1 Z. Bauman –“L`identità liquida: dallo shopping alla pattumiera”. La

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1 Z. Bauman –“L`identità liquida: dallo shopping alla pattumiera”. La
Z. Bauman –“L’identità liquida: dallo shopping alla pattumiera”.
La vita liquido-moderna: la storia di fini successive
La vita liquido-moderna: vivere-per-la-discarica
Il viaggio alla scoperta del vero se stesso
Il privilegio dell'individualità di alcuni
L’homo eligens
I cacciatori di “certificati d’identità”
Biografie e contraddizioni sistemiche
La vita liquida è, insomma, una vita precaria, vissuta in condizioni di continua
incertezza. Le preoccupazioni più acute e ostinate che l'affliggono nascono dal
timore di esser colti alla sprovvista, di non riuscire a tenere il passo di avvenimenti
che si muovono velocemente, di rimanere indietro, di non accorgersi delle «date di
scadenza», di appesantirsi con il possesso di qualcosa che non è più desiderabile, di
perdere il momento in cui occorre voltare pagina prima di superare il punto di non
ritorno. La vita liquida è una successione di nuovi inizi: ma è proprio perciò che le
fini rapide e indolori, senza cui nuovi inizi sarebbero impensabili, tendono a
rappresentare i momenti di massima contestazione e a procurare i mal di testa più
insopportabili. Tra le arti del vivere liquido-moderno e le abilità che esse
richiedono, sapersi sbarazzare delle cose diventa più importante che non acquisirle.
...
Come porre termine, come chiudere: è su questo, e non certo su come iniziare o
aprire qualcosa, che chi vive la vita liquido-moderna ha bisogno urgente
d'istruzioni, e questo è ciò che offrono, nella maggior parte dei casi, i consulenti
nelle arti del vivere. Un collaboratore dell'«Observer»1, tra il serio e il faceto,
elenca le regole aggiornate per «riuscire a chiudere» una relazione: senza dubbio la
più difficile delle situazioni da «chiudere», ma anche quella che più di ogni altra i
partner sperano, e cercano, di chiudere, e per la quale si riscontra, ovviamente, una
richiesta particolarmente pressante di assistenza tecnica. L'elenco delle regole
inizia con «Ricordati dei momenti brutti e dimentica quelli belli» e termina con
«Fa' nuovi incontri», passando dall'ordine «Cancella tutta la corrispondenza
elettronica». Ovunque l'accento cade su atti come dimenticare, cancellare, mollare,
sostituire.
… Forse un modo più adeguato di raccontare la vita liquido-moderna è snocciolare
la storia di fini successive. …
In una società liquido-moderna l'industria di smaltimento dei rifiuti assume un
ruolo dominante nell'ambito dell'economia della vita liquida. La sopravvivenza di
tale società e il benessere di coloro che ne fanno parte dipendono dalla rapidità con
cui i prodotti vengono conferiti alla discarica e dalla velocità e dall'efficienza con
cui gli scarti vengono rimossi. In una società simile nulla si può sottrarre alla legge
universale della esitabilità e a nulla può essere concesso di restare più dello stretto
necessario. …
La vita nella società liquido-moderna non può mai fermarsi. Deve modernizzarsi
(leggi: continuare a spogliarsi quotidianamente di attributi giunti alla propria data
di scadenza, e a smontare/togliere le identità di volta in volta montate/indossate) o
perire. Spinta dall'orrore della scadenza, non richiede più di essere trainata dai
sogni delle meraviglie immaginate come esito estremo dei travagli della modernizzazione. Ciò che bisogna fare è correre con tutte le forze semplicemente per
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Rivista inglese
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rimanere allo stesso posto, a debita distanza dalla pattumiera dove altri sono
destinati a finire.
La «distruzione creatrice» è il modo tipico di procedere della vita liquida, ma
quell'espressione sorvola, passandolo sotto silenzio, sul fatto che la creazione
distrugge altre forme di vita e, incidentalmente, anche esseri umani. La vita nella
società liquido-moderna è una versione sinistra, ma seria, del gioco delle sedie. La
vera posta in gioco è la salvezza (temporanea) dall'eliminazione, che
comporterebbe il ritrovarsi tra gli scarti. E poiché la concorrenza diviene globale,
anche la pista su cui si gareggia è ormai globale. …
Appiattito in un eterno presente e colmo di ansie di sopravvivenza e di
gratificazione, il mondo abitato dai «sottoproletari dello spirito» non lascia spazio
che a preoccupazioni riguardo a ciò che si può, almeno in linea di principio,
consumare e degustare subito, qui e ora.
L'eternità è ovviamente messa al bando. L'eternità, ma non l'infinito: finché dura,
infatti, il presente può essere esteso oltre ogni limite, e contenere tutto ciò di cui, un
tempo, si sperava di poter fare esperienza quando fosse giunta l'ora: «è altamente
probabile», osserva Stasiuk2, «che il numero di esseri digitali, di celluloide e
analogici incontrati nel corso di una vita normale si avvicini a quello che potevano
offrire solo la vita eterna e la resurrezione della carne». Grazie al numero infinito
di esperienze terrene che si spera di poter fare, non si sente la mancanza
dell'eternità: anzi la sua perdita può persino passare inosservata.
