo di relazione sia con l’altro sesso che con l’idea dell’ amore, costituì un colpo ancora più forte per Mark. Luise lo aveva privato di una parte di se stesso. In alcuni momenti si sentiva incerto, diffidente della sua sensualità e del suo gusto di vivere la vita. Schiacciato in qualche senso e in diversi modi dal “prepotere femminile”. Spesso gli intellettuali hanno una rigidità più o meno inconscia, ben mascherata da una elasticità frutto di matura ”razionalizzazione” ma pur sempre posteriore, secondaria. E si sa che, se l’abitudine è una seconda natura, questa seconda natura a volte deve fare i conti con la prima. L’irreparabilità dell’evento di cui era stato vittima gli parve segnasse un traguardo raggiunto. Il suo atteggiamento “contemplativo” nei confronti della donna era scomparso per sempre, era sparito, risucchiato dal nulla. La donna non avrebbe potuto essere mai più oggetto 26 della sua attenzione e del suo piacere nel modo e nella misura in cui lo era stato fino a poco prima. Luise gli aveva strappato uno dei suoi cardini, la relazione, lo spessore, il vivere di un amante. Tutto questo, con il passare del tempo, aveva provocato un vuoto nel suo atteggiamento quotidiano, nella sua esistenza personale e relazionale, che lo faceva soffrire terribilmente. In qualche modo lo aveva disamorato della donna, che, una volta negata nella sua precedente concezione, non riusciva ad apparirgli così intensamente desiderabile in altra veste. La prima parte della sua vita - egli aveva concluso doveva considerarla come quella dedicata all’uomo “sensibile” ma immaturo nella percezione e nella gestione della sua sensibilità/sensualità. Si trattava dell’uomo governato dai suoi desideri, dalla natura instabile in tutti o in molti aspetti della personalità umana. Nella seconda parte l’uomo è stato purificato dall’insuccesso. Da un fuoco che ha improvvisamente distrutto le sue mete, e in buona parte quanto costituiva il suo quotidiano, il piacevole cammino verso di esse. Una volta sensuale, egli non lo è più perché, da essere pensante qual è, ha compreso la debolezza dell’amore, l’insoddisfazione che esso provoca, e le conseguenze che comporta. E la futilità di ogni difesa dalla persona che lo nutre, quando ce ne lasciamo catturare. A questo punto Mark si piegò sul suo lavoro di docente universitario e, quasi disperando che quella parte della sua vita potesse avere una rinascita, partecipò con grande interesse e vigore alla vita dell’Ateneo, fino al punto di essere proposto - insieme ad altri colleghi - per passare dall’attuale posizione di associato a quella di 27 ordinario di una delle due cattedre che si erano rese disponibili in quel periodo. E, di poco a seguire, gli venne proposto di andare a rappresentare l’Ateneo all’estero per un evento internazionale. Doveva scegliere fra Oslo e Amsterdam. Si trattava di due simposi biennali, due convegni alquanto diversi fra loro. A Oslo il tema era Letteratura dei fiordi e sfida nazifascista; ad Amsterdam l’argomento sarebbe stato La libertà del pensiero e l’apporto dell’evento esistenziale: il limite di un concetto e il concetto di un limite. Ora, per quanto i giochi di parole non gli piacessero, gli era sembrato che il secondo tema fosse più consono alla sua storia e alla sua personale psicologia. E così aveva accettato l’incarico scegliendo la seconda sede. Tra l’altro, dei fiordi ne sapeva poco, e ancora meno ne sapeva della lotta anti-nazista che si era tenuta a quelle vertiginose altezza di paralleli. E poi... era tempo che si chiedeva se l’esperienza di Luise lo avesse reso più libero o più povero. Se la sua rinuncia a quella donna lo avesse...castrato. Se quell’ evento... Forse quell’incontro gli avrebbe chiarito le idee. Di fatto conosceva Amsterdam sin dagli anni universitari. Quella città era stata parte delle sue mete per un contatto più realistico, per un incontro ravvicinato con la cultura e la vita d’Europa al di fuori dell’Italia. E lo aveva sempre affascinato la conquista compiuta dagli olandesi di buona parte del suolo su cui vivevano. La considerava un’opera specialmente significativa, in qualche modo l’icona, più di molte altre cose, del dominio sul mondo e del successo dell’homo faber. Gli metteva 28 sempre i brividi, durante i suoi soggiorni ad Amsterdam o in altre località dei Paesi Bassi, pensare che solo una cintura di cemento, pietra e acciaio lo dividesse dall’ oceano e dall’annegamento. Una cintura costruita dalla sapiente mano dell’uomo, che gli permetteva di sopravvivere alle onde del mare gelido, il frutto di un’epopea che attraversava secoli e secoli, e che aveva compiuto la stessa benefica operazione nei confronti di milioni di persone che avevano vissuto e che ancora vivevano lì. Si trattava di un brivido in cui l’angoscia era sufficientemente sommersa dall’orgoglio di appartenere lui stesso al genere umano, che aveva compiuto quell’ operazione spinto dalla necessità, dal progresso, dalla stessa volontà di conquista. Una conquista a cui era stata necessaria una grande forza e una paziente inarrestabile intelligenza. Come intellettuale se ne rendeva perfettamente conto. Oltre questo c’era dell’altro che, nonostante tutto, lo legava ad A’dam - come molti chiamavano la città. Nel primo periodo, dopo il brusco abbandono della promessa sposa, si era trovato ad attraversare una fase di religiosità in cui aveva ardentemente sperato che Dio gli rendesse la sua donna, insieme al passato/futuro che era stato così dolce quando l’aveva avuta accanto. Come una spinta religiosa che inspiegabilmente intendesse guidarlo verso l’Olanda, la nazione che era saltata fuori nel racconto della vita del suo nemico, dell’uomo che gli aveva strappato Luise dal fianco, e che aveva rappresentato con le sue parole - davanti agli occhi di lei - la modernità a tratti sfrenata della “Venezia del Nord”, la forza e la leggerezza del suo destino di luogo di orizzonti conquistati, lo splendore della sua golden age. Uno sfondo sicuramente 29 eccitante per lei che, in quei lontani momenti, pendeva letteralmente dalle labbra dello sconosciuto in giacchetta di daino. Forse, nella sua immaginazione, anche il ricordo delle sue visite giovanili a quella città, insieme all’istintivo desiderio di riassaporare il gusto di quella età, a un certo punto lo avevano spinto a convincersi che Luise fosse stata portata lì dal nuovo compagno. Magari a seguito della richiesta della donna, che doveva vedere negli accenni a quel paradiso di modernità urbana tout-court il fondale, se non la culla del nuovo amore. Poteva incontrarvela e convincerla a un passo indietro. Luise era romantica, e attaccata alle piccole cose come ai ricordi minimi. Quell’idea gli si era conficcata nella mente fino al punto che, dopo sei mesi di lontananza dell’amante, aveva deciso di chiedere quindici giorni di sospensione di un corso che stava tenendo, o di sostituzione nel suo svolgimento da parte di qualcuno dei giovani ricercatori in grado di farsene carico. Altrimenti sarebbe ricorso all’anno sabbatico, se il consiglio di facoltà non avesse voluto sentire ragione. Ma la licenza gli era stata accordata, il corso - La demotivazione in letteratura come corollario all’avanzata del progresso tecnologico: fatti e idee - avrebbe subìto una sospensione di due settimane, per riprendere agevolmente vita al suo ritorno. Lui ne era stato felice. Gli era sembrato che quella decisione accademica, unitamente alla spinta verso quella meta, avesse una natura profetica, gli parlasse delle sue speranze e della concreta possibilità di riavere Luise. 30 In quell’occasione qualcosa lo aveva insieme turbato e interrogato. Turbato per le evidenti coincidenze e disponibilità del Consiglio di Facoltà. che aveva incontrato nel percorso di quella breve liberazione; e interrogato da una domanda scolpita nel cielo della sua mente e della sua fede: davvero Dio pensava a lui, si interessava del suo amore - era mai possibile? Tutto a quel punto poteva cambiare nella sua vita. Ed era partito. Ma, una volta arrivato ad Amsterdam, le cose si erano dimostrate più difficili di quanto avesse immaginato, e alla fine il suo piano si era rivelato impossibile a realizzarsi. Come poteva, e dove poteva incontrare Luise e il nuovo amante? Aveva vagato per intere giornate nel centro della città, in diversi musei, nei ristoranti dove si riversavano i turisti e che potevano essere affrontati dalla finanze dei due. Non credeva che l’altro fosse un creso, né pensava che Luise disponesse di molto denaro; ma era uno degli aspetti del loro vivere insieme in cui lui non aveva mai voluto ficcare il naso. E dopo la prima settimana era crollato. Da quel momento in poi quella visita guidata, anzi sospinta da una speranza religiosa, e dalla presunta visione che un nuovo mondo si potesse aprire davanti a lui proprio per l’evento “profetico” di quel viaggio, si mutò in un angosciante e insensato aggirarsi per strade e bar, per canali e negozietti, e in cento altri luoghi “interessanti” per i turisti che lei certamente avrebbe voluto visitare, ma scendendo sempre più giù, di gradino in gradino, verso la disperazione che lo colse l’ultimo giorno di permanenza in città. Quel mattino, tenebroso di nebbia e di una lingua di cui a stento capiva l’assolutamente necessario, si era detto 31 di essere stato uno sciocco a credere che potesse avverarsi quello in cui aveva sperato, che Dio potesse interessarsi alla sua piccola storia. A quel morsello di vita che rappresentavano sia lui che Luise. Si era trattato dello snodo debole di un evento deludente e malinconico, nient’altro. E, quasi a cancellare con un atto di solido razionalismo scientifico le speranze in quella sorta di miracolo che sarebbe stato imbattersi in Luise, aveva visitato per l’ultima volta l’Oudemannhuispoort , uno tra i più vecchi e famosi passaggi coperti della città per i banchi di antichità librarie che allogava, una sorta di degna appendice agli edifici occupati dall’Università di Amsterdam. Era sabato, un giorno in cui il luogo esplodeva dei suoi visitatori come a volte sembra che il guscio di un uovo fresco possa esplodere del suo contenuto. L’attraversamento durò circa una trentina di minuti durante i quali i suoi occhi continuarono a scrutare i volti che lo circondavano, ancora increduli del suo destino e di quello che ormai appariva come un definitivo oltre che consumato abbandono da parte dell’amante: se neanche Dio si occupava del loro impossibile ricongiungimento... Un breve tratto di tempo in cui la testa e il cuore accolsero tutta l’amarezza che poteva essere accolta da ciascuna di quelle parti della sua persona. Poi fu la chiusura, l’abbandono di ogni speranza che l’impossibile fosse a portata di mano. In qualche ora aveva guadagnato dapprima la stazione centrale e poi Schiphol. Si può dire che, durante il viaggio di ritorno, si compisse l’assoluta purificazione che lo aveva invitato a dimenticare, anche se non del tutto, quanto era accaduto. Sul volo della KLM c’era una giovane hostess inglese che 32 gli si era proposta con uno speciale smagliante sorriso su gambe perfette. Era stata una sua alunna a F e lo aveva riconosciuto subito. Ancora si ricordava di qualche breve colloquio in cui... Ma per cosa, poi, utilizzarla?! Dopo anni di studio, e di considerazioni insieme generali e vaghe, incominciava a pensare che il fondamento, vale a dire il nucleo della singola vita umana, non fosse l’esercizio della sua sensualità - e quindi della sessualità, per quanto questa dovesse provvedere alla prosecuzione della specie -, ma piuttosto la percezione crescente, anche se così spesso fragile, che l’essere sia una continua - magari sottaciuta, o addirittura inconscia - lotta contro l’insignificanza. Perché una cosa? A quale scopo? Lui non era di quelli che pensavano che la vita avesse un’assurda doppia valenza, da una parte l’avvicinarsi a sempre maggiori traguardi dell’intelligenza, e dall’altra lo scivolare verso la morte. Che senso ha crescere per morire? Svilupparsi per dissolversi nel nulla? Acquistare coscienza, penetrazione del reale dirigendosi verso una fine/distruzione? Una simile concezione gli era sembrata sempre una cosa assurda, ma anche un’autentica introduzione al mistero del suo esistere. E lui preferiva accettarne il mistero, accettare l’incomprensibilità dell’atto di vivere di alcuni momenti, sperando che il futuro, poco alla volta, gliene spiegasse le vere motivazioni. In un simile modo in parte oscuro, anche le dighe, i canali, la lotta contro le acque, acquistavano un nuovo profilo - si era detto quando l’aereo aveva iniziato a alzarsi. Quella stupenda opera di ingegneria idraulica che 33 permetteva ai Paesi bassi di esistere, era qualcosa di più di una vittoria per l’immediato, per il quotidiano. C’era più senso nelle dighe e nei canali, in quella loro potenza vittoriosa. Quasi una metafora, ma non semplicemente in quanto opera dell’homo faber. La violenza delle acque non doveva prevalere, era scritto nel cuore degli uomini che avevano lottato per quella terra. E se mai si verificava una sconfitta, questa non poteva essere definitiva. Quasi che la dominanza dell’uomo fosse così profonda in lui da costituirne buona parte dell’essenza. Era così che leggeva quelle dighe e quei canali, e tutta la vita e la cultura che lo circondavano. Forse il domani lo avrebbe attrezzato con una risposta ai suoi interrogativi migliore, più soddisfacente. Con una risposta di maggiore intelligenza; era questo che gli suggerivano la sua stessa esperienza e il suo lavoro. Bisognava vivere aspettando che il tempo... Anche se tutto è gestito da una scansione a volte crudele, che ci fa soffrire... Così, se ogni cosa doveva avere un suo senso, per il momento non gli sembrava che un’eventuale notte trascorsa con una bella e giovane donna avesse davvero un senso. Non in quel momento. Sarebbe stato piacevole spogliarla in un’elegante suite d’albergo, un luogo da far sognare entrambi; o nel suo pied-a-terre di Milano, ricordando il tempo in cui l’aveva avuta come alunna. Senz’altro una grande scopata, ma senza significato... L’alba del suo seno - i cui capezzoli marcavano così decisamente la leggera blusa della compagnia - sarebbe stata presto un giorno come tutti gli altri. Un frutto dolce sotto i denti ma inutile ai fini della sua vita più interiore. 34 Della vita che contava davvero. Perché vivere deve essere un atto all’altezza dell’uomo. E proprio quella conclusione, proprio quel rifiutarsi di fare quella cosa giusto per farla, aveva sigillato quell’infelice “esperienza religiosa”. Ma allo stesso tempo, invece che conficcare in lui l’amarezza della sconfitta, gli aveva lasciato il sapore dei giorni a venire. Come il profumo di un bosco si attacca a noi, e noi, una volta all’aperto, per qualche momento ancora lo sentiamo, dopo che le piante sono definitivamente alle nostre spalle. Amsterdam era il testimone di un infelice passato e allo stesso tempo il punto di partenza verso un nuovo futuro. E lui sarebbe andato in Olanda a vedere, a sentire come “l’evento influisce sulla libertà del pensiero umano”. Si era anche preparato per quella partecipazione al convegno. Almeno un po’. Allorché il “capo” lo aveva chiamato per chiedergli quale fosse la decisione in merito ai due congressi, lui gli aveva comunicato la sua scelta fornendogli alcune delle ragioni che lo spingevano verso Amsterdam. Certamente non quelle personali. Sapeva che chiarire, a volte, può essere considerato un indice di debolezza, ma motivare brevemente una scelta non era poi sempre autolesionistico. Poteva significare lucidità, impegno. E il “capo” era la persona che aveva sollecitato la sua candidatura per una delle due cattedre che si erano liberate. Qualche collega lo chiamava “l’occhio” perché osservava e ricordava tutto. Oltre al fatto che quelli che si conoscono meglio sono anche quelli che si gestiscono con più facilità. E questo a lui non poteva fare danno. 35 L’altro aveva incamerato la sua comunicazione, quindi aveva preso dal tavolo un volumetto che profumava di libreria e glielo aveva passato. - Allora questo è per te. Non ho capito bene il motivo ma ce l‘hanno recapitato insieme all’altro materiale per l’incontro fra “le fredde acque dei canali”. Affinché potessero passarsi il volume, avevano dovuto chinarsi entrambi un po’ in avanti. La scrivania, da uno dei cui angoli l’altro aveva preso il volumetto, era enorme. Se non fosse stata nuova di zecca, o quasi, se ne sarebbe potuta sospettare una radice fascista. Una grande scrivania in un ufficio grande; se ne era parlato in Amministrazione di quell’ufficio, gelato d’inverno e di una misura al di là di ogni effettiva necessità. Così avevano deciso di ristrutturarlo per aumentarne la tenuta termica, ma a quel punto nessuno aveva più accennato alla scrivania-piazza d’armi. Basta con le spese di rappresentanza. Si trattava di una collezione di racconti di Musil, tre storie intitolate Congiungimenti. Un titolo a primo acchito un po’ strano. Si poteva sospettare un’opera di mascherata lascivia, ma trattandosi di Musil era difficile fare una simile ipotesi. Non ne sapeva molto dell’austriaco, ma non credeva che appartenesse alla lobby degli autori erotici. In verità, lui doveva far poco in casi del genere, magari pochissimo piuttosto che creare problemi, era così che gli dicevano di comportarsi quando doveva rappre-sentare l’Ateneo senza avere una competenza specifica nei temi che sarebbero stati trattati. Ma, da buon intellettuale, aveva avvertito l’esigenza di sapere summa capita di cosa avrebbero parlato. Non voleva rendersi conto, ma almeno 36 essere in grado di “annusare” quanto sarebbe accaduto intorno a lui. Musil non rientrava fra le sue letture preferite, e il suo interesse era stato sempre sospinto lontano dalla sponda di quell’autore e della sua opera maggiore. Forse doveva vergognarsene, ma non aveva avuto il coraggio di trascorrere tanto tempo in compagnia di un autore così massiccio, che non riscuoteva il suo specifico interesse né era collegato al proprio lavoro. Gli erano bastati Joyce e Mann per sapere qualcosa dei “Padri Fondatori” della Moderna Letteratura europea - era così che qualcuno aveva detto a un congresso. Musil no. Troppe pagine, troppo tempo, aveva sicuramente altro da fare. Ma una sbirciatina a qualcosa della sua produzione voleva dargliela, e visto che si era imbattuto nei Congiungimenti, avrebbe letto quei racconti di donne - si disse già nell’ascensore che lo portava al piano terra, dopo averne sguardato l’indice. Poi le porte fischiarono e lui fu fuori, nella luce e nell’aria ossigenata dell’ingresso. Il direttore gli aveva detto:”Dunque rifiuti di vedere le pseudo-Alpi Scandinave? Di calpestare lo scudo baltico?” Lui aveva sorriso, e aveva detto semplicemente “sì”. Il volume era rimasto per qualche giorno a pencolare sul bordo del tavolino d’ingresso di casa sua, e ogni volta che il suo sguardo si imbatteva in esso, si convinceva sempre più di aver fatto bene ad evitare Oslo e la Norvegia. Quella splendida ma ghiacciata terra di fiordi, che esibiva il “sole di mezzanotte” nei mesi estivi. Sentiva che da solo quelle cose non le avrebbe gustate. Alla fine, scivolando in terra, il libro gli si era ricordato con il modo tutto speciale di un tonfo. Lui l’aveva raccolto e aveva 37 deciso che doveva farne subito qualcosa, altrimenti non ne avrebbe fatto mai niente. E ad Amsterdam, questa volta, sarebbe stato più che mai un sordo in una sala da concerti. Era così che si era trovato a fronteggiare un universo in cui la vita sembrava guidata da impulsi fisiologici, da una psicologia che gli sembrava minuta, nonché da un passato di influenti esperienze. Ma non gli era sembrato che tutto ciò avesse molto a che fare con Freud, né aveva avuto modo di cambiare opinione nel prosieguo della lettura. Le donne d quei racconti, Viktoria, Veronica e Claudine in modo particolare, erano soggette a una vita sentimentale in cui lui riconosceva molto poco di quanto solitamente considerava il carattere, il temperamento umano. La capacità dell’uomo e della donna di desiderio, di passioni, e di esaminare, di discer-nere, di scegliere, ed eventualmente di sottrarsi. La prosa era nuova, un esercizio di scrittura che gli aveva ricordato - da una grande distanza - Joyce. Non tanto la Wolf quanto Joyce. Anche se in alcuni momenti aveva pensato il contrario. Un complesso - e a volte “psicologicamente infinito” arabesco in cui bisognava muoversi con estrema cautela per non rimanerne sommersi. D’altro canto, gli era parso che gli stessi personaggi fossero dotati - ma si poteva dire? - di “una eminente capacità di essere sommersi da se stessi”? O, forse, di non possedere affatto un se stesso capace di costruire la propria piccola o grande storia, che partiva da una sottesa ideologia di essere qualcosa o qualcuno. Aveva vissuto quelle pagine come un continuo subirsi, e un “quasi vuoto” di quanto pure esiste ed è importante nella vita di una donna, la progettualità nel campo intellettivo, e il culto degli affetti, delle passioni in quello della vita di 38 relazione. Della vita sessuale in particolare. Tutto questo l’aveva un po’ deluso. In effetti, si trovava dinanzi alla testimonianza del suo tempo. Ma una testimonianza a volte disperata. Così aveva letto lui. Non vi erano autentiche proposte per vincere la dominanza del ricordo, della traccia cerebrale, della tentazione, dell’impulso fisiologico-carnale; dopotutto, bisognava anche dire dell’ “inconscio”. In quei racconti, Musil gli era apparso come un testimone particolare, un fiume di riflessi, di smalti a volte opachi, una foresta di misteriose ricostruzioni mentali, e di immagini ardite fino al punto di rimanere in alcuni casi sigillate. Si disse che quell’universo di realtà sottratte ad una reale umana concatenazione non lo interessava. Per un attimo, richiudendo il volume dei racconti, aveva rimpianto Oslo e quel nazifascismo antigiudaico che immediatamente risvegliava quanto c’era di meglio nel lettore-non-patologico. Il Fuehrer agglutinava subito un fronte compatto e consapevole contro lui e i suoi “operai”. La fantasmagorica descrizione di quei percorsi di donna sembrava quasi non prendere in considerazione che l’essere umano ha un’etica fondante, anche se fragile, e pertanto profondamente bisognosa di essere difesa e aiutata nel suo svilupparsi, un’etica e un’ideologia al cuore della sua dimensione. Questo lo aveva un po’ infastidito, come si può rimanere infastiditi da un’immaginazione che osa troppo nello sfiorare l’irreale. Nelle sue visitazioni del mondoche-non-c’è?! Ma la cosa era ormai decisa, in quindici giorni sarebbe partito da Milano e in poche ore sarebbe stato accolto da quella fantastica città, in quella nazione che, a 39 pensarci bene, poteva apparire un zoo di cristallo circondato dalla pressione dell’onda oceanica. E aveva riposto il volume. Amsterdam era una città che aveva sempre riscosso il suo interesse. Gli sembrava che avesse anche un merito, oltre alle ferite sociali e a quei discutibili primati di cui spesso si parlava - ammesso che poi lo fossero davvero. Si parlava dell’uso delle droghe, della comunità gay, della pornografia che coinvolgeva i minori. Negli ultimi tempi tutto sembrava destinato ad essere assaggiato, osato, e non solo in Olanda. Ma, a suo parere, A’dam - e probabilmente tutta l’Olanda - se permetteva che la gente si fiondasse in avventure drammatiche e tanto spesso tragiche era anche capace di riconoscere i propri errori, le valutazioni affrettate se non irresponsabili, e di cercare di porvi riparo. C’era un pragmatismo, che probabilmente risaliva al secolo in cui la nazione aveva - non improvvisamente ma quasi - cambiato religione, ai giorni in cui il Protestantesimo aveva trionfato nei Paesi Bassi. Il punto di svolta era stata la rivolta iconoclasta di Anversa che aveva convinto i maggiorenti a permettere l’esercizio del culto calvinista in una chiesa francescana già incursionata dagli anti-cattolici, piuttosto che opporsi al popolo che attaccava e distruggeva luoghi sacri al cattolicesimo. Alla fine, con Guglielmo d’Orange, c’era stata l’Alteratie dopo la vittoria sugli Spagnoli in ritirata. Così la dirigenza cattolica era stata sostituita, quasi dalla sera alla mattina, dalla contemporanea linfa protestante. Avevano giudicato che non si potesse agire diversamente. E il gioco era stato fatto senza troppo spargimento di sangue, certamente con molte vittime ma senza veri e propri massacri. In quattro e 40 quattro otto. Qualcuno diceva: con semplicità. Almeno così aveva capito lui. Su Amsterdam e sui Paesi Bassi era cambiato il cielo, ma la cosa che lo meravigliava di più non era l’abiura con cui erano stati sostituiti gli dei e le idee, ma piuttosto la decisa semplicità con cui l’operazione epocale era stata portata a termine. Una nazione cattolica al 98 per cento fino al 1500, in un secolo aveva mutato le sue fondamenta “metafisiche” con un pragmatismo che in seguito non sarebbe più scomparso dai canali di quelle terre strappate al mare con invidiabile decisione, intelligenza, e coraggio. Non c’era stato nulla da fare dopo la ritirata spagnola... Ma in tutto quello c’era qualcosa che trovava apprezzabile, riconoscere gli errori pur nella incapacità di disfarsene. Di tanto in tanto gli sembrava che accadesse così, lassù, nella terra in cui a un certo punto della sua storia erano riapparse le calzature di legno, dopo che quelle di pelle erano state alla portata di tutti lungo un periodo di felice abbondanza. Era un fare quello che si poteva, un accettare la realtà. Una caratteristica che gli sembrava essere allo stesso tempo alle fonti del cristianesimo in generale, nella teologia della grazia e in quella della predestinazione non agostiniana del protestantesimo. L’uomo è una creatura debole e di tanto in tanto non può che prendere atto di tale condizione. A dispetto del sangue dei martiri. Per quanto illuminata dall’Incarnazione, la nostra vita si svolge spesso nel grembo del buio. E lui, che non aveva perso la sua fede, si sentiva appunto nel grembo del buio. 41 Questa era un’altra delle ragioni che gli avevano fatto preferire A’dam ad Oslo. 42 II Giunto ad Amsterdam, vi era stato subito l’incontro con Luise, la compagna con cui aveva deciso di trascorrere la vita, e non solo per condividere con lei la propria passione, il loro erotismo, e assaporare la profonda soddisfazione sessuale che ne traeva. Luise che era schizzata via di casa per un uomo conosciuto da meno di ventiquattrore. La donna che era stata fino a quel momento le sue stagioni, le ore felici dei suoi giorni e delle sue notti; la luce che aveva illuminato i momenti bui che lo avevano colpito come colpiscono chiunque. La donna in cui si era conosciuto un essere vivo; anzi “riconosciuto come l’essere vivo segnato dalla sua identità”. La donna di un sogno durato cinque anni, che, dopo essere scivolata via dal suo fianco, era improvvisamente ripiombata nell’arco del suo orizzonte in occasione di quel simposio. E di quella passeggiata estemporanea che quel mattino, speciale per temperatura, per aria pulita e luce, lo aveva indotto a fare. 43 Incontrata per una banale casualità. - Ciao. Come stai?! Le aveva detto così senza pensarci, senza rendersene conto. Una frase come le altre per non dare inizio a un imbarazzante silenzio. Un incontro che lo agganciava all’antica amante, mentre il vederne l’immagine attuale generava in lui non solo la forte onda del ricordo, ma anche amarezza e curiosità... Anzi, una sorta di dolorante meraviglia nel leggere lo sfiorire di quel viso, di quel corpo; di quella carne ancora così viva nel suo ricordo, così presente sotto la carezza delle sue mani, sotto lo sfiorarla delle sue labbra, della sua lingua... Si sentì impigliato nei rami di un’ampia macchia d’alberi, catturato dalla foresta della memoria, che con le sue lontane luci accendeva la sorpresa e la naturale ansia per quella trasformazione... Per lo spegnersi del suo meraviglioso sorriso. Il viso, e tutta la persona della donna, sembravano quelli di una fotografia trasportata su di un tessuto leggero che, una volta incorniciato, ne avesse distorto l’immagine. Un’immagine montata male, qui tirata, lì lasciata con una certa mollezza...Una persona violata...Non cancellata del tutto nel suoi tratti ma non più quella che era stata. A cominciare dalla freschezza degli occhi, e dalle labbra attentamente disegnate dal trucco ma non più quelle che lui aveva conosciuto e su cui si era avventato con insaziabile desiderio. Le cose che lo avevano affascinato in una lontana stagione ora potevano essere intraviste soltanto con sforzo, solo faticosamente riconquistate. Uno sforzo della mente e del cuore che potevano ricostruire re- 44 immaginando in una plastica del ricordo. Un’identità colta oltre l’ombra di se stessa, al di là delle asprezze della vita. E, man mano che se ne rendeva conto, rimaneva maggiormente vittima dell’amarezza di quell’esperienza visiva operata con sguardo per quanto possibile non indiscreto, al di là delle lenti reattive all’intensità della luce; e di quella rivisitazione del cuore. E nel considerarla fu catturato da un senso di colpa. Forse era anche lui responsabile... Se... E più il ricordo di lei si rinnovava, più lo sfidavano le cose che di lei emergevano in quel momento collegandosi al passato, e più la sua amarezza per tutto quanto era accaduto scendeva su di lui, in lui, quasi perforasse il suo cervello, il suo cuore. Le chiese di incontrarla di nuovo, ma se ne pentì che ancora le parole erano vicine alle sue labbra. Poi, durante il resto della giornata, si disse che tutto andava bene: sarebbe rimasto solo pochi giorni in Olanda. Nelle “terre basse”, come gli olandesi dicevano con l’orgogliosa puntigliosità di chi le aveva strappate al fondo del mare e fatte diventare la culla di una nazione. La mattina seguente non tornò al lavoro, non doveva parlare né doveva intervenire ai tavoli di discussione e preparazione dei resoconti. Così rimase in albergo, a riflettere e a riposarsi da un senso di stanchezza che senza dubbio aveva a che fare con l’incontro con Luise. Quasi non credeva a quanto gli era capitato. Allo stesso tempo - in una surreale “contemporanea” -, ebbe modo di riflettere e di accorgersi che quanto stava vivendo in qualche modo echeggiava sotto le volte di quel piccolo congresso letterario che intendeva sottolineare i 45 turbamenti che da tempo s’intrecciavano in quel secolo, e che avevano trovato autorevole connotazione nella Weltanschauung di uno dei più grandi autori di quel tempo. Musil, appunto. L’esperienza di quel giorno rispecchiava una parte del dramma umano, interiore e sociale che si era consumato nella I Guerra Mondiale, e che ancor più dopo di essa aveva trovato modo e necessità di esprimersi nelle arti, e si sarebbe chiamato secondo i diversi punti di vista, o di operatività, arte informale, morte dell’uomo, rifiuto del naturalismo che aveva trionfato nell’Ottocento e ancora agli inizi del Novecento, anti-specismo, e tante altre cose. Tante altre cose nella stessa considerazione di Freud e di Darwin. Tutte a infierire sul padrone di casa, sul re dell’ universo. E sulla donna, la sua compagna di elezione. Conosceva poco Musil. Ne aveva letto solo racconti, ma gli sembrava di averne colto un po’ l'antropologia, che si può dire trasparisse dal titolo stesso della sua incompiuta opera maggiore, L’uomo senza qualità. Il mondo, e lo stesso universo, non erano e non sarebbero stati mai più quelli di una volta. Viktoria, Claudine e Veronika rappresentavano, nella ideazione delle storie di cui erano le indiscusse protagoniste, il più sostanzioso epitaffio all’ Ottocento e al suo concetto di vita, oltre alla più esplicita negazione della donna di un tempo - ma anche dell’uomo. Il XX secolo sembrava voler mostrare una più crudele verità. E c’era riuscito. In tal modo, nel contesto di specialisti e durante la lettura delle comunicazioni di quelli che non avevano 46 potuto partecipare fisicamente ai lavori, si era parlato anche di quello. A suo modesto avviso, il panorama offerto da quanto aveva letto era il frutto dell’intreccio di un’inestricabile foresta di rami spinosi e dell’ammasso di ciarpame psicologico e non - che una burrasca marina potesse sospingere alla riva dell’esperienza umana, così che questa ne rimanesse dapprima atterrita e poi definitivamente sommersa. Aveva letto, aveva ascoltato le riflessioni dei colleghi, aveva riflettuto sull’orizzonte offerto dai racconti. E ne aveva concluso che gli sembrava trattarsi dell’incompiuta penetrazione del suo oggetto, l’uomo. E, allo stesso tempo, di una sorta di resa a quanto era ingestibile, non solo nei fatti ma anche nell’ipotesi della sua essenza. Almeno a lui sembrava così. Nelle storie che aveva letto, la vita era un coacervo di cose e di sentimenti, di persone, di eventi, che spesso non aveva un senso. Un mare di realtà che non aveva un progetto se non quello di “viversi”. E a questo viversi era bruciato ogni attimo, ogni grano di incenso della propria energia, del proprio esistere senza un atteggiamento maturamente critico. In Claudine, per esempio, c’era la donna nella sua istintualità e naturalezza, ma non c’era o c’era molto poco della donna-persona. Claudine si lascia scopare da un uomo che le dà disgusto. E in più, acme della coscienza di se stessa, il racconto termina con la meraviglia che, nonostante tutto, l’atto di congiungimento le dia piacere. Un piacere che le rammenta l’idea di Dio che può avere un adolescente. E quel congiungimento - simile per certi aspetti a quello di colomba sul cornicione del nostro balcone, o di 47 una coniglia nell’orto - non era casuale nell’aneddotica dell’autore, ma vicino a un altro, a quello della protagonista di un altro racconto, di Viktoria. “In quelle processioni descrittive di assoluta modernità” - così aveva detto uno dei congressisti, e c’era da credergli - secondo lui mancava tutto il senso e l’aspetto del progetto. Mancava la connotazione umana dell’atto, e quindi la persona. Insomma, tutto ciò che era stato importante e centrale una volta nella grande letteratura si era disciolto nei nervi, nella sensibilità, nella sensualità “minore”, nella memoria, se non nell’immaginazione (o fantasia toutcourt) delle protagoniste . Per questo gli veniva da pensare alla morte dell’ uomo, e all’antispecismo. Forse anche ai paradisi artificiali, anzi all’artificialità, all’irrealtà di certi paradisi. Una volta gli avevano parlato di una particolare patologia psichica che rendeva un soggetto praticamente schiavo di un altro, senza più una volontà propria... Quelle storie rumoreggiavano pianamente di un universo di realtà prive di serie motivazioni, di motivazioni e di sentimenti “umani”. Gli sembravano quasi la descrizione di sistemi stellari che hanno come unica legge l’esistere, senza una motivata libera dinamica interiore; un esistere senza un senso in se stessi, senza un evidente scopo. Nella descrizione di quelle donne, gli era parso di leggere l’anima come un magma cieco e quasi impalpabile costituito da elementi non aventi autentiche mete verso cui dirigersi. Dal punto di vista storicistico, quei racconti erano intriganti, anche se in alcuni punti molto complessi - anzi troppo complessi per un normale lettore -, dagli audaci accostamenti e dalle metafore a volte oscure. Un tutto 48 interessante, ma purtroppo non si era detto altro sull’essenza della donna. Quasi che quelle eroine - o antieroine - non fossero state vissute come donne. Le tre protagoniste si vivevano quasi vittime di se stesse. In una bruta minimalistica misteriosità. E in questa mancanza di senso gli era sembrato di individuare la loro fragilità essenziale. E come in effetti ne diventassero schiave. Una fragilità che esse avrebbero indotto anche in chi si fosse abbandonato a loro. Johannes era stato pronto a spararsi per l’amore non corrisposto per Veronika. Viktoria, dal canto suo, trascurava gli incontri con la figlia, un’adolescente collegiale. La mancanza di uno scopo non è solo mancanza di organizzazione interiore, non è semplice mancanza di orientamento, ma è mancanza di auto-realizzazione, perché la vita è cogliere finalità e dirigersi verso di esse. Realizzare un traguardo fra le nebbie e indirizzarvisi. E’ riconoscere il proprio io. Nel momento in cui lo scopo viene a mancare, la volontà perde ogni impulso dinamico, e allo stesso tempo ogni strutturazione interiore. Ogni complessa consistenza personale si discioglie miseramente. Alla fine non si sa più chi si è. E tutto ciò che di umano è stato nell’aria sino a quel momento - magari inconsciamente umano - esplode dando luogo a una galassia di frammenti, a una luccicante fredda polvere di meteorite che sembra polvere di stelle ma che non è più nulla. Una cometa, uno sfavillio di luci che attraversa l’etere verso il completo disfacimento. Verso una morte ancora più definitiva e dura. La fine della loro femminilità. 