La vittima di abuso sessuale tra amore e odio per l`abusante

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La vittima di abuso sessuale tra amore e odio per l`abusante
La vittima di abuso sessuale tra amore e odio per l’abusante
di Cristina Roccia
1. Anna: “Io sto bene così”
Anna ha 15 anni quando viene portata in consulenza; ha sedotto e quasi violentato un coetaneo che vive
con lei in comunità. É una ragazza difficile, per anni è scappata dalle comunità nelle quali era ospitata, ed ha
fatto fallire tutti i tentativi di affidamento eterofamiliare che sono stati tentati per lei (a dieci anni per
esempio ha cercato di sedurre il padre affidatario che si spaventato e l’ha allontanata). Quando scappa torna
dai propri genitori, entrambi tossicodipendenti, la madre è anche malata di aids, affermando di non volere
altra famiglia se non la sua. Anna, se viene lasciata sola, nei momenti di difficoltà si tagliuzza le braccia con
una lametta ricoprendosi di sangue, di notte si sveglia urlando in preda agli incubi e teme di essere uccisa.
La ragazza sceglie di raccontarmi la sua storia attraverso il disegno. I disegni parlano della sua sofferenza
e mi aiutano ad avvicinarmi al suo dolore.
Disegno 1 - Disegna come di sente Anna: «Mi sento osservata da tanti occhi mentre cammino su un
sentiero nel bosco. Non ci si può nascondere. É buio. É nero nero».
Disegno 2 - Disegna che cosa c’é nel buio: «É tutto buio. Io sono là dentro e piango, piango così tanto
che si forma una pozzanghera. Ci sono degli occhi che mi guardano e che sono contenti di vedermi piangere.
Mentre piango un po’ alla volta loro diventano colorati».
Esco dalla stanza della consulenza perché hanno suonato al campanello. Mi trattengo cinque minuti ed
Anna al mio ritorno mi fa trovare il disegno del pagliaccio: «Non sempre i pagliacci ridono... Dentro di loro
si può nascondere anche la più grande tristezza».
Anna mi racconterà, in modo
più che credibile, che quando aveva sei anni la sua mamma è stata legata al letto più volte da alcuni uomini
“cattivi”, che la torturavano, la tagliuzzavano con le lamette e poi a turno la violentavano mentre gli altri
ridevano ed incitavano il violentatore di turno. Anna veniva obbligata da quegli uomini a guardare, non poteva
neppure girare la testa dall’altra parte. Doveva essere spettatrice di quel massacro. Un giorno, e poi molte altre
volte ancora da allora, la madre implorava pietà e chiedeva di lasciarla in pace e di prendersi la figlia al posto
suo: “Prendete la bambina, divertitevi con lei”, sono le parole che Anna ricorda ancora oggi.
Lei, bambina ancora troppo piccola per capire, non sa spiegarsi il perché tutto ciò accadesse, ma ricorda
ancora il terrore provato di fronte alla minaccia fattale da quegli uomini: “Se parli ti ammazziamo, ti tagliamo
con la lametta”. Anna ricorda anche di essere stata portata dalla madre in appartamenti dove diverse persone si
bucavano: “Io aspettavo in un angolo, aspettavo perché sapevo che prima o poi tornavamo a casa. Là almeno
potevo chiudere gli occhi per non guardare”.
Disegno 3 - Disegna che cosa è per te la paura: «Una persona che cammina su una strada e ci sono tante
persone pronte a saltarle addosso. Non c’è via di scampo».
Disegno 4.- Disegna che cosa per te il dolore: «Una mano con un coltello che vuole fare del male. Una
persona con un coltello che vuole fare del male all’occhio».
Negli occhi, nell’aver visto troppo orrore va collocato il trauma di questa bambina. Anna disegna grandi
occhi, occhi che guardano, occhi che vengono accoltellati, occhi che non ti lasciano via di scampo, occhi che
si nutrono della sue lacrime e ne traggono piacere, occhi che avrebbero voluto chiudersi e che invece sono
stati tenuti forzatamente aperti. Ma un secondo ed altrettanto grave evento traumatico è stato per Anna
l’essersi sentita venduta dalla propria madre a quegli uomini malvagi. Non sappiamo se questi uomini
abbiano accolto l’invito della madre: Anna non ha avuto il tempo necessario per dirmelo perché poco tempo
dopo la consulenza si è interrotta in quanto la ragazza è stata espulsa dalla comunità che me l’aveva inviata.
