Aria Pura - Gianluca Tenti

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Aria Pura - Gianluca Tenti
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Uomini veri in campo
Per dimenticare le brutture del calcio,
ecco un racconto fatto di pallone e di
valori. Che parte da Ronaldinho e dalla
sua allegria e continua con Pelé, Piola...
ARIA PURA
IN AREA
[ DI
GIANLUCA TENTI
]
IL PICCOLO JOSÉ, UNO DEI DUE PROTAGONISTI DELLO SPOT CHE LA ADIDAS HA REALIZZATO PER L’AVVICINAMENTO AI MONDIALI, PALLEGGIA SU UN
CAMPETTO: IL VOLTO PULITO DEL CALCIO, CHE PUÒ ESSERE ANCHE QUELLO DI UN CAMPIONE COME GARRINCHA (A DESTRA, AL MARACANÀ DI RIO NEL 1967).
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Monsieur uomo elegante uomo
Siamo pronti a darti anche 20 milioni di euro, gli
hanno detto gli sponsor. La risposta? No, grazie
Sono amico di José da sempre. Da quando le squadre si facevano a pari o dispari sui campi di terra, dove c’era sempre quel sasso su cui ti rovinavi il gomito o strappavi il pantalone. José, però, è più fortunato di
me. È ancora lì. Su quel campetto soffocato dai condomini. È in uno
spot, dove sceglie i compagni di squadra. Uno lui, uno il suo amico Pedro. Inizia Pedro: dice Cissé. José risponde: Kakà. Spuntano Zidane, Riquelme, Nesta. Dal passato arrivano Beckenbauer e Platini. Robben e
Lampard vengono invertiti nei ruoli. Ashley Cole finisce in porta. Il calcio è questo. È la fantasia al potere. È il gioco. È il sogno dell’infanzia,
l’idolatria dell’adolescenza. Ha i suoi eroi, i suoi miti. Anche quelli maledetti. È l’oppio dei popoli, la felicità e la disperazione della folla, stipata sulle gradinate, incollata davanti alla televisione. E contagia anche
i non adepti della dea Eupalla. Soprattutto in periodi come questo, davanti alla prospettiva di un’orgia di muscoli che corrono dietro a un pallone sul manto verde di Germania 2006. Una scorpacciata di 64 partite che vizieranno tutti gli eventi fino al 9 luglio, quando a Berlino una
squadra alzerà finalmente al cielo la Coppa del Mondo.
Da mesi i media non fanno che parlare di questo appuntamento, con servizi che spaziano dalla rilettura di partite leggendarie fino al nome di
Artemis, il bordello legale più grande del mondo: 3mila metri quadrati, nel cuore di Berlino, preparato ad hoc per i «festeggiamenti» dei tifosi di tutto il mondo che, dopo essersi sgolati dietro ai polpacci di Beckam, Henry e Toni, si lasceranno ubriacare da ben altre cosce.
Anche questo fa parte del carrozzone del calcio, tra esperti (più
presunti che tali), addetti ai lavori, tifosi e scommettitori.
E anche noi di Monsieur stavolta
parliamo di calcio. Non di previsioni o guide alla Coppa del Mondo. Ma di valori anche in questo
variegato mondo del pallone, dove tutto sembra in vendita. Basta
vedere come scendono in campo i
giocatori. Ieri atleti, oggi sembra-
no dei porta-etichetta: sponsor ufficiale della squadra, sponsor tecnico, sponsor personale, finanche sui calzettoni. E c’è chi pensa d’imprimere un logo pure sui cartellini degli arbitri, su quel giallo e rosso
che scatenano insulti e proteste. Perché così fan tutti.
Ma noi no. A noi piace sfogliare l’album delle figurine dei valori. Dove a rinnovare la bellezza di quello che è (e rimane) pur sempre un gioco, sono gesti come quello di Joan Laporta, giovane presidente del
Football club Barcelona, che ha rifiutato un’offerta mozzafiato per
«non sporcare la maglietta» da parte di grossi sponsor. Cifre ufficiali non
ci sono: chi parla di 18, chi di 20 milioni di euro l’anno su base quinquennale. Già, il Barcelona dove pure gioca il più grande talento in circolazione del calcio moderno, Ronaldinho. Con quella faccia allegra e
spensierata e quei tocchi di palla che fanno dannare gli avversari. Lui sa
come onorare la camiseta blaugrana. Ed è un esempio per tutti: i compagni, gli avversari e i tifosi di tutto il mondo. Quando gioca sembra stia
ballando. Non accentua le cadute, non provoca, non commette falli cattivi. E anche quando sbaglia un rigore, alla fine… sorride.