49 L’incontro con Luise gli aveva fatto percepire una simile dissoluzione. E poi, durante la notte, aveva compreso come quella dissoluzione fosse stata sempre lì. Era stata con la sua amante sin da quando l’aveva conosciuta, e forse da sempre. Sempre con loro sin dal principio. Negli ultimi tempi aveva avuto solo il modo di esprimersi, appunto con l’abbandonarlo. Quella sua sensualità, quella capacità di vivere il momento, e l’attrazione della bellezza sensibile vissuta tanto istintivamente...senza pudori, senza remore. Tutte cose che per lui erano state fra i motivi di maggiore attrazione della donna...Tutto quello che lui aveva indicato con il termine di “semplicità”...Tutto quello che aveva dato un colore speciale alla sua passione era stato nient’altro che un viversi...Un atto quasi non voluto, simile alla fiamma di una candela, che tuttavia il vento spegne appena vuole... Tutto ciò era al fondo dell’evidente disfacimento, che aveva letto nei suoi occhi, nel falso sorriso, nell’andatura non più spigliata. Come se fosse carica di un peso invisibile. Non avrebbe mai avuto il coraggio di chiederle se facesse la prostituta, non questo... Anche se quella possibilità gli dava a tratti una vertigine di piacere, di rivincita...Di rivalsa per quanto era accaduto tra loro. Uno status in cui era presente in qualche misura la sua stessa responsabilità. Ma non l’avrebbe mai fatto, anche se pensare a una tale possibilità gli aveva reso in alcuni momenti un po’ della enorme quantità di energia che il suo abbandonarlo gli aveva sottratto... quella grossa fetta di entusiasmo, di 50 spinta vitale che il loro amore... Non avrebbe potuto mai chiederglielo. Non avrebbe mai potuto sopportare... voler conoscere dalle sue stesse labbra una simile cosa. E poi, perché? Era possibile una sintetica rivisitazione dei cinque anni trascorsi insieme?! Una rivisitazione che lui stesso avrebbe dovuto fare. Una sorta di classificazione del loro rapporto. Un rapporto costituito da fatti fondamentalmente della sfera sessuale. Lo stesso culto dell’immagine, e il seguire la moda. Lo stesso partecipare all’evoluzione del gusto, e all’ intelligenza e all’apprezzamento della femmina e del maschio in base ai rispettivi criteri... Tutto il loro modo di fare, di relazionarsi, era stato una continua scopata e un esercizio degli occhi. Una ricerca di smalti per la soddisfazione dell’immaginazione, a volte della fantasia...Un continuo ripetersi di eventi, un continuo percorrere strade che, in se stesse nuove, li avevano asciugati piuttosto che rinnovare loro e il loro rapporto. Così la reciproca fruizione, il gioco una volta ardente della loro intimità - piuttosto che l’occasione per l’insorgenza di un legame più forte e personale - si era scolorito nell’abitudine. Fino al punto che lei era fuggita con il primo venuto che le aveva agitato davanti agli occhi la sua ruota di pavone. Se ne era lasciata sedurre perché se ne era sentita rinnovata, e se ne era improvvisamente “innamorata”. Nell’ampio letto ottocentesco - splendidamente “aggiornato” secondo i più moderni criteri di stile - l’oscurità 51 cominciò ad opprimerlo. Volle alzarsi, ma un’altra idea si insinuò in lui, quasi fosse penetrata con il nuovo giorno attraverso le palpebre delle tapparelle, uscita da quelle labbra di sottile luce per illuminarlo. Un’idea che gli apparve tuttavia oscura, poco comprensibile, se non quasi segreta a lui stesso. Una domanda anch’essa drammatica la cui ombra invase la stanza e allo stesso tempo l’intero universo: Cosa ne era di tutto quel tempo trascorso insieme? Non cosa ne era stato, ma cosa ne era? Qual era la sua realtà? E cosa ne sarebbe stato? Istintivamente avrebbe voluto cancellarlo. Anzi riprenderselo e svuotarlo del suo marciume. Bisognava riconquistarlo e privarlo di tutto quanto era stato superficiale, dannoso per la reciproca unione... per la loro fedeltà... Cancellando da esso quanto era stato immaturo, negativo, egoista. Disumano. Ciò che aveva indotto in lei la particolare e viziosa fragilità che da una parte aveva causato l’infrangersi della loro relazione, e dall’altra la profonda umiliazione “personale” che da tempo lei stava assaporando fino alla feccia. Per non parlare della propria umiliazione. Ma come prevalere sulla distruzione che quel tempo aveva operato in entrambi... Come contrastare il rogo acceso dalle cose che avevano avvelenato le loro vite, il loro rapporto... Per non parlare di quelle che avevano caratterizzato gli ultimi cinque anni...Ma era impossibile! Ancora non aveva capito in quale misura tutto questo avesse avuto un significato per la propria vita, e se ne avrebbe avuto uno in futuro. E per quella di Luise? Perché non riusciva a immaginare che non avesse un 52 significato per le loro persone, un senso collegato al corso degli anni in cui scorrevano e sarebbero scorsi i loro giorni. Qual era il significato, il senso? Per lei, per Luise? Aveva avuto un senso fare la puttana? Ed avrebbe avuto un senso averlo fatto, in futuro? E per lui? Così, l’oggetto del suo ragionare, del suo pensare, pian piano prese ad aggirarsi non tanto sul terreno del riscatto dalla sconfitta - sia sua che di Luise - quanto su quello del senso... Più che il riscatto, il senso diventava importante in quel modo. Ma come trovare una risposta a quell’ interrogativo?! E quello sarebbe bastato? In ogni caso, non avrebbe mai avuto il coraggio di chiederle se facesse la prostituta, o se l’avesse mai fatta. Non significava molto... C’erano tanti cervelli nelle università che avevano dovuto pulire innumerevoli orinali negli alberghi del mondo, o le più puzzolenti latrine dei bar, dei ristoranti, degli ospedali; o fare lavoretti molto intimi a chi poteva osteggiare il loro destino o facilitarlo... E’ facile capire che tutto cambia di importanza e di significato, che il futuro ha l’effettivo potere di cambiare il nostro passato...e il passato di chiunque altro, se cambia il senso, il contesto...Se trasforma la persona. Gli tornarono alla memoria le letture appena fatte. Viktoria, Claudine, Veronika... Un triste ecce homo della femminilità. L’ecce homo sembra voler fare giustizia di ogni pretesa di grandiosità, tuttavia quei personaggi offrivano 53 una dimensione, un’antropologia che non era vissuta se non negli ospedali psichiatrici, a suo parere; o nei gabinetti degli psicoterapeuti. Una dimensione che era difficile ad accettarsi da chi fosse arrivato al dolore, al dolore dell’ uomo e al dolore del mondo. Si trattava di ipotesi della natura umana. E forse anche un’ipotesi sulla natura di Dio. “Che dio non sia semplicemente la tua debolezza, il tuo desiderio di vivere altrove e altrimenti?”, si era chiesta Veronika - più o meno quelle le sue parole. Il suo innamorato - sfuggito al desiderio di suicidarsi per il suo rifiuto - è una boccata di ossigeno. Si dimostra più ricco, più convincente. Non mi sono ucciso per te, come avevo minacciato, ma piuttosto ho deciso di sopravviverti, e mi sono conficcato in un cumulo di detriti - il mondo, la vita, se stesso -, e lì ho rimesso radici. Era così che Johannes le aveva comunicato la conclusione - forse meglio dire “l’esito” - della loro storia, del suo amore una volta inimmaginabile per lei. Ora tu non sei più nessuno: ma chi sei tu? In altre parole, sono libero dalla tua malattia. Forse lui stesso si era liberato da una simile malattia. Ma Luise restava entro il suo orizzonte con la sua mortificazione, con tutta la sua sofferenza. Sentì il bisogno di bere qualcosa, e di smettere di ragionare su quanto gli stava accadendo. E arrestare i ricordi imperiosi. Tuttavia non poteva rinunciare, non poteva fermare il treno di pensieri che si era messo in moto. Ma doveva concedersi una sosta, arrestare l’attacco di quei ricordi di disabilitante crudezza. Come se, per averli messi da parte in fretta in altri momenti, ne avesse 54 suggellato i profumi, e tutte le sfumature dei colori e delle ombre che avevano costituito i piccoli nodi nell’arazzo della loro felicità amorosa. Tutto contro lo spettro della nuova Luise, contro il fondale della donna che, al di là del tavolino di ferro smaltato di bianco e di azzurro marini, aveva consumato con misurata avidità il primo jeniver della sua giornata. Un dramma a un incrocio di persone, incrocio di destini, incrocio di miserie e di infelicità. In una Amsterdam che, incorniciata dalle acque del nord come da quelle delle tratte oceaniche della sua marineria verso il sud del mondo e l’Oriente - nella mente dei suoi visitatori -, sembrava avesse scelto quel morbido mattino per mostrargli la crudezza e il dolore che si affrettavano con una sorta di impudicizia lungo le silenti pietre grigie dei suoi grachten. 55 III Trovarsi a quel punto era qualcosa che non avrebbe mai immaginato. Scopriva solo in quel momento quanto il futuro potesse essere inatteso. In che misura la vita possa programmare per noi. Lo aveva già pensato in altre occasioni, quasi tutte drammatiche, ma questa volta vi era una sensazione di novità in più di una direzione. Una più viva vergogna, la memoria dolorosa... Il piacere quasi fisico che a vederlo l’aveva agguantata, dopo la prima reazione di voler essere inghiottita dalle acque grigie del più vicino canale. Non sapeva cosa dire. Principalmente, cosa dirsi. Le sembrava di essere in una bolla d’aria. Al centro di un’enorme sfera di sapone, simile a quelle che faceva con i ragazzi con cui giocava nel cortile del piccolo vecchio condominio della sua infanzia. A un certo punto quel globo sarebbe scoppiato... Per lo spazio di qualche attimo dovette fermarsi, e tutto l’altro intorno le sembrò scomparire. Come se, per 56 uno scherzo della mente, tutto si fosse ritirato, allontanato intenzionalmente da lei, fatto indietro dinanzi all’immagine catturata dal suo sguardo. O ripiegato, come quei separé che una volta si aprivano a casa sua d’estate, quando avevano ospiti. Le vacanze in campagna costringevano alla convivenza con parenti e amici, e le stanze della casa erano ampie ma spesso insufficienti. In un primo momento non aveva creduto ai propri occhi, aveva pensato a una somiglianza. Ma non aveva potuto non fermarsi davanti a un negozio di articoli per scrittura e guardare, frammezzo a due espositori, se si trattasse davvero di lui. Era rimasta a osservarlo per qualche minuto, dapprima per accertarsi, per essere sicura di non essersi sbagliata, ma anche per decidere cosa fare. E perché quel fatto che le procurava un terribile male, insieme a un dolore sordo al centro del suo cervello, le facesse anche piacere. Come capita a rivedere una cosa che non è più nostra ma che abbiamo goduto per tanto tempo, e intensamente. Non si può fare altro che berla con i nostri occhi finché l’intensità dell’emozione sia sfumata. Poi, mentre lui continuava a camminare e le passava accanto senza vederla, aveva capito che non aveva il tempo di ragionare ma soltanto di scegliere. Sarebbe stato facile perderlo tra la gente di quell’ora, di quell’affollato mattino insieme fresco e solare. E si era dovuta affidare all’impulso del cuore più che all’intelligenza, anche se era una facoltà che al momento le sembrava accecata piuttosto che illuminata da tutte le possibilità che stavano affiorando alla sua mente. Quasi che si fosse improvvisamente trovata sotto un cielo attraversato dai proietti di batterie di fuochi cinesi. E aveva dovuto affidarsi anche all’impulso del corpo che la 57 spingeva a seguirlo. L’unica cosa certa era che non doveva sprecare quell’occasione, qualunque cosa potesse accaderle, qualunque cosa il destino dovesse riservarle. Qualunque umiliazione fosse costretta a subire. Ma non doveva per-dere quell’istante per nessuna ragione al mondo. E prese a seguire le spalle di lui che, un po’ rigide, si allontanavano comparendo e scomparendo fra la folla del gracht. Conosceva quella zona della città, e a un certo punto arrivarono a una sorta di strettoia causata dai tavolini di un caffè che facevano rallentare il passo a chi proseguisse diritto davanti a sé. Così che quelli che avevano fretta, ed erano pratici del luogo e dell’occasionale ingorgo, di solito aggiravano il piccolo isolato by-passando sia i tavolini del caffè sia qualche artista di strada che si esibiva nello slargo adiacente. Così anche lei si fiondò nella stretta viuzza tra due alti edifici. E allungò il passo. Gli sarebbe sbucata di fianco. Ormai lui non poteva fare altro che seguire il percorso di fronte a sé, stretto fra la gente che lo avvolgeva. Era sicura di raggiungerlo...Lui avrebbe anche potuto fermarsi a sguardare per qualche istante il tazebao di solito affisso su uno degli edifici. Era una zona di studenti, poteva capitare. E forse davvero accadde perché, quando giunse al punto cruciale che aveva previsto, lui era più sopra, ancora a una certa distanza. Aveva affrettato il passo dimentica di tutto ciò che la circondava sia in quel momento che nella sua storia. Come ottenebrata in qualunque ragionamento che cercasse di iniziare, in qualunque ipotesi le presentasse l’immaginazione, o la stessa fantasia. Come se nulla potesse illuminarla in quel momento, al centro della sua bolla di sapone. 58 I piedi svelti, l’intenzione chiara, lanciata in una sorta di corsa che la faceva scivolare fra quelli che la fiancheggiavano. Solo per un attimo la sua alacrità era stata messa in dubbio. L’ultimo cliente l’aveva pagata in dollari, e non le riusciva di immaginare come giustificare la presenza della valuta straniera nelle sua borsa. Quasi dovesse aspettarsi che lui, come prima cosa del loro incontro, le frugasse le tasche. E che leggesse sui biglietti verdi il prezzo di una marchetta. Perché sui biglietti di banca lei stessa leggeva quel messaggio, semplice ma sempre vivido, stampato a fuoco. E che poi, a dispetto di tutto, sarebbe scivolato via dalla sua memoria, intanto che sentiva ancora la schiena e le cosce umide della svelta doccia che aveva fatto dopo l’incontro, e di cui non si era curata di asciugare bene le tracce. Diffidente dell’asciugamano a volte unico e già usato da lui. Una volta un americano l’aveva pagata con banconote di piccolo taglio, e lei dopo averle contate era rimasta con gli occhi fissi sui biglietti verdi perché le sembrava che il conto non tornasse. E lui le aveva detto ridacchiando: that’s no mirror, kid...and no tricks with me... Se lui si fosse accorto che aveva quei dollari con sé, avrebbe immaginato soldi per una puttana? Il solo pensiero fu come un mattone che l’avesse colpita alla testa, e che per un istante l’avesse svuotata di ogni intenzione e di ogni forza, resa incapace di continuare quanto stava facendo. Ma fu solo per un attimo che le gambe quasi le si fermarono, insieme al cuore e al coraggio, un breve istante in cui il suo slancio si arrestò. Ma lei non si specchiava in quelle banconote, non doveva farlo. Sapeva che non doveva farlo, istintivamente...E una sorta di inerzia riprese 59 a sospingerla avanti, un’energia sia della mente che del corpo. Come se un volano al centro di se stessa non intendesse obbedire alla sua paura, alla sua improvvisa autocoscienza. Quel denaro, quel denaro lurido...era nulla. Un nulla in una lingua di un altro luogo...Non sarebbe stato quello a fermarla a quel punto, non ora... E riprese il passo svelto fra la tiepida meravigliata indifferenza di alcuni che la incrociavano. - Ciao. Come stai?! - Non c’è male, grazie. E tu? Sedere di fronte a lui a quel tavolo all’aperto del cafè, ripropose il tipo di sensazione che l’aveva sorpresa allorché l’aveva intravisto nella folla. In un attimo il tempo si era cancellato, e il milione di cose che la circondavano si erano nascoste dietro l’impossibile presente. Come se loro due stessero a quel tavolo sorretti da una di quelle piattaforme mobili usate nel cinema dagli operatori alla macchina e dal regista. Galleggiare nell’aria: era parte dell’irrealtà a dispetto di se stessa, di ogni buon senso. Di ogni ragionevole umana aspettativa. Si sentiva, anzi sentiva entrambi estranei alle persone e alle cose che li circondavano. Una sistemazione fisica che rassomigliava a volare e che - lo intuì per un brevissimo istante, per fortuna senza essere schiacciata dall’idea - era forse l’unico modo per sopportare quel presente a cui non solo non era sfuggita, come altre donne avrebbero fatto, ma di cui in un certo senso era responsabile con il suo escamotage di incontrarlo per caso, dopo la breve corsa lungo il gracht. Lei era lì, come sprofondata in un sofà di bambagia, o di consistenti soffici nuvole, e lui sedeva di fronte 60 a lei come era stato seduto per centinaia di volte allorché erano stati insieme. Loro due soli, assolutamente fuori del mondo. E sull’orlo di qualcosa non solo sconosciuta ma decisamente imprevedibile. In ascolto di un discorso di cui non solo non conosceva la sintassi ma neanche conosceva le parole. Una sensazione non del tutto piacevole ma un’autentica sensazione d’attesa del corpo e della mente, in cui la curiosità del suo animo a tratti lasciava il posto allo stupore della realtà. A mezz’aria in una condizione che non sapeva se sarebbe stata in grado di gestire. Una realtà personale e interpersonale senza nessuna guida, il minimo suggerimento. Nei primi momenti al tavolo del café a cui lui l’aveva invitata per un aperitivo, non le riuscì di percepire quasi nulla di quanto lui diceva. Vedeva solo le sue labbra muoversi, scorgeva i denti regolari e un po’ corti. Ma non percepiva suoni, e ancor meno il significato di quello che diceva. Non riusciva a capire le parole stesse che uscivano dalla sua bocca. Come se il cervello, i suoi sensi, non fossero in grado di concentrarsi. Come se il suo corpo, anzi tutta se stessa non fosse in grado di ricevere i normali stimoli di quel comune quotidiano. Similmente a quanto le era capitato da ragazzina, la volta in cui era stata sfiorata da un’auto e gettata in terra. Era rimasta per un poco sotto lo schiaffo della sorpresa, della meraviglia. Forse parlava dell’aperitivo perché a un certo punto le aveva passato la “carta” con i suggerimenti della casa. E, avendo compreso dal suo atteggiamento e dal tono della voce che non aveva intenzioni violente, aveva anche dismesso il timore che l’aveva agguantata alla gola quando 61 lui le aveva chiesto di prendere qualcosa insieme. Il suo mestiere l’aveva esposta a rischi di ogni genere. . . Il café era lì per quello, alla fine gli aveva sentito dire. Con un sorriso appena accennato, evidentemente anche lui incapace di superare del tutto le circostanze. Non aveva trovato in sé la forza di negarsi, di tagliare via qualunque contatto. Di far regredire il passato che in un attimo l’aveva investita, l’aveva avvolta come un improvviso uragano dal vento irresistibile. E, per un breve attimo, come un freddo sudario. Poi, pian piano, quel senso di smarrimento fisico e spirituale, quell’angoscia del buio, l’avevano lasciata, e i suoi movimenti avevano cominciato a sciogliersi, a diventare naturali, anche se come al solito a volte quasi impercettibili. E quello sciogliersi le parve venire dal cuore, non più stretto dall’asfissia che l’aggrediva negli ultimi tempi; come se si fossero finalmente risvegliati i sensi e lo stesso cervello. Abbandonata nella poltroncina di ferro smaltata di crudo bianco marinaresco, era poco a poco riemersa dall’ apnea a cui le emozioni l’avevano costretta, e per metà aveva vissuto e per metà riflettuto su quanto lui le diceva. Lui che non era impegnato in altro se non nel descrivere la giornata, bellissima, splendida, e ad argomentare sulle sorprese che Amsterdam era capace di offrirgli ogni volta che la visitava. Ma in un modo tanto leggero e impersonale che non era sicura se alludesse al sole e alla brezza marina che di tanto in tanto li raggiungeva, piuttosto che al loro incontro. E non ebbe il coraggio di spiccare una sola parola in risposta temendo di dire un’ insulsaggine. Poi accadde qualcosa...qualcosa che la prese a tradimento, a cui non riuscì a sottrarsi. Anzi, a cui non 62 avrebbe rinunciato per tutto l’oro del mondo. Una sorta di processo nervoso che lentamente si compì in una discesa nel passato di tutti i suoi sensi e del suo stesso animo, della sua immaginazione. A un tratto la tensione nervosa si allentò e la distanza da ciò che era stato prima degli ultimi cinque anni fu come annullata. Pur cosciente di quale fosse il presente, l’occasione non fu più la stessa e lei fu sospinta verso il passato comune. La sua vita per brevi istanti non fu più quella che stava vivendo, scomparvero i dollari dal portafogli che aveva nella borsa, e la contemporaneità cadde come cade una vela allorché il vento gira di novanta gradi. Una sorta di fulminea regressione. E fu lì con l’amante, a prendere un aperitivo nello stato di gioiosa quiete che aveva governato la sua vita finché erano stati insieme. Una sensazione di felice freschezza interiore, appena casualmente intaccata dai piccoli dissensi che si incastravano nelle varie e gradevoli sensazioni di cui erano disseminati i suoi giorni e le sue notti. Quando il sesso era ancora un piacere da condividere con lui; o da concedergli con una certa superiorità velata di arrendevole tenerezza. E dopo essere scivolata nel passato vi rimase ancorata finché poté, fino a che l’irrealtà di quel sentimento da una parte si rese insopportabile e dall’altra fece scorrere sul suo viso una lacrima, che lei occultò con uno svelto movimento della mano. L’unica cosa che riuscì a pensare in quegli istanti di commozione fu che da quelle antiche sensazioni, da quel vecchio mondo...e dall’amore di lui, non avrebbe dovuto mai separarsi...E che di quella realtà ormai morta lei poteva ancora assaporarne l’ombra, che le giungeva dalla 63 memoria fino all’impossibile, e fino a che le sarebbe ancora giunta... Ma non c’era altro... A quel punto un sorta di calma intervenne a dare riposo ai suoi nervi, e ossigeno alla sua capacità di proseguire in quello che, a dispetto della quiete che li circondava, era comunque un confronto. Arrivarono gli aperitivi. Lei addentò un canapè, quindi sorseggiò un po’ di vino bianco mentre lui faceva lo stesso con la sua Lager. E nel breve silenzio intervenuto si chiese ancora cosa volesse da lei, quasi dimenticando che era stata lei a provocare l’incontro. Poi si disse che lui avrebbe potuto rifiutare il riconoscimento, oppure salutare e non invitarla a prendere da bere. Era la sua abitudine, un effetto della sua nuova natura per la frequentazione dei troiai a cui era solitamente esposta, che la portava a chiedersi cosa volessero i maschi che le stavano di fronte. Cosa volessero loro da lei e cosa lei potesse aspettarsi da loro. Insomma, quale tipo di eventuali clienti la fronteggiasse, e in quali casini potevano metterla. Era vero che lei aveva architettato l’incontro, ma non c’è nessun amante che debba sposarsi entro pochi mesi con la donna della sua vita - era l’espressione che lui spesso usava - che debba intrattenersi con lei dopo essere stato lasciato in tronco - da puttana, si disse - e offrirle da bere. O, forse, si trattava di una sorta di sindrome della terra di nessuno? Di quella terra straniera a entrambi, in cui era possibile sospendere per un attimo gli odi, dimenticare per un breve tempo i peggiori rancori e sopravvivere a quanto era stato? Un difendersi sospendendo per qualche 64 attimo la battaglia su quel fronte? Era una sorta di limbo quello a cui lui l’aveva invitata? Un territorio di tregua? Erano rimasti in silenzio per alcuni minuti consumando l’aperitivo, e questo aveva creato una sorta di imbarazzo che entrambi superarono con la scioltezza di volontà determinate a scorgere cosa c’è nella successiva pagina del libro. Poi lui, sentendosi responsabile d’essere entrambi a quel tavolo, ricominciò a parlare della città, della sua speciale natura, e delle stranezze che possono capitare trovandosi all’estero. E le raccontò di quando era studente e aveva incontrato sul traghetto per Dover un amico che non vedeva da anni, un pittore pieno di entusiasmo e di energia da cui aveva acquistato in seguito alcune tele. E concluse: un amico affondato nel nulla, per quanto lui lo apprezzasse e ne apprezzasse i lavori. Quindi si interruppe bruscamente, quasi che il racconto di quell’avvenimento lontano potesse servire da chiave di un’amara lettura del loro incontro. Ciascuno vede le cose a modo suo: lei vi avrebbe trovato qualcosa di negativo nei suoi confronti? Un rimprovero? Un giudizio? Mentre parlava a voce bassa per non disturbare quelli dei tavoli vicini, la guardava. Con un imbarazzo che sempre più scivolava verso il disagio, le parve di intuire. Ma cosa ci facevano loro due a quel tavolo? Perché erano seduti lì, insieme? 65 IV Non aveva il coraggio di tornare in quel cafè. La volta precedente era andata bene, ma per una sorta di miracolo. Entrambi avevano ignorato quanto c’era stato fra loro, di gradevole e di sgradevole, ammesso che si potesse dire così. Questa volta sarebbe stato diverso. Il passato è come un ramo carico di frutti e di foglie che prima o poi si inclina su di noi, se non siamo proprio noi a tirarlo giù. E’ la vita. Sarebbe stata qualcosa del genere anche con lei? Aveva ancora negli occhi, oltre al viso sbattuto di Luise, e l’abbraccio cordiale con la prostituta prima che quest’ultima prendesse servizio alla finestra, nel quartiere a luci rosse. Vi era andato perché, sebbene conoscesse Amsterdam da tempo - fra l’altro per conferenze a cui gli era stato richiesto di presenziare da parte della sua università, o per incontri su questo o quell’autore a cui aveva partecipato per il suo lavoro -, non aveva mai 66 dedicato grande attenzione a quella parte della città, neanche da giovane, un luogo che immaginava squallido. Sapeva che era un pregiudizio, ma sapeva anche che quel quartiere non poteva essere altro. A fare un giro da quelle parti lo aveva sollecitato l’informazione ironica di un collega statunitense che gli aveva raccontato come, nel Medioevo, le prostitute che fuggivano dall’area designata allo svolgimento della loro professione - e che pertanto si sottraevano alla tassa da pagare al bailiff - venivano rintracciate e convinte a tornare al loro destino - nonché all’abbraccio del bailiff - da una sorta di guardia civica che, con flauti e tamburelli, una volta scoperto il loro rifugio rimaneva a suonare sotto le loro finestre finché le disgraziate non facevano ritorno al loro mestiere e al seno dell’amministratore cittadino. Il Medioevo lo aveva sempre interessato ma non si era mai imbattuto in un’usanza così musicale, in un costume allo stesso tempo così gentile e crudele. E questo ancor prima che il protestantesimo sventolasse le sue bandiere di predestinazione non-agostiniana. Così, quel giorno, si era spinto fino al Oude Zjids Achterburgwal, un punto al cuore del Red Lights District, curiosando a destra e a manca finché, davanti a una finestra delle più semplici sotto la sua viva luce rossa, aveva visto due ragazze abbracciarsi in un veloce saluto, e poi una di loro scomparire dentro la casa, facendo ancora un cenno all’altra mentre indicava il proprio orologio. A quel punto aveva ricordato un altro particolare raccontatogli dal collega imparentato con i redskins, gli indiani di Colombo - aveva un naso davvero enorme. L’affitto di quei cubicoli con vetrina e finestra era molto 67 alto, e quelle che li occupavano non avevano intenzione di gettare via il loro tempo che era denaro contante. Ma quell’incontro gli sarebbe passato di mente se, quando l’aveva incontrata la volta precedente, nel prendere posto al tavolino del bar, lei non si fosse girata per un attimo e lui non le avesse visto la schiena dove, in basso, sul gluteo destro, era disegnato un getto di fiori gialli che riproduceva l’impronta di una mano. L’aveva già scorto, quel nodo di fiori, per un solo istante. Era sull’abito della giovane donna che, dopo un attimo d’incertezza davanti alla finestra di lavoro dell’amica, era andata via mostrandogli il fianco, mentre lui restava a riflettere sullo spettacolo offerto da quel luogo, e a ricordare quanto “chiamami-jack” gli aveva raccontato al riguardo della “gestione” della prostituzione da parte dei bailiff medievali. Poi la tendina si era aperta e la ragazza aveva preso posto in costume succinto in una poltrona di velluto cremisi che coniugava in sottaciuto squallore la modernità all’erotismo cortigiano. Allora non l’aveva riconosciuta. Forse solo per un attimo aveva pensato che gli ricordava una donna. Alta, slanciata, dall’andatura discretamente femminile. Insomma, c’erano state diverse cose che lo avevano aiutato a leggere il volto di Luise, e a formulare un’ipotesi che concordasse con quanto i suoi occhi vedevano di lei, e con quanto aveva visto delle sue frequentazioni. Le ipotesi sono sempre un rischio ma i nostri sentimenti, le nostre emozioni spesso ci guidano verso un’inconfessabile verità che lampeggia nel buio davanti a noi. A volte un’indiscussa quanto indiscutibile verità. La familiarità mostrata con quella prostituta... 68 Gli erano sembrate due vecchie amiche...Era stato il modo di fare di colleghe in un normale ambiente di lavoro. Almeno nella maggior parte dei paesi europei. Cosa faceva Luise ad Amsterdam? Come viveva? Forse era ancora con lui? O faceva lo stesso lavoro dell’amica? “Chiamami-jack” gli aveva detto che solo qualche anno prima il quartiere a luci rosse aveva vissuto gravi difficoltà per l’aids, ormai conclamato in Europa, e che una buona parte delle ragazze si erano rifugiate in club accoglienti e a minor rischio. Forse lei lavorava in uno di quei club... Insomma, non proprio la puttana che un bailiff potesse richiamare al mestiere dal suo ufficio... ma comunque puttana lo stesso. Quel getto di fiori gialli, l’impronta allegra quanto allusiva di quella mano... Anche se quello non significava niente... Avrebbe avuto il coraggio di confessarglielo, se fosse stata la verità? Ma perché pensarci? E perché non farlo?, dopo cinque anni di convivenza, e un matrimonio a cui era stata lei a mancare... Come non chiedersi...? Allorché gli sembrava di essere stato messo con le spalle al muro da quegli interrogativi, ecco giungere la risposta liberatoria: era tutto finito. Non erano più fatti suoi. Si erano incontrati per caso, e basta. Si erano solo incontrati per un maledetto caso. La loro storia era scomparsa nel passato, nel gorgo degli ultimi cinque anni...Di un lustro. E un lustro non è poco, in nessuna lingua e in nessuna storia, pubblica o privata. Perché avrebbe dovuto interessarsene, dopotutto? Non era Importante che lui l’avesse vista con l’amica troia. E lei poteva aver continuato la sua storia, una vita regola- 69 rissima, con quel maxi-stronzo dalla giacca di daino e dall’avo boero per cui lei l’aveva lasciato. Anzi ex-boero. Basta così, nessuna domanda, nessuna risposta, nessun obbligo di informazione reciproca su fatti così gravi. Non erano affari suoi, né erano affari di lei in cui potesse impicciarsi. Neanche si poteva dire che fossero amici, dopo che lei l’aveva fottuto così di brutto. Questo restava, e sarebbe restato per sempre. E fu con un animo alquanto rasserenato che s’incamminò con passo leggero verso il piccolo cafè dai colori bianco e azzurro, e dalle poltroncine di metallo con lo schienale su cui campeggiava una simpatica ancora traforata; e dai sottobicchieri di smerlata carta lucida. 70 V La notte, si era svegliata all’improvviso. Dopo il profondo sonno che l’aveva sottratta al gelo della mente di cui era stata preda per quanto era accaduto la sera precedente, un sogno o qualcos’altro l’aveva scaraventata fuori dell’ingannevole soporifera calma. E tutto era ripartito daccapo, a cominciare dalla meraviglia ingenerata in lei dall’incontro, e dal non sapere cosa fare. Era stato un colpo che non si aspettava, Stare allo stesso tavolo dell’ex-amante - anzi dell’ex-innamorato, dal momento che stavano per sposarsi - le era sembrato un sogno ad occhi aperti, qualcosa di impossibile, di irraggiungibile. Inesauribile nella sua sorpresa, inimmaginabile ormai. Era una prostituta. Faceva la puttana, si diceva così nella lingua a cui era da anni abituata, nella lingua di lui. E questo fatto era comunque indelebile in lei stessa. In lei che lo avrebbe ricordato ogni momento di una qualunque vita a venire. La vecchia Luise non c’era più, e solo il dirselo le faceva un male da morire. Come se 71 le strappassero la pelle. Perché aveva vergogna di se stessa, non solo per la vita che aveva fatto negli ultimi anni ma anche per la propria stupidità. Per l’ingenuità che l’aveva spinta al fondo e ve l’aveva mantenuta...E che in effetti ancora ve la teneva. Neanche questo poteva dimenticare. Non lavorava nella zona a luci rosse, e quindi da un punto di vista giuridico non era ancora considerata una prostituta, ma... “ancora” è una parola e allo stesso tempo un muro di carta. I club che frequentava erano in pratica dei casini, dei luoghi di appuntamento per scivolare in una camera d’albergo. Quando quello stronzo di Phil l’aveva lasciata ed era tornato in Germania, a lei erano rimasti pochi soldi. Tre anni e quattro mesi di “duro lavoro sulla schiena”. Era così che lui diceva credendo di scherzare, quando era ubriaco. O “sulle ginocchia”. E ridacchiava con lo stesso sorriso che l’aveva prima conquistata e poi convinta. Un sorriso simpatico, strafottente, di chi sa quello che dice e che fa. Una piega del viso rassicurante, coinvolgente, devotamente complice. Di una persona tutta dedicata a lei, a loro due. Le erano rimasti solo i soldi che aveva consegnato a Margot, e che nelle sue intenzioni avrebbero dovuto servire per cambiare la macchina. Per prendere una decappottabile con cui fare delle gite nella buona stagione insieme a lui. Un regalo più per lui che per se stessa. In quel momento Margot era stata importante per lei. Oltre ad averle tenuto i soldi, le aveva consigliato il club dove si era spostata, una volta che quello stronzo era andato via. Sapere a chi potere affidare il suo denaro, nel suo lavoro e nelle sue condizioni, sia prima che dopo la 72 fuga di Phil, era un punto di partenza. Lei non era pratica di banche e aveva paura che la fregassero anche lì, o che si accorgessero che faceva il mestiere. Aveva vergogna anche del suo sudato denaro. Ma l’amica era stata ancora più importante. Margot, le aveva indicato diversi posti da frequentare. La conclusione degli anni ’80 era stato un momento duro per tutte le prostitute del quartiere a luci rosse. L’aids, ormai conclamato in Europa, aveva impaurito sia i clienti che le ragazze, e lei non avrebbe saputo cosa e come farlo se l’amica non l’avesse spinta nella giusta direzione. Certo in una direzione non diversa da quella in cui l’aveva spinta il suo amante. Un momento di disperazione e insieme di euforia, quando lui le aveva offerto quella soluzione con belle parole e su di un piatto d’argento. Si trattava di superare quel periodo in cui non trovavano lavoro. Poi si sarebbero sposati e avrebbero dimenticato, lei da una parte e lui dall’altra ma sempre insieme. Perché ormai si amavano, lui l’amava da non poterla dimenticare, da non poterla lasciare. Diceva così il bastardo. Ci voleva un poco di buona volontà, un poco di ottimismo, e poi quel periodo sarebbe stato per sempre alle loro spalle. Dimenticato. Per sempre, per sempre. E le aveva sorriso, innamorato, complice, strafottente, da persona che sapeva quello che diceva e quello che faceva. Incredibile. Phil era davvero un grande stronzo, un vigliacco che più schifoso non ce n’era. Un uomo nato per quel mestiere. Ma anche lei...Era stata stupida come solo una donna innamorata può esserlo. E si era imbarcata nell’avventura per ritrovarsi con pochi soldi che aveva 73 messo da parte, un gruzzolo che avrebbe dovuto crescere ancora parecchio per poter cambiare la macchina e andare in giro nelle belle giornate di primavera o d’estate, per fare pic-nic e prendere per il culo quelli che non potevano permetterselo. Così era passata nella seconda categoria, fra quelli che non potevano permetterselo, mentre lui se l’era filata all’inglese. Non che avesse intenzione di ricordare, di raccontarsi di nuovo la propria storia, ma a tratti, alcune cose le balzavano in mente come scimmie che s’aggrappassero ai suoi pensieri, e non la lasciassero prima di essersi dondolate per un po’ vagando fra cento altri ricordi. Il primo cliente era stato un console onorario sudamericano che avrebbe trascorso una breve vacanza in patria. Questa gente ha bisogno di essere re-indottrinata di tanto in tanto dal Governo. E torna per un po’ e riprende le vecchie abitudini. E’ un uomo di mezza età che non ha portato la moglie e si sente solo, le aveva detto. C’è da spillargli un sacco di denaro e poi mandarlo a fare in culo. Potrai levarti anche questa soddisfazione, se vorrai. Ma prima bisogna prendergli la grana. Sperando che tu gli piaccia. Devi solo andare all’Ange Noir e cenare con lui. Poi vedremo quello che si potrà fare. Tu sai chi è un console onorario, no?! E’ gente carica di denaro, e nel caso di questo stufa di carne caffèlatte. Si getterà su di te come su un agnellino. Ma tu non sei un agnellino e dovrai mungerlo. Andrà via presto, il tempo di ricevere nuove istruzioni da qualche funzionario del Governo, e poi basta. 74 Nessuno saprà niente, e noi avremo tanto denaro da poterci prendere una vacanza di un po’ di mesi. A quel punto della loro storia il denaro era finito da un pezzo e andavano avanti con prestiti di amici. Nel caso di lui, si trattava di bari o di gente che era coinvolta nella pornografia minorile, nello spaccio al minuto di droga, o in imbrogli per gonzi - e queste erano le cose migliori. Nel caso suo, le amiche potevano prestarle poco. Di alcune sapeva che facevano le mantenute, di qualcuna sospettava che facesse marchette. Ma era gente piccola, e così il denaro che riuscivano a spillare era poco, e sempre di meno. Una delle amiche, un giorno, le aveva detto: Ma perché non ti metti a fare la puttana? E’ un mestiere come gli altri, un lavoro legale. Paghi le tasse e nessuno ti rompe il cazzo...Ed è finita con l’umiliazione di tutto questo andirivieni per quattro soldi, di questo leccare il culo a gente che non meriterebbe neanche di essere salutata da te...Un po’ di dignità, cazzo, un po’ di dignità femminile. Baas in eigen buik. Padrona del tuo ventre...Puoi e devi farne quello che vuoi. E mangiarci su è senz’altro un motivo sufficiente per fare la prostituta...Indipendenza, carina, fare la puttana è lavorare, è una cosa che da’ dignità...E’ un fatto di democrazia, di diritti della donna...E’ una parte della modernità. La ragazza aveva fatto un anno e mezzo all’ Università Libera di Amsterdam. Di diritti e di scienze sociale se ne intendeva. Phil l’aveva pregata, scongiurata. Incoraggiata. La loro storia non doveva finire per mancanza di denaro...Lei avrebbe voluto tornarsene a casa dai suoi, almeno per un po’. Per vedere come si poteva venire fuori da quella situazione. Ma Phil non aveva voluto. Potevano farcela. E 75 così erano cominciati i quaranta mesi in cui aveva praticamente lavorato per lui... Poi se n’era andato e le aveva lasciato gli spiccioli che lei aveva messo nelle mani di Margot. Di Margot che le aveva detto: noi non ci diremo mai “adieu”. Comunque avrebbe dovuto immaginare che le cose potevano finire così. Durante il tempo trascorso insieme mentre lei “lavorava sulla schiena” -, aveva voluto dimenticare quello che lui, ancora al principio, le aveva raccontato per ridicolizzare il suo ex. Uno stronzo fottuto che leggeva raccontini, e indottrinava giovani uomini a farsi seghe...Era così che parlava di lui e del suo lavoro all’università. Una sera in cui era ubriaco fradicio le aveva raccontato la vera storia del nonno. Il vecchio era un grandissimo figlio di puttana, altro che eroe. Anzi era proprio un eroe del cazzo...La storia del nonno che aveva raccontato sul treno a lei e al suo fiancé non era andata proprio in quel modo...Suo nonno che, vedendo le crudeltà praticate dai suoi commilitoni sul fronte, si era ribellato ed era passato al nemico bla bla...?! Una sonora castroneria. In Africa suo nonno aveva violentato una ragazzina che aveva trovato sulla riva di un ruscello durante un pattugliamento. Una bambina di una decina d’anni. E poi, quando un compagno lo aveva denunciato all’ufficiale in comando, aveva detto a sua discolpa che le “bambine” lì maturavano più in fretta che fra i grachten, e che dieci anni erano più o meno l’età giusta per cominciare a scopare. Volenti o nolenti, come accade a tutte le latitudini...Lei mi ha guardato, e così io... Phil aveva riso come un matto, e singhiozzando aveva rigettato un mare di birra che aveva inondato la 76 camera. Poi, mentre lei cercava di riparare il danno con degli stracci e un abito dismesso, aveva aggiunto che il vecchio, lui sì che sapeva quello che faceva e come ci si deve comportare nella vita. Quella stessa notte era fuggito dopo aver pugnalato la sentinella che gli avevano messo davanti alla tenda ed era passato ai tedeschi. Non aveva nessuna intenzione di essere portato davanti al tribunale militare presieduto da un calvinista - il comandante dell’unità - che lo avrebbe fatto fucilare la sera stessa del giorno successivo. Lui ce l’avrebbe comunque fatta perché avrebbe passato ai tedeschi informazioni militari, o raccontato delle balle che si sarebbe inventato su due piedi, se ai crucchi non bastava quello che poteva raccontargli di vero. Questo era quello che era successo, altro che gentile ...Uomo d’onore, di coscienza...Suo nonno era un grandissimo figlio di troia. Ma il suo fiancé, e lei stessa, si erano bevuti tutte le puttanate che lui gli aveva rifilato. Tutte, nessuna esclusa aveva concluso Phil. Poi era precipitato in un sonno durato più di ventiquattrore. L’amore oltre che cieco è anche stupido. E lei aveva dimenticato in fretta che nelle vene di Phil scorreva il medesimo sangue. Che in lui, e nella sua ammirazione per il nonno, scorreva lo stesso sangue che raccontava storie fasulle, che tradiva, che uccideva senza problemi. Un assassino e un furbo ogni volta che poteva. A volte Mark le aveva detto “buon sangue non mente”; e una sua collega inglese, all’università di F., aveva continuato a dirle che una delle compagne di studio era una gran troia, tale e quale sua madre: che i suoi genitori conoscevano bene. Dove salta la capra salta la capretta. 