Adescava i ragazzini dentro e fuori la comunità e la situazione era diventata per gli educatori insostenibile.
Ma forse non è poi neanche così importante sapere se Anna sia stata abusata sessualmente dagli uomini che
torturavano la madre in quanto difficilmente delle violenze fisiche dirette su di lei avrebbero potuto
aggiungere orrore a tanto orrore, o rivestire un potere traumatico maggiore di quanto abbiano fatto le
situazioni descritte.
Io ho ascoltato Anna, ho letto nei suoi occhi il terrore di essere tradita da me e consegnata nelle mani dei
torturatori di sua madre (è tutt’ora convinta di essere in pericolo di vita), ho raccolto il suo dolore nascosto
dietro la maschera del pagliaccio colorata che tanto bene lei stessa ha disegnato. Tutto avviene senza una
lacrima, con la maschera sul volto, senza altra emozione se non la paura. Dentro di me le emozioni sono state
tante: incredulità, orrore, angoscia, compassione, voglia di piangere. Sono stata male, molto male. Ciò che ho
fatto fatica a tollerare maggiormente sono state per le dichiarazioni di amore di Anna verso la propria madre,
madre che lei stessa ammette essere stata da sempre disinteressata a lei, che tutt’ora non la vuole e della
quale ricorda violenze fisiche e psicologiche pressoché quotidiane. Anna vuole la sua mamma e chiede di
poter tornare a casa, non nella speranza che le cose possano cambiare in meglio, ma nella certezza che le
violenze su di lei continueranno. Oggi è lei la “cattiva”, quella che seduce ragazzini sprovveduti e uomini
adulti.
LA GIOIA
Persone che si vogliono
bene.
Una mamma ed un papà
che si tengono per mano...
basta un sorriso.
2. La sindrome di adattamento
Non è infrequente che gli operatori, qualunque professione esercitino, trovino inconciliabili le violenze
narrate dai bambini e dagli adolescenti con i sentimenti di amore e attaccamento provati da quegli stessi
bambini nei confronti dei loro “aguzzini”. Sono ormai numerosi gli esperti che hanno studiato questo
fenomeno e che ne hanno dato interpretazioni diverse. Summit nel 1983 ha chiamato questo fenomeno
“sindrome di adattamento” (simile alla sindrome di Stoccolma riscontrata non a caso anche nelle vittime dei
rapimenti che in alcuni casi si sono innamorati dei propri carcerieri), e ne ha sottolineato l’estrema frequenza
nelle vittime di abuso sessuale, pur essendo per il soggetto che ne è portatore molto disfunzionale. Il minore
non solo si trova costretto ad adattarsi ad una realtà familiare alla quale di fatto non è in grado di sottrarsi,
ma viene abilmente manipolato dall’adulto che in alcuni casi, molto più frequenti di quanto si immagini,
riesce a coinvolgerlo nella propria visione del mondo perversa.
Anche Alice Miller ( 1988) fornisce una chiave di lettura per questo fenomeno, rifacendosi
all’idealizzazione difensiva che i bambini maltrattati hanno bisogno di mantenere dei propri genitori,
preferendo percepire se stessi come cattivi e quindi meritevoli delle violenze che devono subire, piuttosto
che prendere atto di essere delle vittime innocenti ed inermi in balia di un persecutore. Anche il concetto di
“identificazione con l’aggressore”, inizialmente introdotto da Anna Freud e poi ampiamente ripreso da
Ferençzi, propone delle spiegazioni per quanto da sempre osservato nei bambini maltrattati.
Ci si può trovare di fronte a bambini, o ad interi nuclei famigliari, che hanno una visione del mondo
completamente distorta, diversa da quella delle persone comuni, ed una percezione degli eventi molto
diversa dalla nostra. Molti bambini o adolescenti vittime di abuso sessuale “amano” o valutano in modo
positivo ciò che a qualsiasi soggetto non perverso può apparire sbagliato o connotato negativamente. “Chi le
ha fatte queste leggi che dicono che i papà che fanno l’amore con le figlie devono andare in carcere?