... Il trucco sta nel comprimere tutta l'eternità fino a contenerla nell'arco della vita
di un individuo. Il problema della mortalità dell'esistenza in un universo immortale
è stato finalmente risolto: non ci si deve più preoccupare di ciò che è eterno, non si
perde nessuna delle meraviglie dell'eternità e, anzi, nell'arco di una vita mortale
diventa possibile esaurire tutto ciò che l'eternità abbia da offrire. Forse non è
possibile liberare dal tempo la vita mortale, ma sicuramente si può (almeno tentare
di) rimuovere qualsiasi limite alla quantità di gratificazioni da provare prima di
aver raggiunto quel confine inamovibile.
In un mondo che ormai non esiste più, in cui il tempo si muoveva assai più
lentamente e resisteva all'accelerazione, le persone cercavano di superare il penoso
divario tra la pochezza di una vita breve e mortale e la ricchezza infinita
dell'universo eterno attraverso le speranze di reincarnazione o di resurrezione.
… La buona notizia è che questa sostituzione delle ansie sull'eternità con il
riciclaggio continuo delle identità viene offerta completa di strumenti fai-da-te,
brevettati e pronti per l'uso, che promettono un intervento rapido ed efficace, senza
difficoltà o complicazioni, anche a chi è privo di particolari abilità. Non occorre
più sacrificarsi e immolarsi, addestrarsi e allenarsi per un periodo intollerabilmente
e inesorabilmente lungo, attendere indefinitamente prima della gratificazione,
esercitare virtù fino al limite delle proprie capacità di resistenza: basta con tutte
quelle vecchie terapie che costavano uno sproposito. Seguire nuove diete più
efficaci, tenersi in forma con gli ultimissimi gadget, cambiare la carta da parati,
mettere il parquet là dove c'erano sempre stati dei tappeti (o viceversa), sostituire
l'utilitaria con il gippone (o il contrario), la t-shirt con la camicia, il copridivano e
l'abito a tinta unita con uno colorato, farsi aumentare o ridurre il seno, cambiare
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Andrzej Stasiuk (1960), scrittore approdato alla letteratura dopo un’intensa attività politica nel
movimento pacifista polacco dei primi anni Ottanta. È anche sceneggiatore, critico letterario e giornalista;
scrive regolarmente per le più importanti testate polacche e straniere e collabora con “L’Espresso”. Tra le
sue opere:Corvo Bianco (2002) e Il cielo sopra Varsavia (2003).
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scarpe da ginnastica, scegliere marche di liquore e abitudini quotidiane in linea con
le ultime tendenze, confessare pubblicamente i propri moti dell'animo usando un
lessico assolutamente originale... tutto ciò andrà benissimo. E poi, come ultima
spiaggia, si profilano all'orizzonte, ancora fastidiosamente lontane, le meraviglie
della manipolazione genetica. Qualsiasi cosa accada, non occorre disperare. Se anche nessuna di queste bacchette magiche si dimostrasse adeguata o se, nonostante
la loro facilità d'uso, fossero tutte troppo scomode o lente, esistono farmaci che
promettono una visita istantanea, seppur breve, all'eternità (e altri farmaci che
garantiscono, o almeno si spera, di farne ritorno).
… La vita liquida è una vita di consumi. Essa marchia il mondo e ogni suo
frammento, animato e inanimato, come oggetti di consumo: vale a dire oggetti che
perdono la propria utilità (e con essa il lustro, l'attrazione, il potere di seduzione, e
dunque il valore) man mano che vengono usati. La vita liquida modella secondo i
canoni degli oggetti di consumo il giudizio e la valutazione di tutti i frammenti,
animati e inanimati, del mondo.
Gli oggetti di consumo hanno una limitata aspettativa di vita utile, e una volta
superato tale limite diventano inadatti al consumo; e, poiché «poter essere
consumati» è la sola caratteristica che ne definisca la funzione, essi diventano inadatti a qualsiasi cosa: inutili, insomma. A questo punto andrebbero eliminati
(biodegradandoli, incenerendoli, affidandoli alle cure delle agenzie di smaltimento
dei rifiuti) dal luogo dove si svolge la vita di consumi, per far posto ad altri oggetti
di consumo ancora inutilizzati.