77 O, nella sua lingua e con molta ironia : “blood is thicker than water”. Ma s’imparano solo le lezioni che si vogliono imparare. Lui era così divertente, così tosto, così macho... Ottimista e convincente come nessun uomo era mai stato con lei... La teneva allegra, allegra da morire... Le era sembrato di poter essere felice con lui. Al principio le cose erano andate bene, e lei non avrebbe mai potuto immaginare una simile conclusione. In banca il conto cointestato cresceva, e lui l’aveva sempre aiutata, in ogni crisi che aveva avuto, crisi che di tanto in tanto tornavano. Come la mezzanotte di un orologio che segni ventiquattrore, tarda a venire ma arriva sempre. L’aveva aiutata con un crudele calcolo oltre ogni misura. L’avrebbe capito quel giorno in cui dovevano andare a cenare da “Dorrius”, come di tanto in tanto capitava. Il locale le piaceva molto, era uno dei più importanti di Amsterdam, dei più a la page, con i turisti e gente con i soldi, e con grande cucina olandese. A lei piacevano particolarmente i candidi grembiuli inamidati del personale di servizio, e le sale pannellate di un legno lucido e dai colori profondi, e quell’aria di opulenza che anche loro potevano respirare. Lui, poi, le aveva solennemente promesso di non chiederle di scoparsi nessuno che incontrassero lì, per quanto ghiotta potesse essere l’occasione. Glielo aveva giurato. Anzi, una volta che un uomo a un tavolo non distante l’aveva adocchiata e guardata con insistenza significativa, lui le aveva chiesto di cambiare posto, “prima che vada a spaccargli la faccia, a quello lì”. Le era sembrato una prova della sua lealtà di 78 compagno, un pegno d’oro per il suo futuro. Per il “loro” futuro. Phil aveva mantenuto la promessa, e a lei era bastato. In quel locale così elegante le sembrava di toccare con mano il “successo” raggiunto, e allo steso tempo di potersi sentire, così mescolata a quella bella gente, una turista del bel mondo appena arrivata, invece che una che faceva la prostituta nella città “che aveva vinto il mare”. In qualche modo anche lei aveva vinto la stessa possibilità di vivere. Di quando in quando, ripensava all’amica che le aveva proposto la stanza nel quartiere a luci rosse, dicendole che si trattava di un mestiere legale, e che nessuno aveva “il diritto di romperle il cazzo se lei pagava le tasse”. Era stata una scoperta inattesa e allo stesso tempo un’assicurazione... anche se il mestiere lei lo faceva in altre condizioni e le tasse non le pagava. Ma la democrazia e i diritti delle donne sono intoccabili. Era un’amica di Phil. E in un secondo momento lei aveva immaginato che tutta la cosa fosse cominciata con il suggerimento di Phil a Regane - si chiamava così la ragazza - di farle quel discorsetto sulla legalità di quel lavoro, sulla democrazia del nord, sulla libertà di disporre del proprio ventre. E sulla dignità della donna. Una cosa ben architettata. Poi la conclusione, il traguardo di quell’inganno. Si era svegliata che lui era uscito, e l’aveva lasciata sola nella stanza dell’appartamentino in cui vivevano. Aveva visto il cassetto del mobile di fronte al letto semichiuso, e dal momento che dentro vi erano i loro passaporti e gli altri documenti importanti per vivere all’estero, se ne era meravigliata. Phil lo teneva sempre chiuso a chiave. Forse...il cassetto cigolava, e lui non 79 aveva voluto svegliarla? Aveva subito cercato i passaporti e l’assicurazione sanitaria che avevano entrambi, oltre all’assicurazione reciproca sulla vita con i Lloyds. L’avevano rinnovata da poco. E, quando non li aveva trovati, si era messa a frugare nei cassetti, fra altre carte, per vedere se passaporti e assicurazioni fossero andati a finire in mezzo ad essi. Ma proprio quei momenti sprecati le avevano tolto ogni possibilità di raggiungerlo, quando alla fine aveva immaginato tutto e si era precipitata in strada. Neanche l’ombra di quel gran figlio di puttana. Subito aveva pensato all’automobile e aveva telefonato al garage. A quel punto neanche la risposta dell’omino di turno al garage poteva meravigliarla. Phil era uscito con la macchina e non era ancora rientrato. Era stato il suggello a tutta la vicenda. La macchina non era neanche intestata a lei. L’Europarking di Marnixstraat aveva ingoiato per sempre anche quella che fino alla sera precedente era stata la “loro” Volvo. Chiuso anche con quella. Ma il peggio doveva ancora venire perché lei non aveva mai pensato che un conto bancario cointestato e a firme libere significasse non solo un deposito di cui essere titolari in due, ma allo stesso tempo un conto da poter essere legalmente svuotato da uno di loro a cui venisse voglia di farlo. In qualunque momento, bastava che la filiale della banca fosse aperta. Lei aveva solo pensato che era comodo che entrambi potessero accedervi separatamente e ritirare del denaro, cosa che di solito faceva lui. Ma che lui potesse prelevare tutto e lasciarla con il culo per terra, questo non le era mai venuto in mente. Che imbecille era stata! Neanche capace di fare la puttana, 80 perché alla fin fine anche la democrazia e la legalità non ti salvano, se non tieni gli occhi bene aperti. In banca non poteva telefonare, troppo tardi. Le banche chiudono per i diritti di quelli che ci lavorano. E, dopo aver chiuso alle quattro, avrebbe riaperto solo il lunedì mattina. Sempre per i diritti di quelli che ci lavorano. Ma immaginava.... Non era difficile “immaginare con sicurezza” quello che c’era da immaginare. Dopo aver lasciato la Marnixstraat e l’Europarking, aveva deciso di fare un giro a piedi. Ne aveva una grande voglia, in modo particolare il pomeriggio di quella sera in cui avrebbero dovuto andare da Dorrius lei e Phil. Le avrebbe fatto bene un posto solitario, che magari lei conosceva e che l’avrebbe accolta insieme alla sua disperazione, alla sua infelicità. Le venne in mente il Westerpark. Era lontano, ma con la Metro e un po’ di fortuna ci poteva arrivare in fretta. L’Harlemmerweg, che correva lungo il parco, le piaceva. C’era una nota di freschezza, di semplicità, e magari anche di povertà di periferia che le aveva sempre ricordato il suo passato. Forse anche in quel momento l’avrebbe aiutata, confortata. Una volta, andando a incontrare Margot che era da quelle parti per certi suoi affari, era rimasta inchiodata davanti a una vetrina di Harlemmerweg. Era una sorta di ampia finestra più che un’autentica vetrina commerciale. La donna - che viveva lì con un figlio che poteva avere cinque o sei anni, e che si vedeva in fondo, nel cucinotto illuminato del piccolo, ingombro appartamento - aveva esposto cose da vendere. Aveva immaginato che fossero cose della casa che l’altra dava via perché non le servivano più, o perché aveva bisogno di denaro. Fra le altre c’era 81 una bistecchiera quasi nuova che non era riuscita a immaginare come fosse arrivata lì. Certo non per il frequente consumo di carne. Quella finestra era parte integrante dell’abitazione di quella povera gente, e lei era tornata sui suoi passi fingendo di voler guardare il Westerpark al di là dell’ Harlemmerfaart ma fissando per un paio di minuti la merce di quella piccola azienda, che altri avrebbe considerato solo spazzatura. Forse lì c’era anche più infelicità che da lei. Quel pomeriggio aveva bisogno d’aria, e di qualcosa che la tenesse lontano dal suo appartamento, dal suo mestiere, e principalmente dal pensiero di lui. Ma non era facile. Quel figlio di puttana di Phil era lì, presente in tutto, la causa di tutte le disgrazie che le stavano capitando, di quelle che già le erano capitate, e anche di tutti i problemi che l’avrebbero cercata da quel giorno in poi. Tra l’altro avevano parecchi debiti, non è vero che chi ha denaro non ha debiti. E il suo mestiere aveva bisogno di un uomo che desse una spinta. Ma lui non sarebbe stato più lì, e le cose sarebbero diventate ancora più difficili. Il suo eroe... L’uomo più virile che avesse incontrato, il più simpatico... Che sapeva tirarla fuori da ogni pasticcio... Ed erano parecchi i problemi che sarebbero giunti a maturazione, a cominciare dall’appartamento. Il contratto era intestato a lui, e sicuramente l’aveva disdetto ed era andato a ritirare il deposito cauzionale. Le sarebbe arrivato l’avviso di sfratto entro un paio di settimane. Era più o meno quello il periodo dell’anno in cui avevano firmato... In cui lui aveva firmato. 82 Così era rimasta per un paio d’ore fra l’Harlemmerweg e il Wester Park, a fumare e a fissare l’Harlemmerfaart. L’acqua del canale scorreva lenta contro lo sfondo del parco, mentre lei passava e ripassava davanti a quella vetrina quasi opaca per la polvere della strada e l’età della piccola costruzione. Ma la casa era chiusa con un grosso catenaccio sulla porta. Attraverso la vetrina si potevano vedere gli interni, probabilmente due stanze oltre il cucinotto in fondo più scuro che mai. Forse la donna lasciava le porte aperte e le tendine della vetrina raccolte ai lati affinché qualche malintenzionato di passaggio potesse accertarsi che, a dispetto del robusto catenaccio, non c’era nulla da rubare. Nulla da prendere e portar via per ricavarvi qualcosa, a parte la miseria e la solitudine che dovevano essere le costanti della famiglia. Almeno lei aveva immaginato così. I minuti si erano spinti l’un l’altro, mentre il fumo di sigaretta la rincorreva attorcigliandosi su se stesso nella mezza luce del giorno che sfumava silenziosamente. Poi era tornata a casa, incapace di sopportare oltre quel paesaggio silenzioso. A una casa che non era più casa sua, e che ad ogni oggetto, ad ogni colore - per quanto scelti con cura, con gusto - le suggeriva che non era mai stata una casa. Aveva dovuto aspettare lo scorrere lento di quel week-end e le prime ore di un lunedì mattina in cui si era svegliata troppo presto, per sapere dalla banca che sul conto le restavano cinquecento dollari, e che allo sportello della posta-clienti vi era una lettera per lei, oltre alle comunicazioni bancarie non ancora ritirate. “Ho una nota della mia collega che mi dice così, signora...”. 83 Quel “signora” avrebbe anche potuto essere una presa per il sedere, se la “collega” incaricata ai conti correnti avesse saputo e le avessero raccontato quello che era successo a uno degli intestatari del conto N°xxxx. Ma quella era solo ipocondria, non c’era da pensarvi, o comunque da farvi gran caso.. Anzi non era neanche ipocondria ma paranoia...Aveva ritirato 450 dei 500 dollari e si era recata allo sportello della posta-clienti. In una delle buste vi era l’ultimo resoconto trimestrale, evidentemente già visionato da lui. In margine era scritto: per le piccole spese. Quel grandissimo pezzo di merda! Non sarebbero bastati 5.000 dollari per saldare i debiti..E, per quanto riguardava l’augurio, quello poteva ficcarselo direttamente...! Ed era finita lì. Aveva dovuto abbandonare l’appartamento e trasferirsi in un’altra zona della città, ma prima, in un giorno e una notte, aveva raccontato a Margot tutto quello che le era successo. Erano entrambe sedute su di una cassetta di lager perché la ditta che aveva venduto loro i mobili aveva mandato il trasportatore per riprenderseli, dopo il secondo avviso non riscontrato da un pagamento. E avevano bevuto e avevano riso come due donne che non avessero altro da fare, o idee su cosa fare, a tratti chiedendosi l’un l’altra come Phil, l’augurio, avrebbe potuto “ficcarselo direttamente...”. Poi avevano brindato ancora. E si erano trasferite a casa di Margot, l’amica l’avrebbe ospitata per il tempo necessario a trovarsi una nuova casa e un nuovo letto dove dormire. Alla seconda bottiglia di vino rosso, comprata nel negozio a una ventina di metri dal suo portoncino, 84 erano state entrambe ubriache fradice. E Margot aveva alzato il bicchiere dicendo: Adieu! Quel saluto l’aveva aiutata a sbollire la rabbia che a tratti le saliva alla testa. L’aveva aiutata a cominciare a dimenticare. Phil non c’era più. Anzi, non esisteva più. Adieu, per Margot significava la chiusura, il sigillo di un fatto. Come una pietra tombale, un atto notarile che ufficializzasse la scomparsa di qualcuno o di qualcosa. E lei stessa aveva ripetuto con la bocca e con il cuore quella sorta di saluto definitivo a quello stronzo di Phil, a quel grandissimo figlio di troia che le aveva incasinato così crudelmente la vita. 85 VI - Sono Mark Bacoli, sig. Provveditore. Buongiorno. - Buon giorno a lei, Professore. Le sono grato per aver chiamato. - Lei mi ha dato cortesemente il suo numero di telefono... - Non lo dica. E’ un numero pubblico che poteva trovare in qualunque elenco del servizio telefonico. Se avessi immaginato che poteva aver bisogno di me le avrei dato il mio numero privato...In cosa posso esserle utile? - E’ una questione che non attiene alla mia funzione e al mio lavoro qui... - Dica pure, Professore...Se la vita dovesse arrestarsi ai confini dell’ufficialità, o dell’interesse di Stato... - Avrei bisogno di un favore. Noi italiani siamo curiosi, e forse noi studiosi italiani lo siamo più degli altri. Chissà poi se a ragione o a torto. Ma la nostra storia è complicata, e a volte rimarrebbe incomprensibile se qualcuno non fosse curioso come un gatto...Devo dire, 86 comunque, che voi olandesi non lo siete meno, quando si tratta di indagini storiche o di scienze esatte.. - Grazie. Dica pure, Professore. - Avrei bisogno di qualche informazione su di un vostro cittadino. Anzi su qualcuno che è stato vostro cittadino prima di prendere una diversa cittadinanza. Conosco il nome dell’uomo e il periodo in cui può essere morto. Ma dal momento che è deceduto probabilmente all’estero, questa data non sarebbe di grande aiuto... immagino. - Potrebbe essere così gentile da dirmi di cosa si tratta, Professore? Di entrare un po’ più nel dettaglio. Non vorrei che perdesse il suo tempo. Anche da noi vi sono cose che il Governo non ama divulgare. Degli “scheletri nell’armadio”, come dice la stampa. A questo punto il “signor provveditore” dette in una risatina diplomatica. Quindi proseguì con sottolineata gentilezza: - A meno che non vi sia un motivo preciso, una circostanza...giustificante. Si aspettava la richiesta. E la sua risposta fu semplice, da poter essere accettata da chiunque fosse disponibile a una certa misurata evasività, che non avesse tuttavia conseguenze di carattere politico-amministrativo. - Le garantisco che non vi è nessuna implicazione in affari di Stato o cose simili. Si tratta di un lavoro a cui attendo da qualche tempo presso l’università di F. Un’ indagine storica, di routine quasi...Nell’esame di alcuni documenti riguardanti la I Guerra Mondiale e gli avvenimenti coloniali ad essa connessi, è saltata fuori una lettera che faceva riferimento a questa persona accennando ad alcune attività da lui svolte nel periodo bellico. Niente 87 di importante, per la verità, tuttavia vorrei annotarvi in margine un profilo essenziale. Ma non possiedo nessuna informazione tranne il fatto che l’uomo era olandese di nascita e di nazionalità. Almeno in quel periodo. Ho cercato anche sul web, ma senza alcun risultato. Comunque, non credo che si tratti di persona coinvolta in fatti che siano classificati o secretati. Un uomo insignificante, un’ombra su di un muro grigio. All’altro capo del filo un breve silenzio, poi uno schiarirsi della voce basso quanto possibile. - In tal caso mi farà piacere essere utile a lei e alla Università di F. - La ringrazio, sig, Provveditore. I dati sono i seguenti. Scandire le lettere che costituivano il nome del nonno di Phil gli provocò un profondo disgusto, come se avesse dovute staccarle a forza con la lingua da un pavimento lordato dal passaggio di una colonna di appestati. A completare il suo racconto, Phil aveva anche specificato la data di nascita e di morte dell’eroe; lo steso gli accadde con queste. - Bene, le farò sapere. - Quando posso ritelefonarle? - Domani, dopo le undici. So che rimarrà ancora poco con noi. - Purtroppo, perché devo ammettere che l’aria del vostro Paese mi giova molto. Questa volta la risatina fu cordiale. - Mi fa molto piacere, Professore. - Ancora grazie, sig. Provveditore, a domani. Gli avevano detto che poteva chiamarlo così, sembrava che quel titolo gli spettasse, o titillasse il suo amor 88 proprio. Anche gli olandesi, di tanto in tanto, mostravano qualche debolezza. Il giorno successivo compose il numero del “signor provveditore” con ansia e un certo imbarazzo. A dispetto del suo mestiere - o proprio perché faceva quel mestiere e ne conosceva i bassi intrallazzi e le pesanti compartecipazioni da pagare -, i secondi di attesa furono sgradevoli quanto pieni di curioso desiderio. Poi l’altro rispose. - Buongiorno, sig. Provveditore... - Buongiorno, Professore, eccomi a lei. Delle carte frusciarono nel suo orecchio, una voce bassa nello sfondo, forse una segretaria a cui fu chiesto: Null’altro? - No, fu la risposta. - Per la verità non è stato del tutto facile...Ma nulla è facile quando si tratta di cose che hanno avuto luogo circa un secolo fa...a dispetto di ogni buona organizzazione e di ogni moderna digitalizzazione e informatizzazione... - Mi dispiace di averle procurato... - Non si preoccupi, mon amì, niente di grave. Non aggiunga altro. Dunque...la persona su cui lei desiderava informazioni, per quanto sia “un’ombra su di un muro grigio”, ha sollevato il nostro interesse per un certo periodo. Si tratta di un omocoda. Ricercato per un decennio dalla nostra amministrazione giudiziaria e dalla polizia di Stato per avere ucciso una ragazzina dopo averla stuprata, durante l’avanzata delle truppe boere. Forze militari locali a cui l’uomo si era associato contro le truppe di occupazione tedesca nel sud-Africa. Denunciato all’autorità del reparto da un suo commilitone, durante la prima notte di detenzione - immagino che fosse in una 89 semplice tenda o qualcosa di egualmente “sicuro” pugnalò la sentinella di guardia e passò al nemico fornendogli informazioni militari. Sfuggendo così alla fucilazione che avrebbe privato di tale sostegno “solido e fedele” le truppe tedesche in ritirata. Qui lui immaginò che l’uomo sorridesse per l’evidente cambiamento del tono di voce. - Per la completezza dell’informazione, e per la particolare funzione che lei ricopre nello svolgimento di questa indagine, insomma per il valore scientifico di cui essa è rivestita, tengo a precisare che questa persona non ha mai più calcato il suolo olandese, essendogli stato concesso al termine del conflitto dapprima l’asilo politico in quanto disertore e poi, dopo un certo numero di anni cinque per la precisione -, la nazionalità tedesca. Una risatina interruppe la pastosa voce del suo interlocutore. - Non deve essere stato un furbetto da poco, quest’ uomo. Non ha mai avuto problemi con la giustizia tedesca fino alla sua morte. Neanche una multa per divieto di sosta...Ma questo, forse, perché non possedeva un’ automobile...E, per chiudere il capitolo, posso darle queste informazioni in base all’attuazione di un accordo degli anni trenta per il quale, a seguito di nostra richiesta, ci venivano fornite informazioni su cittadini olandesi ed exolandesi, condannati e non dall’amministrazione giudiziaria tedesca, al fine di porre termine alla questione dei danni di guerra subiti da coloro che avevano partecipato ai conflitti coloniali e alle loro famiglie. Dovette inghiottire un paio di volte prima di rispondere. 90 - Non è poco, Sig. Provveditore...La ringrazio vivamente. Cercherò di approfondire quest’ultima notizia, ora che so come proseguire nella mia indagine. La ringrazio ancora... - Mi permetta di aggiungere che, a quel tempo, dovemmo insistere per ottenere un tale tipo di informazione. Lei ne comprende i motivi...Anche perché lei ricorda come finì la nostra collaborazione con l’amica Germania, non è vero?! Poi, dopo qualche attimo: - Immagino che abbia visitato la casa della nostra piccola Anna...Ne è rimasto colpito? - Certamente. E’ una ferita... una ferita che rimarrà per sempre aperta nel cuore del mondo civile... - Ho capito dal suo cognome che è di famiglia ebrea... - Solo di origine. Ora siamo quasi tutti cristianocattolici. - Capisco. - La ringrazio ancora sig. Proveditore. Spero di rivederla. - Venga pure a trovarmi, se avesse bisogno di ulteriori... - E’ quello che farò. Ritornato in albergo, era salito in camera e si era tolto giacca e scarpe, poi si era lasciato andare sul letto, in una condizione a metà fra lo stanco e il soddisfatto. Per la verità aveva motivo per essere soddisfatto. Almeno in un certo senso. Quello che era accaduto era quello che c’era da aspettarsi da Phil. Probabilmente un uomo dalla cui bocca difficilmente usciva una verità. Sapeva Luise di tutto questo? A quel punto fu preso da un 91 attacco di nausea. Doveva smetterla...smetterla di pensare a lei e a lui. Era un argomento in cui non doveva impiegare altro tempo e altre emozioni. Si sentiva aggredito. Più che sentirsi stanco si sentiva mentalmente incerto, insicuro. Al mattino aveva partecipato ai lavori del suo gruppo. Avevano parlato di Musil e della sua opera, scendendo nei particolari di alcuni passaggi tratti dai suoi racconti. Anche da quelli che lui aveva letto, nel volume che gli aveva passato il suo direttore di dipartimento. Lui non era riuscito ancora a comprendere... Non era riuscito ancora a centrare l’autore. Questo non aveva nulla a che fare con il suo lavoro, ma lo incuriosiva egualmente. Avrebbe voluto capire di più, ma leggerne l’opera maggiore significava dedicare dei mesi in un’escursione lontana dai suoi interessi. L’aria condizionata sospirava debolmente. Un bicchiere d’acqua ridusse solo di poco l’arsura che sentiva. Il volume trattava di donne, in modo particolare. Di Veronika, Claudine e Viktoria. Le protagoniste indiscusse dei tre racconti. Lui non sapeva cosa pensare di quei personaggi - ma forse quello era il meno - e del loro rapporto con l’autore. Era cosciente di non poter tentare un profilo personale e provvisorio su quell’autore... Tuttavia vi era un turbamento...un residuo della sua lettura...Come una nuvola che vagasse nella sua mente carica di interrogativi...Che, aggirandosi nella memoria, un po’ gli mostrava le caratteristiche di quelle storie, ma un po’ oscurava con la sua presenza la penetrazione insieme dell’opera e dell’artista. Si poneva come ostacolo all’approfondimento. 92 Claudine... Una donna che gli era apparsa come la negazione del profilo etico in un animo femminile. Come se non vi fosse un autentico senso del dovere in un amante. Che l’amore della coppia, il loro congiungimento, non fosse percepito come l’atto esclusivo all’interno di una sfera specialissima. L’amore non aveva raggiunto la profondità di essere “mai più soli”, una nuova creatura a quattro mani e un solo cuore. Neanche gli sembrava che vi fosse un profilo attivo della psicologia della donna, qualcosa che potesse essere definita come habitus volitivo. Tranne che per poche cose: togliere il chiavistello, aprire la porta, uscire sul corridoio a verificare che lui non ci fosse - o che magari ci fosse. Azioni peraltro inefficaci. In una negazione e accettazione a tratti contraddittorie. Quello che Claudine fa non è né produttivo né necessario. Sia come sposa che come amante, è una persona fra il poco e il nulla. E manca anche al suo dovere di madre, manca alla visita della figlia in collegio. Al massimo lei rovista. E’ essenzialmente rivolta verso l’interno, verso il ciarpame delle sue fantasie, dei suoi ricordi, delle sue capacità interpretative e ipotetiche su coloro e su quanto la circonda. Non è neanche una donna molto intelligente, o molto furba. E’ un essere che si lascia vivere. Che si abbandona al flusso di quanto accade all’interno e all’esterno di se stessa. Se fosse un soggetto nevrotico, potrebbe essere considerata una che “farnetichi”? Anche se a una certa distanza dalla border line? Ma la sua calma, il suo ozio mentale e pratico, lasciano soltanto che le sue visitazioni alle ipotesi sessuali - e le sue rivisitazioni del passato - si snodino come acque 93 molli di un ruscello di pianura, il cui corso si dipana con lentezza non golosa. Con un passo misuratamente volente, neanche avido. Claudine non è. Quasi sempre non è. Ora la luce delle macchine sbatteva contro l’angolo della finestra e il cassettone anticato, riluceva sullo spigolo del tavolino. Mentre qualche omino appariva a testa in giù sul soffitto. Quasi gli veniva da ridere, ma era stanco, a quel punto aveva sonno. Le strisce di luce si rincorrevano, si rincorrevano... Chiuse gli occhi per qualche minuto, ma lo stridere delle ruote di un’auto giù nella strada lo risvegliò. Meccanicamente riprese il filo del discorso interrotto. L’evento conclusivo del racconto è lo sciogliersi del suo corpo nella soddisfazione dell’estro, piuttosto che realizzare un progetto umano, anche se turpe, o sciocco, o vano fino alla stupidità. Claudine non è perché non è una persona agente, un progetto. Non è una volontà che parte da una concezione della vita, da una struttura di sentimenti, e poi sceglie. Lei si fa vivere dal proprio corpo, dalla propria immaginazione, dalla propria fantasia. Da una sensualità quasi immotivata dall’esterno. Esiste Claudine, o è solo l’ombra di un personaggio? Solo l’opera dell’immaginazione? A modo suo, un mito? Lui non era in grado, a quel punto, di formulare un’ipotesi critica...Tuttavia gli sembrava che la natura del concedersi di Claudine fosse... Claudine si abbandona, anche se sa che tutto questo farebbe male al marito-amante. E’ aggredita da tutto quanto è nella sua storia, nel suo passato, nella sua sensibilità femminile. Dalla sua 94 sensualità. Addirittura dal luogo fisico, dalla parte precisa del proprio corpo in cui avverrà il congiungimento con lo straniero. Ne ha l’immagine visiva? Il suo è un vagare senza fine tra i flutti dell’esistenza, mentre è circondata - forse inconsciamente assediata - da un universo di cose. Cose e fatti minimi per lo più, che costituiscono la sua esperienza di piccola donna, di modesto essere umano. E andava inoltre tenuta in considerazione la presenza di un atteggiamento “estetizzante”, nella valuta-zione reciproca dei soggetti della coppia, nelle loro vesti di moglie e di marito. Tutto questo unito al sospetto che l’estetica esercitasse un equivalente peso sui rapporti con le cose. E Claudine realizza il tradimento, - e il proprio piacere - senza che il partner rappresenti una reale attrattiva, nel senso che rappresenti qualcuno di cui godere la bellezza, l’eleganza, il fascino. Claudine si dà a un uomo che, a suo dire, le fa schifo. Il congiungimento può essere visto come un atto quasi masturbatorio, in cui il piacere è la fruizione esclusiva di se stessa, dei propri genitali; in cui l’altro non partecipa come persona ma accende in qualche modo il combustibile che è in lei. Attualizza la sua memoria, la sua immaginazione, le sue fantasie. Non c’è un’autentica attrazione nei confronti dell’ altro, la volontà di possederlo, ma solo l’abbandonarsi alla propria sensualità, eccitata dalle parole, dalla presenza maschile. Nonché dalle proprie elucubrazioni. La presenza ossessiva della propria sessualità, della corporeità degli atti. 95 La seduzione - se si vuole chiamare così ciò che coinvolge Claudine, anche se non è tale - si realizza non portando un oggetto del desiderio a sé, ma restandone del tutto esclusa. Claudine è andata dove è ora per far visita a Lilli, sua figlia tredicenne... avuta durante il suo precedente matrimonio da un estraneo, da un dentista americano che l’aveva in cura... Un evento quasi casuale, che lei dismette... con la stessa semplicità, e probabilmente indifferenza, con cui l’ha iniziato...Qualche volta manca all’appuntamento...tuttavia... A questo punto si addormentò. 96 VII La telefonata al provveditore non era terminata con l’apprezzamento da parte del funzionario per la furbizia dell’assassino, che non si era mai fatto beccare dalla polizia tedesca, un corpo notoriamente efficace, e con una solida storia nella considerazione internazionale. Al termine della glossa sull’uomo che “non si era mai lasciato alle spalle alcuna traccia”, il suo interlocutore aveva riso pianamente poi aveva introdotto l’argomento che gli interessava di più. Anche perché a quel punto poteva e doveva farlo: altrimenti quando? La voce dell’altro incalzò con una certa suadenza. - Mi scusi Professore, se mi permetto di chiederle anch’io un favore...Le occasioni di incontri e quindi di una autentica comprensione delle esigenze reciproche sono poche... dunque bisogna approfittarne. Mi risulta che, presso l’Università statale di F, non esista un vero e proprio fondo librario olandese. Si dice così? - Quindi, senza attendere la risposta proseguì. - Pertanto si 97 desidererebbe sapere se, partecipando uno dei nostri ministeri nazionali - magari lo stesso Ministero degli Esteri - all’impianto di una tale fondazione con una donazione di trecento volumi di varia letteratura non si potrebbe realizzare una ulteriore collaborazione. Si tratterebbe di una fresca testa di ponte lanciata fra i nostri paesi che non mancherebbe di esiti culturali e di altro genere. Insomma, un altro cespite beneaugurante di amicizia, oltre che di interscambio... Una testa di ponte, ma non con il significato militaresco che solitamente viene dato a questa espressione. - Qui il fine dicitore s’interruppe e ridacchiò soddisfatto. Trecento volumi erano una spilorceria, i Paesi Bassi si potevano permettere molto di più. Ma l’uomo forse intendeva negoziare solo il fatto della collaborazione, e impiegava cifre che avrebbero comunque sostenuto l’impatto di qualsiasi critica sia da parte dei suoi superiori che dell’università di F. Di fatto, trecento volumi si possono mettere in quattro scatoloni per i pelati: la exSignora dei Mari - anche Orientali - poteva permettersi ben altro. Era la biblioteca di F. che forse avrebbe accolto con gioia una così limitata quantità di cultura olandese a causa della scarsità degli spazi da dedicare ai volumi, in continuo quanto drammatico aumento. Comunque, a lui, di tutto questo non gliene importava nulla. Un po’ di cultura olandese ci faceva bene fra il Tirreno e l’Adriatico, a parte la modernità di certe idee che circolavano fra i grachten nederlandesi con un esito non del tutto gradevole. Perché, nominalismo a parte, bisognava cercare di capire cosa significasse davvero modernità nelle varie culture nazionali. O post-modernità - altro termine ancora non perfettamente definito. 98 Sarebbero comunque giunte esperienze che potevano far comodo, o almeno aiutare. Il che non guastava. La domanda poi non lo meravigliava. “Do ut des”, era una condizione preliminare del mondo civilizzato. Ma si poteva fare. Trecento volumi occupano uno scaffale in un corridoio, e un paio di piastrine di metallo che etichettino le sezioni avrebbero compiuto il miracolo di quella presenza oltremare non ancora sufficientemente realizzata. La catalogazione, poi, avrebbe fornito motivo per l’assunzione di uno o di una stagista. Ragione per ulteriori trattative e favori. E neanche si potevano temere scandali: quello degli scandali era un settore del tutto “esaurito”. Venne anche a lui di sorridere fra sé. - Certamente, Sig. Provveditore. Mi attiverò appena possibile presso il Consiglio di governo della nostra università. Il domani ha spesso spalle più robuste di quanto ci si aspetta. Questo era ampiamente dimostrato dagli scandali che si succedevano sugli schermi televisivi, per sparire poi senza che fosse fornita alcun tipo di notizia capace di soddisfare il senso di giustizia degli utenti. Utenti della democrazia oltre che del servizio televisivo. A quel punto un’idea lo sorprese attraversandogli inattesa la mente; come una monetina che scavalchi la folla e colpisca il conferenziere che ne ha detta una troppo grossa. O che ne ha fatta una ancora più grossa. Non ebbe né il tempo né la forza per rinunciarvi. - A questo punto, devo confessarle che avrei un’altra richiesta da farle. Desidererei avere informazioni su di un’altra persona. Una signora francese, in qualche modo collegata agli studi che sto conducendo. 99 Dall’altro capo un breve silenzio, poi: - Il sesso femminile è comunque e ovunque la metà del mondo. Se non la metà più importante. E’ d’accordo? - Certamente. La signora abita qui ad Amsterdam, al momento, ed è di nazionalità italiana, dopo essere nata a Digione. E non credo che sia collegata a fatti classificati o secretati. Ma non ne conosco l’indirizzo, e non ho voglia di chiederglielo, per la verità...Lei comprende bene... - Certo...Ma vedo che lei conosce bene questa persona... Un attimo di incertezza, ma ora non poteva tirarsi indietro. - Abbastanza. -Il suo nome..? La risposta non si fece attendere. - Egregio Professore, per quanto nutra per lei grande stima e una istintiva simpatia, avrei preferito non sentirla più al telefono... L’unica cosa da fare era tacere. Magari schiarirsi la gola per non parlare. Anche perché non se la sentiva di spiccar parola. - Le spiego. Le informazioni su persone del gentil sesso possono rivelare drammi personali, o addirittura causarli...E io di solito mi rifiuto di essere coinvolto a qualunque titolo da inattese rivelazioni. Lei mi capisce...La privacy...fondamentalmente si intreccia alla natura drammatica della vita moderna...Una volta si diceva “tutto può essere, tutto può accadere”. Oggi io direi, con la più viva umiltà, “tutto succede, in effetti, tutto accade”. Nulla è escluso dal nostro stesso quotidiano...Tuttavia, a chi me le chiede con insistenza, tali informazioni, rispondo con 100 una certa onestà, quando posso. Con l’onestà dovuta fra gentiluomini. Per quanto questa possa risultare spesso cruda, sono del parere che l’unica colonna che ha spalle così larghe da sorreggere il peso della vita è la verità...Non voglio che l’amicizia che stiamo rafforzando proprio ora dovesse essere macchiata, domani, da un’informazione non veritiera...Da una elegante menzogna. -Sono d’accordo con lei. - Lei ha detto di conoscere questa signora... - Certamente. - E a lei che è una persona istruita, un docente universitario, non sfugge quale sia il più antico mestiere del mondo... Seguì un breve silenzio, che a lui parve opportuno interrompere per primo. In quei frangenti bisognava dimostrare una certa superiorità rispetto alle cose, sia per sé che per l’informatore. - La ringrazio... - La nota della polizia non parla di esercizio pubblico ma di un’attività privata. Quindi nulla che debba e possa essere necessariamente indagato dai servizi d’ordine... Forse solo dal servizio dei tributi. Ma un’attività modesta, e di una sola persona...Lei capirà che non è pagante per nessuno. E poi, una persona di un’altra nazione... Se volessimo fare indagini così approfondite, a cui dare un effettivo seguito... - Certo. Dopo qualche istante di silenzio l’altro riprese. - Nella vita di un adulto, una delle cose più importanti è non affrettarsi, non gettarsi a capofitto. Con gli occhi chiusi, come dite voi italiani...Perché spesso oggi non c’è 101 spazio, non c’è più tempo per riguadagnare quanto si è perduto... A quel punto lui non udì altro, non potette fisicamente sentire altro. Come se una sbarra di ferro gli avesse colpito il capo, o un campanello suonasse così forte da impedirgli la comprensione di ogni altro suono. Come se un lampo gli avesse rivelato un paesaggio inimmaginato e inimmaginabile. Intanto il funzionario, ipotizzando un guasto tecnico a causa del suo silenzio, prese a dire: - Hallo!... E’ ancora in linea, Professore..? Hallo..! 