Perché il bello del calcio, anche se ci fa dannare, è che si tratta di un gioco. È partendo da questo spunto che apro il nostro album dove colleziono le figurine dei campioni, quelli veri, in campo come nella vita. A
iniziare da Edson Arantes do Nascimento, O Rey, il dio del calcio: Pelé. La stella più luminosa del Brasile di tutti i tempi, il numero 10 elevato all’assoluto, l’uomo che
ha vinto tre volte (record ineguagliato) la Coppa del Mondo. Il 15 giugno 1958, quando
debuttò in Coppa Rimet (così si chiamava la Coppa del
Mondo) contro l’Urss del Ragno nero Lev Yaschin, aveva
17 anni. Incantò il mondo con
i dribbling, conquistando la
maglia da titolare al fianco di
Garrincha e Vavá. Segnò reti
pesanti e vinse il Mondiale
piangendo lacrime di felicità.
IL PRESIDENTE DEL BARCELLONA JOAN LAPORTA NON HA VOLUTO MERCIFICARE LA MAGLIA DELLA SUA SQUADRA CON IL MARCHIO DI UNO SPONSOR. NELLA
PAGINA A FIANCO, GARRINCHA: LUI, DOPO AVER VINTO IL MONDIALE DEL 1958, RIFIUTÒ UNA VILLA CON PISCINA OFFERTA DAL CAPO DI STATO BRASILIANO.
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Pelé era il numero 10 elevato all’assoluto: come
giocatore ha segnato 1.281 reti in 1.383 partite
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G. NERI
OLYCOM
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Il secondo titolo mondiale (Cile ’62) lo conquistò dalla panchina, dopo un infortunio nella prima gara. E un altro infortunio lo minò in Inghilterra nel ’66. Non per questo, però, abdicò. Restando nel ristretto
campo dei Mondiali, noi italiani non potremo mai dimenticare la «Perla nera» nella finalissima all’Azteca di Città del Messico (21 giugno
1970), quando proprio Pelé aprì le marcature del poker che condannò
gli azzurri di zio Uccio Valcareggi. Già, Mexico ’70. I calciofili ricordano
ancora l’impari duello con Tarcisio Burgnich, quell’elevazione, quello stallo aereo che durò un’infinità. E l’imperioso colpo di testa che stroncò
le ambizioni azzurre e accasò definitivamente la Coppa Rimet in Brasile. Pelé divenne leggenda. Il Sunday Times pubblicò in prima pagina
questo titolo: «How do you write Pelé? G-O-D». Un dio. Come altro
definire un calciatore che segna 1.281 gol (il «millesimato» scattò nel ’69,
col Maracanà in delirio)? Come chiamare «il» numero 10 capace di segnare gol a grappoli (tra questi 30 quadruplette, 92 triplette e finanche
otto reti in una sola gara)? Lui che pure è stato ministro del Brasile, 30
anni dopo aver appeso le scarpette al chiodo occupa ancora un ruolo primario come ambasciatore Unicef. «Ogni bambino del mondo che
gioca a calcio vuole essere come Pelé», dice, «il che significa
che ho la responsabilità di mostrargli come diventare calciatore, ma anche come diventare un uomo».
Ho iniziato questo viaggio nei valori del calcio da O’ Rey
perché resterà per sempre il più grande. Ma nel gioco del
pallone ci sono tante storie che lasciano il segno. E campioni
che restano lì, immortali, nonostante l’uscita di scena, la tristezza e l’oblio. È la storia di Francisco Manoel dos Santos,
Mané per gli amici. «La vendetta contro il cattivo destino»,
come lo definì un giorno Zezé Moreira, già allenatore del
Brasile quando le maglie d’oro non erano seleçao, ma
conjunto. Ci vedeva bene Moreira. Aveva scovato sulle
spiagge bruciate dal sole, tra occhi neri come la pece e
pelle color cioccolato, gente come Djalma Santos,
Nilton Santos, Didì. E anche quest’apostrofo che tutti chiamarono Garrincha, che vuol dire passerotto. Non
era un complimento. Era la fotografia di un difetto che
l’ala destra del Botafogo e della Nazionale riuscì a
esaltare. In realtà, quando era nato, nel ’33, il pediatra si era lasciato andare: «Questo bambino lo dovrete portare sulla schiena per tutta la vita, non può camminare». Aveva i malleoli lunghi, affilati, che si toccavano per via delle ginocchia piegate in dentro, i piedi formavano un angolo. Un medico, meno feroce, lo volle operare. Il bimbo unì i talloni e
poté camminare nel villaggio di Pau Grande, più capanne che case, a un
centinaio di chilometri da Rio.
