quando le tue scarpe uccidono (anche) l`amazzonia

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quando le tue scarpe uccidono (anche) l`amazzonia
QUANDO LE TUE SCARPE UCCIDONO (ANCHE) L’AMAZZONIA
Martedì 18 Agosto 2009 01:05
di Mario Braconi
In un momento di frenesia da shopping, potrei aver comprato un paio di Timberland e, già che
c'ero, la borsa di Prada che mia moglie desiderava da tempo; stanco di girare per negozi, potrei
essermi fermato a mangiare un cheeseburger al fast food. Non solo avrei sperperato una
quantità di denaro tale da costringermi a renderne conto alla mia coscienza (e maltrattato il mio
stomaco): secondo un corposo rapporto pubblicato da Greenpeace a giugno, potrei essere
diventato inconsapevolmente complice di peccati ben più gravi: il vilipendio dei diritti umani e la
distruzione della foresta amazzonica. Allevare animali per poi farli fuori è indubitabilmente un
business molto redditizio: se ne ricava, ovviamente, la carne che, una volta trattata ed
inscatolata, finisce sugli scaffali dei nostri supermercati, ma anche il pellame con cui si
confezionano le nostre calzature (eleganti e sportive); il grasso, ingrediente essenziale di
prodotti per l’igiene personale e la bellezza (dentifrici e creme per il viso); ossa, intestini e
legamenti, ovvero gelatina per scopi alimentari (serve ad esempio ad ispessire lo yogurt e a
fabbricare le caramelle morbide).
Molte imprese, grandi multinazionali private come enti pubblici di vari paesi, hanno una gran
“fame” di pellame e il Brasile è l'Eldorado dei loro fornitori. Infatti, deforestando selvaggiamente
l'Amazzonia, è possibile ricavare in modo semplice milioni di ettari di terreno da adibire
velocemente a pascolo: in effetti, basta abbattere (o incendiare) qualche migliaio di alberi,
seminare per poi installare un bel ranch (si stima che, nel Paese dell'Ordine e Progresso, dal
1976 al 2008 il numero di animali da allevamento sia passato da 21 milioni a 74 milioni). Ma la
natura si ribella alla violenza predatrice dell'uomo: nel giro di qualche anno, il terreno
deforestato viene nuovamente invaso dalla vegetazione locale, inadatta al pascolo: niente
paura, i nostri bravi allevatori non si scoraggiano, e, semplicemente, si danno alla devastazione
della foresta amazzonica circostante.
E avanti così, distruggendo allegramente il nostro domani. E poco importa a questi brillanti
imprenditori se, secondo le stime degli ambientalisti, la deforestazione finalizzata
all’allevamento è responsabile del 17% dell’effetto serra (tanto per capirsi, più di tutto il sistema
dei trasporti globale); e se in 30 anni se ne è andato in fumo un quinto della foresta
amazzonica.
Certo, il Governo fa qualche ispezione, ma nel complesso, come dice Andre Muggiati, attivista
di Greenpeace Brazil, residente a Manaus, “c’è una totale deregolamentazione e molte persone
si comportano come se le leggi a loro non si applicassero. Un po’ come nel selvaggio West”. Il
danno ambientale prodotto da questi eco-criminali è enorme, ma purtroppo non è il solo:
Greenpeace ha messo insieme una serie di dati (pubblici), che raccontano una storia esecrabile
di uomini e donne ridotti in schiavitù, mentre la lotta per la terra produce vere e proprie guerre a
bassa intensità.
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Non mancano i casi di popolazioni indigene che, esasperate dall’atteggiamento predatorio e
dalla violenza usurpatrice degli allevatori, ricorrono alla violenza. Sostiene Itanya, un capo
villaggio, citato dal Guardian: “Da quando sono arrivati gli invasori, abbiamo avuto molti
problemi. E’ più difficile reperire il cibo, e la rabbia monta. Se il governo non trova una
soluzione, ci penseremo noi. Sappiamo come preparare frecce avvelenate e siamo pronti ad
uccidere”. (proclama agghiacciante ma purtroppo non velleitario: nel 2003 sono stati trovati i
cadaveri di tre fattori, tutti a poca distanza dal villaggio)
Per raccontare questa incredibile storia, a giugno il Guardian si è unito agli attivisti di
Greenpeace per un sopralluogo sotto mentite spoglie nella zona attorno a Maraba, nel cuore
della regione amazzonica. A Maraba si trova un macello di proprietà della società brasiliana
Bertin, primo esportatore di cuoio e secondo di carne bovina del Paese. La Bertin ha sempre
sostenuto di non acquistare animali da allevatori coinvolti nella deforestazione; non solo,
dichiara di aver tagliato fuori 138 fornitori per “irregolarità”. Eppure, le carte scovate da
Greenpeace parlano chiaro: è provato che in due occasioni il colosso della carne brasiliano ha
acquistato complessivamente circa 450 bovini dal ranch dall’evocativo nome di Espiritu Santo,
una gigantesca fazenda, dotata di ogni comfort, piscina compresa.