102 VIII Le ultime parole dell’uomo lo avevano gelato, innescando dopo qualche istante un’inattesa reazione che prima gli aveva dato un senso di vuoto al cervello e poi aveva mandato il cuore in un’insolita aritmia. Come se il treno della sua vita avesse cambiato il binario su cui correva, quasi che un forte vento lo avesse scaraventato al di là di una insospettata deviazione, verso una più limpida auto-coscienza. Nell’immobilità di quei pochi istanti temette di restare vittima di un malessere. Poi, poco alla volta, l’aritmia cessò, il cervello uscì fuori dalle nebbie che lo avevano avvolto come accecante ovatta, e tutto si ristabilì nella norma. Fu di nuovo se stesso. E, interrotta la comunicazione, prese a camminare con equilibrio precario fra la gente che affollava la stradina. Venti anni prima, quando frequentava l’università, aveva dovuto scrivere una tesina il cui argomento aveva 103 pressappoco le stesse parole: Con gli occhi chiusi. Un saggio su di un romanzo di Federigo Tozzi, un importante autore italiano poco noto al grande pubblico. “Conosciuto da troppo pochi”, aveva detto il docente di Storia della Critica. E, ad ogni corso, il fan di Tozzi impegnava due o tre dei suoi allievi per approfondire l’autore, segretamente sperando che quei lavori potessero risultare nell’ampliamento del numero dei lettori. Era un uomo duro, un piccolo siciliano di acciaio. Un uomo che sapeva quello che faceva, e che era innamorato del suo lavoro e della sua famiglia. E proprio a causa di quella tesina, lui aveva avuto un rapporto speciale con quel docente, che era sfociato in amicizia. Era stato il primo a dirgli: Perché non passa dall’altra parte della cattedra? Perché è difficile..., aveva risposto lui. Quasi impossibile per uno come me. Ma l’altro non si era arreso. Non dico di essere nitzschiani, ma bisogna ricordarsi di Feuerbach... O almeno di Alfieri. Volere è potere. Si trattava di un romanzo scritto dal giovane artista nell’ultima età che la vita avara gli aveva destinato. Parlava di una ragazza corteggiata e praticamente attesa dal suo innamorato sin dall’infanzia. Il suo nome era Ghisola, e la vicenda lui l’aveva ritenuta sempre come autobiografica o quasi. Ma se lo fosse stata davvero non avrebbe potuto giurarci, troppo tempo era passato da quegli studi, e forse la faccenda era anche un po’ intricata. Ghisola aveva fatto vivere a Pietro - questo il nome del giovane - una lunga lunghissima stagione di innamoramento, ma senza un effettivo interesse per lui. Senza neanche l’ombra della passione che lui nutriva per lei, e che mostrava ad ogni occasione. Una giovane donna un po’ allegra e un po’ 104 furbetta, di modesta condizione sociale, che in quel tira e molla in cui Pietro si era lasciato cacciare, aveva giocato, si era divertita un po’. Magari un po’ troppo. Finché lui aveva scoperto che, abbandonata la famiglia, la giovane donna si era stabilita in un casino privato, un luogo d’incontro per prostitute di basso rango. Ed era addirittura rimasta incinta. Nel corso di quell’esplorazione giovanile, aveva trovato doloroso attraversare le centocinquanta pagine del romanzo perché era stato naturalmente portato a vivere il dramma di quell’equivoco crudele. Quando si è giovani le emozioni giocano brutti scherzi. Quell’attenta lettura lo aveva spinto a vivere il dolore di Pietro e la colpevole leggerezza della donna come elementi della propria vita; o almeno possibili nella vita di uno come lui. Mistero dell’empatia intrecciata alla giovinezza. Quel rimanere attaccato all’immagine di lei, alle sue parole, alle sue promesse... Quell’essere legato dall’amore come un galeotto al suo scalmo... Era forse stata quella sua partecipazione interiore alla vicenda che aveva portato il suo insegnante a pronunciare quella frase: Perché non...? Alla fine Pietro, dopo aver scoperto il luogo dove vive la donna amata da sempre, ancora trova spazio per lei in se stesso, fino al momento in cui vede che è gravida, ne scorge il ventre gonfio del nascituro. A quel punto una violenta vertigine lo agguanta, e a conclusione della storia scopre di non amarla più. Il romanzo di Tozzi si intitolava “Con gli occhi chiusi”. Probabilmente a indicare la modalità dell’innamoramento sfrenato che aveva colto Pietro. Un uomo lanciato 105 in una corsa che nulla vede, che nulla capisce nello sforzo di raggiungere la meta, di realizzare il suo amore. Si poteva pensare che Pietro, forse, non avesse voluto credere ai propri occhi, forse neanche alle ipotesi della sua intelligenza. Gli ultimi tempi di quell’inganno, in cui crudeltà e leggerezza avevano tessuto una trappola disumana, erano stati per il giovane l’avvicinarsi sempre più alla realizzazione del suo sogno. Ma al profilarsi del ventre gonfio, in quella stanza d’incontri animaleschi, di botto “aveva smesso di amarla”. Ghisola era definitivamente “morta” per lui. Di colpo era uscita dal suo immaginario per non farvi più ritorno, mai più. Commentando l’epilogo del romanzo, il docente aveva deciso di non forzare la sua opinione sull’evento, e sull’argomento in generale - l’amore, una realtà misteriosa e misterica ecc. - e, con un sorrisetto beffardo ma senza malevolenza o giudizio, aveva lasciato spazio ai commenti suoi e del collega che aveva avuto la stessa tesina. Questi, durante la presentazione del suo lavoro, aveva detto che si poteva istituire uno speciale collegamento fra la scoperta della prossima nascita di quel bastardino - “uso il termine seguendo la mentalità dell’epoca”, aveva detto il compagno - e la reazione violenta e assoluta di Pietro. Una relazione oscura che affiorava, per le moderne conclusioni della scienza, in campo psicologico e antropologico. L’amore, che pure era stato così bene salvaguardato da Pietro a dispetto di ogni leggerezza di Ghisola, sparisce a quella nascita. A voler tentare un’interpretazione audacemente darwiniana, e forse anche freudiana, si poteva dire che la natura anche in quel caso avesse svolto un’ importante funzione, perché aveva messo Pietro al riparo da se stesso. Il pratico disprezzo di Ghisola per il suo 106 innamoramento, e il mestiere che a quel punto lei esercitava, non erano bastati a Pietro per ritrovare la propria libertà riguadagnando la porta? Non ce l’aveva fatta? Bene, ce l’aveva fatta il disgusto, una nausea metafisica per quella gravidanza che non seguiva la linea del suo sangue. Pietro aveva rifiutato quell’amore per sopravvivere; cosa che non si sarebbe verificata se avesse accettato insieme Ghisola e il figlio che la giovane donna aveva avuto da un altro. Perché Pietro non sarebbe sopravvissuto in quella creatura, anzi... ne sarebbe stato seppellito. Era di comune ammissione che il meretricio provocasse infertilità... Dunque, Pietro aveva smesso di amare la persona che amava dalla fanciullezza per amore di se stesso. Per sopravvivere. La natura l’aveva posto in salvo da una donna che, dopo avere ucciso la propria femminilità, avrebbe in qualche modo distrutto la sua virilità, se non la sua stessa persona. In un secolo scientista, darwiniano e freudiano, la sopravvivenza viene offerta non come il frutto della volontà e dell’intelligenza, ma dell’istinto che ci insegna magari contro ogni nostra volontà. Tramite un nostro moto profondo, forse inconscio, incontrollabile ma necessario alla vita. Affinché non si rimanga travolti dalle possibili negatività delle nostre esperienze. Tutto quello gli era tornato alla mente alla luce di un unico baleno. Alle parole del funzionario olandese: non gettarsi a capofitto, ad occhi chiusi...Un avvertimento che era anche un sommesso consiglio. Ma lui si era sempre chiesto, finché quella tesina aveva galleggiato sul pelo della sua memoria, se quello 107 fosse un punto di vista, oltre che realistico, sufficientemente esplicativo. Gli sembrava una conclusione un po’ “veloce”. Fino a chiederne scusa nel proprio cuore a quel Federigo Tozzi, sicuramente grande autore del Novecento, il cui “verbo” in qualche punto gli sembrava scricchiolare. Per conto suo, s’era detto che quella era la classica risposta di chi non aveva vissuto quel drammatico evento, e le conseguenze che esso portava con sé. Ma l’aveva mai vissuto davvero l’amore, il suo collega? Questo era stato l’epitaffio annotato da lui a margine dello scarno episodio. Poi la dimenticanza aveva inghiottito Pietro, Ghisola, e Federigo Tozzi, fino a che il funzionario olandese non era uscito in quell’espressione, e lui non era stato costretto a riconsiderare quel fluttuante corteo di ninfee, i ricordi di un tempo così lontano. A rivisitare dalla propria rinnovata umiliazione quelle acque avvelenate. Come per un forte rabbuffo di vento autunnale, che spazzasse via ogni cosa dal cielo e dalla terra, ecco arrivare Ghisola. E piantarsi al centro di tutto quanto era stato fino a quel mattino, in parte chiarificatore, al cuore dell’avventura che stava vivendo. Sulle labbra del “signor provveditore”, in quella lingua così spesso frusciata e altrettanto spesso saltellante di suoni che nessuna altra lingua che lui conosceva poteva vantare, la secca espressione “ad occhi chiusi”... Era stata un giacchio che l’aveva improvvisamente catturato. Le poche parole avevano fatto affiorare il ricordo di quella tesina inscritta nel proprio paleozoico e sopravvissuta alla dimenticanza. E con essa l’interpretazione di un aspetto particolare del breve romanzo, la gestazione della giovane prostituta. Di Ghisola, appunto. 108 Insieme a quell’ “ipotesi dell’inconscio” avanzata durante la “tavola rotonda” - come si diceva fra loro a quei tempi, rifacendosi al re Artù -, quel veloce seminario tenuto affinché ciascuno degli studenti informasse gli altri su quanto di particolare aveva incontrato nel suo approfondimento. Ricordava che per qualche minuto si era discussa la conclusione dell’opera, e qualcuno aveva accennato all’ oggettiva impurità che Ghisola ora avrebbe potuto offrire al suo innamorato, invece dell’immagine che Pietro probabilmente aveva di lei nel suo cuore. Qualcuno aveva detto che Tozzi avrebbe potuto essere più generoso, più idealista, qualche altro aveva replicato che la vita non è né generosa né idealista. Poi la cosa era stata messa via lasciandolo insoddisfatto: ma era stato quello che era stato. “Non l’aveva ancora vissuto.” Si ripeté più di una volta quella frase di tanti anni prima, mentre le vivaci quinte che lo circondavano perdevano la loro consistenza, divenivano colori e forme senza significato. E la città diveniva un semplice fondale di scena. Gli sembrava di percepire i fatti che stava vivendo in un atto che richiedeva la sua assoluta dedizione. Come se la concentrazione della sua mente volesse escludere tutto per cogliere una meta essenziale. Il destino lo aveva atteso a quell’ansa del fiume della vita, dove l’uomo del vecchio aforisma indiano attende il cadavere del suo nemico. Che gli passa accanto sulle acque silenziose del tempo che può apparire eterno ma non lo è. 109 Era quella la ragione del malessere che lo aveva colto a sentir pronunciare quelle parole: ad occhi chiusi. In quell’incontro era risorto in lui un problema, anzi la coscienza di un problema. Cosa fosse davvero l’amore, e se fosse possibile che esso morisse come era morto in Pietro per Ghisola. La ragazza attesa...la donna accettata in quella condizione di degrado. Vissuta da lui tra i fumi dell’emozione e dell’incertezza. La donna poi morta all’ amore a causa del figlio che portava in grembo. Cos’era l’amore di Pietro? Con un atto inevitabile aveva accettato che la domanda non fosse posta in quella sede universitaria, nell’antico seminario; ma quel che era peggio, ogni qualvolta che gli si era presentata, sotto una veste o un’altra, non gli era riuscito di rispondere. Neanche lui sapeva cosa fosse l’amore. La passione sì, ma l’amore? Cos’era l’amore? Alla fine aveva cominciato a ignorare quella domanda che la vita poneva di tanto in tanto. Era una domanda a cui era difficile rispondere. Una domanda che il suo corpo e la sua esperienza non riuscivano a chiarire. Un’istanza sollevata ma mai risolta. E quindi l’aveva dismessa. L’amore era diventato, in modo sottaciuto, portarsi a letto Luise e scoparsela fino alla gioia dello sfinimento di entrambi. E questo per un certo periodo lo aveva soddisfatto. Li aveva soddisfatti. Lo stesso tradimento della sua amante non aveva creato più luce, chiarito meglio le cose. E ancora si trovava a fronteggiare l’interrogativo, ancora si trovava a chiedersi quale fosse la natura del vincolo che unisce due corpi in un’abitudine incontrovertibile. In cosa consistesse quella funzione della 110 persona umana che scaglia uno contro l’altro nella coppia per farne una unità. Cosa aveva capito lui? In quel momento, diverse donne lo fronteggiavano rappresentando i più recenti elementi di riflessione da parte sua nell’ambito che lo interessava come uomo. Le prime erano le ultime in ordine di tempo. Viktoria, Claudine e Veronika, quelle che si potevano definire le anti-eroine dei racconti appena letti. Creature su cui era bene riflettere. Viktoria gli sembrava di poterla immaginare. Una donna che si lasciava scopare da Demeter Nagy in un rapporto che a lui sembrava tutto racchiuso nelle parole che terminavano la breve storia. Più o meno così: Chiudiamo l’uscio, Signorina, quell’indiscreto - il suo attendente, o qualcosa del genere- ...è capace di venirmi a cercare qui. Un Demeter a sua volta ben interpretato dalle pantofole su cui era disegnato un cuore. Questo dopo essere già stati amanti. Solo e soltanto robaccia. Poi Claudine, la donna innamoratissima del marito, che non si lascia scopare sui gradini della propria casa ma che - la volta che condurrà a un reale incontro con il voglioso interlocutore - si lascia seguire all’interno della propria stanza. Dal consigliere ministeriale, dopo che questi l’ha “inseguita” su per le scale dell’hotel in cui alloggia. Un uomo per cui la donna provava “letteralmente” un senso di schifo. Claudine, poco prima innamorata del marito, sentì che il suo corpo era “colmo di piacere”. E in quel congiungimento avvertì di aver realizzato una sua fantasia di ragazza, potersi dare a tutti ma essere di uno solo. Intanto che trovava l’intensità di quel congiungimento in qualche modo simile a quello che 111 i bambini hanno in mente quando dicono che “Dio è grande”. Poi era giunta Veronika. Convinta in un primo momento che il suo innamorato respinto si sarebbe ucciso per lei, ma alla fine schernita, ridicolizzata: ma chi sei...? Da un lui che aveva trovato una via d’uscita, una soluzione al dominio dell’altra. Che aveva superato il proprio sentimento di totale sconfitta che l’avrebbe spinto al suicidio. Una donna che si sente lei stessa annichilita al confronto con quelli che l’hanno amata; e la cui vita sessuale si riduce allo stare a volte, durante la notte, al di là del portone, a sentire uomini che passano a poca distanza da lei, ed essere colpita - fino al contorcimento dalla loro “vicinanza”, mentre lei è lì, in camicia da notte: “nuda di sotto”. Che, in uno speciale atto dell’immaginazione, sfiora i passanti con la propria mano. Quelle erano donne che aveva “incontrato” ultimamente. E una domanda gli aveva sbarrato la strada: era dunque quella l’immagine del femminile del suo tempo? Una creatura intessuta di sensibilità, sensualità, psicologismi, immaginazione fino alla fantasia estrema, e nient’ altro? Un essere in cui non c’era e non avrebbe potuto mai trovare riposo il cuore di un uomo. E che non avrebbe mai trovato riposo in se stessa. Nei giorni trascorsi vi aveva riflettuto, e aveva concluso che, per quanto ritenesse di avere pagato un prezzo molto alto alla crudele divinità dell’amore, la donna non era per niente quella. Viktoria, Claudine, Veronika, erano solo dei ritratti a memoria di femmine “vissute” male, caricature della verità della donna. Luise purtroppo era una prostituta, ma la sua persona era molto 112 più spessa e complessa di Viktoria, di Claudine, e di Veronika. Se si voleva accettarla, era comunque ingombrante, una realtà. Era un essere umano come lui conosceva gli esseri umani. Come gli esseri umani si lasciavano conoscere nella nostra esperienza di loro. Le pagine che narravano Claudine, Victoria, Veronica, gli sembravano affollate dai detriti, da scaglie minuziose e insignificanti di umanità; erano state decontestualizzazioni, e non ne rappresentavano davvero l’universo. C’entravano poco con “la donna”. Con l’oggetto e il soggetto dell’amore umano. Luise aveva tradito lui e distrutto il suo mondo. In quegli anni, per quanto avesse tentato, non era riuscito a ricostruire una situazione in cui sbocciasse lo stesso sentimento che aveva avuto per l’antica amante. Purtroppo non era accaduto. Ma la donna, e Luise stessa, non era la farragine a cui si riducevano le anti-eroine dei tre racconti. A quel punto un terribile senso di nostalgia lo aveva agguantato, un sentimento che, pur messo a tacere durante gli incontri che aveva avuto con lei, poteva solo ricordargli l’immagine dell’Eden. Di quel mondo perfetto e perfettamente adeguato all’uomo e alla felicità che lui desiderava. Di cui aveva un estremo bisogno. Un sentimento che tendeva a distruggerlo in alcuni momenti, ma a cui riusciva a sopravvivere con la sua ragione. E tutto quello partiva proprio dalla percezione che i sentimenti di Luise fossero comunque qualcosa di più delle minime realtà della vita, degli psicologismi, e di quelle indagini interiori che descrivevano così bene la superficie dei mari in cui navigavano le altre tre donne senza viverne le profondità. 113 In un certo senso tutto ciò costituiva anche la propria vittoria su quel sentimento di disperazione per l’insignificanza che lo stringeva a tratti così dappresso... Era pur sempre una vittoria, capace anche di equilibrare la sconfitta che lui aveva subito. Se l’uomo è più dei suoi capelli, dei suoi denti, e delle sue unghie, deve andare avanti anche quando non avrà più capelli, denti, o quando la vita gli avrà strappato gli artigli. Non è un insieme di detriti ma un essere capace di dignità, e della felicità possibile. Per sé e per gli altri. Magari anche incapace di realizzarsi, ma è sempre qualcosa di grande. Qualcosa lontana dal piccolo mondo a cui noi lo riduciamo con tanta apparente sagacia. Con tanta ingannevole sapienza. 114 IX Che dormisse male, quella notte, c’era da aspettarselo. Fino alle tre del nuovo giorno non c’era stato verso di chiudere occhio. Quindi era precipitato in un sonno durato circa tre ore. Il quadrante dell’orologio non poteva mentire. E fu comunque mattino. Allo stesso tempo fu come se non avesse mai smesso di ragionare - anche durante il sonno - su quei tre tipi di donna in cui si era imbattuto negli ultimi mesi. La donnafemmina vagante dei racconti di Musil, la donna-troia di Tozzi, e poi Luise... Non avrebbe saputo come connotarla, forse “la donna dell’incontro” perché tutto era stato conseguenza del loro incontro nell’affollata stradina di Amsterdam di un mattino non lontano. Di quell’incontro che la sera precedente era diventato metafisico. O, meglio, aveva aperto le porte a una metafisica che lui non frequentava da tempo. 115 Non avrebbe saputo descrivere meglio Luise perché lei stessa non si era definita meglio, a dispetto delle ipotesi che avevano sfiorato la sua mente, di quella innegabile amarezza che traspariva da lei, per quanto soffusa dall’ alone di quotidianità intesa a coprire, a nascondere. L’abito, la gestualità che tendeva a disabilitare un’autentica percezione da parte di lui della sua immagine più vera. Forse avrebbe potuto dire “Luise, la donna-che-gli-sinascondeva”. Ma era una definizione troppo lunga e pedante. E solo parzialmente giusta per la incoercibile spontaneità che è in ciascuno di noi. Luise non si era decisamente mostrata in quel momento della sua storia... Ma il tempo non solo mantiene il segreto del suo perdurare ma serra anche in un grembo germinativo l’evolversi di ogni cosa e di ogni persona. E così, nell’oscuro magma di se stesso, dà l’impressione di poter essere eterno, ma non lo è. E l’eternità delle cose portava con sé una grande ombra. Essere eternamente, incuranti dei singhiozzi della morte, spingeva verso l’insignificanza delle persone e delle cose. Un’insignificanza che poteva essere considerata, a quel punto, il rovescio della vita. In pratica non c’era più meta per l’identità personale. Un’identità che venisse inglobata in una progressione senza fine di persone e di cose destinate alla distruzione della morte perdeva ogni significato, e quindi ogni valore. Oltre a quell’altro postulato, che se l’identità non è legata alla libertà, toglie egualmente a se stessa ogni senso e ogni pregio. Scade in un meccanicismo anti-individualista; priva di ogni senso la singolarità di un individuo. Il merito di scegliere una cosa e non un’altra, che secondo lui era il valore ultimo di ogni uomo. 116 A questo punto ebbe luogo una svolta nei suoi pensieri, che presero a scivolare su binari che lui avrebbe giudicato ancora impercorribili. In un certo senso, si scoprì a se stesso. Il re fu nudo. Luise aveva dimostrato di poter sbagliare e gravemente, nella realtà sua e in quella degli altri. Lui, ad esempio. E anche nel giudicare quel figlio di puttana di Phil. Ma, a giudicare dai piccoli indizi che lui aveva percepito da quei brevi incontri, non era affondata nel suo “mestiere” come Ghisola. Una disgraziata da cui traspariva una particolare insensibilità umana nella sua storia con Pietro, se non una crudele leggerezza. E neanche era come le protagoniste di quelle tre storie: Viktoria che si congiungeva con un uomo dalle pantofoline con cuoricini rosa che, dopo averla posseduta, ancora la chiamava “Signorina”; in un atto insignificante e animalesco. Claudine che si congiungeva con un uomo che le faceva schifo; o Veronika, la donna dal congiungimento “spirituale e misterioso” che si era realizzato unicamente nella sua mente, di lei che aveva sentito, immaginandolo, il desiderio di lui per il proprio corpo. Luise era stata sedotta dalla propria leggerezza, dalla propria stupidità. Dalla propria fantasia, dalla propria incapacità di valutare per quello che era l’amore che lui nutriva per lei. Era stata infedele nell’unico legame che forse davvero conta al mondo. L’infedeltà è un terribile male perché infligge un dolore tremendo, che può diventare universale perché ci induce a diffidare di tutti e di tutto. Ma era stata sedotta da un delinquente che si era insinuato nella sua debolezza, e l’aveva usata e spremuta come si mungono gli animali. Tradirlo era stato qualcosa 117 di più di quanto lui potesse sopportare, più indegno e più grave. Qualcosa che aveva distrutto lui, oltre al loro rapporto. Tuttavia si trattava di azioni umane, con le loro umane conseguenze; fra le altre, la condizione della stessa Luise in quel momento. Non si era trattato di sensazioni, di lievi “contorcimenti” dello spirito, di fantasie passeggere, di morselli d’immondizia, di relitti che vagavano sul pelo del suo animo, eccitazioni che incoraggiavano a vivere quando non erano esche per una trappola mortale. Incombenze dell’immaginario che avevano poco a che fare con la persona di una donna. Elementi di una condizione femminile che gli faceva pena. Lei non era un meccanismo sensuale travolto da se stesso, uno strumento di sensibilità in cui non affiorava nessuna spiritualità, nessuna codifica etica. Luise era stata quello che era, una prostituta, proprio come lui l’aveva vista tra la folla, ma non era stoltificata nella propria autoidentificazione. Non era coseificata, quasi marmorizzata nel suo essere. Aveva voluto diventare qualcos’altro, qualcosa di diverso dall’essere la sua amante, o la sua compagna per la vita, aveva voluto essere felice di una felicità inesistente. Ma quella era la scelta di un essere umano, anche se sciocca e disonorevole. Dei tre tipi di donna - Ghisola, le donne di Musil, e lei - il suo era quello che, a suo parere, rispondeva di più alla realtà di un essere umano, di una persona che viveva e pensava sotto il cielo. Non per nulla, piuttosto che essere il personaggio di un romanzo, o di un racconto, era una persona viva, era la donna che lui aveva amato, con cui aveva fatto l’amore 118 per cinque anni. Cinque anni lunghissimi, eppure così brevi da essere cancellati nel giro di un giorno e di una notte. Si alzò, bevve dalla bottiglietta di acqua minerale fornita dall’albergo un paio di sorsi dell’ormai tiepido liquido. Poi la ripose quasi vuota sul piano del tavolino, facendo attenzione che non si rovesciasse e spandesse quanto vi restava in direzione dei suoi appunti e di qualche libro. Aveva la testa in fiamme. Si disse che aveva ragionato troppo. Aveva pensato troppo, ma quell’incontro casuale... Niente di tutto quell’intenso ragionare - o sragionare sarebbe stato se, al primo incontro, non fosse stato colto da un piccolo lampo, da un guizzo di empatia che poi lo aveva invaso, travolto. Lui ne era rimasto preso perché non aveva scelto la cecità, o la vendetta per la donna che aveva distrutto il suo futuro, oltre che il proprio. Che gli aveva dato delusione in cambio del suo amore; e che aveva allargato il confine delle possibili illusioni fino ad orizzonti di mai immaginata ampiezza. Ritornò nella piccola toilette, si tolse la camicia, si lavò le mani e il viso lasciando che l’acqua corresse sulla sua pelle. Un’acqua che non diventava mai fresca. Poi si asciugò con cura, e alla fine ripose l’asciugamani sulla sbarretta di metallo. Quindi rientrò nella piccola stanza. Ma non c’era nulla di strano in quanto gli stava capitando. Ciò che non è direttamente vissuto - o che non si possa ricondurre a una nostra esperienza - difficilmente riesce ad esistere per noi. Questo è un limite dell’uomo. 119 Ma proprio nella gestione di questo limite a volte è deposto il nostro valore. Nel chiudere gli occhi, o nell’approfittare del minimo indizio. E nel tenerli aperti dopo aver visto - gli venne da aggiungere a inevitabile corollario. Pietro aveva riconosciuto una puttana nella donna di cui era innamorato da sempre, e così se ne era liberato. Di lei e del suo amore. Lui, al contrario, aveva riconosciuto la donna in una puttana che aveva incontrato in una strada di Amsterdam... A quel punto si accorse che l’acqua continuava a fluire dal bordo del bicchiere senza rinfrescarsi mai. Era tornato nella toilette con una rinnovata quanto irragionevole speranza di frescura... E chiuse definitivamente il rubinetto. Nulla da fare. Sconsolato, rovesciò il contenuto del bicchiere e osservò il liquido mentre, compiuti un paio di giri al fondo del lavello, defluiva gorgogliando nelle visceri del sistema di scarico. Quindi tornò nella camera chiudendosi la porta alle spalle. Come se avesse sentito il bisogno di ridurre la misura dell’ambiente che lo circondava, di limitare l’ampiezza di quanto toccava al suo sguardo di gestire. Non voleva essere distratto... Ed era stanco. Sebbene ancora vestito, si stese sul letto, tirò su bene le gambe, e fu risucchiato in un breve sonno, da cui si svegliò di colpo smaniando. Anzi annaspando, si disse, allorché completamente sveglio rivisse il sogno che lo aveva scaraventato di nuovo nella solida dimensione della veglia. Nuotava in un mare notturno, ed era stato sorpreso da una terribile onda che gli si faceva incontro minacciando di soffocarlo. Un’onda lontana, dapprima alta quanto un bastimento e poi quanto un grattacielo, di una 120 solida acqua blu scuro che alla fine lo scagliò semplicemente sulla riva di una sabbia petrosa e sconosciuta. Ancora seduto sulla sponda del letto, gli venne di collegare la gigantesca massa d’acqua - iridescente dei rifiuti di tutto quel tratto d’oceano - al mondo da cui era circondato in quel momento: al piccolo universo di cose e di persone, di passato, di presente, di futuro. Dei suoi problemi e di quelli degli altri. Quasi che tutte quelle cose avessero deciso di andargli incontro per seppellirlo. E che l’unico pensiero che gli si facesse accanto calmando la sua ansia, la sua angoscia di essere schiacciato dalla vita per tutte le sue amarezze e i suoi inganni, era quello di porgere una mano a Luise. Quel pensiero gli scaldava il cuore, il sangue, tutto il suo corpo. Anzi, gli sembrava che gli squarciasse il petto con quel suo calore e invadesse il mondo che lo circondava, irrefrenabile, e in una maniera misteriosa liberatorio. La donna che aveva amato e con cui aveva fatto l’amore per una brevissima eternità, giorno dopo giorno, notte dopo notte... Che lui aveva conosciuto nella sua bellezza e nei suoi limiti, nella sua povertà ma anche nel suo desiderio di riscatto... Perché era quello che si leggeva al fondo dei suoi occhi, e che lei cercava di nascondere per un moto d’orgoglio a quel punto assurdo, irragionevole. Ne aveva scoperto qualche lacrima durante quegli ultimi incontri. Ma noi siamo irragionevoli, e le donne più degli uomini. Istintive fino al sacrificio, al sacrificio della loro stessa gioia. La riva sconosciuta, invasa dalla sabbia e dalle pietre che graffiavano la sua schiena... Nel sogno, lo tratteneva a sé impedendogli di scivolare in quel nero mare per esserne inghiottito definitivamente. Mentre quell’idea pulsava dietro la sua fronte, che non ci fosse altra via di fuga 121 dall’oceano onnivoro che sottrarre Luise all’autodistruzione. Come la riva petrosa e sconosciuta aveva sottratto lui all’onda terribile dell’incubo...Nella sua mente le parole, i concetti, la realtà e i sogni si mescolarono in una coscienza man mano sempre più profonda e lucida a riguardo di cosa lui dovesse fare. 122 X Quando fu sull’aereo, in attesa che si chiudesse il portellone e la hostess facesse i soliti buffi gesti per richiamare l’attenzione dei passeggeri, si disse che dopotutto gli sembrava di essere giunto a una conclusione dignitosa per un essere umano. Avevano deciso senza decidere. Le aveva semplicemente offerto un passaggio per l’Italia e l’aiuto necessario per ricominciare. Per quanto si sentisse reticente ad affrontare quel discorso nei particolari, e a chiederle di prendere in fretta una decisione... Ma a quel punto lui doveva tornare a F... Quando si era deciso a parlargliene, lei non aveva mostrato né sorpresa né il minimo segno di liberazione, solo un lampo negli occhi. Un lampo che si era sciolto nell’ombra di una gioia sottaciuta, mentre volgeva altrove lo sguardo. Era stata fredda, di pochissime parole, come se non avesse sentito quello che lui diceva; o almeno non lo capisse. Aveva accettato quasi solo con un 123 cenno del capo, e poi si era avvolta in un silenzio difficile da interpretare. Ma non si può chiedere a un naufrago di ringraziarci civilmente e profondersi in espressioni della più “viva riconoscenza” mentre agguanta la cima che lo salverà da una morte sicura. Così lui non aveva pensato alla riconoscenza in quel momento, non era il caso. La riconoscenza è’ un sentimento che deve essere decantato, esaminato in tutti i suoi aspetti. Che crea impegni morali. Tutto questo lei non poteva farlo nella sua condizione e in quel momento. Forse un’altra donna gli avrebbe buttato le braccia al collo per ringraziarlo, ma una prostituta... Una puttana che non vuol fare più la puttana è pur sempre preda del suo passato, e quelle forme che negli altri esseri umani, nelle donne in particolare, sono un suggello di soddisfazione senza essere necessariamente una promessa, sfuggivano alla sua disponibilità. Immaginava che rimanesse in lei non soltanto il pudore e il desiderio del silenzio su quanto era stato, ma anche l’orgoglio. Un orgoglio risvegliato proprio dalla salvezza vicina, proprio dal fatto che il prossimo balzo al di là delle nuvole le avrebbe ridato uno status di persona... normale. E quell’ orgoglio le impediva di dimostrargli in un modo spontaneo, istintivo, la gioia che le procurava. Una donna come lei aveva le sue abitudini mentali, un suo codice di comportamento. Qualunque essere umano ha delle reazioni particolari per certi fatti specialmente uniti alla sua vita “unica”. Cose difficili da abbandonare, a cui rinunciare. Solo la riflessione, e il mutar pelle strappandosela di dosso con le proprie mani, giorno dopo giorno, avrebbero potuto creare uno spazio per essere nuovamente...Insomma, per dimenticare. I colpi di coltello non 124 sono graffi...E ora lei sapeva con certezza che lui intendeva aiutarla, perché aveva intuito quello che lui sapeva, e che volesse “tirarla fuori”. Gli ultimi passeggeri smisero di sistemarsi, il portellone fu definitivamente chiuso. Allacciarsi le cinture. Dovette trafficare per qualche seconto prima di riuscire ad allacciare la sua al di sopra della giacchettina bianca a piccoli pois neri. Alla fine, quando si fu sistemata, si abbandonò nel sedile e chiuse gli occhi. Il fatto che ora sapesse quanto ferma e definitiva fosse la sua decisione non voleva dire altro se non che doveva scoprirne le ragioni. Perché lui si prestava a tutto quel fastidio, e a quelle spese? Cosa c’era al fondo di tutto quello? Forse non aveva capito ancora nulla, e continuò a domandarselo mentre si faceva scudo dietro una delle poche armi di cui disponeva, il silenzio. Lui invece aveva capito; se non fosse valso ad altro, aveva capito meglio cosa fosse l’amore. O almeno si era avvicinato un po’ di più al suo segreto misterioso. E’un atto in cui si intrecciano aspetti molto diversi uno dall’altro. Uno è la passione, l’attrazione fisica; e quello era il più facile a rilevarsi perché è anche il più facile a cogliersi. Un’ esperienza fondamentale nella specie e nel mondo ani-male. Un’altro era il senso e il desiderio di fusione con l’altro, qualcosa che si vuole e che di tanto in tanto si sperimenta. L’unità assoluta con la compagna della vita. Una condizione che alla fine ci appassiona più del godimento fisico, più della soddisfazione di un sogno fatto di nudità, di arrendevolezza, di partecipazione al 125 nostro erotismo. Un’unione “personale” che supera l’empatia e diventa una pietà a cui non si può più sfuggire. Una pietà che ci lega all’altro in modo definitivo; e che più è messa alla prova più si rivela profonda, essenziale allo stesso atto di unirsi all’altra persona. Necessaria. Tutto assume un altro senso, e si passa dal desiderio dell’altro alla donazio-ne di se stessi nella realizzazione di tale desiderio. Guardandola, scoprendo i segni delle lacrime cancellate via con furba sveltezza, anche in quel mattino..., quel segno del rimpianto che si maturava in pentimento, in un’abiura di quanto era stato... Lui aveva scoperto in se stesso quel tipo di tensione nei confronti della donna. E aveva risposto in quel modo. Questo non voleva dire nulla al riguardo del futuro, ma aveva capito che averla amata era stato diventare il suo referente in quella condizione drammatica. E che quel sentimento di pietà non poteva essere in nessun caso cancellato, anche se lei faceva la puttana. E, in nome di quell’amore che ancora sentiva aggirarsi nella sua mente come in un labirinto, aveva sentito l’urgenza di tradurre in fatti anche soltanto l’ombra di quel sentimento. Forse addirittura le sue spoglie. L’obbligo viscerale di aiutarla a venirne fuori. Impossibile fare diversamente. L’avrebbe fatto anche solo per se stesso, si disse alla fine mentre la hostess, una morettina che si agitava in cima all’aereo, iniziava a fare le sue segnalazioni. Luise gli dava lo spazio perché esistesse una speranza di rinascita, la speranza di un possibile nuovo inizio. Incarnava un progetto e un significato. Ma non si trattava del problema di tornare a lui, di rifarsi una verginità per quanto possibile, era piuttosto la realtà umana di Luise 126 che mostrava i segni dell’amarezza, dello sconforto estremo, del pentimento. Del prezzo che aveva già pagato e che ogni giorno pagava. Qui esisteva lo spazio per un aiuto, per un interessamento che potesse dimostrarsi proficuo. La patita delusione, la nostalgia per un altro mondo, le lacrime inghiottite al Cafè dalle seggette di metallo bianco traforato, avevano il sapore della speranza che qualcosa finalmente accadesse. In tutta la loro amarezza. E questo gli permetteva di crearsi, come intellettuale, una prospettiva positiva e premiante. Di cogliere un senso e un futuro anche per se stesso. Aveva sentito in lei la presenza del desiderio del recupero. E forse proprio del recupero di qualcosa di simile al tempo trascorso con lui, al suo amore, a come erano stati felici insieme. L’istanza di una resurrezione. In una mostra fotografica, davanti a una città bombardata nelle ultime ore del secondo conflitto mondiale, nel cuore di un’area diroccata, di fronte al cumulo di macerie impietose quanto crudamente imponenti, un omino con una pala e un berrettino in testa è quanto era bastato per rialzare il capo e guardare il futuro che avanzava all’orizzonte, quel filo d’acciaio luminoso di speranza. Un piccolo omino che non si fa vincere dalla disperazione. Nei suoi gesti antichi e modesti, nulla è perduto per sempre, nulla e nessuno. La foto sembrava chiedersi: dove sta la vittoria della distruzione, dell’annichilimento? Finché c’è l’amore, finché c’è uno scopo, ogni distruzione è un buon motivo per ricominciare. Ma spesso noi non riconosciamo il nostro destino, anche se ne percorriamo le strade con lucida intelligenza. Poi il cellulare dell’altra squillò. 127 Era Margot. - Scusami...perdonami... La sera precedente era andata a farle visita con due bottiglie di sherry, sapeva che l’amica lo “adorava”. E in un’ora erano state ambedue ubriache fradice. E avevano cominciato a scherzare, e poi a pungersi, finché l’altra le aveva detto: ora te ne vai in Italia, a fare la verginella dopo tutti i cazzi che ti sei goduta in Olanda...! C’era rimasta male. L’invidia poteva capirla... E la compagna poteva anche farle pena, un male al cuore per la gratitudine che nutriva per lei... per il suo futuro...Ma quella frase, così cruda, così fotografica...così indimenticabile...Non era riuscita a perdonargliela. Era anche una testimonianza di futuri ricordi, di inevitabili amarezze. Di crudeli premonizioni. Si era alzata ed era scappata via, quasi perdendo una scarpa per la strada. Ora le telefonava per chiederle scusa, per fare ammenda...per riparare come poteva...Cercò nella sua testa qualcosa che potesse ricambiare quel sentimento di amicizia, che potesse valere un perdono totale, una garanzia di dimenticanza. Ma mentre ancora cercava, l’altra incalzò: Adieu carina, adieu. Poi cadde la linea. A quel punto l’hostess le si fece vicina e le disse in modo gentile ma deciso: - Signora, siamo in volo. Spenga l’apparecchio. E lei dovette spegnerlo. Adieu. Quando qualcosa era finita, Margot diceva adieu, e la cosa, qualunque essa fosse, era davvero finita. Era una delle poche leggi che si era data. In quel caso, non segnava la fine della loro amicizia, piuttosto era un 128 augurio, sottolineava la fine della loro vicinanza fisica e di destini. Era un augurio fatto col cuore. Adieu, Luise, tu non farai mai più la puttana, te lo auguro con tutto il cuore...e un po’ lo sento anche in tutta me stessa. La nostra vicinanza è giunta al termine, le nostre strade si dividono. Adieu. 