Qui imparò anche a giocare al calcio, in partite impossibili: 30 contro
40, a piedi nudi, urlando, ballando, in un rito ancestrale. E quella gamba corta fu la sua salvezza. Perché con l’altra s’appoggiava, poi accennava
a un movimento verso sinistra. L’avversario, ovviamente, si buttava da
quella parte. Ma il bambino schizzava via dall’altra. Non era una finta.
Era l’unica possibilità. Garrincha non correva. Saltava, zampettava,
come un passerotto, appunto. Giocò ad alti livelli. Vinse il mondiale del
1958 in Svezia, lui che da piccolo non lo facevano neppure spogliare. E
quando, dopo il trionfo nella Coppa Rimet, il presidente del Brasile regalò a tutti i giocatori una bella casa a Rio, con tanto di piscina, fu l’unico a rifiutarla. Perché Garrincha era così. Dopo le partite, tutte le partite, prendeva l’autobus e se ne tornava a Pau Grande. A casa. Dove stava tra gli amici e giocava a piedi nudi, lui che poche ore prima era stato osannato al Maracanà. Pensare che il medico della Nazionale, dopo una visita, scrisse di lui: «Attitudini mentali nella misura d’un
bambino di età inferiore ai quattro anni. Si consiglia l’esclusione dalla squadra». Non era come un bambino. Era e rimase un semplice, un buono. Anche quando divenne padre di sette figlie. L’unica infelicità fu che voleva un maschio. Accadde poi un fatto. Quando Garrincha tornò in Svezia per una partita, qualcuno
lo informò che era stato denunciato da una bionda ragazza madre per il frutto di una nottata del ’58. Manè non ci pensò. Il
nome della ragazza non lo ricordava, ma disse: «Il bambino
lo prendo senz’altro: sarà felice con le mie sette figlie. E prenderò anche la madre se vuole». L’avvocato della donna
esclamò: «Cosa vuole questo negro. È matto!». Il giudice apprezzò l’onestà del brasiliano. La bionda svanì.
La sua ultima uscita pubblica fu nel 1982, su un carro del Gremio al carnevale di Rio.
HA VINTO DUE MONDIALI, UNO DA GIOCATORE UNO COME ALLENATORE. OGGI FRANZ BECKENBAUER (QUI SOPRA) È, TRA L’ALTRO, UNO DEI 42 MEMBRI DELLA
LAUREUS WORLD SPORTS ACADEMY, INSIEME A BOBBY CHARLTON E A PELÉ (A SINISTRA, LA «PERLA NERA» E GIGI RIVA IN CAMPO NELLA FINALE DEL 1970).
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PEDRO, SECONDO PROTAGONISTA DELLO SPOT ADIDAS, ESULTA. CERTO, L’ELEVAZIONE NON È COME QUELLA DI PELÉ (A SINISTRA, NELLA FINALE BRASILESVEZIA DEI MONDIALI DEL 1958, VINTA DAI VERDEORO PER 5 A 2, CONTRASTATO DA KALIE SVENSSON), MA LA SUA GIOIA È L’ESSENZA VERA DE L CALCIO.
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QUANDO LA TECNOLOGIA
DIVENTA DESIGN
Solo grazie allo sport Bobby Charlton superò il
trauma del disastro aereo di Monaco di Baviera
contro il Portogallo di Eusébio, Bobby siglò due reti (una per tempo). Nella finale, l’allenatore della Germania Ovest, consapevole del rischioCharlton, lo affidò alle cure di un giovane di belle speranze: Franz Beckenbauer. I due si annullarono a vicenda. Finì 4 a 2 per gli inglesi e la regina poté consegnare ai futuri baronetti la Coppa Rimet. Quanto a
Charlton, appese le scarpette al chiodo nel 1974 per dedicarsi agli affari
e all’antica sana passione: il calcio, stavolta insegnandolo ai ragazzi.
Che bello il calcio. Che bello non necessariamente quando si parla di
grandi squadre. Anzi, forse le pagine più entusiasmanti arrivano dalle
sorprese. Parlavo prima della vittoria inglese contro il Portogallo. E di
Eusébio da Silva, «Pantera nera», leggenda del calcio lusitano. Mi piace parlare di lui perché è stato il primo attaccante emerso dalla Grande madre Africa, dal Mozambico. E poi per i Mondiali del 1966 grazie ai quali conquistò la Scarpa d’Oro. Per lui Lisbona era impazzita qualche anno prima, costringendo le due squadre della città, Sporting e Benfica, a un’asta per assicurarselo, mentre Eusébio (per la tensione) riparava nell’Algarve:
alla fine il Benfica si assicurò le giocate del
diciottenne che in carriera arriverà al rendimento mostruoso di 317 gol in 301
partite. I suoi dribbling felini annichilirono il Real Madrid di Alfredo Di Stefano nel ’62. Poi venne
quella Coppa del Mondo: Eusébio
divenne leggenda realizzando una
doppietta al Brasile (finì 3 a 1).