Quei ficcanaso di Greenpeace hanno sorvolato Espiritu Santo a bordo del loro aereo e,
incrociando i loro calcoli con l'osservazione diretta e con i dati del GPS, sono arrivati alla
conclusione che solo una percentuale tra il 20 e il 30% del territorio è effettivamente ancora
occupata da foresta. Eppure la legge brasiliana stabilisce l'80% del territorio entro i confini di
ogni ranch che dovrebbe essere mantenuto a foresta. Espiritu Santo se ne infischia delle leggi
ambientali, e non solo di queste, se è vero che le persone che occupano abusivamente i ranch
vengono regolarmente attaccate dalla “sicurezza” a colpi di arma da fuoco (Greenpeace ha
raccolto testimonianze di almeno quattro ferimenti). E il brutto è che, secondo Greenpeace,
l’Amazzonia è disseminata di decine e decine di ranch come Espiritu Santo.
Inoltre, sempre secondo l’associazione ambientalista, gli allevatori più spregiudicati “riciclano”
il bestiame allevato in condizioni d’illegalità, facendolo transitare per impianti “puliti”, cosa che
rende impossibile tracciare quale sia il “prodotto” realizzato in modo sostenibile (o per lo meno
legale). Nel suo rapporto, Greenpeace prova che i tre principali produttori di carne e pellame
brasiliani si sono riforniti (anche) da allevatori invischiati nello schiavismo: Bertin e JSB hanno
comprato animali da Paiva Abreu, a suo tempo arrestato per episodi di schiavismo riscontrati
nel suo allevamento a Santa Terezinha. Nel 2008 il macello della Bertin situato a Maraba ha
acquistato bestiame dall’allevamento Colorado di proprietà di Roque Quagliato, incriminato per
aver schiavizzato 81 persone; lo stabilimento della Marfrig a Tangarà da Serra acquista
bestiame dall’allevamento di Antenor Duarte do Valle, il quale figura in una lista nera del
governo brasiliano con la terribile accusa di aver trasformato in schiavi 188 persone.
Incoraggiata dal successo della una campagna di sensibilizzazione del 2006 sulla soia
prodotta in Brasile grazie alla deforestazione, a giugno Greenpeace, con la pubblicazione di un
report esplosivo, ha messo sotto pressione i produttori di alimenti a base di carne bovina e di
pelletterie: sono moltissime, infatti le aziende note coinvolte nello sfruttamento abusivo e
criminale dell’Amazzonia: Kraft (proprietaria del marchio Simmenthal), Cremonini (tra l’altro
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controllato al 50% da JBS, altro big della produzione di carne in Brasile) e fornitore delle
Ferrovie dello Stato e di quelle francesi, Rino Mastrotto Group (RMG) e Gruppo Mastrotto (GM),
clienti di Bertin e fornitori di marchi di lusso come Hilfiger, Louis Vuitton e Prada.
Benché tra le aziende “complici” della deforestazione dell’Amazzonia il rapporto Greenpeace
citi anche Gucci, un comunicato della Casa del 5 giugno nega ogni addebito: “Siamo in grado di
confermare che il tutto il pellame utilizzato da “Gucci Group” proviene da Paesi europei” si legge
nella nota; non solo: “i nostri prodotti non contengono pelle bovina ricavata da allevamenti
brasiliani”.
Anche questa volta gli spavaldi guerrieri dell'arcobaleno hanno fatto centro: tre marchi
importanti del settore delle calzature, Clarks, Adidas e Timberland, hanno imposto ai propri
fornitori una moratoria alla deforestazione. L’iniziativa prevede che esse non acquisteranno
cuoio prodotto da fattorie che sorgono su territorio deforestato, in modo legale o meno. Se non
verrà organizzato un processo di tracciabilità della provenienza delle materie prime
sufficientemente credibile, la moratoria verrà estesa per un ulteriore periodo.
C’è da sperare che alla pressione di Greenpeace si aggiunga quella dei consumatori che
(magari) potrebbero iniziare a non comprare prodotti che non siano realizzati in modo
chiaramente legale e sostenibile. E che possibilmente cessi la schizofrenia del governo
brasiliano, che da un lato si impegna a ridurre la deforestazione amazzonica del 72% nel 2016
e, dall’altro, ha ben 2,65 miliardi di dollari investiti nel business della carne e del pellame,
mentre produce provvedimenti che “legalizzano” gli abusi già perpetrati dai rancheros. O anche
la schizofrenia della Banca Mondiale: indovinate infatti chi ha finanziato con 9 milioni di dollari la
ristrutturazione del macello di Maraba di cui sopra? La International Finance Corporation,
controllata dalla Banca Mondiale.
Né i signori della IFC potranno dire di non sapere quello che stavano facendo: come riporta Th
e Independent
, uno studio commissionato dalla stessa stessa IFC, aveva chiarito che il rafforzamento di
quell'impianto della Bertin avrebbe prodotto la perdita di 300.000 ettari di foresta. Eppure l'allora
direttore di IFC, Robert Zoellick, sbrodolava ai giornali: "Il valore è oggi conservare, non solo
sfruttare la foresta".
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