129 Epilogo Quando Peter compì il suo primo anno, ci dicemmo che bisognava festeggiare e, chiamata una baby-sitter che aveva anche seguito un corso di dog-sitter in una delle “più popolari università svizzere” (sic!), una ragazza conosciuta e apprezzata nel quartiere, le affidammo Peter e Brick e ce ne andammo a vedere una vecchia pellicola, “La conversazione”, con Gene Hackman, attore principale, e Francis Ford Coppola regista. La davano in un piccolo cinema d’essay, una sala di proiezioni dalle dimensioni contenute e forse leggermente pessimiste (o che proprio quella sera si rivelarono tali). Gene è un beneamino, un sessantenne diavoletto - allora - che dava generoso spettacolo della sua bravura, ed erano stati in molti a non voler perdere la proiezione, ultima della serie. Ci accorgemmo subito che i posti si sarebbero dimostrati, nel migliore dei casi, appena sufficienti perché, entrando nella strada dove la sala apriva le porte, ci ritrovammo alle spalle di due nutriti gruppetti di fans di 130 Hackman e di Coppola. E neanche potevamo sperare che qualcuno si fermasse davanti a una vetrina, in quella strada di squallida periferia con solo due vetrine che potessero innescare l’immaginazione dei passanti. Una era quella di un coiffeur per entrambi i sessi con femminucce dalle mirabolanti acconciature ed evidenti capezzoli, e l’altra quella di un gommista che, a parte un paio di gomme nuove di zecca, per i passanti esibiva solo un calendario da camionista e la relativa gigantografia in allegato, entrambi indubbiamente efficaci per provocare seri danni sia in città che fuori. Per fortuna trovammo posto, e occupammo due delle tre sedie praticamente “in offerta” a ridosso di una camerina interna - si pensò al principio, quando ci fiondammo verso di esse -, che però si rivelò per la stretta anticamera della toilette. Una volta lì non avemmo il coraggio di tornare indietro, e ci sedemmo sperando a bassa voce che nel pubblico ci fosse un basso numero di prostatici o incontinenti d’altro genere. E a dire la verità poche volte ho goduto una pellicola più intensamente, aiutato in questo dalla calma silenziosa che mi circondava, anche se dovevamo soprassedere al fatto che di tanto in tanto - secondo l’estro del vento - una corrente gelida, penetrando evidentemente dal finestrino della toilette, ci investiva rinnovando l’aria delle immediate vicinanze. Poi la pellicola giunse al termine, con la più viva e talvolta partecipata soddisfazione dei presenti che avevano scelto di vincere la loro disperata solitudine con quella illusione cinematografica. A quel punto la mia compagna schizzò in piedi e, mentre la musica ancora non si arrendeva alla parola end così chiaramente visibile sul fotogramma finale, iniziò la sua traversata per uscire fuori 131 all’aria e correre verso Peter e la sua biondina, con coda di cavallo e auricolare costantemente avvitato in un minuscolo orecchio ormai diventato prensile a garanzia dell’ascolto: la nostra baby-sitter con specializzazione canina. Dopotutto non avevamo tutti i torti affrontando in tal modo la realtà. Nostro figlio non solo si chiamava Peter per un mio lontano zio che aveva una fabbrica di mobili nello Utah, ma era stato soprannominato “Peter Pan” per la decisa propensione che aveva a gettarsi di sotto dalla tre finestre del nostro appartamentino, dopo essere salito sulla prima o sulla seconda delle sedie che si trovavano a portata delle sue manine. Questo, mia moglie non poteva assolutamente dimenticarlo, con o senza la baby-dogsitter, e tendeva a realizzare fulminei ritorni alla cruda perigliosa realtà dopo che ci capitava di aver assunto qualche nutrimento della fantasia per cui valesse la pena di gettar via le tre ore necessarie. Cosa che capitava sempre più di rado. Di fronte a tanta appaurata decisione, il mio atteggiamento era mite e arrendevole. Niente, io ero condannato alla torre d’avorio e non avrei mai potuto ascoltare le intelligenti osservazioni di quelli che avevano assistito alla pellicola senza aver fatto come me un pellegrinaggio con conseguente corso ad Harward - breve quanto si vuole ma sempre su invito di quella prestigiosa Agenzia del Sapere. Questo era il mio destino, altro che il film! A dir la verità, Peter Pan ci teneva sempre all’erta, quasi in ostaggio nel piccolo attico di periferia per le sue continue sfide alla sorte, al punto da indurre in mia moglie il bisogno quasi estremo di essere rassicurata a regolari 132 quanto brevi intervalli dalla vista del bimbo e dalle sensazioni tattili ricevute dal suo corpicino. Quando fummo a casa, e la mia compagna potette stringere finalmente al petto il sangue del suo sangue, felice che Yoana avesse tenuto chiuse le tre finestre di casa - come promesso con giuramento perpetuo -, ci fermammo tutti e tre davanti alla gigantografia di un quartiere di New York. Per la verità più che un quartiere era il Chrisler Buiding e la zona di Midtown immediatamente circostante e illuminata dalle sue luci. Quando avevamo visto quel poster, avevamo subito pensato che nella nostra vita confusionata del XXI secolo era necessario avere un simile punto di riferimento, un centro intorno a cui girare in qualche modo. Ma la mia compagna, con acutezza tutta femminile, aveva argomentato che i punti di riferimento, oltre ad essere diversi da persona a persona, cambiano. Non di giorno in giorno, ma cambiano. In altri termini noi cresciamo, il mondo cresce, tutto cambia, e cambiano anche i punti di riferimento. Insomma il Chrisler Building, per quanto fascinoso in quella prospettiva, e al centro di un mare di costruzioni, poteva diventare presto obsoleto se gli avessimo dato un nome ben definito, se ne avessimo fatto un’unica icona delle nostre speranze, del nostro dinamismo familiare. Allora io proposi che ognuno dei due lo tenesse come l’immagine del suo momento particolare nella piccola storia della sua vita, immagine di qualcosa che sarebbe cambiata quando lei ed io avremmo voluto. Sarebbe stato quasi un gioco. Un giorno, anzi quel giorno, per me sarebbe stato Sabine, il ricercatore che aveva lottato contro la poliomelite: nostro figlio si era da poco ammalato ed era stato sottoposto ad una cura con un 133 modernissimo medicinale; e Ford, il grande costruttore di automobili, per la mia compagna, dal momento che nelle ultime settimane lei non faceva che entrare ed uscire dalla macchina. Oppure Don Giovanni, o Mozart; per quell’incisione che le avevo appena regalato, un’esecuzione di Boeme che le era particolarmente piaciuta. Un gioco in cui avremmo potuto scambiarci esperienze, raccontarci le nostre reazioni. La gente fa tante cose stupide per fare qualcosa insieme, questa non sarebbe stata poi tanto stupida, e avremmo parlato della realtà e anche della nostra immaginazione. Della fantasia che ancora ci resta in questo secolo ardentemente tecnologico. Così partimmo io con Sabine, il benefico guaritore, e lei con Mozart per non essere da meno. Ma in quella stessa occasione mettemmo un quadratino di carta bianca alla base del Chrysler Building, e ci sforzammo di insegnare a Peter a toccarlo o a indicarlo con il piccolo dito. Anche lui doveva avere un suo adeguato punto di riferimento, doveva crescere con un centro, e non subissato da un mare di cemento armato. Quella notte io mi svegliai e pensai al sesso. Sarebbe stato logico che il punto centrale con cui incominciare quel gioco fosse stato il sesso, scelto almeno da uno di noi due. Da me per esempio. Ma non era stato così. Era ancora un tabù. Gli anni trascorsi insieme, e il sesso fatto con reciproca soddisfazione, non erano riusciti a cancellare il vecchio mestiere di Luise. Io mi sforzavo, e anche lei faceva del suo meglio per ignorare quella cosa e ogni collegamento che potesse farla schizzare fuori dal grande armadio della memoria. E per questi tentativi di 134 entrambi, a se volte un po’ goffi ed evidenti, le cose erano migliorate ma non del tutto superate. Alla fine, dopo che Morfeo mi ebbe respinto più di una volta, mi alzai pian piano in modo che lei non mi sentisse, o che avesse un dignitoso alibi per ignorare il mio abbandono del letto, e andai nel soggiorno. Un goccio di porto non mi avrebbe fatto male. Un goccio o due, non di più. E versato il vino, accesi la lampada d’angolo. L’effetto del Chrysler Building fu ancora più forte, mentre lo fissavo dalla dolciastra solitudine di quelle due dita di porto. Intorno l’oscurità di Midtown schizzata di piccoli radi punti gialli... Mi rendevo conto del rischio a cui eravamo entrambi esposti per l’incombere di quel passato. Ma, se di ciò che pensava, e che soffriva lei io non sapevo quasi nulla, di me conoscevo il terribile richiamo che dalla memoria mi veniva, il richiamo dell’amore che avevamo goduto prima e che ora non era più. Insieme ai miei tentativi di mettere a tacere quel ricordo. Qualche tempo prima, di ritorno da una proiezione d’essay su Kubrick a cui ci avevano invitato alcuni amici, immaginando che avremmo fatto l’amore una volta a casa - con tutto quel che seguiva nella mia fantasia, e che io dovevo gestire - avevo pensato che quel ricordo potesse essere accostato per la sua forza al lamento di Hal nel 2001:Odissea nello spazio. Alla struggente dolce preghiera della macchina affinché Bowman non la riducesse al nulla della morte. Al fondo di me stesso sentivo un terribile bisogno di un sesso simile a quello che facevamo prima che lei mi lasciasse. Una realtà fatta di un 135 trasporto privo di qualunque macchia, e pieno di fiducia reciproca, di una donazione che immaginavo totale...Ma, contemporanea-mente, avvertivo tutta l’impossibilità che quella meravi-gliosa sensazione potesse essere rivissuta da me, da noi due, come una volta era stata. E cercavo di spegnere quel ricordo, di tacitarlo finché fosse scomparso del tutto. Ma, allo stesso tempo, sentivo al profondo di me stesso quella preghiera di Hal, il rinnovarsi di quello straziante lamento così umano di non spegnere quel ricordo, di non disatti-vare i meccanismi di quella traccia cerebrale. Di non cancellare la memoria di qualcosa che ormai poteva esistere solo attraversando il tempo come ombra, come spoglia di quanto era stato. Almeno di lasciarmene il ricordo, mi diceva la voce di Hal...della dolcezza delle mie visceri, dell’irrecuperabile sensazione di possesso, di unità, di paradiso, che aveva invaso la mia mente, il mio cuore...tanto tempo prima. E rimanevo profondamente turbato riconoscendomi troppo debole per tagliar corto e rinunciare anche a quello. Perché la struggente dolcezza dell’invito era in effetti un’istigazione a disperare. Avvelenava il presente, lo macchiava di tutto quanto la mia immaginazione e la mia fantasia potessero gonfiarsi. La suadenza di quella voce era insieme penetrante e omicida, perché la gioia del sesso, l’unione del momento, venivano avvelenate da quella voce straziante che illuminava crudelmente la mia compagna con il suo cono di luce. Alla seconda razione di porto, fui sorpreso da un’altra considerazione. 136 Già qualche altra volta avevo riflettuto su quel fatto, ma senza sottolinearlo a sufficienza. Tanto tempo prima, quando Luise mi aveva lasciato per Phil, avevo immaginato - per una serie di pensieri e coincidenze, di una sorta di istigazione nella mia mente - che Dio mi mandasse a Amsterdam per ritrovare la mia amante, per riaverla. Ma non era stato così, ed io me ne ero tornato con la coda fra le gambe, mortificato, deluso. Per metà convinto che quanto mi era accaduto non fosse altro che ciò che dovevo aspettarmi, e dall’altra quasi incredulo che Dio non si fosse interessato al mio amore, al mio dolore. Ma poi le cose erano cambiate. E quando ero tornato in Olanda per conto dell’università, l’avevo davvero incontrata, proprio come ero stato incoraggiato a sperare la prima volta. Ma con una diversa disposizione mentale. Non ero più l’uomo che l’avrebbe implorata a tornare al suo fianco per riscaldargli il letto e dargli tutto il sesso che gli mancava e urlava in lui, ma come una persona che l’aveva vista e l’aveva pensata in un modo diverso. E che aveva in un certo senso conosciuto un nuovo se stesso, e con esso gli si era aperto un nuovo orizzonte. L’amore che ancora nutrivo per lei mi aveva mostrato il proprio volto di pietà e tutto era successo. In un certo senso, era accaduto quello che avevo chiesto a Dio la prima volta ma in una maniera diversa, con una profondità umana maggiore. In un coinvolgimento che aveva fatto fare a entrambi un balzo in avanti nella vita dei nostri sentimenti, e anche delle nostre intelligenze, della nostra capacità di percezione della realtà. Alla fine tutto era davvero accaduto, ma tutto era stato anche molto diverso e più grande, più importante di quanto avevo chiesto. Ebbene, ora, proprio alla fine di quel secondo bicchiere - senza il quale forse non sarei 137 stato capace di restare in piedi di fronte a quella gigantografia della Grande Mela nella stanza fredda - , ora dovevo chiedere a Dio anche quello. Di trasformare il veleno del nostro amore in qualcosa di dolce, di dolcissimo, come era stato una volta. Di spogliarlo della loro reciproca sfiducia - perché di fatto colpiva entrambi -, e della vecchia concezione di possesso, per darci qualcosa di nuovo. Qualcosa che scacciasse tutta la negatività che ancora occupava un enorme spazio nelle nostre anime e nei nostri corpi. Di fare insomma come aveva già fatto. Che tutto fosse più grande, più importante... Un amore del tutto nuovo per entrambi, al punto di essere il nostro amore e di appartenere a ciascuno di noi in modo totale ed esclusivo. Bevvi le ultime gocce al fondo del piccolo calice, e poggiandolo sul tavolo mi dissi: Si vedrà... Qualcosa certamente accadrà. E decisi di tornarmene a letto, non senza aver prima poggiato la punta del dito indice sul quadratino bianco su cui Peter Pan poggiava il suo, chissà pensando cosa, magari a uno dei voli della sua immaginazione di fiducioso bambino. Quella sera avevamo assistito ad una proiezione impegnativa, mi dissi alla fine sfilandomi la vestaglia e appendendola a un pomello nel bagno. Hackman era stato splendido nella sua interpretazione. Ma, secondo me, aveva davvero superato se stesso nella foga e nelle emozioni espresse nell’ultima scena. Avevano fatto a lui quello che solitamente lui faceva agli altri. Avevano distrutto la sua privacy. Erano entrati nella sua casa e vita privata. Vi avevano addirittura installato gadgets che lo avrebbero mostrato in mutande giorno e notte, e che lo 138 avrebbero messo nelle mani altrui. E che lui non era riuscito a scovare... Ma, a parte il contrappasso, cosa ne avevano pensato gli altri che avevano assistito alla proiezione..? Qualcuno aveva sonnecchiato, qualcuno aveva lo sguardo incuriosito. Uno, sul lato opposto della piccola sala, aveva lo sguardo intelligente... La cosa singolare era stata la conclusione, quell’ assolo musicale, quel concentrarsi di Hackman sul suo sassofono e trarne, una alla volta, le note in una palpabile concentrata soddisfazione. Un atto erotico, un fatto di unione e di gioia... Abbracciare il suo strumento preferito gli faceva dimenticare l’intrusione nel suo presente e nel suo futuro...? Quasi che vivere l’istante magico - dopo che il suo appartamento era stato smontato da lui pezzo per pezzo, se non praticamente distrutto nella ricerca di “cimici” e simili - lo avesse acquietato della sgradevole possibilità che altri avrebbe conosciuto troppe delle sue azioni future... Nell’abbraccio di quello strumento, nella fisicità di quella musica...c’era tutto il piacere, tutta la gioia di cui poteva disporre...E lui se la stringeva al petto... Quel placarsi della sua angoscia, della sua volontà distruttiva, quasi il dimenticare la sua incapacità di superare quella che era la realtà per mezzo di quell’elevazione a cui accedeva tramite la simbiosi artistica... quella fascinazione del produrre e allo stesso tempo del fruire la sua musica... Perché tutto era cancellato dalla poesia di quelle note... Ogni amarezza poteva essere sepolta; per sempre dimenticata per quella passione, per l’eccessiva dolcezza del fatto in cui era coinvolto. Perché la gioia di quella 139 solitaria esecuzione riusciva a cancellare tutto, se lui poneva attenzione alle note, alle dita, al ricordo, al cuore... La felice serenità di produrre bellezza e di goderla... poteva farcela...avrebbe vinto. D’improvviso qualcosa mi tornò in mente, qualcosa che non ricordavo da anni. Anzi qualcuno. Nella mia famiglia c’erano delle ombre che mio padre non accettava di buon grado, ombre che tuttavia restavano. Una di queste era un fratello di mia madre, un jazzista bianco che si trovò a passare per l’Italia con il suo complesso quando io fui battezzato...Meglio tardi che mai. Così uncle Lionel si presentò a Milano, il lunedì successivo, dicendo “non credevo che faceste queste cose di domenica”... Era già ubriaco, ma rimase il tempo sufficiente per consegnarmi il regalo acquistato nelle vicinanze di casa nostra - un paio di guantoni da boxe, che c’entravano poco con un ragazzino di dieci anni - e per incoraggiarmi sulla strada che avrei scelto. “Ho lavorato con Roy Eldridge e so come è arrivato dove alle fine è arrivato... Dopo che l’orchestra di Gene Kupra l’ebbe guardato dall’alto in basso perché era nero... e che Ella Fitzgerald gli aveva dato così poco spazio... Ma lui ce l’ha fatta lo stesso...Ho suonato con lui e con il suo sassofonista, Illinois Jacquet...Roy mi sentì al piano e mi chiese se volevo fare la stagione con lui..Poi disse a Jacquet: Hi, Ill, prova Cloudy day con il ragazzo... Jacquet fece un paio di accordi, ed io lo seguii...Un grande sassofonista, grande, grande... Una musica dolce ma anche asciutta, da uomo... Che prima ti lasciava sentire l’umido della pioggia sulle labbra, e poi ti faceva domande che non ti eri mai fatto...” 140 Mentre raccontava quelle cose, mio zio era sobrio come non avrebbe potuto esserlo se non avesse bevuto un solo goccio. Sobrio e serio. Mi fece una grande impressione, è uno dei pochi ricordi di quell’età...Anche perché era molto alto. Un uomo possente, che quando suonava il piano - questo me lo disse mia madre quando ci comunicarono la sua morte sembrava un aquila sul nido... Un altro sassofono quella sera era ricomparso nella mia vita, un altro invito a viverla con tutta la speranza di cui potevo ancora disporre a quarant’anni e più... Forse era stato il nome di Kupra - Gene - a tirare fuori mio zio dalle ombre di quel tempo sbiadito... Non so... E qualcosa mi sorprese come un picco dell’assolo di Hackman: spesso noi non riconosciamo il nostro destino, anche se ne percorriamo le strade con lucida intelligenza. Era l’ombra di un satori? - mentre l’accappatoio scivolava dal pomello su cui l’avevo appiccato, approdando in un dolce ralenti sul mattonellato del bagno...? 141 Oskar Nel periodo in cui mi imbattei in lui ero abbastanza impegnato. Avevo da poco iniziato un lavoro che si riprometteva interessante, e che era allo stesso tempo non definitivo per definizione. Di natura filosofica, insomma, mi aggiravo nei territori della causalità. Avevo sempre desiderato di mettere giù - sotto forma di articolo o di saggio, se mai vi fossi riuscito - qualche osservazione circa le conseguenze sul piano psicologico individuale del passaggio dall’innatismo (delle idee) alla filosofia di Locke, e quindi all’empirismo di Berkeley e all’associazionismo scetticista di Hume. Ho sempre immaginato - indifferente a ogni contrario parere di qualcuno che se ne intendeva di intelletto, e che probabilmente mi dava in cuor suo dell’imbecille - che i nostri pensieri volteggino alti nel tempio del nostro animo, e che tale breve e allo stesso tempo potenzialmente 142 infinito ecosistema dimostri un’estrema sensibilità all’ intrusione di estranei. Ora, quel tempio, quelle alte e a modo loro precipitose volte e i loro abitanti, come avrebbero reagito all’ incursione di nuovi arrivi? Quale sarebbe stata la reazione della viva struttura interiore di un uomo sottoposto al fatto di cui sopra?! Lungo l’unica strada di cui l’uomo dispone nel tempo, l’umbratile foresta dell’esperienza ove, ad ogni giorno, la sua coscienza s’inoltra sempre più? Di solito mi capitava di avere un tale oggetto di riflessione allorché cuocevo le uova al tegamino senza strapazzarle. Mi è sempre parso - e per la verità mi sembra ancora oggi - che i due tuorli tendano per loro natura o a precipitarsi uno accanto all’altro, quasi volontari sodali nella nuova svestita condizione; o a respingersi schizzando via ciascuno dal suo partner. Senza che tutto ciò possa essere imputabile al recipiente, sempre lo stesso; o alla densità dell’albume, che ad occhio nudo appare anch’essa ininfluente. Inutile specificare di essere indotto a tali considerazioni d’estate, quando sono io a cuocerle, le uova, e non mia moglie, al mare con la figlia. Pertanto si tratta di un esperimento involontariamente voluto. A cui sono obbligato sovente, in un seppur ristretto ambito temporale, sia per la mia passione per le uova, sia per la facilità di queste a concretizzarsi in una cena sufficientemente proteica e allo stesso tempo povera di grassi. Solo di poche gocce d’olio necessita la cottura di queste cellule che si sviluppano con sì gustosa generosità nel corpo di un pennuto non più volatile, quale è appunto la gallina. Vedendo i sapidi tuorli ammiccare strabicamente uno all’altro, o respingersi con ferma incostanza tra il fervore 143 scoppiettante dell’olio, mi torna sempre alla mente la sfida di Hume. Esiste poi davvero un principio di causalità? O il propter hoc - la causalità, su cui mi sembra ancora si fondi tanta parte del sistema scientifico moderno e postmoderno - è tutta una balla? Quest’alternativa nasconde l’abisso. Tutto è cominciato, si sa bene, con la ormai arcinota storia di una biglia che colpisce l’altra, la quale schizza via senza che si possa dimostrare - secondo Hume - che la prima biglia abbia avuto con il suo movimento un effetto determinante, specificamente causale, sulla seconda. Hume a suo tempo aveva parlato di assuefazione della mente umana a una certa continuità fenomenica. E alla interpretazione dell’esperienza di tale continuità, da parte appunto dell’uomo, come causalità. Insomma, l’esperienza ci farebbe credere che esiste un particolare nesso fra due contigue realtà che pertanto diventerebbero un’ipotetica causa e un ipotetico effetto. Ambedue, al contrario, inestistenti in quanto tali, e solo susseguenti realtà nel fluire dei tempi. Questo a parere del Nostro. Ora, a uova del tutto fritte, subito mi sorgeva la domanda: quale sarebbe stata la condizione mentale di un uomo che, educato in gioventù all’innatismo, dovesse poi attraversare le forche caudine dello scientismo di Locke e di Berkeley e dello scetticismo di Hume? Cosa mai poteva accadere nell’animo umano sottoposto a tali pressioni? Ecco il dramma delle uova, e anche mio. Perché se i tuorli se ne andavano ciascuno per conto proprio, reciprocamente ininfluenti, la inesistenza della causalità era bell’e dimostrata. Almeno per me. 144 Ma cosa succedeva in qualcuno educato alle idee innate...? Cosa sarebbe accaduto nel tempio in cui, sotto volte precipitose, si libravano le idee con i loro voli possenti..?! Avevo pensato che questo fosse un problema correlato alla causalità su cui valeva la pena indagare. Ed era quello che stavo facendo allorché Oskar riapparve nella mia vita. Quando lo incontrai, nel locale più inadeguato della città, un’oscura birreria - di fatto e metaforicamente - sulla strada che andava verso il Duomo, ero arrivato più o meno a un terzo del lavoro, allo snodo in cui accennavo a come Hume, con toni desolanti, avesse descritto l’impossibilità della scienza di andare al di là della pura descrizione dei fenomeni, Oskar era a un tavolino in fondo, solo e in atteggiamento oserei dire supplice davanti a una riproduzione del sole di Klee, un foglio plastificato e gialliccio che poco doveva essere stato migliore quando aveva vissuto i tempi della sua giovinezza. Non potrei dire in alcun caso che la sua fosse un’adorazione estatica, o anche solo impetratoria nei confronti dell’astro di Klee, così splendidamente trionfante. I suoi occhi glauchi, ed esageratamente umidi nelle orbite, vi appoggiavano semplicemente lo sguardo senza mostrare alcuna intenzione di spostarlo in un’altra direzione. Tutto qui. Al mio saluto trasalì brevemente. - Ci vediamo dopo molti anni. - Sono felice di incontrarti. - Trent’anni? - O poco più. 145 - Forse quaranta. Ma ti ho subito riconosciuto. - Come hai fatto? La fisiognomica... - Non so come tu abbia trascorso questo tempo. Io sono un pensionato che vive praticamente di aria, e di quel po’ di dignità che riesce ancora a sgraffignare in giro. Il denaro è poco, quantunque ancora mi industri in sporadiche collaborazioni ad una o all’altra rivista. - Per questo, neanche io sono stato chiamato a partecipare all’ultimo G8. Sebbene abbia collaborato nella fase preparatoria. Mi domandai se quella fosse una stoccata da parte del mio amico. La nonchalance con cui mi consegnava la significativa notizia mi indiceva a crederlo. Ma risposi da gentiluomo. - Permettimi in tal caso di congratularmi... - Inutile dirti che il mio è un nome oscuro. Faccio una bella fatica. A questo punto fu chiaro come intendesse sottolineare la sua fama nei circoli della politica e della diplomazia. La notizia era a me sconosciuta perché non frequentavo gli stessi entourages. Poi, gratificato, Oskar sorrise con immediata cordialità esibendo una modestia insieme mendace, ironica, e forse addirittura autocanzonatoria. Dunque credeva che io potessi immaginarlo grande e insieme umile?! Fu quell’ipotesi a ingraziarmelo. Che i piccoli fossero tanto sciocchi da immaginare di poter tramutare in un credulone una persona normale come me, era una cosa acclarata. Ma che i grandi - come lui sosteneva di essere diventato - potessero fare lo stesso, era cosa nuova. Forse perché io non frequentavo i loro ambienti. 146 Quell’uomo poteva essere interessante. Inoltre, appiccicato a lui da pochi minuti, per un attimo mi parve di aver ritrovato una fetta della mia giovinezza. Di quell’era lontana ormai e sotterrata sotto le spesse coltri di glaceazione della mia vita. La mia giovinezza intrecciata alla coda paciosa di quell’orante di Klee..? Oskar era elegantemente avvolto in sete di discreta policromia, secondo uno stile appena trascorso e che rimandava ai diplomatici di Graham Green, o agli accademici di Snow. La sua era una trasandatezza ricercata e costosa, che tuttavia rimaneva e intendeva rimanere se stessa. Qualcosa di britannico ma anche di sovranazionale. Come è giusto che sia quanto attiene al servizio diplomatico, e che quindi allude alla saggia pacatezza di chi sa, e allo stesso tempo al gusto di chi ha sempre saputo. Da secoli e secoli. Poteva essere la mia verde età agganciata a qualcuno del genere? Perché no?!, mi dissi, mentre una calda onda emozionale proveniente dal passato già mi investiva. Decisi di riprendere i rapporti, se mai lui me ne avesse dato il modo. Ciò che non avevo voluto fare in tutti quegli anni - sapevo bene che abitava nella mia stessa città - per evitare il sospetto di piaggeria e la derivante umiliazione, ora mi si presentava come una quasi-necessità. La modestia non riesce a mantenersi in piedi se non è sorretta da una ragionevole dose di orgoglio. Ma vi è anche una terza gamba che spesso decide per il meglio. Il buon senso ci spinge in una determinata direzione a seguito di un’indagine tanto sintetica quanto a-priori, 147 direbbe Kant. In una cognizione oscura, esso ci induce con vigore istintuale a una determinata scelta. E io fui indotto ad accostarmi a lui. Man mano che il tempo passava, fra le parole e gli accadimenti del nostro presente - del suo presente, in modo particolare, io avevo poco da raccontare riaffiorarono ricordi. O anche solo frammenti di essi, capaci tuttavia di scaraventarmi verso le scogliere dulcoamare dell’antico tempo trascorso insieme. Scheggie capaci di farmi sanguinare quella lontana vita. Cosa non avevamo fatto, sia al liceo che all’università! Quanta incoscienza, e quanta freschezza. Quante speranze e quanta energia! Dopo due ore lo spleen mi teneva saldamente, e quando i lampioni all’esterno del locale albicarono d’un rosa per metà fluorescente e per metà caramelloso, avevo il cuore a pezzi. Al punto che, allorché lui disse che era tardi e doveva andar via, risposi che io sarei invece rimasto per fare un paio di telefonate e per prosciugare un’ultima birra. Non mi sembrava di avere sufficiente forza nelle gambe; di poter disporre così su due piedi della necessaria energia per varcare il basso portale della mescita e attendere il passaggio del bus che mi avrebbe scaricato davanti casa. Come ultimo omaggio Oskar mi regalò un sigaro, un enorme siluro di cui decantò brevemente i pregi. I quali, però, “si dispiegavano al loro meglio nella cantilenante postprandialità d’un giorno di festa”, aggiunse. Per questo me lo proponeva. Si trattava di eccellenza. E la prima volta deve essere al meglio. Poi tutto cambia. 148 - Qualcosa di cui non ti pentirai. Che ti offrirà un orizzonte sconosciuto. E’ questa la vera scoperta del tabacco in un tale stato allotropico. Un orizzonte a cui non ci si può sottrarre. Oskar poteva parlare molto fino, sia per le sue ascendenze diplomatiche che per la familiarità con diverse puttane politiche d’alto bordo, come avrei avuto modo di apprendere a breve. Andando via, il vecchio amico si lasciò alle spalle la discrezione di un elegante anello con monogramma, che portava alla sinistra, e di una corta ma pesante catena d’oro - che appariva e spariva massiccia sotto la giacca -, di quelle con la maglia martellata - a cui era agganciato un piccolo orologio da tasca dello stesso metallo. Per alcuni minuti a seguire la sua scomparsa oltre la porta del locale, la sua ombra palpitò al vento delle luci cangianti, incisa nella mia memoria visiva. Soprapensiero, accostai le labbra al bicchiere paio di volte. Fra poco la solita ragazza si sarebbe seduta al piano. Un’ombra po’ biancastra, per la verità, quella di Oskar ora. Quasi un fantasma. Solo fermata, nel ripetitivo soffio luminoso, dai punti aurei di quei gioielli. Quando uscii, le lampade della strada dardeggiavano con pubblica condiscendenza dall’alto dei loro lunghi ed esili colli d’acciaio, gettando una luce dubbiamente convincente sulle profilate formelle rosa, in pvc, che riempivano i tanga del negozio alla fermata del bus. Un profondo rilucente quadrangolare vuoto a cannocchiale, che, al di là delle grosse maglie della saracinesca smaltata di rosso, esibiva così tanti profumi da lasciare in dubbio se vi si vendesse intimo o cosmetica. 149 Poi il bus arrivò dalla curva in fondo, un po’ allegro e inchinato sul fianco, ed io vi saltai sopra come altre volte avevo fatto su di un cavallo bianco in un eroico sogno, per essere depositato - ancora e sempre in quella reverie in cui stringevo delicatamente il sigaro come fosse una bomba dinanzi alle fauci grigioferrose della mia modesta, condominiale, quanto al momento solitaria dimora. Eravamo di luglio, mese di vacanze per la piccola accaldata borghesia, intimamente ma non misteriosamente defatigata dai rigori invernali. Perché mai ero stato così sciocco da non mantenermi in contatto con Oskar? Una volta eravamo stati ottimi amici. Fratelli siamesi o quasi. Era un tipo simpatico. Con la sua improvvisa apparizione, Oskar aveva turbato la mia vita. Ora posso dirlo con cognizione di causa. Causa: una benedetta parola in cui continuo a incespicare di giorno e di notte! Neanche le stelle riescono a mettere in fuga, con tutti gli anni della loro luce, i dubbi del mio cuore. Quegli immoti compagni nell’universo dell’animo, che pencolano a volte sinistri sul mio pensiero. Sebbene esso si sforzi di essere differenziato, mutevole, positivo e ottimista, sotto le alte volte dell’animo. Ma esiste poi la causalità?! La presenza di Oskar mi molceva il cuore. Poco alla volta - sullo stesso piano fisico - dal presente della sua figura emerse la giovanile freschezza dei tempi andati. Piuttosto che corpulento, occhialuto e dai capelli un po’ troppo lunghi sul colletto della giacca grigia a righine, Oskar mi apparve magro, scattante, dai capelli corti all’ 150 americana. Come si portavano in quella stagione del nostro tempo. Proprio così, la presente trasandata quanto ricercata eleganza era venuta sicuramente dopo. Il diplomatico, il rappresentante del potere in carica, il plenipotenziario, erano tutta un’altra cosa. In altri momenti era stato un giovane uomo dal busto eretto e dallo sguardo lungimirante, in cui non sarebbe stato difficile presagire il tecnico d’alto bordo che poi si era rivelato. E che si era fatto conoscere - per quanto a un livello non eccelso, Kissinger aveva fatto di meglio - su scala internazionale. E questa trasparenza fisica del passato attraverso l’incontro con Oskar, risultava per me in un contagio. Tendeva ad azzerare il passare del tempo; e quando ero in sua compagnia, apparivo a me stesso trenta o quaranta anni più giovane. Con tutti i capelli e tutti i denti, e con la falange del dito piccolo del piede ancora in sito. Una parte del corpo che mi sarebbe stata in seguito asportata, in modo inatteso quanto fraudolento, da un furetto che su di una spiaggia del più basso adriatico si esibiva in esercizi evidentemente a lui poco graditi, per alleviare gli animi villeggianti costipati dal calore e dalle crude esigenze della balneazione. Mai come nell’arte circense la medaglia dell’essere ha due facce. Inoltre, la vicinanza fisica dell’antico compagno compiva in me una speciale magia. Essa mi riportava senza nessuna evidente causa - ecco ancora quel concetto! - verso la speranza della mia giovinezza, come se risvegliasse in me l’enorme cuore che una volta mi aveva spinto, con fervore quasi estatico - si potrà dire così? lo spero - lungo il cammino della vita, all’attiva ricerca di un 151 tempo dalle ricche spoglie che non avrei poi mai incontrato. Ma non solo questo: io venivo risospinto a nutrire nuove speranze senza un alcun motivo. Con metafora linguistica, in compagnia di Oskar io gustavo il “futuro nel passato”, una modalità verbale che indica qualcosa che avrebbe potuto accadere ma che non si era mai verificata. Che avrebbe dovuto essere, secondo le mie più fervide speranze, ma che non si era mai avverata. Il futuro del mio lontano passato, con Oskar, riviveva. Ed io con esso. La parola “rinascere” non appartiene al mio vocabolario. Ne rifuggo per evitare sia la religione che le false speranze da visionari. Tuttavia, devo ammettere che la vicinanza di Oskar operava in me qualcosa che non avrei saputo definire altrimenti. Induceva nel mio corpo un’incalcolabile dose di energia; istillava nel mio animo un vigore, una freschezza, di cui anche il solo ricordo qualche tempo prima era per me assolutamente inconquistabile. Con Oskar io rinascevo, è la verità. E per quanto sospettassi la natura fallace di quella sorta di droga che egli rappresentava per me, me ne curavo poco. Tra i ricordi scolastici, i comuni amici, le ragazze con cui avevamo a turno pomiciato, noi sguazzavamo piacevolmente in una specie di circoscritta eternità, in un dolce tempo senza tempo. Seduto nell’ombra del mio decaduto presente, io guardavo con leggerezza e gioia un po’ infantile le policrome diapositive che la presenza dell’amico faceva riapparire, e ancora tanto luminose. Gli studi spesso distratti, la scuola fino ad un certo punto violata, le amichette a cui avevamo sbottonato con 152 rispettosa cura la camicetta quasi immacolata, i film di quei tempi ruggenti, la musica che ci travolgeva fino all’estenuazione. Tutto diveniva un passato presente, o un presente solo da poco passato, e si sistemava in una incoraggiante vicinanza, invece che rimanere distante quaranta o cinquant’anni. Lo stesso crepuscolo dei nostri dei si riscopriva per un cielo fisso, in cui accimierati guerrieri erano ancora immobili nelle più vaghe posture di impavida belligeranza. E la caduta degli dei, insieme alla nostra crescente abitudine ad essa, sembrava un nulla, solo uno scherzo dell’immaginazione. Oskar spesso ghignava, particolarmente corpulento in quella zona del viso che unisce la mandibola al resto del cranio; io lo seguivo, solo modestamente corpulento intorno alla vita. Dalle parti che in seguito furono chiamate le maniglie dell’amore. La sua era una taglia grande, poderosa; s’intende, senza che lui mai avesse davvero acquistato un “taglia grande”. I suoi abiti erano certamente confezioni di atelier per uomini importanti. Guardandolo, un giorno mi era venuto da pensare come il cinemascope fosse un inevitabile frutto dell’accrescimento della cultura tecnologica. Anche se non si poteva parlare in nessun caso di “sviluppo della civiltà”. Belle serate davvero furono quelle che trascorremmo insieme in quel mese di forzata solitudine coniugale da parte mia. Oskar era grande, anche se non era davvero un autentico grand’uomo. Poi giunse agosto. Mia moglie rientrò dalle vacanze con mia figlia, così liberandomi ancora una volta da una delle mie costanti preoccupazioni, il loro rapimento con il conseguente esborso di un riscatto, e contempo- 153 raneamente Oskar partì per la Costa Azzurra. Impegni politico-mondani lo chiamavano a svolgere il suo ruolo diplomatico. E “a mostrar le chiappe chiare”, come dice la bella canzone. Proprio con quest’ultima citazione ci lasciammo in grande rinnovata amicizia. Per l’occasione il mio amico mi offrì un altro dei suoi sigari. Questa volta in un sottile tubo argenteo. Raccomandandomi di badare a quello che facevo. La delicatezza di quella sottile foglia scura era particolare. Tutto poteva essere compromesso - se non addirittura distrutto - da uno sbalzo di temperatura, o dall’aria troppo secca. Così come dalle mefitiche esalazioni della toilette. Lo sapeva per esperienza diretta per le sue frequentazioni giovanili delle latrine militari al corso ufficiali. Non si fuma il sigaro in bagno. Avrei dovuto attenermi a quella regola con assoluta fermezza. Ed io promisi di farlo, mentre la sua macchina targata CD scivolava via nell’accalorato silenzio dell’ora tarda. Sì come algide brume introducono una rigida giornata invernale, l’oscura afa precedeva un’estiva notte maledica, mi dissi guardando scomparire l’enorme risplendente ferreo catorcio che lo portava verso l’orizzonte urbano. Il caldo era davvero intenso. E ancora una volta mi chiesi come mai avessi, se non proprio perduto le sue tracce, interrotto i rapporti con un così simpatico commensale. Ma si poteva poi usare quel termine, “commensale”, per ciò che io ed Oskar consumavamo di solito ai tavolini dei caffè? Tanto fu, per allora. Nell’accendersi di sempre più brevi splendori autunnali, una stagione per definizione ebbra dei giochi 154 dell’ozio e pertanto giustamente ammalata della sua corruzione, attesi a lungo che Oskar mi telefonasse. Ma, evidentemente, i suoi impegni lo trattenevano oltre il consueto nell’opulenta Francia a riposo. D’altro canto, io non rimasi con le mani in mano - o a braccia conserte, come si diceva ai nostri tempi. E mi detti da fare con il mio articolo sulla “coscienza di un soggetto pensante, al progresso dall’innatismo leibniziano allo scentismo berkeleyiano”. L’unico problema che mi sembrava a quel punto evidente era l’impiego della parola progresso, che nei miei intendimenti avrebbe dovuto avere una valenza unicamente dinamico-temporale, ma che nei fatti poteva essere assunta con una sottolineatura di approvazione. In una prospettiva che mi era dopotutto alquanto estranea. Ed ero ancora a uno snodo quando Oskar mi telefonò. Mi stavo attardando sul modo in cui Leibniz aveva liquidato l’innatismo: un’idea per essere tale deve essere presente nella trasparenza della nostra coscienza. Ora poiché ciò non accade e noi le idee le acquisiamo - la maturazione psicologica è tutta un acquisizione di idee, e così la maturazione culturale - l’innatismo è una fandonia. L’obiezione mi sembrava così convincente da essere decisiva, e proprio a questo punto - verso l’ottavo paragrafo della mia breve dissertazione - il telefono squillò. Andava bene per il pomeriggio, alle quattro? Presso quel famoso albergo? Mi meravigliai silenziosamente per l’ora, ma dissi che l’incontro si attagliava alla perfezione alle esigenze della mia giornata. Arrivederci, e Oskar sparì dal mio orecchio anche se non dal mio cuore. Perché poi il pomeriggio?, continuai a ripetermi in quello scorcio di giornata nella piacevole 155 attesa dell’incontro. Comunque avevo fatto bene a non eccepire verbo. Ma quando e perché avevo smesso la frequentazione di quell’amico così congeniale e simpatico?! Oskar continuava a sembrarmi il compagno perfetto per trascorrere di tanto in tanto un pomeriggio fra uomini soli. Lo vidi in un salottino riservato del famoso albergo, un elegantissimo privé ove compresi un po’ di più. Oskar era praticamente disteso su una sorta di dormeuse sistemata lì per lui, ed esibiva una gorgiera sanitaria nobilissima nell’essenzialità delle sue linee e nel candore dei tessuti. - Una debolezza cervicale, da cui sono periodicamente colpito, mi costringe all’immobilizzazione del collo. E a questa buffa posizione che vedi. Sembro una puttana, o mi sbaglio? Un’autentica citazione di Lautrec nel suo periodo di maggior frequentazione delle maisons. Collare elisabettiano a parte, s’intende! Risi per spazzar via ogni ombra di perplessità, e allo stesso tempo per fare eco alla sua allegria non sapevo fino a che punto sincera. Un ampio sorriso sparso sui candidi lini e le preziose fiandre dell’addobbo. Ehi, Lautrec, si vede che siete del mestiere, gli disse Degas - Oskar spocchiò poi leggermente. - Credo che Lawrence Olivier andasse soggetto a un problema del genere. Ma un gigione come lui ne traeva maggiore fastidio di quanto capiti a me. Non credi?! Credetti, come non credere? E per tutto il tempo che trascorremmo piacevolmente insieme, incoraggiati da qualche biscotto di Castellammare e da una bottiglia di Porto, io continuai a domandarmi quale fosse il giusto ritornello di quella 156 canzoncina televisiva in cui appariva l’immagine di un gatto surreale, mentre una bella vocina andava su e giù per il facile refrain, Oskar, Oskar, chiamatemi Oskar. D’improvviso mi era venuto in mente quel vecchio sketch e il suo famoso personaggio. A causa del nome, s’intende. Quel gatto mi era apparso sempre un po’ inamidato, se non del tutto steccato. Proprio come ora appariva il mio amico. Quando me ne andai fui gratificato