Per sottrarsi al disagio di restare indietro, di restare attaccati a qualcosa con cui
nessuno vorrebbe farsi vedere, di esser colti alla sprovvista, di perdere il treno del
progresso invece di saltarci sopra, occorre tenere a mente che è nella natura delle
cose esigere vigilanza, ma non fedeltà. Nel mondo liquido-moderno la fedeltà è
causa di vergogna, non di orgoglio. Basta collegarsi al proprio fornitore di
connessione internet — la prima cosa da fare al mattino — e tale sobria verità ci
verrà ricordata in cima all'elenco delle notizie del giorno: «Ti vergogni del tuo
cellulare? È così vecchio che sei a disagio quando rispondi? Cambialo con un
modello di cui tu possa andar fiero». Il rovescio della medaglia del comandamento
di «cambiare modello» di cellulare con un altro allineato al consumatore ideale è,
naturalmente, il divieto di farsi vedere con quello «cambiato» in precedenza.
I rifiuti sono il prodotto principale, e probabilmente il più abbondante, della società
dei consumi liquido-moderna; tra tutte le industrie della società dei consumi, la
produzione di rifiuti è la più massiccia e non conosce crisi. Lo smaltimento dei
rifiuti è perciò una delle due principali sfide che la vita liquida ha di fronte; l'altra
riguarda il rischio di finire tra i rifiuti. In un mondo affollato di consumatori e di
oggetti di consumo, la vita è pericolosamente in bilico tra le gioie dei consumi e gli
orrori dei cumuli di rifiuti. La vita può essere sempre un vivere-per-la-morte, ma in
una società liquido-moderna vivere-per-la-discarica può essere una prospettiva e
una preoccupazione più immediata e che assorbe più energie e sforzi.
Alla domanda che cosa significhi essere individui, chiunque — dai filosofi fino a
coloro che non si sono mai chiesti che mestiere faccia il filosofo — darebbe più o
meno una risposta del genere: essere individui significa essere diversi da chiunque
altro. …
Il guaio è che sono gli stessi “altri”(dai quali non si può fare a meno di essere
diversi) a pungolarci, spingerci, costringerci a essere diversi. È quella compagnia
che si chiama “società”, di cui non si è che uno dei tanti, di quei tanti in giro e che
sono più o meno familiari, ad attendersi (da me, da te, da chiunque altro si conosca
o di cui si conosca l'esistenza) la prova risolutiva di come si sia un “individuo”
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fatto, o fattosi, ‘diverso dagli altri’. Quando si tratta dell'obbligo di dissentire e
distinguersi, nessuno può osare dissentire o distinguersi.
In una società di individui ciascuno deve essere un individuo: almeno in questo
senso, chi fa parte di una simile società è tutto fuorché un individuo diverso dagli
altri, o addirittura unico. Al contrario, ciascuno è incredibilmente uguale agli altri,
in quanto deve seguire la stessa strategia di vita e deve utilizzare segni condivisi —
ossia comunemente riconoscibili e intelligibili — per convincere gli altri che lo
stanno facendo. In materia di individualità non esistono scelte individuali. In
questo caso il dilemma «essere o non essere» non si pone affatto.
Paradossalmente, 1’’individualità’è legata allo «spirito della folla»: è quest'ultima
ad imporla. Essere un individuo significa essere uguale, anzi identico, a chiunque
altro faccia parte della folla. In tale situazione, in cui l'individualità è un «obbligo
universale» e la difficoltà in cui ognuno si dibatte, l'unico atto che farebbe
veramente di me un individuo, un soggetto diverso dagli altri, sarebbe cercare — in
modo sconcertante, sorprendente — di non essere un individuo: ammesso di
potercela fare, e comunque rassegnandomi alle conseguenze (molto spiacevoli) di
tale scelta...
Poiché «essere un individuo» viene normalmente tradotto come «essere diverso
dagli altri», e poiché è a me, al mio io, che si rivolgono l'invito e l'aspettativa a
emergere e a distinguersi dagli altri, il compito appare intrinsecamente autoreferenziale. Non sembra esserci altra possibilità se non quella di farsi consigliare
sul modo migliore per addentrarsi sempre più profondamente all’interno di se
stessi, in quella che è certamente la nicchia più privata e protetta di un mondo di
esperienza che per il resto somiglia a un affollato e rumoroso bazar. Cerco il «vero
me stesso», che suppongo nascosto da qualche parte nell'oscurità del mio essere
originario, non condizionato (non inquinato, né soffocato, né deformato) dalle
pressioni esterne. E libero dal suo involucro ideale dell’individualità intesa come
autenticità, come «essere vero verso me stesso», il «vero me stesso». Mi cimento in
una sorta di «introspezione fenomenologica» alla Husserl3 (per quanto spesso
casareccia e frettolosa) nella mia soggettività autentica e non contraffatta,
realmente «trascendentale», attraverso una penosa opera di «riduzione fenomenologica» con cui «metto in epoché», ossia metto fra parentesi, sospendo, recido ed
elimino qualsiasi elemento estraneo che riconosco di aver importato dall'esterno.