Secondo me non fanno niente di male questi papà, non il mio per lo meno. Io lo aspetterò per sempre e prima
o poi lui verrà a prendermi”, afferma Lucia, dieci anni ed abusata dal padre dall’età di tre. Frequenti sono le
bambine che si comportano come piccole Lolite, che erotizzano ogni aspetto della propria vita, o adolescenti
che proprio come Anna mettono in atto comportamenti perversi (Welldon, 1995).
Anche Sonia, sedotta ed abusata dal proprio padre in età molto precoce, ed oggi in psicoterapia, a soli
sette anni si comporta in modo seduttivo con uomini adulti e bambini, fa fantasie erotiche sulla fidanzata di
Calimero o su Sailor Moon, gioca con le Barby mettendo in scena scene erotiche delle quali spesso è lei
stessa la protagonista. Per difendersi da pensieri ed emozioni vissute come intollerabili Sonia ha imparato a
vivere “nel paese della felicità”, come lei ben esprime quando il terapeuta le chiede di disegnare una famiglia
inventata e lei produce la famiglia di alberi “sempre felici”, dove il dolore o le emozioni spiacevoli non
esistono... “proprio come nella mia vita perché io sono sempre felice”. Per poter vivere nel paese della
felicità Sonia ha dovuto sviluppare una personalità scissa, in cui da un lato c’è la bambina felice, che va bene
a scuola, che vuol bene alla sua mamma, dall’altro una bambina oppressa dai sensi di colpa ed ancora
segretamente attaccata se non al padre (oggi decaduto dalla potestà), al contesto erotizzato ed incestuoso con
lui vissuto. Le due parti di Sonia non sembrano parlarsi fra loro, ed difficile anche per il terapeuta entrare in
contatto con la Sonia che pensa di meritare solo la morte o cibo pieno di vermi (come emerge invece dal
materiale proiettivo somministratole o dai suoi giochi). Difensivamente la famiglia diventa una famiglia di
alberi, come per prendere le distanze dal pericolo di prendere coscienza, sia pur lontanamente, di quanto sia
improbabile che nel mondo degli esseri umani possa davvero esistere questo paese in cui va tutto bene.
Possiamo parlare di personalità perversa nelle piccole vittime di abuso sessuale, o di una visione del
mondo perversa? Su questo punto sarebbe auspicabile sviluppare una ricerca ed un dibattito nelle sedi
appropriate. É certo comunque che questa caratteristica dei nuclei famigliari incestuosi e dei minori abusati
non va sottovalutata dagli operatori incaricati della valutazione o della cura di questi soggetti.
Non è infrequente che i bambini abusati siano convinti di aver essi stessi desiderato l’atto sessuale per il
quale oggi l’adulto viene condannato dalla società, così come spesso nelle relazioni incestuose il bambino non
viene obbligato a fare del sesso, ma viene iniziato ad esso con modalità seduttive (un panino in più per pranzo,
un regalo, l’assenza di percosse in cambio del sesso al quale si accompagnano coccole e complimenti etc.). “Sei
la più bella del sole, sei stata fantastica, sei meravigliosa, sei meglio della mamma” sono frasi che tante volte
abbiamo sentito raccontare delle bambine abusate e che erano pronunciate dall’adulto abusante. Le bambine
vengono di fatto in molti casi trasformate in “esperte del sesso”, in “fantastiche lolite”, e proprio questa
consapevolezza le rende oppresse dal senso di colpa, le fa sentire più complici che vittime.
Stefano Cirillo (1990) afferma che nell’esperienza del Centro Bambino Maltrattato di Milano è emerso che
nei casi di adolescenti abusati in famiglia, da loro seguiti, il motivo prevalente per il quale l’abuso aveva potuto
durare anni nel più assoluto segreto è che il minore aveva subito una forte fascinazione da parte dell’adulto
abusante. Anche la paura, la vergogna, il senso di colpa avevano avuto il loro peso nel mantenimento del
segreto, ma il vero motivo per il quale queste ragazze non avevano svelato l’incesto è che esse erano affascinate
dal loro stesso “torturatore”.