con il solito sigaro. Questa volta, un affare più corto ma ancor più panciuto e robusto. E fui di nuovo il bersaglio delle sue considerazioni sugli aspetti perniciosi del filtraggio dell’aria del cesso attraverso un tabacco così delicato da essere financo prezioso. Ci pensassi bene. Adieu! Oskar poteva essere grande, ma di tanto in tanto aveva la debolezza di volerlo apparire. E diventava un autentico rompicoglioni. Nei giorni che seguirono mi concentrai con pertinace decisione sull’ultimo svincolo del mio articolo. Su quello che io consideravo il collo di bottiglia del tutto: il luogo logico che mi avrebbe condotto a una conclusione autentica, reale, verosimile. E così via. Volevo che fosse una zona di artica razionalità, e allo stesso tempo una manciata di righe capace di suscitare le più profonde e elevate emozioni nel lettore. Una cascata di sensazioni fondamentali e di principi quasi primi. Ma come, con precisione? Per la verità avevo rintracciato, nelle mie ultime frequentazioni di Locke, il decisivo passo in cui egli dichiara che il fatto di avere un’idea significa averne la coscienza. Avevo riflettuto a lungo a tale riguardo, e 157 avevo setacciato severamente i brani in cui il filosofo sostiene che l’atto di autocoscienza è immediato, intuitivo. Del tutto involontario. Insomma, colui si sistemava in una posizione simile a quella cartesiana, cogito ergo sum... Quindi avevo riletto i passi di Hume preso dallo sconforto del proprio scetticismo, e dalla convinzione che la persona non fosse che un fascio di abitudini, il luogo dell’accorpamento di occasioni individue, singole. Ed ero perplesso, come al solito, circa la natura e gli effetti del progredire dell’indagine filosofica in quei tempi. Insomma, l’autocoscienza era intuitiva tout-court?? E l’autodeterminazione dell’io? Insomma, qual era il legame fra l’uomo e la sua esistenza? Subivamo anche in quel caso la fallace illusione delle biglie?! Cosa pensare al riguardo? Cosa fare, se avessi percorso io la storia in quegli anni: dall’innatismo leibniziano allo scetticismo di Hume, passando per lo scientismo di Locke e di Berkeley?! Come regolarsi, se fossi stato io? Cosa e come avrei pensato di me stesso? Fu allora che il telefono squillò. Era Oskar. - Carissimo... - Perbacco, mi hai fatto preoccupare. Il telefono di casa tua sembrava morto negli ultimi giorni. Ed ho smarrito i numeri dei tuoi portatili: - Niente di grave, mio caro. Ma sono purtroppo a letto. Soffro limitatamente, e mi farebbe piacere vederti. Oggi la cuoca ha il giorno libero, e il cameriere è in vacanza. Ma alle cinque mio nipote sarà qui, da me, per farmi firmare 158 certe carte. E’ anche lui nella Carriera. Potrà aprirti l’uscio e fare gli onori di casa. Si fa per dire, amico mio, si fa per dire... come puoi ben immaginare... - Non preoccuparti. Sarò lì per le cinque. A bien tot. Oskar quel giorno non portava gorgiera, né era su di un autentico letto. Era invece come imballato e assicurato su uno di quegli affari d’ospedale da cui sembra che si possa precipitare in terra da un momento all’altro. Di fatto due robuste cinture di tela verde ne fermavano il corpo rendendolo solidale all’alto “coso” di rilucente alluminio. Mi sorrise quando feci il mio ingresso alle spalle del nipote nell’allungato candido locale - una volta era stata una piccola pinacoteca, La Quadreria, mi avrebbe spiegato in seguito Oskar -, un giovane sui trent’anni, dai capelli tagliati cortissimi, in completo di seta antracite e camicia e cravatta tinta su tinta. Davanti ai miei piedi le scarpe dell’uomo avevano discretamente frusciato con costoso piacere lungo i soffici tappeti che correvano nei corridoi abbuiati dell’ampia dimora. - Ecco, lì... Posso vederti meglio in quella posizione. E mentre lo slanciato fascio di seta calzato lussuosamente - “anche lui in Carriera” - si ritirava, Oskar mi fece segno con lo sguardo alla seggetta di ferro smaltato non distante da quella sorta di moderna barella. - Mi perdonerai, ma non possiamo sottrarci di tanto in tanto alla precarietà. Tutta la vita è un po’ precaria, a dire il vero. Bevemmo uno sherry dorato accompagnandolo con biscotti dolci. E Oskar mi disse: Andrebbero meglio con 159 del buon Malaga. Ma l’ultima bottiglia davvero buona non ricordo più quando l’ho bevuta. Tutto si consuma, guarda un po’ qui. - E l’uomo si indicò con “evidente” modestia. Da parte mia pensai che si fosse consumato poco fino a quel momento, a dire il vero. La sua mole era ancora tutta lì. Ma non feci obiezioni, piuttosto cercai di tenerlo su. Anche se ero alquanto incavolato che, pur sapendo del mio arrivo, non avesse provveduto altrimenti, ed ora mi facesse sedere su quel cesso mascherato. Ma ero triste per il suo stato, e pian piano mi accorsi che lui stesso era triste. Cercai di capire se potessi fare qualcosa per lui, fino a chiederglielo apertamente. - Purtroppo nulla, amico mio. Nulla di nulla. Giunti a queste condizioni bisogna soltanto accettare i fatti per quelli che sono. L’uomo padrone dell’altro uomo. Dominatore. Dominante come quasi tutti i maschi di innumeri razze canine. Ma non bisogna lasciarsi gestire dall’angoscia, né lasciarsi abbattere dalla realtà. Mio nipote dispone della mia firma. Imprudentemente abbiamo conti cointestati. Sono suo ostaggio. Si verifica quanto io ho sempre pensato. L’uomo padrone dell’altro uomo. Non so se Marcuse abbia mai davvero pensato che le cose potessero mutare con la rivoluzione. Un uomo intelligente, colto. L’ho incontrato una volta in una dacia fuori Mosca, insieme a vecchi comunisti riciclati. Per la verità dalle facce di beoni e dalle espressioni alquanto rincoglionite. Ma lui era un vecchietto arzillo, pimpante. Fumava parecchio, se ricordo bene. Stavo quasi per dirgli che non era da lui ritenere possibile che il mondo mutasse, e che la dominanza potesse non essere più l’aspetto fondamentale delle relazioni umane. 160 Poi vi rinunciai. Non ne valeva la pena. Tra poco sarebbe morto. A che pro farlo?! - Il sessantotto è stata qualcosa a metà strada fra l’equivoco metafisico e l’illusione politica. Nient’altro. Non credi? Fu a quel punto che un fulmine attraversò la mia mente, alla livida luce del quale si chiarirono molte cose. Seppi, soprattutto, perché la nostra frequentazione si fosse interrotta in un giorno lontano. - E’ finita? - E’ finita. - Non ci credo...Tutto quello sgobbare... - Ma certo: è finita! Eravamo gli unici due a non aver né parenti né amici al seguito. Soli all’esame di laurea. Soli con il nostro “massimo”. Soli con una gioia, con una soddisfazione che a quel punto appariva a entrambi... non del tutto soddisfacente. - Non pensavo che fosse così. - Mm... Anche allora Oskar poteva essere tribunizio e allo stesso tempo moderato, o del tutto silente. - Dopotutto doveva finire in qualche modo. - Proprio vero. - Sei incazzato? - Basterà un altro amaro. - Proprio incazzato? - No. - Perché Laura non è venuta? Non te l’ho chiesto prima intenzionalmente. Non volevo che entrassi turbato... - Io...!? 161 - Tu. - E perché? - Per Laura. - Per quella puttanella? - Cosa vuol dire? - L’ho mollata. Oggi è il primo giorno di una vita nuova. L’amore è una cosa che va e che viene, avevo pensato. Domani saranno di nuovo insieme. Magari mi chiederà le chiavi della stanza. E’ avaro e preferisce risparmiare. - Oggi mi sono laureato, comincia una nuova vita. - Anch’io ho sempre pensato così. Ma cosa c’entra Laura? Ero stato innamorato di Laura prima di lui - Laura è nessuno, e io voglio entrare in Carriera. Quello lo sapevo da tempo. Una delle cose che mi avevano impressionato nella mia vita universitaria erano stati i libri che Oskar accatastava intorno al suo letto, nella stanzina che divideva con un compagno. Libri di storia, di diritto internazionale, di cronaca diplomatica. Perché lui sarebbe entrato in Carriera. Non leggo altro, mi aveva confessato. - Nient’altro? - Assolutamente. Io so come si fa a entrare in diplomazia. E voglio sfondare. Conosceva cinque lingue, e aveva avuto una ragazza inglese per un anno e una tedesca l’estate di quello successivo. Per fare pratica. “Sono esperte di lingua”, mi diceva ridacchiando. Ma solo in seguito avevo compreso a cosa alludesse. Era stata ingenua la mia interpretazione erotica della frase, proprio ingenua. 162 Sedemmo per un pezzo sugli scomodi sediolini del bar, a festeggiare in amichevole solitudine quel “massimo” così faticosamente raggiunto. Poi, dopo un breve erutto - l’amaro doveva aver compiuto una delle sue misteriose operazioni nel suo stomaco -, mi sembrò che Oskar si distendesse. Poggiasse perfino il capo alla parete di legno. Tutte cose strane per lui che era solitamente misurato e composto. - E’ qualcosa che ho capito da tempo. Non bisogna dar tregua alla sorte. Bisogna darci sotto perché l’uomo è nemico dell’altro uomo. L’unica via d’uscita è la guerra, perché solo la guerra ti darà la vittoria. Ti ricordi: Nella realtà sociale, a dispetto dei persistenti cambiamenti, il dominio dell’uomo sull’uomo resta il continuum storico che unisce la Ragione pre-tecnologica a quella tecnologica. O qualcosa del genere. Deve essere Marcuse. Quell’uomo non è mai stato il mio forte, ma la vita è dominio, e bisogna procurarsi le armi per dominare. Laura è una stupida illusa. Dalle lampo troppo facili. E non è colpa mia. L’ho trovata così. La nostra è stata solo...un’amicizia. Abbiamo trascorso un po’ di tempo insieme. Una parte del viaggio di ciascuno. E sono addirittura benevolo con lei a trattarla così. Credimi. Ribollendo, tutto mi tornava alla memoria. Laura, così dolce, così sensuale, e un po’ troietta... Per me era stato un colpo di fulmine. Quel giorno la frase mi aveva letteralmente gelato. Non quella su Laura ma l’altra. Quella citazione marcusiana. 163 Anche perché, a rifletterci bene, costituiva la giustificazione logica, la perfetta cornice per il comportamento a volte strano, se non incomprensibile, di Oskar. Per le sue fisime, le sua improvvise e apparentemente ingiustificate arroganze, la sua piccineria con la gente di poco valore sociale. D’un tratto quello che in lui mi era sembrato poco comprensibile si compose in un quadro ben preciso e razionale. Improvvisamente compresi chi fosse al cuore del suo cuore il mio migliore amico. Oskar era quello che aveva detto. Il giovane rampante che mi stava di fronte in atteggiamento disteso, tanto disteso da apparire festivocampagnolo, rappresentava il suo concetto della vita. Era un uomo in corsa per la carriera diplomatica, che se ne fregava di tutto e di tutti, a cominciare dalla ragazza con cui era andato a letto per due anni e mezzo - potevo tenere i conti perché ero io a fornirgli la stanza singola e solitaria. Oskar era di quei parassiti che si lasciano cadere in corsa quando si accorgono che l’animale da cui succhiano il sangue è ammalato o alla fine; un tipo di ratto sensibilissimo, pronto ad abbandonare ancor prima degli altri la nave che cola a picco. Il mio amico era l’idea del dominio, della vita fatta di servi e padroni, di schiavi e proprietari. La sua sicura freddezza era la forza che gli derivava dall’aver conosciuto il segreto dell’esistenza. Il modulo dell’essere era la dominanza. Guardandolo ancora sorridente, avevo compreso come egli rappresentasse tutto quanto io non volevo essere, né volevo avere per me o per gli altri. Improvvisamente la 164 sua sicura placidità eccitò in me una ripugnanza che aumen-tava mano a mano che i minuti passavano. Come avevo fatto a non capirlo prima? Quello non era l’amico che avevo creduto di avere al fianco per tanti anni. Di Laura neanche a me importava molto oramai. Aveva avuto davvero le lampo un po’ troppo facili, quando lui l’aveva conosciuta. Quel fatto poteva al massimo produrre dolore nella mia fantasia, per lei che non aveva mai immaginato una conclusione del genere. Ma non era quello a produrre la ripugnanza, l’avversione totale che avvertivo nel mio intelletto, in quel momento. Per quanto atteneva Laura, Oskar era probabilmente un mascalzone per quei tempi. Un egoista, un mentitore, un ipocrita. Mi dispiaceva per lei. Ma per quanto riguardava il dominio dell’uomo sull’uomo, e la modularità di questo aspetto riguardo al tutto, alla vita e al mondo, ebbene era proprio questo a costituirlo mio nemico. Non mio personale nemico, ma piuttosto il Nemico. L’avversario di tutti coloro che come me pensavano che il mondo umano fosse costituito da esseri di una natura superiore, spirituale, oltre che animalesca. Era qui il luogo e il motivo della mia ripugnanza. Della profonda avversione che iniziavo a sentire per lui. Lui che era alla fine diventato l’altra faccia della luna, l’ultima scoperta. Quella che fino a quel momento non avevo visto, e che non avrei mai voluto vedere. Oskar era stato serio nel dire quello che aveva detto. Credeva in quella concezione della vita, dell’essere. E quindi era il nemico per eccellenza. Il suo, in fin dei conti, era un mondo di bestie. 165 Per quel motivo non avevo potuto più stargli vicino. Mi ricordai anche delle casuali occorrenze e della deriva che non ci aveva fatto più incontrare. Avevo tirato un sospiro di sollievo. Era oltre l’angolo, e questo mi bastava. Ecco il perché della fine della nostra amicizia. Guardandolo sul lettino, drammaticamente impannucciato nei preziosi lini, in una stanza che dalle candide pareti ancora proiettava da squadrate differenze di colore i fantasmi di antichi quadri d’autore al momento assenti, compresi di più e meglio. E compresi anche meglio il suo atteggiamento in quel nostro rincontrarci. Almeno mi parve di dover reinterpretare la sua amichevole benevolenza. Per lui io non ero nessuno. Solo una persona che si era lasciato dietro, molto dietro, tanti anni prima. E verso cui si rivolgeva come un uomo si può rivolgere a un cane. C’era stata una sottaciuta condiscendenza che, se era stata da me involontariamente favorita con la mia cortesia verso un antico compagno che avevo piacere di frequentare dopo tanti anni, poggiava per natura sua sulla sicurezza della dominanza. Anche lui, dopotutto, mi blandiva. Ma per il semplice fatto che io non valevo nulla. Non valevo la pena. Al momento gli costava meno blandirmi. Potevo addirittura intrattenerlo, sedendo su quel piccolo cesso di fortuna. E fumare i suoi sigari. Per brevi tratti, nell’umido pomeriggio appiccicaticcio la mia mente fu invasa dal ricordo di quegli attimi di profonda ripugnanza che avevo provato per lui in quel lontano giorno, nella saletta del bar di fronte all’Ateneo. E la mortificazione di quell’approfondimento, della 166 conoscenza delle vere motivazioni e del reale sentimento dell’altro nei miei confronti, divennero sempre più l’attualizzazione di quella lontana ripugnanza. Oskar era ancora il Nemico. Ma ora sapevo che era anche uno stupido, se non aveva compreso meglio la vita dopo averne vissuto una così larga parte. Poteva anche essere un uomo dal brillante piacevole aforisma: “la Carriera, dopotutto, è il luogo in cui si riuniscono tutti i punti della mia vita in cui sono riuscito a gestire il potere che mi serviva derivandolo da quello che mi veniva negato. La lingua della diplomazia non è falsa o ipocrita, è soltanto una disperata forma di comunicazione di persone che si rassicurano vicendevolmente circa una realtà su cui non possiedono alcun effettivo dominio, sul futuro. Si tratta di una forma di reciproco ipnotico convincimento insieme occulto e palese.” Me ne aveva indirizzate tante di quelle frasi divertenti, durante i nostri incontri. Oskar mi disse anche che forse avrebbe navigato in migliori acque se avesse sposato Laura. Laura dalle cosce dolci e dalle lampo facili. Quasi sobbalzai irritato sulla seggetta. E per un attimo ebbi il timore che l’abitudine a rimestare nella feccia dei piani alti gli avesse conferito la capacità di leggere nei miei pensieri. Sarebbe stato imbarazzante essere colto in flagrante al suo capezzale da quella specie di mummia. E, poi, mentre sedevo su quel provvisorio cesso da campo così poco dignitoso. Andando via dovetti portare con me - sotto gli occhi un po’ truci del riapparso nipote in abito scuro - un altro 167 sigaro. Questa volta Oskar mi disse che, dal momento che non sapeva quando ci saremmo ancora rivisti, mi pregava di accettare un leggero portasigari d’argento, oltre al consueto sigaro. Da non fumarsi mai in latrina, assolutamente. Tuttavia sperava di star meglio in breve tempo. Dopotutto la vita può anche sorprenderci felicemente, pur rimanendo quello che è. Il dominio dell’uomo sull’uomo. E mi sorrise malizioso ma certamente non cosciente dei miei pensieri. Una volta in strada, mi fu facile liberarmi anche di quello “stato allotropico” e del suo contenitore gettandolo, unitamente al portasigari, in uno dei cestini dei rifiuti di cui quell’opulenta parte della città era ampiamente fornita. Era una fortuna che non fumassi da quasi vent’anni. E per quanto modesta e piccolo borghese, a casa mia non aveva cessi o latrine, ma una toilette e un minuscolo bagno di servizio. Povero Oskar! Se solo avesse immaginato la fine del suo squisito tabacco e del suo invlucro d’argento. Ma non mi dispiaceva che la legge contro il fumo nei locali pubblici avesse difeso quell’aspetto della mia privacy. Come intascare il suo sigaro quando l’avevo tanto gradito? E come accettarlo, quando avevo desiderato gettarlo via ancora nella sua sottile camicia d’argento? Povero Oskar, che non avevo alcuna intenzione di rivedere. Di nuovo a casa sentii il bisogno di rimettermi al lavoro. Anche se imbruniva. O forse fu proprio per quello? 168 Ero ancora al punto in cui da una parte Locke sosteneva che avere un’idea significava averne la coscienza, e dall’altra Hume diceva che non esiste alcuna sostanza spirituale, né alcuna causa. Che le nostre attività psichiche sono tutte da ricondursi a particolari processi associativi, e nulla più. Altro che Io intuitivo lockiano, altro che immediatezza della coscienza! Altro che istintiva autodeterminazione. Ora, quale poteva essere la reazione psichica di un uomo che, provenendo dall’innatismo, e passando sotto le luci crude dello scientismo empirista e dell’istintiva autocoscienza di Locke, avesse dovuto fronteggiare il pessimismo scetticista di Hume?! L’interrogativo era tuttora appiccato lassù, sotto le volte del mio animo. Dovevo lavorarci ancora, confrontare con cura quelle accezioni dell’essere. Ma mi sembrava di essere alquanto più vicino al traguardo, a quel punto. Stranamente vicino. 169 Rose del deserto e palle di ossidiana Mi chiamo Andreas, ma a dispetto di questo nome tedesco ho vissuto in Germania solo la metà dei miei anni. Per l’altra metà bisognerebbe rivolgersi all’Italia - sia del nord, che del sud e del centro - e alla Francia meridionale, per ricerche che volessero ottenere ampia notizia sulla seconda e ultima parte della mia esistenza. Quella che ho vissuto accanto a Ermione, per intenderci. Accanto alla donna della mia vita, a cui al momento stringo affettuosamente la mano per confortarla. Mia moglie ha gli zigomi fortemente arrossati e le guance tese. Nella lieve penombra, l’acceso contrasto la fa sembrare molto più giovane. Ermione, io, e qualche amico intimo, ci troviamo in una piccola stanza di ospedale che s’illumina della sua delicata bellezza come di una luce obliqua e discreta. Questo candido ambiente asettico è l’unica soluzione che i miei sforzi - e quelli dei miei amici e degli amici dei miei amici 170 - sono riusciti a scovare nel momento del dolore e della probabile separazione. La morte - come dicono perfino i libri rosa e la letteratura del crimine - giunge spesso improvvisa anche se a volte non inattesa. Essa mantiene la capacità di meravigliarci, oltre a quella di distenderci; di stupirci, dopo quella di rintracciarci ovunque siamo. Penso a questo mentre nel silenzio della sofferenza, quasi palpabile in quel limitato spazio, Ermione mi guarda e intreccia alle mie le sue dita delicate. La morte, un argomento a cui sono avvezzo. Sposai mia moglie verso la fine degli anni sessanta, e presto ci rendemmo conto che la sua delicatezza esistenziale altro non era se non una cagionevole salute. Ermione era un fiore dal profumo esotico, dalle carni delicate, dalla serica pelle quasi trasparente, e dalla sensibilità estrema e reattiva a molte, troppe cose. Ma, allo stesso tempo, era un fiore la cui corolla poteva essere facilmente lacerata dai venti della vita. Ce lo disse chiaramente il nostro amico e medico di famiglia, Oreste Degas, fuoriuscito algerino che aveva preferito la nostra città di provincia alla lama d’acciaio con cui in patria venivano giustiziati i traditori collaborazionisti. Una pugnalata nel petto, o un deciso colpo trasversale che sgozzava chi doveva essere eliminato; oppure, in mancanza di comoda intimità al momento fatidico, una rivoltellata in pieno viso in una stradina del souk. Considerando le radiografie di Ermione, o il conteggio delle mie piastrine, Oreste ci aveva raccontato tutta la sua 171 vita e la sua disgrazia. Ma anche tutto il suo dolore per aver dovuto lasciare la bella Algeri il giorno che fu, quando si accorse che stavano affilando per lui il coltello dall’acciaio ricurvo e dall’impugnatura tondeggiante; così come stavano certamente anche caricando la famosa rivoltella: non si può mai sapere! La rivoluzione deve andare avanti. Tutto ciò ci aveva disposti bene nei confronti del medico algerino. Era un giovane simpatico, un valido professionista. Personalmente gli avevo affidato la salute cagionevole di Ermione, unitamente alla mia capacità di coagulare. Avrebbe fatto del suo meglio. Almeno lo speravamo. E poiché lui aveva certamente bisogno di aiuto nella nostra piccola città, anche noi avremmo fatto quello che potevamo. Intanto gli avevamo offerto la nostra amicizia. Dopo averci narrato la sua storia, e averci fornito in un certo senso le credenziali del suo lavoro, Oreste aveva anche chiesto a mia moglie - con galanteria mediterranea e allo stesso tempo da centesimo arrondissement parigino se il nome le venisse, in un certo senso, dalla gente di Menelao o direttamente dall’Olimpo. Ero rimasto perplesso. Sapevo come mia moglie aveva ascendenze in Provenza, due zii nella Saar, e un lontano cugino a Milano, in quella parte della città che per prima fu rovistata dai Lanzichenecchi, quella volta. Ma non avrei mai sospettato che la sua famiglia potesse lambire il mondo greco antico; o addirittura essere collegata ad esso sia sotto forma di Atridi che di divinità olimpiche. E quell’uomo che veniva dalla “provincia d’oltremare”, come aveva detto De Gaulle, era lì a leccarci il naso con 172 notizie sulla classicità? Che era dopotutto un patrimonio occidentale, ormai, più che mediterraneo. Sì, lui aveva un famoso cognome francese, ma i veri occidentali eravamo noi. Me lo confermavano ad ogni momento i suoi occhi vivi e mobilissimi, due tizzoni ardenti evidentemente divertiti dallo spettacolo della vita. Oltre che lievemente preoccupati per i valori delle analisi di Ermione; e per il conteggio dei miei globuli, sia rossi che bianchi. Oreste si era spiegato. La classicità mediterranea è ripetitiva oltre che complessa. Aveva inteso informarsi se mia moglie Ermione fosse Ermione-Armonia, figlia di Marte e di Venere, e poi sposa di Cadmo. O, piuttosto, si chiamava così perché la mamma e il papà l’avevano messa sotto la protezione di Menelao e di Elena? Difatti di Ermione ce ne erano ben due di importanti, nell’antico mondo greco. Lui, Oreste aggiunse, avrebbe preferito la seconda versione, per quanto imbarazzante potesse risultare. Ermione degli Atridi aveva di fatto sposato un Oreste - il “suo” Oreste -, quando Pirro figlio di Achille le aveva preferito Andromaca. A quel punto del nostro incontro in fondo alla veranda, dove nel clima torrido il whisky con ghiaccio si corrompeva morbidamente intiepidendosi, il nostro medico sorrise e disse che ne sarebbe stato davvero onorato. A parte il rispetto che intendeva mantenere per entrambi noi, suoi nuovi amici; ma pure nell’ammirata considerazione di una così bella signora, mia moglie. Appunto in una delle stagioni più luminose della vita. 173 Dimenticavo di dire che Oreste era stato da noi convocato non proprio al capezzale di Ermione ma quasi, per leggere delle radiografie un po’ preoccupanti da lei fatte recentemente. Concludendo, Oreste ci aveva detto che Ermione stava bene. Le radiografie non significavano quasi nulla. Si tenesse lontana dalle correnti d’aria, riguardata nel costume - durante le serate estive era necessario che indossasse almeno uno scialle di seta -, e andasse avanti per la sua strada. Le donne sono forti, fortissime. Altrimenti domineddio non avrebbe affidato al loro la continuazione della specie in modo particolare. Anch’io dovevo stare attento. Essere preciso nell’assunzione delle madicine e costante nelle analisi. Le piastrine andavano tenute sotto controllo. La mia emostasi dipendeva in buona parte da loro. A dirle così, le cose sembrano uno scherzo. Ma non vi è nulla nella vita che sia davvero uno scherzo; specialmente quando si tratta di vite intrecciate nell’amore e nel matrimonio, come erano le nostre. Le radiografie di Ermione mi avevano preoccupato, al contrario delle mie piastrine, che mi sembravano un’assoluta castroneria. Bastava vedere il nome: piastrine. Non vi è malattia seria, che io ricordi, nel cui nome siano implicate queste piastrine. Per Ermione la cosa era diversa. Mi era sembrato di leggere un certo tremore nella voce del giovane medico, mentre le spiegava aspetti della sua condizione. Quel timbro profondo, parlando vibrava, dicendo si tradiva. Ermione, il mio amore, la vita della mia vita... 174 Fu quella la prima volta in cui io pensai seriamente alle seconde nozze. Di fatto, agosto d’un tratto s’accasciò sotto il peso del suo caldo rovente, e si ruppero molte brocche lassù in cielo. Così che, giunto settembre, buona parte del lavoro era già stata fatta dal giardiniere. L’estate era un ricordo, una breve memoria e nulla più. Dal canto suo, Ermione prese a tossire. Riconvocammo Oreste, che giunse a spron battuto. Dov’è la bella signora? La padrona della casa, la splendida ospite d’una storia lontana e greca in cui io ero l’uomo più fortunato della terra? Per fortuna si trattava soltanto di un problema apicale di poca importanza. Potevamo stare tranquilli. Non vi era motivo di temere. Ed Oreste, dopo averci convinti in due ma forse anche in tre -, me lo ridisse quando fummo soli mentre l’accompagnavo alla macchina, un bolide rosso appena immatricolato. La faccia riposare. La tenga calma. E’ una donna molto delicata. Bisogna prendersi cura di fiori del genere, se per caso ce ne capita uno nel nostro giardino. La massima cura. Ed io stavo pensando a ribellarmi a quella espressione, “per caso”, quando il coupè schizzò via in maniera inattesa. Così d’improvviso da far pensare a una scortesia, se non fossi stato certo della sua non intenzionalità. Fu allora che fui sorpreso per la prima volta dall’idea. E se Ermione fosse morta?! Cosa sarebbe accaduto se mia moglie mi avesse lasciato, se fossi rimasto d’improvviso solo? 175 Non che la nostra fosse la più tenera delle età, ma ero ancora giovane. E delle mie analisi, per la verità, me ne fregavo altamente. Si sarebbero messe a posto per conto loro, come capita da sempre. Ma cosa pensare, a quel punto, di Ermione? E, soprattutto, cosa fare? Costanza era una mia lontana cugina, persa di vista più o meno all’epoca del mio matrimonio. Una creatura particolare, che univa alla bellezza classica della famiglia di sua madre una tendenza all’introspezione, che certamente le veniva da quella di mio padre, fratello di suo padre. All’epoca del nostro fidanzamento - mio e di Ermione -, anzi un po’ prima, avevo addirittura pensato di sposarla. Una giovane donna riflessiva, e che allo stesso tempo aveva un seno bello e fresco, non mancava di attrattive per la mia età. E poi le famiglie si conoscevano. La madre era di buon carattere, chiamata da tutti i parenti familiarmente “boccioni” per il petto florido che ancora esibiva, allorché la figlia aveva da poco passato la ventina. Il futuro non mi era sembrato tanto male con lei. E quel particolare anatomico, unito alla sua affidabile riflessività, avrebbe potuto farmi innamorare seriamente se Ermione non fosse d’improvviso comparsa all’orizzonte. Ma ora che la salute della mia diafana moglie minacciava l’orizzonte, cosa fare di meglio se non informarsi su quale fosse stato il destino della fresca e dolce Costanza, dal petto sodo e generoso, e la mente in un affidabile continuo quanto silenzioso sobollimento? Costanza era stata certamente innamorata di me in quel periodo, e il suo trasporto mi aveva quasi convinto a 176 gettarmi fra le sue braccia. Si era trattato di una questione di giorni. Se Ermione non fosse comparsa nelle due settimane successive al nostro ultimo incontro, certamente io le avrei chiesto di sposarmi. Da cosa nasce cosa. Ero sicuro che un po’ la sua silenziosa intelligenza e un po’ il seno espressivo ci avrebbero spinti al grande passo. La porta della piccola stanza si aprì. Gli ospedali, come d’altronde le cliniche private dei vari noti falchi e girifalchi, hanno un che di misterioso e continuamente inatteso che accade... di continuo. L’infermiera doveva ritirare la sacca in cui si depositavano le poche urine che il tempo ancora distillava tremebonde ed incerte. Strinsi la mano di Ermione. Il futuro, ebbene il futuro davvero non si conosce. Lo pensai e cercai di dirglielo con lo sguardo, mentre lei con dolce fermezza liberava le sue dita dall’intreccio con le mie. Oreste, un po’ imbarazzato, ci guardava sottecchi. Mi dissi che la medicina è spesso benevola con i pazienti svelando i misteri dei loro mali, ma è anche spesso malevola con il personale medico e paramedico, sollevando la coltre di misteri diversamente piacevoli, dissacrando a volte la bellezza delle loro visioni. Poi la giovane infermiera fu via con la sacca gialliccia. Dopo la ormai lontana visita di Oreste, avevo pensato molto a Costanza e alla possibilità di rimanere vedovo. E quindi di dovervi provvedere per tempo. Il ricordo di mia cugina aveva cominciato a imperversare nella mia fantasia di notte e di giorno. 177 Per la verità, me ne sentivo colpevole, “macchiato”. Mi consideravo un immondo demone. Ma il petto fresco di Costanza aveva preso a imperversare nella mia immaginazione, a partorire idee ed erotismi neanche allontanati più di tanto dai brevi secchi colpi di tosse della povera Ermione. Era scattata qualcosa che aveva il profumo, se non proprio il sapore, della novità; e che aveva improvvisamente rinnovato il mio antico interesse per quell’articolo femminile che, sposando Ermione - una splendida silfide -, avevo dovuto un po’ mettere da parte. Quei seni comparivano dappertutto. La lattaia ne aveva due uguali, e così la figlia del tabaccaio, mi dissi una volta mentre mi consegnava una scatola di sigari olandesi. Alle corse c’erano sempre un paio di signore che, in quei momenti di campestre alleggerimento della mia angoscia e insieme della noia, ne esibivano un paio notevoli. Tosti, perfettamente inguainati; e sembrava anche facilmente “solvibili”, sciolti da quelli che immaginai dovevano essere i morsi della guepiere, se mai avessi voluto intraprendere tentativi a quel riguardo. Ma ero un marito fedele. Lo ero e lo sono ancora. Altro è procurarsi una moglie perché quella che si aveva non c’è più, altro è tradire la compagna della mia vita. L’essere con cui mi sono scambiato promesse di fedeltà. E mai i “boccioni” con cui sono entrato in casuale contatto hanno avuto modo di fare breccia nella mia vita sentimentale, di indurmi a tradire. Ed è stato meglio così. Fatti i miei conti, decisi di recarmi a Verona per mia cugina, luogo dove aveva sempre vissuto. Ma, in seguito, 178 a indagini fatte, venni a sapere che Costanza era convolata a giuste nozze ancor prima di me. E che non era venuta al nostro matrimonio perché, dopo cinque mesi dal fatidico capodanno in cui avevo incontrato Ermione, le era nato un bel maschietto. Perbacco! Fu una vera delusione. Inoltre, a causa di una troppo semplice matematica, dovetti ammettere che Costanza, sebbene “evidentemente” illanguidita di me, quella volta di tanto tempo prima, aveva giocato per certo su due tavoli. Per parlare solo di tavoli. Ed era evidentemente rimasta incinta di qualcun altro mentre, abbracciandomi teneramente, appuntava lo sguardo riflessivo nei miei occhi sognanti. Per fortuna Ermione non sospettò mai nulla. Anzi, al ritorno, dopo sette giorni, mi parve che l’assenza - che avevamo temuto potesse risultarle di fastidio, se non di vero nocumento - le avesse consentito un po’ di riposo, una certa distensione. E mi attendeva eccitata. Insomma, si trattava di un momento sentimentalmente fortunato, ci dicemmo ritrovandoci. Il mio amore riprese a star meglio. Riguadagnò il colore dei petali, la freschezza del sorriso. Oltre a un certo interesse sessuale che per un po’ aveva languito, a dire la verità, probabilmente a causa della sua ammalata stanchezza. Credo che a ciò avesse voluto alludere Oreste, parlandomi di una possibile depressione ormonale di mia moglie, causata dai suoi malesseri. Questo ancor prima della mia partenza. Ma non ne sono sicuro. I medici è difficile capirli. D’altro canto, essi non sono come i maestri. Non devono 179 farsi capire ma piuttosto risolvere i nostri problemi. Devono fare. Tuttavia Costanza, sfiorita come possibilità futura, e personalmente anche un po’ sputtanata dal suo modo di fare, era stata solo la prima delle possibili sostitute della mia amata Ermione. Ammetto che la mia mente fosse subito ricorsa a lei nel momento del bisogno. Ma ve ne furono altre, a cui però giunsi con maggiore fatica. Colette sopra tutte è rimasta nelle maglie rosa dei miei ricordi. Finché Ermione stette bene in salute, finché prese qualche chilo e si interessò del nostro amore, tutto andò per il meglio. Ma poi, trascorso qualche anno, la sua astenia si ripresentò, la sua tosse si fece risentire. E Oreste ci disse che aveva bisogno di una cura, oltre che di essere lasciata un po’ in pace dagli obblighi della casa, dagli impegni del tran tran quotidiano, e anche forse dalle miei moine. Bastò quello. D’improvviso fui riagguantato dal timore. L’antico pericolo della solitudine in cui la sua morte mi avrebbe ricacciato mi si rifece accosto. E in quella prossimità io ebbi ancora paura. Il mio animo ancora fremette. Cosa sarebbe accaduto alla dipartita di Ermione? Ero letteralmente terrorizzato dall’idea. Bisognava fare qualcosa, essere previdenti. Provvedere. Anzi, questa volta fui quasi agguantato dalla disperazione. Erano passati altri sette anni della nostra vita matrimoniale. Io non ero più un ragazzo. Poche donne mi guardavano per la strada con interesse, e sempre meno giovani. Ma le mie pulsioni erotiche sembravano essere le 180 stesse, seppur in una vita sessuale che si era un po’ diradata, in particolare - quale coincidenza! - nel periodo che era culminato con il rinnovato malessere di Ermione. L’idea continuava a tormentarmi: cosa sarebbe stato di me, se Ermione...? Se mi avesse lasciato a sognarla per le notti a venire nella candida quasi trasparente guaina della sua pelle, che qui e lì mostrava le diradate fantasie del suo sistema venoso...? Bisognava ripensare a una seconda moglie. Provvedere nel prevedere. O prevedere per provvedere? Comunque, dovevo darmi da fare. Questa volta, tuttavia, non mi lasciai affascinare dalle piacevolezze di un corpo eccitante. Le forme muliebri hanno un che di labirintico in cui ci si perde piacevolmente, è vero, ma le loro qualità “afrodisiache” sono in un certo senso “generalizzanti”. Intendo dire che perdersi nell’appeal del loro corpo, soggiacere alle attrattive che presiedono più immediatamente alla continuazione della specie - seni, fianchi, eccetera -, può farci smarrire in “labirinti” molto frequentati. Al limite, potremmo trovarci a dover fronteggiare un piccolo esercito di Minotauri. E questa è una cosa per nulla gradevole. Nient’affatto. Almeno per me, e in un vincolo matrimoniale come era quello che io volevo stringere. Dunque bisognava lasciare da parte i seni promettenti, rinunciare alle nervose gambe su tacchi a spillo. Specialmente se spuntavano da vertiginose minigonne. Quella volta mi concentrai sul volto. Qual era la donna che eventualmente avrebbe potuto prendere il posto di Ermione, in occasione della sua dipartita? S’intende, fra 181 quelle che conoscevo, o almeno che s’aggirassero nel più immediato habitat. Bisogna essere concreti. Non si può andare a cercare una nuova moglie, nel mondo moderno, mentre quella che abbiamo accanto deperisce e se ne va. Non c’è l’occasione , e non c’è n’è il tempo. In pratica, non ce n’è il modo. Alla fine riuscii a focalizzare un viso insieme noto e affascinante. Ma non si trattava di una vera conoscenza. Era una giovane vedova - così mi assicurò il giornalaio che abitava nei pressi della stazione, e che, di tanto in tanto, per motivi a lui ignoti gravitava nel nostro quartiere. Aveva un volto delizioso. Mi ricordava qualche viso del Pollaiolo. Una morbidezza di tratto che ridondava certamente sul suo carattere. Una sorta di purezza che, se era anche un po’ amara, investiva il suo sguardo rendendolo terribilmente attraente. La stessa Ermione, una volta che eravamo insieme al supermercato per il rifornimento quindicinale, me la fece notare. - Non ti ricorda qualcosa, qualcuno? Stavo per risponderle, ma riuscii a trattenermi e a cederle il passo nei percorsi della conoscenza pittorica, mia e sua. Limitata quanto si voglia, ma in quel caso irresistibile. - Pollaiolo... Mi ricorda il Pollaiolo. Mi sembrò un’avvisaglia del destino. E per quanto conoscessi il Pollaiolo, e i “nidi” da cui a volte Colui chiamava le sue modelle, la cosa mi convinse. Il civile e pressoché abituale sorriso di Ermione si era illuminato d’improvviso. E, assentendo a fior di labbra, avvertii un turbamento. La gioia della mia deperibile 182 moglie si era rinnovata proprio nell’individuazione di quel volto che forse apparteneva a colei che l’avrebbe sostituita. Una volta che fosse morta, s’intende. E giunsi a concepire l’occasione come un preciso segno della sorte. Era quella la donna che mi avrebbe impedito di cadere nella solitudine, nell’amarezza della vecchiaia. Nell’assoluto decadimento dell’anima e del corpo. Dovevo conoscerla. Le donne dal volto affascinante hanno un che di misteriosamente imperativo. Esercitano un dominio segreto che solo loro conoscono. Non imponendosi con articoli appariscenti come tosti freschissimi decolté, o gambe da capogiro; il dominio che esercitano è sottile e nascosto. E deve rimanere tale. Le loro attrattive non sono esercitate su alcuni aspetti del nostro desiderio, ma si rivolgono cogenti alla fantasia e alle attraenti nebbie dell’animo. A quei brandelli di realtà che, pure imperiosi, sfuggono allo sguardo diretto. Non si impongono all’immaginazione erotica ma suscitano nel nostro animo un diverso possibile mondo, quello dei sogni e dell’irrealtà. Ma quale cosa è più affascinante dell’irreale volto di una bella donna? Il vincolo che così si instaura è quasi spirituale, affidato com’è a quella parte così nobile del corpo umano. E anche in un certo senso arcana, che è appunto il viso, l’espressione. La curvatura delle labbra, la linea delle sopracciglia... L’intimità può far scoprire l’importanza di ciglia lunghissime. Le fossette ai lati della bocca, poi, sono veri trabocchetti per i frequentatori di ricercate sensualità. 