Ecco quindi che prestiamo speciale ascolto alle emozioni e ai sentimenti che si
agitano dentro di noi: ci appare questo un modo sensato di procedere, dal momento
che le sensazioni — a differenza della distaccata e imparziale ragione,
universalmente condivisa, o almeno condivisibile — non sono impersonali, ma
mie, e mie soltanto. Esse, dal momento che non possono essere comunicate con un
linguaggio oggettivo (o almeno non possono esserlo completamente in modo
soddisfacente per noi e per chi ci ascolta), né condivise totalmente e senza residui,
ci appaiono come l'habitat naturale di tutto ciò che è realmente privato e
individuale. I sentimenti intrinsecamente soggettivi sono l'epitome stessa della
unicità.
Diligentemente restiamo in ascolto delle voci «di dentro»: eppure difficilmente
saremo mai convinti del tutto e al di là di ogni ragionevole dubbio che le voci non
siano state fraintese, che le abbiamo ascoltate a sufficienza da poter prendere una
decisione o pronunciare una sentenza. È evidente che non possiamo fare a meno di
qualcuno che ci aiuti a interpretare ciò che udiamo, anche solo per rassicurarci sulla
fondatezza delle nostre ipotesi. Quando si vuole, un modo si trova sempre, e
quando c'è una domanda l'offerta non si fa mai attendere troppo. Nella nostra
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Edmund Husserl (1859 – 1938) è stato un filosofo austriaco naturalizzato tedesco, fondatore della
fenomenologia, corrente filosofica che ha influenzato gran parte della cultura del Novecento europeo .
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società di individui disperatamente in cerca della propria individualità non manca
chi, sulla base della propria qualifica, o magari di una semplice autocertificazione,
ci offre il suo aiuto (naturalmente al giusto prezzo) per farci da guida nelle oscure
segrete della nostra anima, dove si troverebbe imprigionato il nostro io che lotta per
uscire alla luce. …
Molto spesso il viaggio alla scoperta di sé si perde in una fiera globale in cui le
ricette per l'individualità vengono offerte a buon mercato («non ne troverete una
migliore») e cui qualsiasi kit di montaggio esposto in vetrina è in realtà un prodotto
industriale di massa all'ultimo grido. Ed è allora deludente vedere come il valore
delle caratteristiche meno comuni — quelle veramente individuali — del proprio io
possa essere riconosciuto solamente dopo che esse sono state convertite nella
valuta più comune e più largamente usata.
In breve l'individualità, in quanto atto di emancipazione personale e di
autoaffermazione, appare gravata da una aporia congenita, da una contraddizione
insanabile. Essa ha bisogno della società sia come culla che come punto d'arrivo.
Chiunque cerchi la propria individualità dimenticando, respingendo o
sottovalutando tale sobria/oscura verità si candida a una condizione di frustrazione.
L'individualità è un compito che la società degli individui assegna ai suoi membri
— un compito individuale, da svolgere individualmente, sulla base delle proprie
risorse individuali. E tuttavia questo compito è autocontraddittorio e votato alla
sconfitta: anzi, impossibile da svolgere.
La società degli individui, però, oltre a porre i suoi membri dinanzi alla sfida
dell'individualità, fornisce loro anche i mezzi per convivere con quella
impossibilità: in altri termini, per tollerare la sostanziale e inesorabile impossibilità
di svolgere il compito nonostante il continuo ripetersi e accumularsi dei tentativi
falliti.
La polarizzazione è ormai troppo avanzata perché sia ancora possibile elevare la
qualità della vita della popolazione del pianeta a quella dei paesi privilegiati
dell'Occidente. Come nota John Reader4, «se ogni abitante della Terra vivesse con
gli stessi agi del cittadino medio nordamericano, non basterebbe un solo pianeta,
ma ne servirebbero tre per provvedere alle esigenze di tutti». Non è poi così
probabile riuscire a trovare altri due pianeti, in aggiunta a quello che abbiamo già, e
dunque non è plausibile riuscire a equiparare, migliorandole per tutti, le
opportunità dei residenti sul pianeta nell'ambito della società individualizzata.
Se le cose stanno così, l'individualità è, e resterà presumibilmente per un bel po', un
privilegio. Resta un privilegio all'interno di ogni società singola e quasi-autonoma,
nella quale il gioco dell'autoaffermazione si svolge attraverso la secessione dei
consumatori a pieno titolo, quelli emancipati — che si sforzano di comporre e
ricomporre la propria individualità unica utilizzando i modelli più esclusivi dell'haute couture — dalla massa senza volto di coloro che sono bloccati e definiti
nella loro identità, che non hanno scelto né messo in questione, ma che è stata loro
assegnata o imposta, e comunque predeterminata. E resta un privilegio anche su
scala planetaria, in un pianeta che tende a dividersi tra enclave in cui al fitto tessuto
di legami, di diritti e doveri fortemente radicati e non negoziabili subentrano
velocemente reti che offrono a richiesta connessioni facili da stabilire (ma fragili e
superficiali) e di-Sconnessioni istantanee alla semplice pressione di un tasto e,
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John Reader, scrittore e fotografo, è nato nel 1937 a Londra, dove risiede attualmente, ma ha vissuto a
lungo in Africa. Ha pubblicato Gli anelli mancanti (Garzanti 1981), Kilimanjaro (Universe Books 1982),
L'origine della vita: dalla nascita della terra alla comparsa dell'uomo (De Agostini 1987.