Benché questi sentimenti siano diffusi nelle piccole vittime di abuso sessuale, non è facile essere spettatori
della loro “confessione”: queste bambine (per i maschi il discorso è diverso e meriterebbe una trattazione a
parte) raramente riescono a trovare il coraggio di raccontare questo aspetto dell’abuso che di solito è un segreto
nel segreto, una parte della loro personalità della quale di vergognano o di cui non sono consapevoli. É
importante che l’adulto che ascolta la bambina sia in grado di contenere dentro di sé la consapevolezza di avere
a che fare con emozioni intensamente contraddittorie, in cui amore e odio possono essere compresenti in modo
ugualmente intenso.
Gli operatori, psicoterapeuti compresi, non sono esenti da reazioni emotive molto intense quando entrano
in contatto con l’ambivalenza delle vittime di gravi maltrattamenti. L’analisi del controtransfert diventa in
questi casi indispensabile, anche come preliminare ad ogni possibile ascolto e non solo in contesti
terapeutici; oggi sappiamo che ciò che dice il soggetto è determinato da ciò che è pensabile per il terapeuta
(Ayoun, 1997). Solo se il terapeuta sarà in grado di ascoltare, e tollerare, che Anna possa amare la propria
madre a tal punto da rifiutare una nuova famiglia, nonostante tutto ciò che quest’ultima le ha fatto, si potrà
andare oltre la maschera del pagliaccio che ride con la quale ben si rappresenta la ragazza. E solo se si potrà
accogliere la dichiarazione d’amore della bambina verso il proprio padre, ed ascoltare la sua rabbia verso le
leggi ingiuste che puniscono i padri incestuosi, si potrà andare oltre la presentazione di un falso Sé con il
quale la ragazzina ha imparato a presentarsi al mondo. Ed è questo anche l’unico modo per non condannare
la piccola vittima al silenzio, per non costringerla a negare la propria consapevolezza di un fallimento, ed
imporle i panni di vittima innocente e passiva, che impedirà l’instaurarsi di un reale rapporto terapeutico, in
quanto le si offre un’immagine degli eventi e dei sentimenti ad essi sottesi nei quali non le è possibile
riconoscersi fino in fondo (Cirillo et altri, 1990, vedi l’interessante caso clinico pag.235).
La difficoltà dell’operatore rispetto a questa problematica è da ricondurre in gran parte al fatto che spesso la
vittima di abuso non si comporta come una vera e propria vittima di un sopruso o di una violenza: Anna per esempio
è una ragazzina provocatoria, aggressiva, ipersessualizzata (lei stessa oggi abusante), continuamente in fuga per
ritornare a casa. Di frequente queste bambine sono reticenti, omertose, raccontano qualche particolare dell’abuso ma
continuano a mantenere di fatto un’alleanza con l’abusante esponendosi al rischio di veder continuare l’abuso stesso.
In altri casi questi bambini sembrano desiderare coscientemente di ritornare a farsi maltrattare, ed anche questo è un
comportamento estremamente in contraddizione con il tipico ruolo di vittima di una violenza.
Esiste un ulteriore fattore che complica notevolmente la presa incarico dei bambini maltrattanti, ed in
particolare delle vittime di abuso sessuale: la loro ambivalenza nei confronti del maltrattamento stesso e
l’enorme contraddizione fra quanto dicono a parole e quanto esprimono attraverso il linguaggio extra-verbale
o somatico. Mentre Lucia (oggi in affidamento pre-adottivo) afferma per esempio di voler tornare da suo
padre per continuare ad essere da lui abusata, è evidente come l’interruzione della sua convivenza con il
nucleo famigliare incestuoso le abbia portato dei giovamenti immediatamente visibili da chiunque: c’è un
progressivo e netto miglioramento del suo stato di salute avendo in precedenza lei sviluppato un’anoressia,
uno sblocco delle sue capacità di apprendimento che al contrario durante l’abuso erano del tutto “congelate”,
così come il suo pensiero era gravemente destrutturato non consentendole neppure di produrre delle frasi di
senso compiuto e comprensibile.