183 E le orecchie piccole hanno un richiamo anch’esse erotico. E così, per noi occidentali, gli zigomi alti, unitamente alle espressioni più o meno segretamente feline. Per non parlare di narici frementi, e del fiato caldo che d’improvviso c’investirà, insieme inatteso e inimmaginabile dalle labbra socchiuse. Un volto è un mondo, un mondo di sogni. Ed io mi persi nel comune futuro a pensare a quel mondo, in modo particolare quando a maggio Ermione prese di nuovo a tossire. - Credo di essere allergica. Forse quindici giorni il collina. Una breve frase in cima a un ancor più breve ridere. Io la guardavo e assentivo. Immaginavo che il nostro amico Oreste l’avesse indotta all’invenzione di quell’ allergia per renderle le cose più facili, più accettabili. Perché il volto di Ermione a volte si sbiancava. Ed io ne provavo pietà insieme a una curiosità un po’ malsana. Quanto sarebbe ancora durata? Fino a Ferragosto? O a Natale? Si poteva pensare a Capodanno? Dovevo sbrigarmi. Bisognava mandarla in collina. Per quanto mi riguardava, avrei trascorso quel periodo facendo ricerche in città sulla giovane vedova. Una sera decidemmo il da farsi insieme ad Oreste. E il mattino successivo passammo tutti e tre per la farmacia e, dopo aver acquistato i necessari medicinali, accompagnai Ermione in collina. Due giorni con lei e fui di ritorno. Si era aperta la caccia per il mio futuro. 184 La zona alle spalle della stazione ferroviaria delle grandi città è spesso una zona malfamata. Anzi, alquanto malfamata. A pensarvi mi commossi. Un volto del Pollaiolo in una zona sospetta era già una cosa triste. Un’ombra dolorosa su quei lineamente sottili, affilati, deliziosamente scolpiti. Se poi pensavo a quel volto nobilissimo contro lo sfondo di una zona solitamente frequentata da prostitute, effeminati e spacciatori, la cosa mi turbava tanto da farmi venire meno il cuore. Come avrei potuto pensare a lei in quei luoghi, intanto che Ermione trovava il modo e il tempo di spegnersi? Come avrei fatto? Come avremmo fatto, noi?, se mai fossi riuscito a contattarla e a farle intendere la profonda attrazione che sentivo per lei. Il profondo bisogno che la mia vita aveva di lei per essere. La sua era una piccola fiaccola, ma anche una viva torcia a cui rinfocolarmi per gli anni - forse anche troppi che ancora avevo da vivere. L’assenza, il vuoto, è ciò che ci distrugge. Proprio in questo momento sento che il vuoto mi prende. La mano di Ermione si fa pesante come il piombo. E il mio stesso mento scivola verso il petto. Vorrei vegliare, vorrei guardarla, parlarle, dirle tutto il mio amore... Ma non ce la faccio. 185 Ritengo il risveglio una delle cose più singolari della vita. Davvero la fine di una piccola diuturna morte, come si dice in alcune religioni. A me accade sempre come se fossi in una sala cinematografica, e mi fossi appisolato durante la proiezione. Anzi, fra un tempo e l’altro. Senza riuscire mai a svegliarmi allorché la seconda parte del film inizia. C’è sempre qualcosa che mi sono perso. Mi sveglio un po’ dopo, quasi in un’altra storia. Nella storia che è andata un po’ troppo avanti, per la verità. Mi ci raccapezzo solo a fatica. Ci vuole del tempo. Ecco, proprio così. L’amicizia di Oreste Degas ha avuto delle caratteristiche sue proprie. Non ho, anzi non avevamo mai avuto una reale frequentazione con gente che provenisse dal mondo ex-coloniale. E’ un mondo strano. Un mondo di parvenues, ci dissero una volta degli amici che erano solitamente derubati all’uscita dal teatro da gente che loro chiamavano apaches; e la cui casa era stata ripetutamente svuotata mentre loro erano a teatro. Un mondo di parvenues, tuttavia, molto bene attrezzato. Terribilmente attrezzato. Come loro stessi potevano testimoniare. Nel caso d’Oreste, un medico non più giovanissimo, che nel tempo si era scavata una discreta piccola miniera di pazienti, era diverso. Lui non doveva rubare nulla a nessuno. Era un topo nel formaggio. La civiltà occidentale è corrotta e pullula di malattie. A volta addirittura infettive, esantematiche, o immaginarie. E immaginarie in molti modi perché la nostra civiltà è ammalata di sazietà e 186 illusioni. Qualcuna di queste malattie è inguaribile. Ma il medico ci vuole lo stesso. E, comunque, non esistono malati davvero immaginari. La più volatile delle facoltà umane, la fantasia, in campo medico esige un “giustamente considerevole cachet”. Le malattie inguaribili, poi, sono addirittura le più lucrose. Morire nelle mani del proprio medico è tanto difficile per un ammalato grave che spegnersi fra le braccia di un’amante di vent’anni. Una cosa di per sé quasi inattuabile. Oreste era diverso. Decisamente diverso dai pirati più o meno metropolitani che la storia ci ha consegnato. Dagli apaches dei nostri sfortunati amici. Vi era inoltre una dimensione culturale nella sua esistenza che tendeva a espandersi. Come sembra che lo stesso universo faccia, almeno così si dice da un po’ di tempo a questa parte. Una cosa misteriosa, di cui ancora non sono venuto a capo. Insieme a miliardi di altre persone, immagino. Tale espansione del medico coinvolgeva anche gli amici. Ermione e me, nella fattispecie che più mi era consueta. Oreste aveva il pregio dell’affabulazione, l’abilità di raccontare. Di raccontarsi e di raccontarci della sua terra. Della sua civiltà. Del dolore e del sangue sparsi in Algeria. Ma faceva tutto ciò con una tale grazia e intelligenza da lasciare nell’animo di chi lo ascoltava sentimenti di rimorso e di esigita giustizia. - L’Algeria è il mio amore. Ed io affondo le mani nella vostra terra per cercare un amore eguale, ora che essa mi è stata strappata per sempre. Amor con amor si paga? Non è forse così che dice il Poeta?! 187 Ma certo che il Poeta diceva così. La cultura di Oreste era internazionale. Citava perfino Ezra Pound. Una volta, lo sorpresi addirittura a ripetere cantilenando alcuni versi di Ginsberg, mentre era da solo a tavola, al mattino. Bivaccavamo nella nostra casetta di campagna, un tetto che a stento si mantiene in piedi, assolutamente inaffidabile, e Oreste, paludato in una vestaglia di soie japonaise, era davanti a un piatto di uova strapazzate, sua abituale colazione. ...mentre l’India divorava rabbiosi cani gonfi di pioggia... mai più l’uomo timorato di Dio porrà piede in quei luoghi per il fetore delle putrefatte uova d’America... Gli chiesi se qualcosa non andasse nella colazione preparata per lui dalla cura di una campagnola giovane e dalle chiappe sode. Ma lui rispose che si trattava soltanto di poesia. Le uova nel suo piatto erano deliziose e cotte a puntino. Si scusava, inoltre, per la certamente imprecisa citazione. Non era più un giovanotto. Aveva dieci anni meno di me e cinque meno di Ermione, il nostro Degas. A me non dispiace se, al risveglio, la mia mente vaga un po’ e , mentre tiro su il mento, Oreste e le sue storie mi tornano vivide alla memoria. Il francese, dopotutto, ha arricchito la nostra vita. Oltre ad essere stato il primo ad avvertirmi di possibili sgradevoli conseguenze, i-e. di un evento patologico relativo ai miei valori ematici. In modo particolare l’ha arricchita da un punto di vista politico. Dell’immaginazione politica. Fuoriuscito degli anni settanta, Degas andava continuamente su e giù per la sua storia. Per la storia del 188 suo paese voglio dire, dell’Algeria. L’ombelico di tutta la faccenda era tuttavia molto mobile. Una volta si trattava degli accordi di Evian del ’61, in cui, a detta di Oreste, De Gaulle non se ne era fregato nulla dell’Algeria ma aveva piuttosto voluto pensare ad ottenere un forte potere direzionale all’interno delle forze che guidavano la Francia; un’altra volta era il tormento delle opposizioni, anzi il tormento della violenza. La democrazia nei paesi ex-coloniali stenta ad insediarsi senza aver inzuppato abbondantemente il sacro suolo con il sangue causato dai diversi estremismi, o, meglio, dagli opposti desideri di potere - piuttosto che di libertà. Ma questo è normale, appartiene alla fisiologia della violenza. L’Algeria, in altri termini, era stata martire della Francia, poi martire di un De Gaulle estremamente cosciente dei pericoli interni della Francia di quegli anni; e infine era martire di se stessa e del suo fondamentalismo. Lo stesso Massù, fedele seguace di vecchia data di De Gaulle, non aveva potuto continuare a combattere per l’Algeria francese. Ad un certo punto i due amici avevano dovuto spezzare l’antico sodalizio. Lui stesso, Oreste, era un martire. Lui che era un fiore del futuro, che avrebbe potuto essere l’innesto perfetto del souf algerino sulla odierna cultura occidentale, era piuttosto una sorta di sgorbio. Quasi un aborto. Piuttosto che un essere splendido con i piedi nell’acqua che scorre sotto la pelle del deserto algerino, e la testa nel fuoco del sole d’Africa - come deve essere una rigogliosa palma -, lui era un disadattato con i piedi nello sterco dell’ 189 odierno mondo consumistico, e la testa esposta alle temperie di un inconsistente pensiero moderno. Di una logica che da tempo non era più tale. Lui stesso non era più colui che era stato, confessò una volta. Il vero algerino ha palle di ossidiana e calcoli come rose del deserto. L’uomo d’Algeria è un uomo forte che soffre vivendo. Spesso io mi commuovevo - e così Ermione - a quelle sue sfuriate, a dire il vero un po’ maturate dal vino borgognone della nostra cantinetta. E mi perdevo con lo sguardo fissando a tratti i suoi piedi momentaneamente privi delle costose quanto disdegnate scarpe di coccodrillo; o sulle sue dita capaci di giocherellare per ore con un accendisigari d’oro che aveva pagato - a suo dire con gli emolumenti di alcuni mesi di professione. Perché Oreste Degas, pur odiando de Gaulle che in definitiva aveva scaricato le responsabilità francesi negli affari algerini su altri, ad Evian nel ’61, aveva una grandeur che da nessun altro poteva aver imparato se non dal grande vecchio di Francia. Dal condottiero che dai mari internazionali aveva raggiunto le aquile hitleriane con gli spruzzi del suo disdegno. Oreste è fatto così. Medico e demone belligerante in cuor suo; appassionato quando moderno democratico - a parte l’abolizione delle elezioni in cui il FIS aveva vinto -; e amante di innumerevoli donne velate, a suo dire da lui disvelate, quando ancora era in Algeri. Per lui patria dell’amore, di ogni amore. In fin dei conti, anche degli amori che avrebbe poi incontrato in Francia. Perché amor con amor si paga: non è così?! 190 Quando finalmente riuscii a provocare un incontro, il bel volto del Pollaiolo mi era diventato tanto familiare per i numerosi appostamenti, per le sue rivisitazioni nel segreto della memoria, per la sua quasi-fruizione al cuore delle mie fantasie e delle mie speranze, che, sedendole di fronte al tavolino del bar, mi parve di conoscerla da anni; di avere già alle spalle una lunga frequentazione della sua bellezza. - Non so se sono davvero interessata a una nuova assicurazione. Da vicino aveva anche un buon profumo. Che saliva su dai capelli ben curati. O forse dal seno. Piccolo ma ben fatto. I seni piccoli durano di più. Anche quelli di Ermione erano piccoli, e si erano mantenuti bene fino a quel momento. - Non è una semplice assicurazione E’ un’operazione finanziaria che comporta anche un fatto assicurativo sulla vita. A vantaggio di chi lei vorrà indicare, e per un limitato importo. La parte più interessante è quella finanziaria. In effetti è un investimento che rassomiglia a un’obbligazione. Nell’ufficio postale vi era un invitante manifesto che avevo già sguardato più di una volta. E per averlo leggiucchiato in tal modo, ora ne conoscevo il contenuto quasi a memoria. Praticamente Investimenti di Stato. A un tasso quasi fisso. Per gonzi che non sapevano cosa fosse un borsino, o per gente che non voleva farsi togliere anche le mutande dal borsino sotto casa. Vi potevano essere, tuttavia, dei vantaggi, avevo ammesso con una certa provocatoria serietà. 191 Era così che avevo iniziato la nostra conversazione. In una fila alla posta, di fronte al manifesto di lancio di quei titoli. Al momento ho fretta, e non potrei spiegarle meglio. Ma questo pomeriggio...Spesso prendo un caffè al bar qui all’angolo. Lei mi aveva fissato con il suo sguardo insieme dritto e modesto. Era possibile che si fosse fermata con lo sguardo sul mio Rolex, intanto che mi passavo una mano sulla fronte? E poi mi aveva detto: Anch’io prendo l’ultimo caffè in quel bar. Ma la sera. - Ci rivediamo, allora. Verso le otto? - Verso le dieci, ma domani. Uscendo dalla posta qualche minuto dopo di lei, che mi precedeva di un paio di persone, credetti di poter svenire dalla gioia. Era stato facile, essenziale. E mi parve di avere un breve ma consistente capogiro. Ma forse era dovuto alla differenza fra l’aria condizionata dell’ufficio e il tepore marcio che saliva dal prato. La figura della donna, ancora visibile in lontananza, parve salutarmi con una breve ritmico cenno dei fianchi svelti. Avevo mai visto dorsi di Pollaiolo? Alcuni si specializzano su determinati aspetti e particolari anatomici del corpo umano. A casa avrei dato uno sguardo a qualche libro d’arte, indagato sulle schiene di Colui. Ma allorché la mia mente si soffermò sul concetto d’immagine, d’improvviso vi fu qualcosa che nell’incoscio si mosse. Come se un problema irrisolto tentasse di salire a galla da laggiù. Sul momento non riuscii a venirne a capo, ma la sera, mentre Ermione si spogliava e discutevamo insieme di una 192 prossima eventuale visita di Degas, la grossa bolla compressa nella memoria prima tremò e poi esplose nell’atmosfera quieta della mia mente già disposta al sonno. Era lui dunque!? Nel manifesto dell’operazione finanziario-assicurativa vi era la fotografia di un grottesco uomo dagli stranamente noti baffetti che diceva: Lo guardo io il vostro denaro!. Penso sempre agli interessi della Francia. Mi ero chiesto chi fosse quel viso familiare, ma lì nell’ufficio delle poste non ero riuscito a ricordarlo. Forse anche perché la mia mentre era tutta presa dal volto a qualche metro da me. Ma ora lo sapevo. Era Massù. Il famoso comandante dei paracadutisti che aveva dato sì buona prova di sé prima a Suez e poi ad Algeri. Nel badare agli interessi dei francesi. Dissi a Ermione di quello strano incontro postale con Massù, mentre andavo a comprare dei francobolli, e ne ridemmo insieme. Trovata bene quella frase: Penso sempre agli interessi della Francia. Comunque non era il caso di investire in quel modo. I consulenti di Ermione sapevano certamente far di meglio, con tutto quello che lei pagava. Poi ci demmo la buona notte. Quella sera chiusi gli occhi con in mente il sodalizio fra Massù e De Gaulle, che in Algeria aveva retto così bene fino al momento in cui Nasone aveva cominciato a pensare che era il momento di salvare la Francia, piuttosto che l’Algeria. Ma erano poi vere le storie degli electrochoc ai testicoli dei prigionieri, laggiù fra le dune infuocate, nei patrii 193 sotterranei? E Massù aveva avuto nulla a che fare con tutto ciò? Si dice qualunque cosa della gente in vista. Dei militari sul teatro d’operazioni più che degli altri. La gente vorrebbe fare la guerra con i cioccolatini, e rimane scandalizzata quando sente parlare di sangue. O, nel caso degli electrochoc, di arrosti. Il giorno successivo vissi di eccitazione fino a sera inoltrata. Parte della mia vita era in gioco, tutto il futuro ancora possibile. Si trattava delle seconde nozze, e francamente non volevo fare una brutta figura. Per gli aspetti fisici del possesso vi sono farmaci moderni che aiutano, stimolano; sostengono validamente, sembrerebbe. Ma gli aspetti spirituali dell’attrazione non possono essere manipolati. Qui sta la differenza con gli animali, qui il valore spirituale dell’uomo. E’ il peso del fascino dell’uomo, come dell’attrazione muliebre. Ma ero ben deciso a difendere ad oltranza il mio interesse, ad agguantare quella trasparente bellezza dalle carni delicate, dense di uno sconosciuto profumo. A goderne il sorriso ossimorico di fanciulla e insieme di donna “saputa”. Uno sguardo perfino duro, a volte, mi era sembrato. Non avrei pensato mai che una tale donna potesse risvegliare il mio desiderio, catturare tanto il mio interesse. Era molto più elegante di sera che di mattino. E il profumo che mi giungeva da lei aveva qualcosa di conturbante. Inoltre il leggero abito a giacca che indossava, per una qualche ragione che non mi riuscì né sul momento né in seguito di appurare, sembrava solo appoggiato sul suo corpo nudo. 194 Come fosse caratterizzato da una sensuale precarietà; quasi avesse un che dell’invito ad essere sfilato. Quando pensiamo di sapere tutto sulle donne, ecco che il gentil sesso ci sorprende di nuovo. - Si tratta di progetti di ottimizzazione, spesso si chiamano così, il cui capitale è garantito, e che allo stesso tempo hanno un rendimento annuo variabile. Da qui a qualche anno lei può trovarsi con un interesse doppio di quello che le è fissato ora. Dipende dal mercato, dai flussi di investimento. In più c’è l’aspetto assicurativo. Che è di minore importanza ma che pure esiste. Ordinammo vino bianco, secco, di una zona vicina a quella dove si produce lo champagne. Una marca e una qualità che conoscevo per averla gustata con Ermione in occasione di ospiti poco importanti. E più io la guardavo, più il suo volto mi affascinava, mi conquistava. Aveva un sorriso in cui si spegneva ogni asprezza che poteva essersi accesa negli occhi un attimo prima. Un sorriso incantevole, seducente, quasi erotico. Qualcosa che congiungeva l’allegria del cuore al piacere fisico. In quei momenti mi scioglievo dentro. Non sarebbe stato tanto male il secondo matrimonio. Anche se mi dispiaceva per Ermione. Aveva trascorso tutta la vita con me; ed io ormai la maggior parte della vita con lei. Ma un uomo della mia età, delle mie esigenze, non poteva non convolare a seconde nozze. Tuttavia mi tormentavo sinceramente per lei, povera Ermione! Poi, mentre il cameriere andava a prendere il vino, lei mi disse che doveva fare una telefonata. Mi alzai 195 educatamente, e lei si avviò verso le due cabine telefoniche in fondo al locale. Probabilmente fu il movimento a causare il fastidio, ma quell’alzarsi e sedersi avevano disturbato la mia prostata. Ne soffro da qualche tempo. E mi venne una tremenda voglia di urinare. Oreste insiste nel tenerla sotto il più stretto controllo. Assieme alle mie piastrine. Le piastrine sono importanti. La loro funzione è vitale. Mai sottovalutarla. Un consiglio da amico. Mi dice così lui. Ero fortunato, mi dissi. Forse lei, Colette - si chiamava così -, neanche si sarebbe accorta di nulla. Una prostata insofferente sottolinea l’età...è un indizio...Sarei andato e tornato intanto che telefonava. E mi fiondai nel semibuio corridoio sovrastato dal piccolo cartello toilette. Era uno strano budello, curvo, a gomiti. Che girava un po’ sul locale. Alla fine fui davanti al candido sanitario verticale. Lurido, nel mezzo, del suo tempo, e roso dalla ruggine. Ma neanche avevo iniziato ad attendere alla minzione che la voce di Colette mi raggiunse, un po’ soffocata ma chiara. - Hallò!? Sì, era certamente la sua voce. Mi era subito piaciuta perché, di tanto in tanto, corrotta come da un movimento del cuore, o dal desiderio, dal piacere. Evidentemente la parete divideva le toilette - si fa per dire - dall’ingresso del locale, dove vi erano appunto i due telefoni a muro. Una voce decisamente eccitante. Io me ne intendo. Erotica ed esaltante. Ero imbarazzato. Mi pareva indelicato ascoltarla senza che lei ne avesse coscienza... 196 Ma tant’è. Le azioni involontarie sono incolpevoli. E la prostata è la prostata. - Sono già qui. Urinando, pensai a una madre in ansia. O a una zia affettuosa. - Ora stiamo aspettando il vino. O forse aveva già parlato di me a qualche amica? L’intuito femminile... Oppure la semplice preoccupazione di essere aggredita da un perfetto sconosciuto. - Vieni tra quarantacinque minuti esatti. Voleva presentarmi a qualcuno? - Ma gira intorno al bar, sul retro. O forse voleva semplicemente un parere sul mio aspetto. - Sì, ha ancora quell’orologio. Sono certa che non è una patacca. Me ne intendo, io. Ogni tanto ne incontro qualcuno di questi sfondati in cerca di puttane. E’ il mio mestiere. A quel punto il mio pensiero si fermò, come se si coagulasse nell’improvvisa realizzazione della realtà, insomma in una sorta di satori. E anche la minzione decise di essere giunta al suo termine. - Non c’è bisogno di colpirlo. Te lo ripeto. Ha una faccia da macrò, ma è solo un imbecille... Che pensa d’aver rimorchiato con la storia dell’assicurazione. Tu mostragli l’affare, e prima ti darà l’orologio e il portafogli, e poi schizzerà via come una lepre... Contento di riportare la pelle a casa. E’ soltanto uno stronzo. Un po’ ignominiosamente, decisi di sottrarmi al prevedibile quanto dissacrante confronto con il complice della bella signora. Chiedendomi, lungo la strada di un malinconico ritorno, quanto e cosa Lombroso avrebbe 197 potuto dire su quel viso d’angelo, che in effetti era la faccia di una mignotta che faceva,come secondo lavoro l’ adescatrice per grassatori. Comunque, mi ripromisi di dedicare una più rispettosa parte del mio tempo allo studio del Pollaiolo, per trarne implicazioni e conclusioni che mi aiutassero, da quel momento in poi, nella ricerca del nuovo amore. L’arte svolge sempre un’efficace mallevadoria per chi cerca di avanzare nella strada della verità. La bellezza del matrimonio è l’aspetto intimo del rapporto, una sorta di binario in cui si può convogliare confidenzialmente tutto quanto ci passa per la testa. Dalle cose più banali alle più ardite mozioni erotiche. A letto, quella sera, sentii tutta la bellezza di quella benedetta condizione. Ma purtroppo non avrei potuto mai raccontare a mia moglie qualcosa che solo a mia moglie avrei desiderato e potuto dire con tutta la confidenza di chi non si senta e non voglia sentirsi giudicato. Il vincolo matrimoniale è una cosa davvero meravigliosa ma... Vorrei ancora indugiare nel ricordo, nella considerazione tanto piacevole di tale amore, ma il sonno mi riprende, intanto che la mano di Ermione si intreccia alla mia, essa stessa immobile. Come fosse esanime, ma certo non lo è. Poi Ermione si e risvegliata, e mi ha risvegliato. Ma non mi sembrava avere molta voglia di parlare, così che io son potuto tornare all’argomento su cui mi ero da poco intrattenuto. 198 La storia di Massù aveva toccato il cuore della Francia, oltre che i molti suoi interessi. L’uomo era stato per un po’ di tempo una leggenda. Aveva giganteggiato in Europa quando l’Europa non sapeva se finisse al di qua o al di là del Mediterraneo, appunto con la “provincia d’oltremare” d’Algeria. Colui era stato al fianco di De Gaulle praticamente sin dallo scoppio della seconda guerra mondiale. Su, su, fino al ’60, quando Carlo il lungo aveva pensato che l’Algeria che tutti o quasi avevano voluto trattenere - era ormai irrimediabilmente perduta. Ma cosa c’entrava Massù con le accuse di violenza che da più parte gli erano state mosse? Qual era la verità? Avevo sentito storielle crudeli e ciniche sui maltrattamenti dei patrioti algerini, sulle torture praticate contro di loro. Non è solo una questione di electrochoc ai testicoli. Mettono delle piccole piastrine in fondo agli elettrodi. Così quando si dà la corrente, la carne brucia e sfrigge come in padella. E si sente un odorino per tutto il piano. Un profumo che terrorizza quelli che aspettano il loro turno. L’odore della carne umana è speciale. D’improvviso dovetti confessare che vi era anche un’altra bolla collegata a quel viso del manifesto degli “investimenti sicuri a tasso variabile”. Ma non sapevo, non mi riusciva di capire. Mi sforzai, cercai nella mia mente che, purtroppo, mi sembrò assolutamente vuota. Nulla da fare. Cosa mi volesse dire quel volto, cosa mi ricordassero quei baffetti, non mi riusciva per nulla di capirlo. Chissà, forse più tardi. 199 Il mese scorso Ermione ha ripreso a tossire. Io ho subito drizzato le orecchie. E i miei timori sono rinverditi. Cosa fare? Come fare? L’aspetto generale di Ermione non era dei peggiori prima che le cose precipitassero improvvisamente. La mano di Ermione stringe la mia. Siamo soli. Neanche Oreste è con noi. L’infermiera entra per un istante, dà uno sconsolato sguardo alla sacca delle urine praticamente vuota, e scompare. - Devo parlarti. - Dimmi tutto, amore mio. Dimmi tutto. Ermione mi stringe ancora di più le dita con uno sforzo particolare. E’ il linguaggio che usiamo durante l’amore. A volte lei si rinvigorisce d’improvviso. - In questi momenti in cui è possibile un distacco... La voce di Ermione è quasi un sospiro. Mi riesce difficile percepirla perfettamente. - In questi attimi decisivi è necessario liberarsi dei nostri errori, dei nostri debiti. Io vorrei che tu in un certo senso...mi benedicessi... - Cosa dici, mia cara. Ma certo... - Ma con piena coscienza di quella che io sono e che sono stata... - Per me tu, Ermione, sei e sei stata... - Aspetta. Devi sapere. Purtroppo, io ti ho tradito... Non riuscivo a credere. La mano di Eremione, con una forza che io non sapevo da dove le giungesse, aveva artigliato la mia e la stringeva come se dovesse strizzarla fino in fondo. - Mi fai male. 200 - Scusa. Voglio confessarti tutto prima di ricevere la benedizione che sono certa tu vorrai ancora darmi. La prima volta è stato tanti anni fa, quando sei andato a Verona. Quel viaggio improvviso mi sconvolse. Non sapevo cosa pensare...E in un momento di debolezza...Mi devi credere, un momento di fragilità... Chi di noi non è fragile? Dillo, dillo...Chi non è fragile? Il capo di Ermione si è abbassato, e io non ho saputo fare altro, nel profondo sconvolgimento del mio cuore, che pensare che la vita è sempre nuova. Che mai si può dire di averla davvero conosciuta. L’esperienza...E’ come se ci riciclasse di continuo... L’esperienza è un animale dall’ignota fisiologia. Dalla sconosciuta filosofia. Una bestia imbattibile... Altrimenti perché sarebbe necessario continuare a farne? - Un’altra volta è accaduto quando hai deciso di mandarmi in vacanza in collina. Durante quei giorni ancora sono stata presa dalla fragilità...ancora non ho saputo difendere il tuo onore ed il mio... A questo punto la camera prende a girarmi intorno,. Un’infermiera, appena entrata, al mio gesticolare accorre accanto al letto e mi dà un leggero ma secco schiaffo. Poi guarda la sacca dell’urina e scuote il capo sormontato dalla querula cuffietta.. - Si tiri su...per amor di Dio...E sia uomo... Alla fine sono svenuto. Mi sono ripreso. Ermione non è più accanto a me. Un po’ me ne sono avuto a male, e un po’ ho pensato che non avrei potuto perdonarla e magari benedirla, se non si fosse posta a tiro della mia voce. 201 Vorrei anche chiederle di confessare il nome dei suoi amanti. Almeno quello. Mi sembra che abbia il diritto di saperlo. ... La porta si apre, e Oreste e lei entrano mano nella mano. A questo punto capisco. Con quel moderno maquillage lei appare ancora tanto giovane e fresca. La stanza ha ripreso a girare. L’infermiera ritorna, dà un altro sguardo alla sacca delle mie urine, da tempo asciutta come una duna desertica, e alla fine si decide per un altro schiaffo. Leggero ma più secco del primo. Forse è stato proprio questo colpo a farmi raggiungere l’ultimo grado di coscienza. D’improvviso la bolla che avevo sentito agitarsi nel mio animo, cercare di liberarsi da alcuni giorni, si è staccata ed è esplosa. La faccia di Massù sul manifesto non rassomiglia ad altro se non a quella di Oreste! Gli stessi baffetti, lo stesso sorriso insieme mediorientale, sfottente, e ammaliatore. Gli stessi occhi acuti. Sarò io a guardare il vostro denaro. A difendere gli interessi della Francia. E mentre scivolo di nuovo nel deliquio mi raggiunge un odore...come di hamburger appena cotti sulla piastra, contemporaneamente a una sorta di sfrigolio simile a quello di cui si parlava a riguardo dei patrioti algerini catturati dai regolari. Poi, tutt’intorno a me, la vita per un attimo ancora spara la visione di morbide luminose dune rosa da cui affiorano le famose rose... sotto un cielo di cobalto in cui danzano mollemente globi della nera roccia vetrosa chiamata ossidiana. 202 E una voce prende a ripetermi, sempre più lentamente, nella parte più nascosta del mio cervello: Sta attento alle piastrine. Sono quelle che ti fregano. Sono le piastrine che decidono della nostra vita e della nostra morte. 203 Rolls-Royce Tutto giunge alla sua fine naturale, o innaturale. Questa legge dell’universo coinvolge qualunque realtà, dal granello di sabbia alla sfera terrestre, dalla fiamma di un cerino a quella del sole. La gerarchia ecclesiastica e i suoi incarichi pastorali ed amministrativi non ne sono esclusi. Il molto reverendo Homer Chass-Potter continuava a ripetersi le parole del suo pastore, intanto che il segno del liquido scuro scendeva con santa discrezione lungo il fianco della bottiglia di porto, fra le quattro mura della vecchia casa annessa alla parrocchia. Il vescovo, quel brav’uomo, gliel’aveva detto chiaro e tondo. A settantacinque anni aveva il dovere di togliersi dai piedi, proprio come avrebbe fatto lui stesso fra qualche anno. Vi erano precise ragioni canoniche...costumi ormai consolidati. Insomma, doveva andarsene. Il suo successore, il giovane Rev. John Smerling - forse tuttora reverendo per il semplice fatto che non era sceso 204 ancora in campo -, aveva portato lui stesso la lettera di presentazione di Sua Eccellenza, insieme a quella letterina personale con cui S.E. gli aveva spiegato per l’ennesima volta come e quando dovesse togliersi dai piedi, perbacco. Con tanta carità cristiana, con tanto affetto fraterno, ma anche con assoluta precisione. Erano alcuni anni che andava avanti quella manfrina. A quel punto - pur non confessandolo né a se stesso né agli altri - il molto reverendo aveva intenzione di rinunciare alla sua carica e al suo incarico non foss’altro perché la cosa diventava noiosa. E a lui le cose noiose non piacevano affatto. Il vescovo voleva fare a meno di lui? Pensava che questo Smerling avrebbe fatto meglio? Al diavolo tutti e due. Anzi tutti e tre, lui compreso. Ma alla colazione dei Prucett ci sarebbe andato ancora lui in qualità di parroco. Magari accompagnato da quello Smerling. Un affare basso, grassoccio, che doveva avere sangue di colonia nelle vene, scuro com’era di capelli e di carnagione. Ma lui non aveva fatto domande. Siamo tutti figli di Dio, bianchi e neri - come si dice -, magri e grassi, alti e bassi. Imbecilli e non. E con quello gli era sembrata chiusa la discussione. Ed era tempo che lo fosse. D’altro canto il buon Dio aveva certamente le sue ragioni per far sì che la sua Chiesa si desse quelle leggi, e che i suoi vescovi le imponessero con determinazione. Il porto scese un’altra ombra, poi il prelato tappò bene la bottiglia verdescuro e la ripose nel sottile canterano di origine scozzese che - se ricordava bene - gli veniva dal fratello della nonna. Un ribaldo, un delinquente, che però aveva posseduto bei canterani, evidentemente. 205 Poi Homer Chass-Potter, quasi ex-parroco, chiamò la perpetua. Cosa posso fare per lei, Padre? Mi chiami il rev. Smerling. Devo parlargli. Non avrebbe mai potuto dire “voglio parlargli”. Se c’era qualcosa di cui avrebbe fatto a meno era proprio una conversazione con il suo scuro successore. Per quanto breve e contenuta entro i limiti della più stretta necessità. Certamente il buon Dio doveva avere un piano. Il reverendo parroco continuava a ripeterselo. La vita ha bisogno di interpretazione. Noi stessi ne abbiamo bisogno. Un piano che, probabilmente, lui non avrebbe visto nel suo dipanarsi a causa dell’età. Per la verità, di fatto un po’ avanzata. Il vescovo non aveva tutti i torti. La provvidenza divina lavora a nostra insaputa. Magari contro la nostra volontà, ma a nostro vantaggio. E’ questo che, dopotutto, ce la fa risultare simpatica. E qualche volta ci fa addirittura partecipare coscientemente alle sue opere. Dio è la miscela di cui noi siamo i detonatori. Durante la seconda guerra mondiale era stato nei guastatori, e di quelle cose ne serbava ancora il ricordo, pallido ma efficace sul piano pastorale. Lui, dai Prucett, ci voleva andare per un motivo particolare. Addirittura per la sua attività di pastore d’anime, delle anime della sua quasi ex- parrocchia. Prucett, in fondo era una brava persona, magari un po’ stupido e parecchio ignorante, ma essenzialmente un uomo che aveva sgobbato tutta la vita e aveva partecipato quasi 206 sempre alle messe di precetto della comunità. Oltre ad essersi impegnato con generosità nella ricostruzione del campanile. Piccolo ma in fondo necessario, prima e dopo il crollo. E prima di andar via, prima di scomparire dall’uscio dell’ovile, lui intendeva dirgli cosa ne pensasse di lui la Chiesa - nelle modestissime vesti del suo parroco, s’intende. E che gli faceva tanti auguri per il futuro dei figli e per il suo. Id est, per quando avrebbe tirato le cuoia lui stesso. Sapeva che ne aveva una paura tremenda, ma che allo stesso tempo non aveva il coraggio di prepararsi al grande passo. Sentiva di doverglielo quasi, a quell’uomo nonostante tutto ancora affascinato, se non arpionato dalle sirene della vita. E poi, per quanto non blasonato, Prucett aveva messo insieme una discreta fortuna, e chissà cosa poteva fare per la parrocchia e i suoi poveri, al momento della fine. Alle soglie del Grande Viaggio. Quel grande viaggio che non c’entrava niente con il tour dell’Europa continentale che ormai facevano quasi tutti i rampolli delle famiglie agiate. Perché era quello che sarebbe stato il Grande Viaggio davvero. Prucett sarebbe stato l’ultima sponda del suo bigliardo, l’ultimo incontro con una pecorella che era anche un po’ un pecorone, date le dimensioni. E il reverendo Chass-Potter si abbandonò ad una breve risata con se stesso nell’intimità della sua camera, un locale rettangolare al cuore della casetta con il tetto d’erba. La dimora dei Prucett era in cima a un dosso. Proprio così, si trattava di un dosso. Dove finiva il bosco, il terreno singhiozzava brevemente, si innalzava di qualche metro allargandosi anche all’intorno, e su quel 207 dosso la modesta costruzione si ergeva con tutto l’orgoglio di una magione settecentesca. Ma non si poteva definire quella parte del territorio se non un “dosso”, collinetta sarebbe stato già troppo. Si trattava di un singhiozzo del suolo e niente più. Il rev. Homer, da giovane, aveva svolto funzioni di cappellano presso famiglie davvero nobili, per quanto al momento in via di grave decadimento, e di queste cose lui se ne intendeva. Lo dimostra il fatto che le sue non erano state previsioni affrettate, o arrischiate. Non c’era stata una di loro che si fosse salvata. Tranne i Daniels-Evicara, che, venduto tutto, avevano tagliato la corda ed ora ogni quattro o cinque anni gli mandavano gli auguri per il Santo Natale da Boston. Di solito i Prucett parlavano del loro terreno - o del loro dosso - come di una collina con casa patrizia. Quel pallone gonfiato del padre, una volta, aveva accennato a Prucett Meadows per indicare il fazzoletto di terra che aveva acquistato. Un’assoluta buffonata, di gente che neanche si era arricchita ma che pensava di esserlo. Tuttavia, dai Prucett voleva andarci lui. Ci teneva ad imporre per l’ultima volta la sua presenza in qualità di parroco, prima di tornarsene da sua sorella nel Norfolk; o di ritirarsi, se vi avesse trovato posto, in quel convitto per preti anziani dalle parti di Nottingham. I Prucett non erano cattivi. A lui erano addirittura simpatici il più delle volte. Ed amava la piccola Camille e suo fratello “John Brown”. Era gente che si era rimboccata le maniche, e che ancora se le rimboccava. Ma niente Prucett Meadows, per favore. Gli sembrava che, col tempo, la generalizzata mania di grandezza si fosse trasformata in una malattia della vista. 208 Non era più la fantasia che ne veniva colpita, non l’immaginazione che galoppava nei pascoli futuri, ma piuttosto si trattava di un’alterazione della cornea che ingrandiva le cose. E la gente ci cadeva tristemente dentro. Niente Prucett Meadows. O, peggio ancora, Prucett Terrace. Per amore di Camille e del piccolo “John Brown”. Bartholomew Prucett era un uomo dalla voce spessa, che sembrava addirittura sforzata a chi la sentisse per la prima volta. Ma Henry Cotter, uno dei suoi uomini a Londra, non la sentì per nulla particolare il mattino in cui gli telefonò per dargli la buona notizia. Da tempo trattava affari per Prucett ed era abituato ai suoi toni soffocati. - Prucett. - Sono Cotter, Mr. Prucett. - Questo l’ho capito - sbottò Prucett, facendo segno alla segretaria di andare avanti con la lettera che stava battendo. - Volevo dirle che l’ho trovata. Il volto sanguigno di Bartholomew sembrò gonfiarsi al di sopra del collo della camicia. E si sarebbe detto che le orecchie del nuovo ricco avessero fatto un mezzo giro su se stesse per captare meglio i suoni nella cornetta. Poi Prucett passò il telefono da un orecchio all’altro. Forse avrebbe sentito meglio le buone nuove. - Vada avanti, Cotter. - E’ una macchina che ha fatto trentottomilacinquecentoventicinque chilometri. Non uno di più. E che al momento è in garage per un controllo generale. 209 - Il prezzo? - Siamo nella cifra che lei è disposto a spendere. Forse cinquecento sterline in più. Ma si tratta di una macchina fenomenale. Un modello di dieci anni fa che ne farà sicuramente altri cinquanta di anni. Le Rolls sono così. Sono fatte per durare. Ancora cinquat’anni. Che roba quelle macchine! Prucett cambiò ancora l’orecchio con cui ascoltava quel nettare. Poi, da buon uomo d’affari, ribatté: - Si dice sempre così. - Mr.Prucett, una Rolls è una Rolls. L’occasione che le viene offerta è speciale perché l’uomo che la vende non avrebbe dovuto comprarla. - Che significa? Se l’ha comprata, l’ha comprata. Non voglio assurdi problemi legali... - L’ha comprata sì, ma non era autorizzato da suo zio. E’ un diplomatico. Ed ora lo zietto vuol rientrare nel suo a qualunque costo. Il prezzo che lei pagherà è esattamente il doppio del debito sussistente da parte di suo nipote, tenuto in considerazione l’appannaggio annuo del ragazzo. Non quello dell’auto. Ma lo zio non vuole speculare. Gli mangia solo il doppio per punirlo. Per fargli rabbia perché ha fatto una sciocchezza, tutto lì. Ma ci vuole contante. E qui entra lei. Pagamento immediato per lo sheick, e la macchina sarà consegnata a Prucett Terrace per il fine settimana. E’ una magnifica vettura gialla e nera del ‘90. Lei conosce certamente quel modello. Il ragazzo aveva buon gusto. Anzi lo ha ancora. Non è morto e non lo sarà per i prossimi cinquant’anni, prevedibilmente. Cotter tendeva a prendersi confidenza. Bisognava tenerlo al suo posto. 