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dall'altra parte, vasti territori in cui l'avvento dell'individuata` preannuncia, ben più
che libertà di movimento e di scelta, la scomparsa dei collaudati dispositivi di
sicurezza.
Le prospettive di estendere all'intero pianeta lo stile di vita di cui godono le enclave
privilegiate sono — per le ragioni già dette — irrealistiche. La forma consumistica
assunta dall'attuale «emancipazione verso l'individualità» sembra singolarmente
riluttante a estendersi; ci si può chiedere fino a che punto la condizione sine qua
non dell'individualità di alcuni sia di ostacolo all'individualità di molti altri, e se
l'individualità, nella sua attuale versione, possa essere qualcosa di diverso da un
privilegio.
È perciò quasi scontato che tutti coloro i quali (e sono legioni) hanno probabilità
remote (se non addirittura nulle) di saltare sul carro dell'individualizzazione vedano
in una disperata resistenza all’individualità e a tutto ciò che essa rappresenta
l'opzione più ragionevole, e addirittura l'esito naturale della propria condizione. Il
fondamentalismo, che sceglie di tenersi strettamente aggrappato all'identità
ereditata e/o attribuita, è un prodotto naturale e legittimo dell'individualizzazione
imposta a livello planetario. Nelle parole di William T. Cavanaugh, «le
convinzioni dei Jim Jones e degli Osama bin Laden del mondo sono una parte
significativa del problema della violenza nel ventunesimo secolo. E almeno
altrettanto significativo, in tal senso, è il fervore evangelico con cui il libero
scambio, la democrazia liberale e l'egemonia americana vengono offerti, o imposti,
a un mondo affamato»5.
Sull'identità le classi del sapere, che oggigiorno vengono a formare anche il nucleo
articolato e autoriflessivo dell'élite globale extraterritoriale emergente, tendono al
lirismo. Coloro che ne fanno parte sono tutti presi a comporre, scomporre e
ricomporre la propria identità e non possono che essere piacevolmente colpiti dalla
facilità e relativa economicità con cui è possibile assolvere quotidianamente a tale
compito. Gli studiosi della cultura tendono a chiamare `ibridazione' [hybridization]
quest'attività e `ibridi culturali' coloro che la praticano.
Liberate dai loro legami locali e in grado di viaggiare facilmente connettendosi alle
reti cibernetiche, le classi del sapere si chiedono perché mai gli altri non facciano
altrettanto e si indignano quando costoro sembrano riluttanti a farlo. Ma al di là di
tutto il disorientamento e l'irritazione, non è forse proprio il fatto che gli altri non
seguano, né possano seguire tale esempio a rendere più attraente 1’ibridismo e ad
accrescere la soddisfazione e l'autostima di coloro che vogliono e possono metterlo
in atto?
A prima vista l'ibridazione sembra aver a che fare con il mescolare, ma la sua
funzione latente, e forse determinante — quella che ne fa un modo di essere-nelmondo tanto apprezzabile e ambito — , consiste nel separare. L'ibridazione recide
l'ibrido da ogni e qualsiasi linea di parentela monozigotica. Nessuna stirpe può
rivendicare diritti esclusivi di proprietà sul prodotto, nessun gruppo di
consanguineità può esercitare il proprio rigoroso e tedioso controllo sul rispetto
5
William T. Cavanaugh, nel suo libro, The Myth of Religious Violence: Secular Ideology and the Roots
of Modern Conflict (2009) cerca di smontare il “mito”di un legame intrinseco tra religione e violenza, e
di dimostrare come questo mito sia stato utilizzato a sostegno degli interventi americani in Medio Oriente
(quale miglior argomento, per giustificare una guerra contro il terrorismo, dell’idea che il “fanatismo
religioso”conduca inevitabilmente alla violenza, e che si ponga in contrasto con i valori di giustizia e
razionalità propugnati dalle democrazie occidentali?). Come scrive Cavanaugh, “il rifiuto dell’Occidente
nei confronti dell’idea di poter morire o uccidere in nome della religione è servito a far passare l’idea che
sia lodevole e giusto morire o uccidere in nome dello Stato”.