Anche Sonia (abusata in epoca molto precoce dal padre), che durante l’abuso si era innamorata
perdutamente del genitore abusante sviluppando un comportamento altamente aggressivo verso la madre,
proprio durante l’incesto manifesta un grave episodio di regressione con destrutturazione del linguaggio,
mutismo, grave depressione con totale inibizione del gioco e dei movimenti, bulimia. Il suo corpo lanciava
un grido disperato che evidentemente non poteva avere accesso alla coscienza ed alla parola.
Sul piano somatico quindi Lucia e Sonia esprimono un profondo disagio, lanciano un grido di aiuto agli
adulti intorno a loro, grido poi negato sul piano verbale. C’è una profonda scissione fra ciò che queste
bambine vivono in una parte della loro mente e ciò di cui invece sono consapevoli sul piano razionale.
Non è facile vedere dietro una bimba spaventata e sofferente, il cui comportamento (per le bambine per
es. che chiedono apertamente di essere protette dall’abuso) o le cui somatizzazioni lanciano
inequivocabilmente un grido di aiuto ed una richiesta di protezione, anche la bambina innamorata del proprio
genitore, il partner attivo dell’adulto perverso (per intenderci la bambina che riesce a farsi dire: “sei
fantastica!” dopo l’atto sessuale).
Spesso questo segreto nel segreto è mantenuto con forza dalle piccole vittime di abuso per timore che le
loro mamme non siano in grado di tollerare la sconvolgente verità, ed in qualche modo ciò spesso
corrispondente al vero. Per esempio la madre di Valentina, dieci anni, che pur ha lottato per anni per
proteggere la propria figlia dall’abuso sessuale del marito separato, è stata colta da conati di vomito frequenti
e ripetuti, che sono durati per alcuni mesi, quando la figlia le ha rivelato, sia pur in modo molto sfumato, i
giochi sessuali ai quali partecipava, non costretta con la forza, con il padre. Da un lato la bambina chiedeva
aiuto alla madre, più volte supplicandola di non farla più andare a casa del padre, dall’altro le nascondeva la
verità.
Anche i professionisti più esperti possono incontrare delle difficoltà a tollerare l’ambivalenza, o “l’amore
per la violenza” che certi bambini si portano dentro, o la loro ambivalenza verso gli abusanti, e possono
arrivare ad incentivare, anche nel contesto terapeutico, una personalità caratterizzata da un falso Sè. É il caso
di Annalisa, odiata, nel vero e proprio senso della parola, dalla propria madre che la maltrattava fisicamente
in modo molto grave e la disprezzava verbalmente, ed abusata sessualmente, oltre che fisicamente, dal
proprio padre per anni. Annalisa oggi di dieci anni e con un ritardo mentale medio grave, ormai in
affidamento pre-adottivo da un anno e mezzo, arriva un giorno in seduta con una foto della propria madre
naturale strappata e aggiustata con lo scotch. “L’ho strappata per farti piacere”, dirà al terapeuta che solo
allora si renderà conto di non aver saputo tollerare, su un piano emotivo profondo, l’amore della bambina per
una famiglia tanto distruttiva, non consentendole quindi fino in fondo di esprimere la propria sofferenza per
la separazione dalla propria famiglia di origine che pure lei stessa aveva voluto chiedendo aiuto alle proprie
insegnanti rispetto alla violenza sessuale. Annalisa potrà solo allora esprimere in modo esplicito il desiderio di
tornare a casa, sia pur consapevole che i maltrattamenti sarebbero continuati, e verbalizzare il proprio desiderio
di rivedere il padre del quale rimpiange i momenti di tenerezza durante i rapporti sessuali (rapporti che pure lei
stessa aveva sempre detto essere caratterizzati da forte dolore fisico dovuto a penetrazione anale, orale e
tentativi di penetrazione vaginale che hanno prodotto nella minore persino un blocco delle funzioni sfinteriche
che ha reso necessario in due occasioni uno svuotamento manuale dell’intestino). Annalisa ha potuto dire che il
padre è stato l’unico che le abbia mai dato affetto prima della nuova famiglia adottiva, portare al terapeuta la
convinzione di essere una bambina profondamente cattiva, sporca, “pazza” e degna quindi solo del disprezzo
del mondo. Contemporaneamente Annalisa ha potuto esprimere ai nuovi genitori adottivi il terrore di essere
rapita di notte dal padre, dando così un senso ad un comportamento presente da sempre nella nuova famiglia,
quello cioè di chiudere a chiave in modo ossessivo porte e finestre e di camminare sempre attaccata agli adulti
di riferimento.