210 - Non faccia considerazioni stupide, Cotter. Piuttosto mi mandi i documenti. Li farò verificare dal mio avvocato prima di fare la mia contro-offerta. - Senz’altro, Mr Prucett. Ma si prepari a pagare fino all’ultima sterlina. E in fretta. Non vorrei che saltassero fuori altri compratori. - Se mi fa avere i documenti, accadrà difficilmente. - Farò il possibile. Il sogno di una vita si stava avverando. Bartholomew Prucett pose, con gesto forzatamente calmo, l’apparecchio telefonico nel moderno alloggiamento di plastica profilato alla perfezione, e si appoggiò allo schienale della poltrona che gemette affaticata. Il sogno di una vita. Accadeva semplicemente quello che aspettava da quando aveva ancora i pantaloni corti. Una Rolls per Bartholomew Prucett. Niente di meno che una Rolls del ’90 gialla e nera, di solo trentottomila e passa chilometri. C’era da beccarsi un infarto, per molto meno. La segretaria di fronte a lui, per quanto a sei metri di distanza, si accorse di qualcosa nel suo sguardo, e togliendosi gli occhiali chiese con fare preoccupato: - Una tazza di tè, Mr Prucett’? Un bicchier d’acqua? Un piccolo whisky? - Grazie no. - Posso fare qualche altra cosa per lei, Mr Prucett? - Completi quella dannata lettera, amore mio. Prucett sapeva come trattare le donne. Era così che aveva avuto due figli, Camille e John, da Eleanor. E’ 211 necessario usare con loro tutta la spregiudicatezza di un cuore audacemente violento. - Se c’è qualcosa di importante sono al club. - Va bene, Mr Prucett. Il club era una cosa che serviva appunto a quello, a stare in pace. E a pensare, eventualmente, in pace. Almeno in alcune ore del giorno e in alcuni dei suoi locali. In una comoda poltrona; con intorno pregevoli dipinti e libri che non scendevano mai sotto un certo standard. In un silenzio confortevole che ad un certo punto scompariva anche come silenzio. Per Bartholomew Prucett, il club rappresentava in alcuni momenti della vita un parcheggio al di fuori del mondo per il suo macchinario umano,. Dove sei Bartholomew Prucett?, potevano domandargli. Lui avrebbe risposto: Non lo so, ma so di non esserci. Finalmente con me stesso! - Buon giorno Mr Prucett. Cosa posso..? - Whisky con acqua e un Corona. Di quelli che fuma Springler. Springler era un sottosegretario che fumava molto bene. A ciascuno il suo. - Va bene signore. - Se telefonano, mi passi le telefonate su questo apparecchio. - Sissignore. Era la primissima cosa che si era ripromesso nella vita. Una Rolls... Lavorare come un cane, mettere da parte ogni sterlina, ed alla fine avere una Rolls. Anche se usata. 212 Una buona Rolls usata non è molto diversa da una Rolls nuova. E poi, chi sa da quando hai quella macchina? Una Rolls era stata la meta della sua vita. E’ chiaro, una meta di natura assolutamente sentimentale. Nel senso che quando aveva voluto scavare nel suo cuore per vedere il fondo, e laggiù pescare uno dei sentimenti, anzi dei desideri che gli imponevano da sempre di essere coronati, lì in quel fondo brillava la Rolls. Altre cose avrebbero, e in effetti avevano dovuto precederla. Solidità economica, una bella famiglia, e soprattutto una casa dignitosa. Appunto, Prucett Meadows e Prucett Terrace. Si era parlato, e ancora si parlava di status-simbol. Lui sapeva perfettamente cosa significasse. E sapeva anche quali erano i simboli di cui il suo stato non poteva fare a meno. Ma la Rolls no, la Rolls era qualcosa che riguardava lui, Bartholomew Prucett, e non la sua condizione economica, il suo status sociale. Nella sua mente avere la Rolls significava essere arrivato. Assolutamente arrivato. Perché Bartholomew Prucett era nato con la Rolls, e il tempo era semplicemente in ritardo per la consegna di quell’accessorio essenziale per la sua esistenza. Una parte davvero integrante di se stesso. Tanto integrante che ora che ne stava venendo in possesso gli sembrava di toccare il cielo con il dito. Anche se con la freddezza che aveva imparato a imporsi. Addirittura di non poter desiderare altro. Gli sembrava di andare in paradiso. E si considerava assolutamente fortunato se non gli era venuto un coccolone. Cotter, tuttavia, doveva fargli avere immediatamente i documenti. In tribunale lui era di casa; e sapeva cosa e 213 come farlo. Con i documenti dell’auto in mano, avrebbe potuto impugnare qualunque altra vendita sulla parola che avesse voluto eventualmente tentare quel giovane debosciato mediorentale. Almeno così gli sembrava di aver capito. In caso contrario il diavolo poteva metterci la coda. Mano a mano che scorrevano i minuti l’uomo si sentiva sempre più a proprio agio nell’ampia poltrona di pelle. Poi arrivarono whisky e sigari, e in una sorta di trance egli assaggiò il primo e accese un piccolo corona. Ancora non credeva a quanto stava accadendo. Anzi giocava a non credervi. E giocava anche col pensare che quella fosse una svolta che il destino gli offriva. Una ulteriore svolta oltre la prima officina che aveva acquistato facendo un mare di debiti, e la successiva, vale a dire la moglie che aveva sposato. Eleanor era stata una donna ingenua anche da ragazza. Non che fosse peggiorata ultimamente. Ma gli aveva portato un certo capitale che gli aveva fatto molto comodo in quel momento. Gli aveva permesso di decollare. Ed ora gli capitava la Rolls. E lui, che aveva saputo riconoscere fino a quel momento le occasioni che lo avevano promosso economicamente e socialmente, ora riconosceva anche quest’ultima. Poi, come emergendo dall’ombra, Abraham si fece avanti. Il signore è desiderato al telefono. Da Londra. Prucett. Chi parla? Sono io, signore. Per un solo interminabile istante temé che si trattasse di cattive notizie. Altrimenti... perché Cotter..? 214 Di cosa si tratta, Cotter. Stenton sale in villa a portarle i documenti, signore. Bartholomew Prucett si passò due dita nel collo della camicia, poi disse gelido: Va bene, Cotter. - E riattaccò. Per un attimo aveva temuto il peggio. Maledetto Cotter! Anzi, benedetto Cotter, dopotutto. E quando Abraham ritornò per chiedergli se aveva bisogno di altro, gli porse una banconota da cinque sterline. Di Abraham a lui non fregava nulla, ma sentiva il bisogno di festeggiare. Ancor prima di arrivare a casa e parlare con Eleanor di quanto gli stava accadendo. Sua moglie era un buon orecchio. Anche se a volte un po’ sordo. Ma le donne sono solo donne. Il cameriere, intanto, aveva fissato incredulo per alcuni secondi l’insolita generosità. Poi, abbassando il vecchio capo squadrato e bitorzoluto fra i radi capelli, si era allontanato ringraziando. E a Prucett parve che dicesse qualcosa che terminava con lord. Good Lord? O milord?! Perbacco!, si disse B P, come Eleanor chiamava suo marito nei momenti di estasi, e quando azzeccava un difficile contratto a bridge. Quindi, ancora gustando il felice momento frutto di quel fortunato cocktail fatto di Rolls giallo-nera, Corona di Springler e ottimo whisky scozzese, disse a se stesso - ma anche al cameriere, peraltro già lontano alcuni metri - “Col tempo, ragazzo mio. Col tempo verrà anche questo.” Per ora avrebbe atteso l’arrivo di Cotter con i documenti della Rolls. Ma era proprio così che si cominciava! 215 E lui che, solo pochi istanti prima, aveva temuto il peggio a riguardo della nuova quanto fortunata acquisizione! Ma il peggio sarebbe giunto con un certo ritardo quella stessa notte. Il tempio delle ombre portò anche consiglio al molto reverendo Homer. Il vecchio pastore d’anime reggeva fra le dita l’invito dei Prucett quando vi pensò. Smerling aveva diritto a un piccolo regalo. Una sorta di buon augurio per il giovanotto che entrava nelle sue scarpe, per il suo futuro, per il suo lavoro. Una cosa orribile, ma a cui non se la sentiva di sottrarsi. Proprio no. Non gli riusciva. Ma cosa regalargli? Qualcosa che facesse una buona impressione, ma che d’altro canto non gli costasse troppo. Anzi che non gli costasse affatto, se solo fosse stato possibile. Ma cosa? Quindi l’idea. Un libro! Un libro è un regalo dignitoso. Rimane nel ricordo perché rimane nella biblioteca. O almeno sullo scaffale, nel caso di Smerling. E poi nobilita sia chi lo riceve che chi lo dona. Chi lo riceve perché è considerato un intellettuale. Ormai si sa che solo gli intellettuali dedicano alla lettura una parte sia pur limitata del loro tempo. E poi nobilita chi lo dona, e questi due volte. La prima perché è lui stesso un intellettuale, dal momento che il dono ha sempre il profumo del donatore, e poi perché chi lo regala ha avuto tanta considerazione per colui a cui è stato fatto il regalo. 216 Homer guardò in aria mentre si rifaceva il segno di croce con cui iniziava le preghiere conclusive della sua giornata, e poi si guardò dentro. Poteva andare. Ora si trattava di scegliere il libro. Dalla sua collezione privata, s’intende. Un’opera di misura. Per certo non un’enciclopedia. E che fosse un classico. In pratica, un dono che a lui non portasse alcun nocumento. Né finanziario né di altro ordine. Homer Chass-Potterr non era mai stato ricco, ma dai ricchi che aveva conosciuto aveva imparato quella previdenza un po’ diabolica che così sovente incatena al conto bancario, per quanto modesto questo sia. Siamo deboli, siamo fragili. Siamo solo umani. La sua mente cercò, cercò. E alla fine, proprio quando avrebbe detto che era meglio abbandonarsi al sonno che continuare, il titolo gli venne con estrema chiarezza. Le lettere di Berlicche. Proprio così. Un libro abbastanza famoso al suo tempo. Che certamente anche Smerling conosceva, almeno per sentito dire. Scritto da un suo excompagno di studi. Un presuntuoso che si era fatta una strada enorme. Certamente più grande dei suoi meriti, Il quale sosteneva di conoscere la psicologia del diavolo. Un diavolo di nome per l’appunto Berlicche. Man mano che Homer rimuginava questi pensieri, la calma tornava nel suo cuore e nella sua mente. Non avrebbe speso una sterlina, e dopotutto si sarebbe liberato di uno stupido opuscolo che rimaneva sui suoi scaffali neanche sapeva lui perché. Un’opera assolutamente superflua. C.S. Lewis gli era stato sempre antipatico. Uno sgobbone fenomenale. Un ragazzo di cui si diceva “ha 217 ingegno”. Un uomo di cui si era detto “ha ben illustrato il nome della Nazione”. Ma a lui quel Lewis lì non era mai andato a genio. Niente male, per carità. Ma Homer non si univa con facilità al plauso per gli altri. Era estremamente attento in questo. E riteneva di essere sagace per l’esercizio di tale misura nel concedere la propria stima. Homer era una brava persona, un prete responsabile del suo ministero, un parroco che aveva amato i suoi parrocchiani e ancora li amava, ma non aveva ancora capito bene a cosa servissero gli intellettuali. Anzi, per loro nutriva una sottile ma ben radicata diffidenza. Sospettava che fossero una quinta colonna del Nemico. Un intellettuale ragiona. E presume, a volte ,di usare il suo cervello al di là del seminato. E questo non va bene. E’ pericoloso. Ed Homer, giustamente, aveva paura dei pericoli. Sia per sé che per gli altri. Era molto diverso da colui da cui aveva preso il nome. Non amava l’avventura e non era cieco. Poi la pace inondò completamente il suo cuore, il riposo si insinuò nella sua testa, e il rev. Chass-Potter iniziò a scivolare nel sonno. Domani stesso avrebbe tratto il volume dallo scaffale. Ed avrebbe preparato un bel pistolotto per Smerling. Dopo aver vergato con cura una breve severa dedica per il suo successore. E buona notte. Così dicendosi, il vecchio parroco si mosse un po’ nell’ampio letto e l’invito dei Prucett, da lui inconsciamente abbandonato al suo fianco, scivolò in terra produ- 218 cendo un breve sibilo contro la lisa seta del vecchio piumino d’oca. Destino diverso e davvero poco conciliante al sonno aleggiò quella notte in casa Prucett. Diciamolo, non fu proprio un successo. Al centro di Prucett Meadows, Prucett Terrace - la nobile anche se piccola magione di recente acquisto dei Prucett - sembrava dormire acquietata dal trambusto del giorno. Ma al centro di quel centro qualcuno vegliava nella notte. Minuto dopo minuto, ora dopo ora scandita soffusamente ma anche diffusamente dalla pendola del quasi nobile ingresso. Quel qualcuno era il proprietario della dignitosa dimora, l’uomo che, entrato in affari, era entrato in società; e che, tra poco, sarebbe entrato anche nell’esclusivo mondo dorato di quelli che possedevano una Rolls Royce, vale a dire Bartholomew Prucett. B P si girava e rigirava fra le lenzuola, mentre sua moglie Eleanor, corredata di tappi ultramoderni e mascherina hollywoodiana contro la luce, seguitava a dormire al suo fianco ignara di tutto quanto covava la sorte al di sopra di loro. Tutto era cominciato alle due. Prucett si era ritirato nello studio dopo l’ultimo notiziario televisivo che gli dava i valori della borsa di New York e lì si era posto a sedere in una comoda poltrona. Al cameriere aveva detto semplicemente: Jack dammi dell’Armagnac e poi va’ a letto. Prucett era un uomo generoso che non infieriva mai sulla propria servitù, o quasi. I camerieri sanno come vendicarsi, e anche troppo bene. 219 Forse era stata l’anatra. O forse il dolce alle castagne della zia Liz. Poverina, lei era morta da mezzo secolo ma quel saporito mattone ancora circolava per le cucine e sale da pranzo con quel nome affisso, iscritto sul dorso scuro: dolce di zia Liz. Maledetto sformato di oscuro cemento non edilizio. Oppure, maledetta anatra. Fatto sta che, d’improvviso, mentre l’Armagnac scendeva liscio e confortante nella sua gola, per risalire tramutato in tiepido benessere al cuore e al cervello, un’idea probabilmente introdottasi nella corrente ascensionale raggiunse la sua coscienza. Inopportuna quanto improvvida. Detestabile quanto precisa. La Rolls sarebbe durata altri cinquant’anni, a detta di Cotter, di Stenton, e di quell’imbecille troppo pagato del suo più consultabile consulente legale. Tutto questo significava semplicemente... Per la prima volta nella sua vita Bartholomew ebbe davanti qualcosa che era assolutamente insuperabile. Un confine che per definizione avrebbe sempre visto da lontano senza mai sfiorare. Finché non ci sarebbe stato sopra. Di botto, magari senza neanche accorgersene subito. Qualcosa lo aveva sopravanzato, e in una certa misura lo avrebbe rimesso al posto suo? Successo economico e sociale a parte, e tutte le soddisfazioni personali, di famiglia, di lavoro, e quant’altro ancora potesse esservi nella sua vita. Presente, passata, e futura. La Rolls nel tempo gli avrebbe “dato” parecchi anni. Lo avrebbe lasciato indietro, e di molto. 220 In quell’idea vi era qualcosa di terribile che ridimensionò d’un tratto BP. Improvvisamente quanto assolutamente ed inappellabilmente. Ma lui cosa se ne faceva della Rolls, di lì a cinquant’anni?! Vediamo...Avrebbe avuto niente meno che centoquattordici anni. Ma a quell’età cosa se ne fa un uomo di una Rolls giallo e nera del’90? Appartenuta al nipote diplomatico di uno sheick che rischiava di affondare nei petrodollari, ogni qualvolta la borsa petrolifera faceva un piccolissimo sgambetto all’insù? B P ingollò subito quello che restava nel panciuto bicchiere da cognac, una sorta di ampolla che lui amava perché solitamente gli ricordava lo studio di Mago Merlino. E poi attese. Sì, attese di star meglio. Ma non accadde nulla. Davanti allo schermo della sua immaginazione quelle due uniche realtà. Un vecchio rincoglionito di centoquattordici anni, e una meravigliosa lustra macchina giallo e nera, ancora in perfetta efficienza, che lo affiancava. Anzi, che lo fronteggiava. Lo scenario era inquietante. Per la prima volta Bartholomew ebbe la sensazione di avere il tempo segnato. La precisa sensazione che la sua vita era una parte di un tutto che sarebbe terminata prima, molto prima di un’altra parte di quel tutto che le stava affianco. Una realtà in fin dei conti modesta?! Se avesse saputo di filosofia, B P si sarebbe detto che stava assaporando la finitezza. Se fosse stato religioso, 221 avrebbe detto che stava delibando l’amaro calice di essere una carne mortale. Ma B P non era né filosofo né credente. Non aveva vie di fuga. Né la mente né il cuore gli avrebbero fornito il possibile anche se limitato conforto. E la morte gli picchiò violentemente contro il naso. Lui lo aveva sempre saputo, le macchine, in fin dei conti, sono avversarie dell’uomo. Saputo da sempre, sin dai primi licenziamenti in cui aveva avuto modo di indulgere, a seguito della computerizzazione degli impianti di due delle sue aziende. Le macchine sono le nemiche dell’uomo. Altro Armagnac scese fra le pareti del vetro sottile, e B P ne inalò il profumo come da un turibolo esorcizzante. Ma tutto inutilmente. Il rito quella notte non funzionava. Era possibile fare indietreggiare quelle ombre? Neutralizzare quei demoni che già s’agitavano nella sua fantasia? La sua lucida intelligenza ne dubitò. Per quello lo chiamavano il padrone freddo. Suo padre era rincoglionito verso i sessantotto anni. E, volendo usare tutto l’ottimismo che quella nazione e quel tempo gli consentivano, avrebbe detto che lui poteva darsi dieci anni in più. Ma, ad occhio e croce non sarebbe andato oltre. Ecco, forse fino a ottanta avrebbe mantenuto il controllo. Fino a quell’età o quasi sarebbe stato ancora compos sui. Poi avrebbe cominciato a pisciarsi sulle scarpe senza accorgersene. Proprio come il genitore. E B P sapeva di essere ottimista facendo quei calcoli. 222 Ottant’anni. E’ vero che la medicina moderna, che il sangue sintetico, che le protesi d’avanguardia... Ma ottant’anni sono ottant’anni. A quella data la Rolls avrebbe avuto ancora da vivere tutta la vita che aveva già vissuto con lui. Al suo servizio, intendeva dire. Anzi una diecina di i più. Trentasei dei cinquant’anni che quegli esperti avevano previsto. La cosa non gli garbava. Quell’asciutta notizia matematica gli andava sempre più di traverso. Anzi, si trattava di tutto tranne che di un’asciutta notizia matematica. Vi erano implicazioni. Implicazioni personali. Umane... diciamolo pure. Che non lasciavano per nulla indifferenti, neanche un tipo come lui. Sentendosi un gelido sudorino su tutta la persona, Bartholomew si versò dell’altro Armagnac. Forse avrebbe aiutato. Perché in quei casi, in quelle cose, c’era poco, molto poco da essere razionali. Da restare freddi. Ma a quel punto la parola lo trafisse. Fu la goccia che fece traboccare il vaso. Freddo: gli fece pensare al marmo, e la freddezza marmorea lo rimandò subito con la mente alla...all’esito finale. Di colpo, Bartholomew fu saldamente agguantato da quell’idea come da un viluppo di serpi in calore. Quella era davvero una cosa fredda. La cosa più fredda. La realtà fredda per antonomasia. La mano di B P corse alla panciuta bottiglia di un caldo colore mogano, e si versò un altro paio di dita del liquido scuro. Basta. Doveva smetterla. Era ora di dormire. 223 Salì di sopra, si tolse la vestaglia, e si infilò nel letto mentre sentiva il cameriere cercarlo inutilmente nello studio per chiedergli se poteva fare altro per lui prima di ritirarsi. Poi fece scivolare il piumino fino al pomo di Adamo. Dapprincipio sembrò che l’Armagnac dovesse fare il suo dovere da un momento all’altro. Una, due, tre. Passarono le prime cento pecore. Poi il primo gregge. La pendola suonò due volte, poi tre volte, mentre il sudore lo ricopriva tutto e si gelava sulla pelle vizza, lo copriva ancora e ancora si gelava. Un sudore condito, anzi fecondato da quelle idee. Da quell’immagine. Della Rolls che lo guardava dal fondo del tempo a venire. A lui che ne avrebbe avuto uno ben più limitato. Alla fine B P si sentì stretto. Gli mancò l’aria. Soffocava. E tornò in biblioteca. Avere tutti quei libri intorno gli avrebbe fatto di sicuro bene. La scienza conforta, sorregge. Sostiene. Lo dicono tutti. Ma niente Armagnac. E quando fu nella poltrona tentò di coprirsi alla meglio con un plaid che era sempre nello scaffale in basso. Quindi cercò di prender sonno, ma inutilmente. Doveva essere logico a quel punto. Il passo che stava per dare era di una importanza eccezionale. Da sempre una Rolls era stata al suo orizzonte. Ed ora, per sole cinquecento sterline, si era assicurato il diritto di possederne una. Stenton aveva detto che lui doveva fare un versamento per quella cifra al fine di assicurarsi il diritto di prelazione sul beneamato veicolo. 224 Ma, una Rolls, è poi un veicolo? La frase che in altro momento lo avrebbe fatto sorridere compiaciuto, quella notte - erano da poco passate le quattro - non gli fece né caldo né freddo. Veicolo o no, essa lo avrebbe superato, per quanto longevo sarebbe stato. Fosse pure vissuto solo altri quarant’anni! Una Rolls del ’90 sarebbe stata certamente più in forma, nel 2040, di un vecchio di centoquattro anni. B P era preoccupato. Sembrava che la Rolls, nella sua immaginazione, lo guardasse dall’alto del suo tempo con un certo disprezzo. E lui non poteva fare assolutamente nulla contro quel disprezzo, poteva solo sentirne il maligno bruciore sulla pelle dell’anima. E la sorte aveva in più voluto che il pregevole dipinto da lui acquistato un paio d’anni prima a un’asta di Sotheby, e poi degnamente sistemato sopra il caminetto della biblioteca, fosse una morte di San Sebastiano. Alla fioca luce del candeliere elettrico, Bartholomew Prucett in breve tempo concepì il proprio invecchiamento appunto sotto l’egida di quel martirio. Del terribile martirio di San Sebastiano. Immaginò la propria corruzione nel tempo che ancora aveva davanti, un tempo dopo tutto breve. Anche se paragonato solo con un veicolo. E vide, ben rappresentate da piccoli dardi cattivi, tutte le malattie che lo avrebbero colpito negli anni a venire. Cioè nei prossimi anni. La prima decurtazione che gli venne in mente fu quella della sua virilità. Prima di ogni cosa se ne sarebbe andata quella. E un uomo senza virilità sopra una Rolls è come un pavone castrato che fa la ruota. Un essere inutile, un bruto 225 incapace. Uno stupido uccello che non ha una vera coscienza della realtà. E lui non voleva essere quell’uccello. Già Eleanor - e qualche altra amicizia occasionale e allo stesso tempo ben pagata - l’avevano guardato di sottecchi in più di un’occasione. Poi vi sarebbero stati i dolori diffusi. Primi fra tutti ai denti. Al momento portava una protesi che avrebbe dovuto cambiare già da un po’. Rischiava la dentiera completa, aveva minacciato Sir Raymond, l’ultima volta che si era recato al suo studio. Dolori ben rappresentati dal breve dardo che in San Sebastiano attraversava entrambe le guance. Quindi una insistente diffusa cefalea, che di tanto in tanto già lo colpiva. E certamente sarebbero aumentati i suoi problemi prostatici. La prostata è solo la prostata, amico mio, gli aveva detto Du Barry, l’ultima volta che si era recato nel suo studio di Parigi. Una pompa, anzi una pompetta che si tira via. La prostata era un ostacolo insormontabile. Bisognava gettarla ai cani prima o poi. Era quello che sosteneva il luminare Si tira via un corno, maledettissimo imbecille, lui aveva pensato. Ai cani ci devi andare tu, maledettissima sanguisuga. Ma quella notte si chiese chi era l’imbecille, se Du Barry o lui. E poi vi sarebbero state le solite fitte al plesso, i problemi di circolazione che lui già sperimentava così bene. E si sarebbe aggravato quel principio di sordità all’ orecchio sinistro di cui già soffriva, e di cui San Sebastiano aveva anche lui per certo sofferto, a giudicare 226 dalla freccia conficcata poco sopra un lobo auricolare, nel quadro sul caminetto. Il dardo era lì, preciso nell’orecchio. Né poteva dimenticare il cuore; la respirazione polmonare; il bolo intestinale. E la debolezza alle ginocchia che sentiva spesso, specialmente al mattino, quando, infilate le pantofole, muoveva i primi passi. Quelle diverse malattie, e i vari quanto dolorosi crucci, con le conseguenti disabilitazioni, lo raggiungevano come ondate successive di un malevolo oceano. Che batteva, batteva, batteva contro il suo povero corpo. E contro la mente affaticata come contro un portone da sfondare. Alla Rolls era possibile rifare i circuiti, la carburazione. Sostituire i fanali, cambiare i tubi di scappamento. Lo sapeva bene. Quella macchina regale poteva essere riverniciata, oliata, comunque rimessa su. Potevano addirittura cambiarle il motore. Certamente sostituirle i pistoni. Ma a lui cosa avrebbero potuto cambiare? L’angoscia prendeva e lasciava B P in quel maledetto dormiveglia, squassandolo come fosse stata un’enorme mano. La mano gigantesca del destino. Che lo strizzava, lo strizzava, lo strizzava, quasi volesse cavargli l’anima. Spremergliela dal naso. Alla fine, con la sua sottile capacità di valutazione, B P si disse che tutto quello che gli stava accadendo era colpa della Rolls. Tutto era causato da essa! 227 E con la sua solita decisione - quella che lo aveva reso famoso nel suo ambiente - stabilì che non l’avrebbe più acquistata. Niente Rolls, niente San Sebastiano, niente pensieri di morte. Basta. Quella Rolls gialla e nera per lui non andava bene. Nient’affatto. Bisognava farne a meno. Quella macchina non doveva sopravvivergli. E basta così! Quando B P tornò a letto sua moglie Eleanor si sveglio, si volse su di un fianco, e allorché lui le disse: Oggi dormo, non mi svegliate, pensò che suo marito fosse ubriaco come non era mai stato in vita sua. E quel mattino B P lo trascorse davvero russando. Non avrebbe potuto vincere la serpeggiante angoscia che lo fronteggiava senza darsi un po’ di autentico riposo. Di effettiva assenza da se stesso. Al suo risveglio Bartholomew Prucett aveva gli occhi cisposi; le borse di un colore che andava dal viola delle demoiselles d’Avignon a un vero e proprio “melanzana”; e il suo umore era intrattabile. Sua moglie Eleanor, per tastare il terreno, la gettò lì: - Il Reverendo Homer ha telefonato per dire che, se a noi non dispiace, verrà a colazione insieme a un giovane prete che viene da Londra. Credo che sia il suo successore. O qualcosa del genere. Per quanto sia in gamba, Homer Chass-Potter è una cariatide ormai. Non si può pretendere che le gerarchie cattoliche avversino validamente quelli della Chiesa Alta quando non hanno più il fiato per salire le scale dell’ingresso. Gli Anglicani hanno un maggior 228 senso realistico. Sono semplicemente più elastici. Forse è una loro dote che si riflette sugli aspetti fisici, oltre che su quelli religiosi. - E quelli della Chiesa Bassa sono anche più tosti ribatté Prucett che nella Chiesa Bassa aveva lontani parenti. - Si chiama Smerling, l’uomo. John Smerling. A sentire quel nome, Prucett smise di grattare i resti delle uova strapazzate sul fondo del piatto e alzò il naso. Lo faceva spesso quando qualcosa colpiva la sua immaginazione, e ancor di più quando un ricordo era sollecitato. Come se tentasse di prendere meglio con il fiuto la traccia di realtà che le orecchie, sia pur malamente, avevano convogliato al suo cervello. - Smerling... da Londra. C’è un campanello che suona nella mia testa. Che sia parente di quello Smerling che voleva sistemare un ripetitore nello Yucatan? John Smerling, hai detto. Ma allora sono parenti di Edward Camelot Smerling. E’ un nostro console itinerante. Si dovrebbe interessare del nostro commercio nelle zone centroamericane. Ecco il perché dello Yucatan. Ma, detto fra noi, quell’uomo si interessa principalmente, se non esclusivamente, dei cavoli suoi. Ecco dove vanno a finire i soldi dei contribuenti. Windsor e Yucatan! Poi, mentre infilzava con garbo brandelli giallicci di uova strapazzate, proseguì a bassa voce parlando a se stesso più che a sua moglie. - Mi fa molto piacere. Forse... Ma a quel punto arrivò la cameriera. Prucett infilzò gli ultimi resti, bevve quanto rimaneva del caffè, e dopo aver salutato brevemente sua moglie fu via. Voleva vedere un cavallo prima degli aperitivi. 229 Avrebbe impiegato così quel fine settimana. Sentiva il bisogno di svagarsi. - Dunque, Padre, lei è nuovo dei paraggi? - In realtà l’Inghilterra finiva davanti casa sua fino a pochi giorni fa. Prucett Meadows è stato per me solo un nome, quando il reverendo Homer mi ha detto dell’ invito. Un’autentica cortesia da parte sua. - Per carità, padre. Per noi è un piacere. Smerling da Londra, dunque, lei? Così capisco. - Non precisamente. La mia famiglia ha avuto un pezzetto di terra nel Sussex per alcune centinaia di anni. Ma la corruzione del costume agricolo, le mutazioni economiche, la sfida del commercio transoceanico. Lei sa come vanno queste cose. - Certamente. La terra è ormai un lusso. Guardi un po’ Windsor. E poi lei ha una vocazione tutta sua, John, non è vero? Mi permette di chiamarla John? Il mio nome di battesimo è Bartholomew. Ma lei lo sa già, ne sono sicuro. - Certamente, Bartholomew, certamente. - Una volta ho conosciuto uno Smerling di Camelot. Edward. Parente forse? - Di secondo grado. - Una persona simpatica. Ma quelli che sono nel commercio internazionale hanno sempre un bel sorriso. - Evidente, hanno di che sorridere. - E magari di che ridere. B P e il rev. John Smerling, per ora quasi-viceparroco di Prucett Terrace, risero insieme di cuore. Quella stessa sera, poco prima di ritirarsi nelle rispettive stanze dell’austera canonica, il molto rev. 230 Homer Chass-Potter, rivolgendosi al suo pupillo e futuro successore, disse: - Ho visto che ha legato con Prucett, stamani. - Un buon uomo. Una persona onesta, mi sembra. - Questo lo sa Dio solo. Noi assolviamo in nomine Domini. Non è affar nostro. Per ora, possiamo dire soltanto che è un buon commerciante. Ma bisogna stare attenti con lui. E’ un gran furbone. John Smerling era solo un giovane prete, ma di sincera vocazione, di austeri costumi, e degno di reggere il piccolo gregge che il suo vescovo gli aveva proposto, e che padre Homer in breve tempo gli avrebbe consegnato. Ora, come chiunque nelle sue scarpe, con le sue disposizioni e la sua inesperienza, inghiottì male. Cosa voleva dire il suo ospite e maestro? E lui, aveva già fatto forse qualcosa che non andava? - Mi ha solo offerto cinquanta sterline per proporre una macchina a mio cugino Edward. Immagino che lei sappia chi è. Un diplomatico incaricato dalla Corona del commercio con alcuni gruppi industriali ed agricoli del centro America. - Prucett dà via la Rover? - No. Si tratta di una Rolls giallo-nera. - Quella che intende comprare? Me ne aveva parlato. - Ora sembra che non gli interessi più. - Cosa? - Homer Chass-Potter era sinceramente meravigliato. Quel pescecane rinunciava alla Rolls?! - E lei a questo punto cosa c’entra,John? - Purtroppo Prucett ha già dato una caparra di cinquecento sterline e mi ha chiesto di aiutarlo a rientrare... - E lei cosa ha detto? 231 - Che forse mio cugino Edward poteva essere interessato. - E ha fatto male. - Ma è vero. - Lei non è un mediatore, ma un pastore. Si interessa di greggi, non di autosaloni. Anche se la sua non è una cultura agricola, certamente capirà la differenza. La frase tagliente del vecchio parroco tolse il respiro al pretino che gli stava di fronte. Poi il molto reverendo si alzò e si avviò alla porta. - Ma ormai è fatta!?? -, John Smerling tastò il terreno. - Sembra sempre così. Ma, delle cose, non se ne vede la fine prima che giungano al loro termine. Se lo ricordi, Smerling. E’ una buona regola di prudenza. Anche per un prete che conosca a memoria l’Apocalisse. Cosa fare?, si chiese a quel punto John Smerling. Aveva già telefonato a suo cugino. E cosa fatta capo ha. Dicevano così anche i latini. Gente famosa, antica, e di grande civiltà. Anche giuridicamente... La “fine vera delle cose” giunse in breve tempo. - Non le porto i saluti del Cardinale. Per quanto sofferente, John Smerling avrebbe voluto dire: lo immaginavo. Ma tacque. La sua posizione era quella di una necessariamente sottomessa attesa. A tanto lo obbligava il candido lettino d’ospedale oltre che i voti emessi da poco, tutto sommato.. - Sua Eminenza si è detto molto meravigliato. Testualmente: “Pensavo che venisse da Londra, non da un asilo per giovani imbecilli”. E poi mi ha chiesto di rimanere al mio posto per un altro semestre. Il tempo necessario affinché lei si 232 ristabilisca. Che si rimetta in piedi e conosca un po’ a fondo il circondario. Il molto reverendo Homer Chass-Potter tacque per qualche istante. Poi: - Ma la cosa più stupida l’ha fatta sedendosi avanti, accanto al guidatore. - Bartholomew...Mr Prucett mi ha detto che da quel posto si godeva una stupenda vista del paesaggio. - Quello lì lo chiamano il posto della morte. Ringrazi il Signore se non ci ha lasciato la pelle. - Ma scollinavamo soltanto...Edward... - Non mi faccia dir nulla di suo cugino, la prego. - Comunque mi è andata bene. - Certamente. Non la si può dichiarare eretico, e buttare fuori dalla chiesa a calci nel sedere. Ma lei ha fatto una cosa molto stupida. Se lo lasci dire da uno che potrebbe essere suo nonno, se non avesse considerato la verginità come un sacro quotidiano impegno. - Sissignore. - Che bisogno c’era di fare quel giro? - Erano tutti felici, eccitati. Anch’io. Avevo già avuto le mie cinquanta sterline. - A maggior ragione. A maggior ragione doveva schizzar via. Bel tipo anche quel suo cugino. - Edward, poveraccio, non aveva mai guidato una Rolls. E l’ha detto salendo in macchina. Homer Chass-Potter alzò il dito. - Vede John!? Lei è un giovane intelligente, istruito, di buona famiglia, ma è anche uno stupido. O mi sbaglio? Ha visto poco denaro nella sua vita, ma abbastanza per ubriacarsene. Ha detto lei stesso che aveva già ricevuto il 233 compenso e che suo cugino era una persona inesperta. Ma lei ha sentito il diabolico profumo del mondo del denaro.... - Non è così, signore. Non sono sciocco come lei mi fa sembrare. - Smerling cercò di difendere il suo onore e la sua integrità, ma senza troppa convinzione. - Altroché, mio caro. Vedrà. Avrà tutto il tempo per rendersene conto. Intanto, per parte mia, le anticipo il regalo che volevo farle andando via. Chass-Potter si fermò per dare all’altro il tempo di ringraziarlo, come era giusto. - Grazie, signore. - Si tratta di un libro. Che lei probabilmente conoscerà per sentito dire. Prima di proseguire Homer si arrestò ancora per un attimo. Forse la suspense avrebbe arricchito il dono. Chissà. La mente dei giovani moderni, oltre che improvvida, è anche tanto strana. Appunto tanto moderna, - Si tratta delle Lettere di Berlicche, di C.S.Lewis. Un mio grande amico, oltre ad essere un uomo che ha illustrato il genio nazionale in patria e sino ai confini del mondo civile. Abbiamo studiato per alcuni anni nello stesso college. Quell’aggettivo, “civile”, ci voleva. Lewis era troppo sgobbone per poter essere avvicinato dagli aborigeni. - E nel farle il dono le anticipo il contenuto. Si tratta della scienza del demonio. Berlicche è un vecchio diavolo che parla a un apprendista-diavolo, suo nipote Malacoda. Un libro interessante sin dalle prime pagine. Di fatto erano le uniche che Chass-Potter avesse letto, magari per potervi accennare nel caso se ne fosse data l’opportunità. 234 - In cui, appunto, il diavolo spiega al nipotino che uno dei modi principe per allontanare gli uomini da Dio è far loro credere che una cosa è la fede e un’altra la realtà di questo mondo. La realtà vera di ogni giorno. Il quotidiano, la vita di ciascuno e di chiunque. Le sue cinquanta sterline, per intenderci. In realtà, Dio ha i suoi piani sull’uomo, e la sua provvidenza per realizzarli. Piani che possono andare avanti allorché l’uomo ha fede. Pertanto bisogna che l’uomo abbia il capo chino sulla “realtà della vita” senza capire in fondo cosa sia l’autentica Realtà, perché possa essere travolto dal demonio e dal suo mondo. Perché se comincia a ragionare sul serio, sono guai, dice Berlicche al nipote Malacoda. Sono guai seri per il demonio. Le ripeto, John, Dio ha i suoi imperscrutabili piani. Efficaci oltre le nostre miserie, ed egualmente lontani da esse. Dalle sue cinquanta sterline. E poi voglio dirle un’ultima cosa, vecchio mio. Lo consideri il mio testamento spirituale di parroco. Noi non siamo al servizio di Dio, non ne saremmo stati mai capaci. E’ Dio che è al nostro servizio. Noi siamo solo servi inutili. Legga l‘evangelo, si documenti. Questa verità teologica è il fondamento e l’espressione più sintetica - ma anche assolutamente compiuta - della buona novella. E’ lui che ci chiama, battezzati e non. Non si metta in testa di fare grandi cose. Qui non ci sono grandi cose da fare e nessuno che è qui sarebbe in grado comunque di farle. Chi vuol fare grandi cose è qualcuno che non conosce il suo posto. 235 Piuttosto si metta tranquillo, il lavoro non mancherà. La messe è molta ma gli operai eccetera... Un lavoro che lei comprenderà forse di rado, cui spesso non conoscerà l’esito...Dio è segreto oltre che misterioso. Ma non faccia casotti, né da cinquanta sterline in su né da cinquanta sterline in giù... Era notte inoltrata. Prucett Terrace sonnecchiava al centro di Prucett Meadows. E le cose andavano meglio di come sarebbero potute andare, si diceva B P in cuor suo, nello studio quasi al centro della sua magione. Non sapeva cosa sarebbe accaduto, se fosse stato lui accanto al guidatore. Alla sua età. Con la fragilità conseguente alla sua osteoporosi di sessantaquattrenne. La calcificazione della tibia andava bene. Forse anche un po’ troppo bene, aveva detto Sir Henry. Perché il callo osseo era più consistente di quanto avrebbe dovuto. B P si tastò la parte in questione, e anche a lui parve che il callo osseo fosse esagerato. Ma solo un poco, per non spaventarsi troppo. Ora, c’era da chiedersi se quel callo osseo fosse in collegamento con una delle malattie che San Sebastiano di fronte a lui gli ricordava costantemente. In altre parole, il decadimento dei prossimi anni diciamo dei prossimi quarant’anni - era già iniziato? E c’entrava qualcosa l’irritazione emorroidaria di cui soffriva da qualche tempo? O era semplicemente dovuta alla cucina piccante della nuova cuoca, come diceva Eleanor? Ma quali erano le malattie da cui si sarebbe dovuto guardare con maggior cura? 236 Bisognava stilare un elenco, e soffermarsi su di un’accurata anamnesi. L’avrebbe detto a Sir Raymond, ed anche a Du Barry quando ne avrebbe avuto l’occasione. Lo sguardo di Bartholomew Prucett vagò incerto per la stanza. Ma sarebbe stato, dopotutto, prudente spostare quel nobile quadro dalla biblioteca? Alla fine i suoi occhi incontrarono la busta che aveva contenuto prima le cinquecento sterline dell’acconto per la Rolls, poi i documenti della suddetta, e infine le rimanenti quattrocentocinquanta sterline per pura fortuna ricuperate dallo Smerling di Camelot. Quella Rolls non l’avrebbe mai dimenticata. Non avrebbe potuto. Sarebbe stata sempre al suo orizzonte. Splendido ridondante cenotafio. Urna ancora vuota: ma per quanto? Maledetta automobile. Confine intoccabile? In un certo senso sì. Limite del suo essere, al di là del suo essere. Opulenta ombra giallo-nera proiettata dalla sua fine sul suo orizzonte. Mina vagante su cui molte cose sembravano essere esplose. Probabilmente sarebbe stato imprudente disfarsi del quadro di S. Sebastiano, si disse B P. Quindi l’uomo abbassò le palpebre assonnate, mentre con il restante pensiero cercava di concentrarsi sulla propria finitezza e su Dio. Era tempo che cominciasse a farlo, gli aveva detto quel maledetto Chass-Potter dopo avergli amministrato “l’unzione degli infermi”. 237 Poi tutti dormirono il riposo dei giusti, o quasi, a Prucett Terrace, nel bel mezzo di Prucett Meadows o quasi. 238