Nei quarti il suo Portogallo realizzò una rimonta leggendaria:
umiliati dopo 45 minuti con un
incredibile 0-3 in favore della
Corea del Nord (quella di Pak
Doo Ik!), i lusitani ribaltarono
il risultato con ben quattro reti
della Pantera nera (finì 5-3). Il
Portogallo non vinse i Mondiali,
ma fu come se lo avesse fatto.
GIUSEPPE MEAZZA (A SINISTRA) STRINGE LA MANO AL CAPITANO DELL’UNGHERIA SOTTO LO SGUARDO DELL’ARBITRO CAPDEVILLE: È IL 19 GIUGNO 1938
E A PARIGI STA PER ANDARE IN SCENA LA FINALE DEL MONDIALE. L’ITALIA È CAMPIONE IN CARICA E SI IMPORRÀ PER 4 A 2 (DOPPIETTE DI PIOLA E COLAUSSI).
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ARCHIVIO STORICO LAPRESSE
Garrincha indossava la sua maglia numero 7. La folla lo osannava. Ma
lui era sfatto dagli alcolici. Gli dissero che aveva perso. Pianse... Giro la
pagina di quest’album. Cambio continente e torno in Europa, dove il
calcio ha una Patria: l’Inghilterra. Scelgo l’immagine di Robert «Bobby»
Charlton, vincitore di una Coppa del Mondo, nominato sir dalla regina Elisabetta. Mezzala con caratteristiche offensive, dotato di tecnica
sopraffina e gran distributore di palloni, seduceva il pubblico per la precisione millimetrica dei suoi lanci che tagliavano il campo. Giocava a centrocampo, ma segnava una partita sì e una no. Divenne famoso con la
maglia del Manchester United con la quale, nel 1957, vinse il campionato, raggiunse la finale di Coppa d’Inghilterra e la semifinale della
Coppa dei Campioni. Ma proprio quando quella squadra sembrava invincibile, gli dei la vollero a sé. Il 6 febbraio 1958 la formazione dei
«Busby Babes» rimase coinvolta nel disastro aereo di Monaco di Baviera. Otto giocatori persero la vita. Il ventenne Bobby uscì illeso nel
corpo, ma ferito nell’anima. Un colpo così avrebbe minato chiunque.
E invece Charlton seppe reagire, puntando sulla
gioia del gioco del pallone. All’Old Trafford della città operaia di Manchester, nel 1963, sollevò
la Coppa d’Inghilterra, due stagioni più tardi vinse il campionato e nel ’68, dieci anni dopo l’incidente aereo, portò al ManU
la Coppa dei Campioni, sollevando il
trofeo nel tempio di Wembley.
Nei Mondiali d’Inghilterra 1966,
Bobby fu il protagonista. Giocava in
Nazionale assieme al fratello Jackie,
difensore. L’avvio non fu strepitoso per la squadra dei Tre Leoni. Poi nella gara contro il Messico, a dieci minuti dall’intervallo, Charlton afferrò una sfera persa a centrocampo e dopo
una corsa in solitaria la infilò sotto la traversa: l’Inghilterra passò il
turno. E quando arrivò la semifinale
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Gigi Riva e Giancarlo Antognoni ebbero la forza
di amare più la maglia dei soldi dei grandi club
Uno dei protagonisti di quel Mondiale era Franz Beckenbauer, il giocatore che avrebbe ridisegnato il ruolo di libero dietro ai difensori.
Noi italiani lo ricordiamo bene per due partite: la semifinale a rischio
infarto Italia-Germania 4-3 (Mexico ’70) nella quale il «Kaiser» Franz
giocò con una vistosa fasciatura per una lussazione alla spalla sinistra,
e la vittoria della Germania Ovest ai Mondiali di Italia ’90, quando era
allenatore della Nazionale. Ma il suo più grande successo resta la conquista della Coppa del Mondo del 1974 (in Germania) con il 2-1 sull’Olanda (tra i «tulipani» giocava il divino Joan Crujiff ): Beckenbauer
fu il primo capitano a sollevare il trofeo mondiale nuovo di zecca, dopo che il Brasile aveva definitivamente ricevuto la Coppa Rimet nel
1970. Oggi è presidente del Comitato organizzatore della Coppa del
Mondo Germania 2006. Torneo al quale l’Italia partecipa forte di una
tradizione a fasi alterne (l’ultimo successo risale a Spagna ’82), guidata dal team manager Gigi Riva, il mitico «Rombo di tuono» che portò lo scudetto a Cagliari (un risultato che vale almeno una finale mondiale), uomo legato alla maglia. Un po’ come Giancarlo Antognoni, campione del Mondo nell’82 pur non disputando la finalissima
(per infortunio) contro la Germania. Un uomo che ha sempre risposto no alle lusinghe di club importanti pur di rimanere a Firenze, dove poi non ha vinto praticamente niente.