Nel caso di Annalisa si è in presenza di una profonda scissione di personalità (difficile pensare alla stessa
persona che dice di voler tornare dal padre e che chiude a chiave le porte per non essere da lui rapita) e la
compresenza di sentimenti tanto intensi quanto contrastanti verso una stessa persona ci indica con chiarezza la
profonda confusione e l’immensa sofferenza con le quali questi soggetti devono convivere quotidianamente.
Sono ormai diversi ormai gli autori che individuano nella scissione di personalità una delle conseguenza dei
maltrattamenti subiti durante l’infanzia.
3. L’ambivalenza nel contesto giudiziario
Questa difficoltà a vedere la complessità della realtà dell’abuso è evidente anche in ambito giudiziario,
per esempio laddove i giudici ed i periti da essi incaricati di valutare l’attendibilità della testimonianza dei
minori che dichiarano di aver subito abusi sessuali stentano a credere ai bambini ed agli adolescenti che
manifestano un profondo attaccamento verso i genitori abusanti. Pensiamo ai piccoli testimoni reticenti dei
quali abbiamo parlato in precedenza, od alle adolescenti che scappano dalle comunità per tornare a vivere
insieme all’abusante, o ai testimoni che ritrattano le accuse in precedenza formulate. Spesso la confusione
della testimonianza dei minori, ben descritta da Sorensen e Snow (1991) è proprio la conseguenza del
conflitto interno fra il rivelare l’abuso ed il mantenere il segreto, vuoi per proteggere l’abusante dalla
carcerazione, vuoi per proteggere se stesse dalla colpevolizzazione.
Recentemente un Pubblico Ministero mi diceva di quanto sia stato difficile per i giudici capire come fosse
possibile che una ragazzina che raccontava di aver subito violenze sessuali e fisiche dal padre per anni
continuasse a farsi da lui “violentare” (verbo da lei stessa usato) anche quando, in affido eterofamigliare,
avrebbe potuto facilmente ricevere aiuto e protezione. C’erano riscontri oggettivi della sua deposizione, per
esempio testimoni che avevano visto padre e figlia affittare una camere l’albergo una domenica pomeriggio, ma
perché mai la ragazzina ci andava visto che avrebbe potuto opporsi chiedendo ai genitori affidatari di far
interrompere le visite al padre?
Anche la nuova legge sulla violenza sessuale sembra misconoscere l’aspetto della fascinazione e della
seduzione nei reati di abuso sessuale verso i minori, o per lo meno gli effetti devastanti che essa ha per la
psiche di un soggetto in et evolutiva, prevedendo uno sconto di pena per i reati commessi senza violenza o
minaccia. É evidente che le violenze e le minacce possono fare molto male ad un bambino, ma altrettanto, e
forse per certi versi ancora più male, possono fare le carezze e le lusinghe se servono a produrre una vittima
umile e sottomessa nelle mani di un adulto perverso. Troppo spesso ci si trova di fronte a una totale assenza
di minacce o di violenza, per lo meno nel senso giuridico del termine, e ad bambine sempre più piccole che
si sentono come Barby provocanti ammaliatrici di uomini.
Si può arrivare pertanto a sentenze di condanna dell’imputato in cui di fatto si colpevolizza, anche se solo
parzialmente, la vittima, ripetendo in qualche modo un percorso di stigmatizzazione delle bambina che in
precedenza ha avuto come oggetto le donne violentate (era troppo provocante, perché andava in giro di notte da
sola?). Nel caso di Annalisa per esempio se da un lato la condanna del padre ha segnato senza dubbio un grande
passo avanti nella storia della giurisprudenza nei casi di abuso (un uomo viene condannato in base alla
testimonianza di una bambina ritardata mentale), dall’altro deve farci riflettere su alcuni aspetti importanti legati
all’incesto.