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degli standard, e nessun rampollo si sente costretto a giurare fedeltà alle tradizioni
ereditarie. L'ibridazione è una dichiarazione di autonomia, anzi d'indipendenza,
nella speranza che ad essa segua la sovranità delle prassi. …
Chi resta fedele al significato ortodosso di identità sarebbe perplesso di fronte a
quest'idea. Come può un'identità essere eterogenea, effimera, volatile, incoerente,
altamente mutevole? Chi è cresciuto facendo propria la classica nozione moderna
d'identità, quella di Sartre6 e di Ricoeur7, non potrebbe vedere in quell'idea altro
che una contraddizione in termini. Per Sartre l'identità era un progetto a vita; per
Ricoeur si trattava di una combinazione tra l'ipséitè (che presuppone coerenza e
consistenza) e la mémeté (che sta per continuità): proprio le due caratteristiche che
l'idea di una identità ibrida respinge con decisione. …
In ultima analisi, 1’ibridazione costituisce il movimento verso un'identità
costantemente non definita [unfixed], né mai definibile. All'orizzonte del processo
s'intravede una identità, irraggiungibile in quanto indietreggia costantemente, che si
definisce unicamente distinguendosi da qualsiasi altra identità dotata di nome, nota
e riconosciuta, e perciò apparentemente definita. L'identità degli ibridatori resta tuttavia irrimediabilmente dipendente da tutte le altre. Essa non ha un proprio modello
determinato da seguire ed emulare. È soprattutto un impianto di rigenerazione e
riciclaggio, vive a credito e si alimenta di prestiti. È in grado di costruire/sostenere
la propria originalità solo con uno sforzo continuo e incessante per compensare i
limiti di un prestito con altri prestiti. …
Coloro che praticano e si godono la nuova condizione di indefinitezza dell'io
tendono a farvi riferimento con il termine libertà. Si può ribattere, però, che avere
un'identità che non è fissa ma contraddistinta soprattutto dall'essere valida «fino a
nuovo avviso» non è una condizione di libertà, ma una coscrizione obbligatoria e
interminabile in una guerra di liberazione che non si potrà mai vincere una volta
per tutte: una lotta quotidiana, senza requie, per liberarsi di qualcosa, classificarlo
tra le pratiche evase, dimenticarlo. Una volta che l’identità ha cessato di essere
un'eredità ingombrante (in quanto inseparabile da noi) ma confortevole (in quanto
impossibile da perdere) e non è più l'atto di un impegno valido per sempre in
qualcosa che potrebbe e dovrebbe durare da qui all'eternità, ma é diventata
piuttosto il compito a vita di individui orfani di eredità non negoziabili e privati di
approdi credibili e fidati, l'identità stessa non può che trasformarsi, come di fatto
avviene, in un tentativo inutile, esasperante nella sua ambivalenza, di lavarsi le
mani dei propri impegni precedenti e di sottrarsi al rischio di restare impantanati in
un qualche impegno di cui altri sarebbero ben lieti e desiderosi di lavarsi a loro
volta le mani. La libertà di chi è in cerca d'identità somiglia a quella di chi va in bicicletta: la punizione, se si smette di pedalare, consiste nel cadere in terra, e dunque
bisogna continuare anche solamente per rimanere dritti. Continuare ad affaticarsi è
una necessità, una condizione che non lascia scelta, poiché l'alternativa fa troppa
paura per poterla anche solo prendere in considerazione.
Alla deriva da un episodio all'altro, vivendo ogni episodio senza la consapevolezza
delle sue conseguenze, né tanto meno della meta, guidati dallo stimolo a cancellare
la storia passata più che dal desiderio di disegnare la mappa del futuro, l'identità
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Jean-Paul Sartre (1905 –1980) è stato un filosofo, scrittore, drammaturgo e critico letterario francese.
Nel 1964 fu insignito del Premio Nobel per la letteratura, che però rifiutò. Fu una delle icone della
gioventù ribelle e anticonformista del dopoguerra.
7
Paul Ricoeur (1913-2005) è stato un filosofo francese, tra le sue opere Tempo e Racconto, dove,
attraverso indagini fenomenologiche, storiografiche e letterarie, Ricoeur riconduceva l’attività di
costruzione della memoria (personale e collettiva) alla facoltà spirituale di “narrare storie”. Noi siamo in
quanto raccontiamo, solo in questa maniera riusciamo a ricondurre in unità la molteplicità delle
esperienze vissute, dandogli ordine e facendone emergere un senso.
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resta costantemente inchiodata a un presente ormai privo di qualsiasi significato
durevole come fondamento del futuro. Essa si sforza di accettare oggi cose «senza
le quali non si può stare, né ci si può far vedere», pur sapendo che domani quasi
certamente diventeranno cose «con le quali non si può stare, né ci si può far
vedere». Il passato di ogni identità è disseminato di immondezzai in cui ogni
giorno è stato lasciato, pezzo dopo pezzo, tutto ciò che fino a ieri l'altro era
indispensabile, e che già ieri si è trasformato in un ingombrante fardello. L'unico
nucleo d'identità destinato sicuramente a emergere illeso, e forse persino rafforzato,
dal cambiamento continuo è quello dell'homo eligens — 1' «uomo che sceglie», ma
non «che ha scelto»! — , di un io stabilmente instabile, completamente incompleto,
definitamente indefinito e autenticamente inautentico. Come ha scritto Richard
Sennett a proposito delle aziende liquido-moderne: «Iniziative perfettamente produttive vengono chiuse o abbandonate, e dipendenti di buon livello vengono
lasciati allo sbando piuttosto che compensati, semplicemente perché l'azienda
madre deve dimostrare al mercato di essere capace di trasformarsi»8. Se scriviamo
‘identità’al posto di ‘iniziative’, ‘averi e partner’al posto di ‘dipendenti’, e ‘io’al
posto di ‘azienda’, avremo una fedele descrizione della condizione che definisce
l'homo eligens.