Sarebbe troppo lungo l’elenco dei campioni meritevoli almeno di
una citazione. Mi limiterò così a un ultimo riferimento. Al
Mondiale vinto dall’Italia nel 1938. In panchina c’era Vittorio Pozzo (allenava senza essere stipendiato), e gli azzurri si trovarono a giocare in un clima a dir poco sfavorevole per le note vicende politiche. Quando la squadra
entrava in campo c’era un muro di ostilità. A Marsiglia, l’Italia giocò contro la Norvegia e 10mila
francesi che protestavano contro il fascio littorio.
Ma in campo c’erano degli atleti che con la politica non avevano nulla a che vedere. Mi piace
ricordare di quella Nazionale Silvio Piola, forse l’attaccante più forte di tutti i tempi in maglia azzurra. Era stato portato a Roma dai fascisti dei Parioli che lo vollero a tutti i costi
nella Lazio, quando sembrava già destinato all’Ambrosiana Inter. Un raccomandato? Tutt’altro. Nella capitale si trovò davanti una squadra dove l’unico non oriundo era il portiere. Si fece largo a suon di gol. Il lomellino giunse a sorpresa anche in maglia azzurra, perché Pozzo non lo
voleva, ma soprattutto Peppin Meazza gli era ostile. Lo gettarono in campo nel 1935 nella trasferta di Vienna. Piola entrò al Prater e segnò una
doppietta. Quanto ai Mondiali del ’38, sogno ancora le parole di Gianni Brera. Leggendole, vedo lo stadio di Parigi dove i tifosi della Francia erano 58mila: iniziarono con i fischi, finirono con l’applaudire l’Italia. In semifinale, a Marsiglia, ci toccò il Brasile: Meazza segnò un rigore, dopo che gli erano stati strappati i calzoncini, tenendosi le mutande
con una mano. Prima della finale, di nuovo a Parigi (raggiunta in treno perché i brasileros rifiutarono di lasciare l’unico aereo, nonostante la
sconfitta), Pozzo disse ai ragazzi negli spogliatoi la storica frase: «Tutta l’Italia, con il suo Duce, vi guarda». L’Ungheria fu battuta 4-2. Un mese dopo Gino Bartali vinceva il Tour de France…
È questo il bello dello sport. Anche in situazioni difficili,
come Francia ’38. O drammatiche, come Superga ’49, c’è
sempre una storia densa di significati da raccontare. Già, Superga. Il trimotore G212 si schiantò ai piedi di quella chiesa. Morì la squadra della leggenda: il grande Torino che aveva vinto cinque scudetti consecutivi e costituiva l’ossatura pressoché
completa della Nazionale. Scomparvero Bacigalupo, Gabetto, Valentino Mazzola, Ballarin II, Grava, Menti,
Ballarin I, Grezar, Operto, Bongiorni, Loik, Ossola,
Castigliano, Maroso, Rigamonti, Fadini, Martelli
e Schubert. Quando la squadra morì mancavano quattro giornate alla fine del campionato.
La Federcalcio, su richiesta di Inter e Milan
e a nome delle altre società, decise di assegnare lo scudetto alla memoria. Ma il calcio andò oltre. La società granata schierò
la squadra delle riserve nelle ultime partite. Le squadre avversarie, per rispetto,
mandarono in campo le riserve. E il Torino vinse lo stesso tutti e quattro gli incontri.
LA PRIMA VOLTA CHE ALZÒ LA COPPA RIMET AL CIELO PELÉ AVEVA 17 ANNI. A SVEZIA ’58 ESORDÌ NEL TERZO INCONTRO DEL BRASILE (CONTRO L’URSS),
SEG N Ò U N G O L N EI QUARTI D I FIN ALE CON IL GA L L E S , UNA T RIP L E T TA IN S E MIF INA L E C ON L A F RA NC IA E UNA DOPPI ET TA AGL I SV EDESI NEL L A F I NAL E.
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