A pag. 44 della sentenza di condanna si legge (manteniamo l’anonimato sull’imputato per garantire quello
della minore): «...non si può sottovalutare la gravità del fatto commesso su persona minore e handicappata
proprio da colui che avrebbe dovuto svolgere nei suoi confronti le funzioni educative e protettive primarie,
sicché la sanzione va commisurata secondo parametri che devono necessariamente allontanarsi dal minimo
edittale. Si deve tuttavia riconoscere che questa valutazione di allarmante gravità almeno parzialmente
mitigata proprio dalle considerazioni svolte da ultimo, e ciò dall’ipotesi, formulata dallo stesso prof. X
(perito del Tribunale, neuropsichiatra infantile) ed in linea con la personalità dell’imputato, uomo
particolarmente, forse morbosamente legato alla figlia e certo non sorretto da supporti culturali adeguati per
gestire un problema come quello di Annalisa, che egli non abbia tanto “aggredito” quanto piuttosto
“risposto”, con modalità sicuramente abnormi, alla richiesta di affetto della figlia: per questi motivi, e tenuto
conto dell’unico precedente, non grave, non specifico, risalente nel tempo, si riconoscono all’imputato le
circostanze attenuanti generiche».
Le osservazioni del prof. X alle quali si riferiscono i giudici vengono riprese a pag. 43 della motivazione
della sentenza: «Se non è possibile che Annalisa abbia inventato, ovvero abbia creato una realtà
fantasmatica, è invece possibile che, date le pulsioni sessuali di cui poteva essere portatrice all’epoca
(presumibilmente circa cinque/sei anni), dato il suo deficit cognitivo e la sua distorsione relazionale precoce
nei confronti della madre, dato il suo rapporto affettivo assolutamente privilegiato verso il padre, abbia
ricercato in lui quello che gli esperti chiamano ‘matérnagÉ, esercitando una potente richiesta di affetto
protezione, accudimento ed utilizzando, a tal fine, anche tematiche sessuali (citazione deposizione del prof.
X) e che il padre le abbia risposto con modalità molto simili alle sue, senza fare un’opera di critica e
selezione fra messaggi di richiesta di affetto e messaggi di richiesta sessuale».
La condanna in definitiva di tre anni e sei mesi. É sicuramente importante che Annalisa sia stata creduta, e di
conseguenza adeguatamente protetta, ma non si può non cogliere nella motivazione della sentenza, che si
appoggia a valutazioni cliniche di un neuropsichiatra infantile, una chiara colpevolizzazione della vittima che in
qualche modo, proprio come un tempo avevano fatto le donne violentate, ha “provocato” il padre. É importante
che anche in ambito giudiziario si prenda atto di che cosa è davvero l’abuso sessuale di un bambino, di quanto
frequente sia il coinvolgimento del minore nella “relazione” pedofila o incestuosa, e di quanto proprio questo
aspetto dell’abuso anziché essere motivo per uno sconto di pena dovrebbe essere al contrario un’aggravante in
quanto il privare il bambino del proprio ruolo di vittima gli toglie anche il diritto di piangere, di poter gridare al
mondo: “Non è colpa mia!”, e lo condanna ad un futuro carico di sofferenza.
In quanto ad Annalisa, le auguro che quando diventerà grande nessuno le dia mai la motivazione della
sentenza di condanna di suo padre. Potrà così pensare che se lei da la colpa interamente a se stessa di quanto
le accaduto almeno i giudici hanno deciso che la colpa (o responsabilità) tutta di suo padre.
Non ho volutamente proposto o fornito soluzioni per il conflitto e l’ambivalenza delle vittime di
maltrattamenti e abusi sessuali. Che cosa succede di questi bambini diventati adulti? Un’adeguata
psicoterapia potrà aiutare questi soggetti a superare il lacerante conflitto interno fra amore e odio, fra colpa e
rabbia? Potrà aiutarli a superare la scissione di personalità che li caratterizza? Non esistono in Italia ricerche
approfondite su questo tema, anche perché il superamento di traumi tanto profondi richiede un contesto
psicoterapeutico continuativo nel tempo, della durata di anni, e non sempre questi bambini hanno l’occasione
di avere accanto a se adulti disponibili ad accompagnarli in questo cammino non certo facile.
Spero che questo articolo possa essere di stimolo a chi si occupa della presa in carico delle vittime di
abuso affinché si sviluppi una ricerca in tal senso.
Bibliografia
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