L'homo eligens e il mercato dei beni di consumo vivono in perfetta simbiosi: essi
non potrebbero sopravvivere se non sostenuti e alimentati l'uno dall'esistenza
dell'altro. Il mercato non vivrebbe se i consumatori si tenessero stretto ciò che
hanno. Esso non può tollerare, pena la propria sopravvivenza, clienti fedeli e
impegnati, o semplicemente capaci di mantenere un percorso coerente e coeso,
senza lasciarsi distrarre o fare giri inutili — ben diversi, dunque, da coloro che
riservano la propria dedizione allo shopping e seguono fedelmente i percorsi
previsti nei centri commerciali. Il mercato subirebbe un colpo mortale se lo status
degli individui non si sentisse a rischio, se le loro conquiste e i loro averi fossero al
sicuro, i loro progetti definiti e la fine delle loro difficili imprese all'orizzonte.
L'arte del marketing è concentrata sull'obiettivo di impedire che le opzioni si
chiudano e i desideri siano finalmente appagati. Contrariamente alle apparenze e
alle dichiarazioni ufficiali, nonché al senso comune fedele alle une e alle altre,
l'accento non cade sull'obiettivo di suscitare nuovi desideri, ma su quello di
offuscare i vecchi (leggasi: quelli di un minuto prima) per preparare il terreno a
nuove scorribande tra le vetrine.
L'orizzonte ideale del marketing consiste nell'irrilevanza dei desideri ai fini del
comportamento dei clienti potenziali. I desideri, in fin dei conti, hanno bisogno di
essere coltivati in modo attento e, spesso, dispendioso; e una volta pienamente
sviluppati perdono del tutto, o quasi, la loro iniziale flessibilità e vanno bene solo
per utilizzi specifici, di solito molto circoscritti, che non si prestano né
all'estensione né al trasferimento. I capricci momentanei, invece, non richiedono
una prolungata incubazione e preparazione, e possono pertanto fare a meno di forti
investimenti.
Chi vive nel mondo liquido-moderno non ha bisogno di ulteriori motivazioni per
esplorare ossessivamente le vetrine alla ricerca di tesserini d'identità già pronti,
facili da usare e leggibili ovunque. Vaga per i meandri dei centri commerciali,
spinto e guidato dalla speranza semiconsapevole d'imbattersi proprio nel badge o
segno di riconoscimento che gli occorre per tenere aggiornato il proprio io, roso dal
timore di venir colto alla sprovvista nel momento in cui un marchio da portare con
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Richard Sennett, sociologo americano, nonchè consigliere di Barack Obama, fu il primo a diagnosticare
i danni della flessibilità spinta del lavoro, egli osservava, ad esempio, come a Silicon Valley, serra delle
tecnologie d’avanguardia e avamposto dell’attuale versione del magnifico mondo nuovo, la lunghezza
media di un impiego in qualsiasi lavoro è di circa otto mesi: e questa è una vita beata, la più invidiata e
più ardentemente emulata del pianeta.
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orgoglio si trasforma in un marchio di disonore. Per tenerne sempre viva la
motivazione, i manager dei centri commerciali devono limitarsi a seguire il
principio scoperto da Percival Bartlebooth, uno degli eroi del monumentale
romanzo di Georges Perec “La vita istruzioni per l'uso”, e accertarsi che l'ultima
tessera disponibile non combaci mai con le altre da cui è composto il puzzle
dell'identità, in modo che si debba ricominciare a comporlo da zero e che nessun
nuovo inizio abbia una fine. La vita di Bartlebooth si concludeva incompiuta, e
così l'ossessiva vicenda narrata da Perec: ”Seduto al suo puzzle, Bartlebooth è
morto. Sul panno del tavolo, chissà dove nel cielo crepuscolare del
quattrocentotrentanovesimo puzzle, lo spazio nero dell'unico pezzo non ancora
posato disegna la sagoma quasi perfetta di una X. Ma il pezzo che il morto tiene fra
le dita ha la forma, da molto tempo prevedibile nella stessa ironia, di una W”9… .
In sintesi, nell'attuale discorso sull'identità converge il bisogno di due valori —
libertà e sicurezza — , entrambi fortemente ambiti in quanto indispensabili a
condurre una vita dignitosa e felice. Si sa che è difficile coordinare queste due linee
di azione, in quanto ciascuna tende ad andare oltre il punto in cui l'altra rischia di
essere ostacolata, bloccata o addirittura rovesciata nel proprio opposto. Pur non
essendo concepibile una vita umana dignitosa o gratificante senza una miscela di
libertà e di sicurezza, è raro raggiungere un equilibrio del tutto soddisfacente tra i
due elementi che, a giudicare dagli innumerevoli tentativi del passato
invariabilmente falliti, sembrerebbe irraggiungibile. Una mancanza di sicurezza si
riflette nell'incertezza e nell'agorafobia inevitabilmente alimentate dall"eccesso di
libertà quando sconfina nel «tutto va bene». La mancanza di libertà, d'altra parte,
viene vissuta come sicurezza invalidante (dipendenza è il nome in codice
affibbiatogli da chi ne soffre).
Il problema è che, quando manca la sicurezza, gli attori sono liberi, ma privi della
fiducia senza cui è difficile esercitare la libertà. Se manca una seconda linea
difensiva solo gli avventurieri più temerari riusciranno a mettere insieme coraggio
sufficiente ad affrontare i rischi di un futuro ignoto e incerto; senza una rete di
sicurezza la maggior parte delle persone rifiuterà di camminare in equilibrio su una
fune e, se costretta a farlo, si sentirà profondamente infelice.
Dall'altra parte, quando è la libertà a mancare, la sicurezza somiglia alla schiavitù o
al carcere. E, quel che è peggio, il carcere, quando vi si resta rinchiusi per molto
tempo ininterrottamente, senza poter provare un modo di essere alternativo, può
addirittura spegnere il desiderio di libertà, e le capacità necessarie per esercitarla,
finendo per essere avvertito non più come luogo oppressivo, ma come l'unico
naturale ambiente di vita. … Qualsiasi incremento di libertà può essere letto come
diminuzione di sicurezza, e viceversa. …
L'attuale discorso sull'identità si muove in bilico tra tutte queste contraddizioni,
ambiguità e trappole nascoste. Praticamente ogni sua affermazione, vista da coloro
che lo utilizzano e da coloro cui si rivolge, è pane per alcuni e veleno per altri; e si
trasforma da pane in veleno, o viceversa, a seconda delle condizioni delle parti,
soggette a cambiamenti rapidi e imprevedibili.
Molto sommariamente, coloro che cercano sicurezza esponendosi ai rischi e agli
incerti della libera scelta tendono a porre l'accento sui vantaggi di un'identità poco
determinata e definita — instabile, incompleta, aperta e, soprattutto, facile da
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Lo stesso Georges Perec (1936-1982), così parlava del suo romanzo «La vita istruzioni per l'uso»: «
Immagino uno stabile parigino cui sia stata tolta la facciata... in modo che, dal pianterreno alle soffitte,
tutte le stanze che si trovano sulla parte anteriore dell'edificio siano immediatamente e simultaneamente
visibili». In effetti, ogni capitolo è simile a un frammento di un gigantesco, affascinante puzzle, la cui «
ossatura » è costituita da una casa parigina della via Simon Crubellier: ciascuno dei novantanove pezzi
del puzzle è un capitolo e porta un'indicazione sui suoi inquilini, di oggi e del passato, ricostruendone gli
oggetti, le azioni, i ricordi, le sensazioni, le fantasticherie.
9
scartare o da modificare; chi, invece, si trova a subire le guerre d'identità e
l'imposizione di stereotipi, è escluso dalle scelte più attraenti ed è troppo insicuro e
intimorito per poter seriamente pensare di discutere le regole del gioco, opta per
l'identità come diritto di nascita, come marchio indelebile e bene inalienabile.
… Semplificando un po' (ma non troppo) la realtà possiamo dire che, mentre i
beneficiari della nostra globalizzazione pericolosamente squilibrata, mal distribuita
e iniqua vedono nella propria libertà senza freni il mezzo migliore per guadagnare
sicurezza, le loro vittime intenzionali o collaterali sospettano che proprio nella
terribile e dolorosa insicurezza risieda il principale ostacolo alla propria liberazione
(e alla possibilità di utilizzare, in assoluto, la libertà eventualmente concessa).
Nel suo recente «manuale sugli spazi» Charlotte Abrahams, collaboratrice del
«Guardian»10, offre consigli ai suoi affezionati lettori: «Che cosa fate lì con quel
rotolo di carta da parati a fiori? Mettetelo subito giù». Boccioli di rosa e margherite
sono ormai passé, superati, fuori moda, brutti e inguardabili: «la ruota inarrestabile
della moda» ha fatto un altro giro. È proprio ora — si dirà chi legge — di staccare
la carta da parati vecchia (dell'anno scorso). «Il look verso cui andiamo» è del tutto
diverso: siamo alla grafica floreale. «Fidatevi», sintetizza l'esperta: «l'ho messa, ed
è favolosa».
Bisogna ammetterlo: è molto più pratico e vantaggioso stare al passo con il
cambiamento frenetico di questi anni mettendo qualcosa sul nostro corpo che
facendo qualcosa ad esso. Le cose che indossiamo (e che naturalmente toglieremo
e butteremo via molto presto) riescono effettivamente a susseguirsi/scalzarsi/sostituirsi a ritmo vertiginoso, con velocità e frequenza ben superiori rispetto
(per fare solo qualche esempio) alle protesi al seno, alla liposuzione, alla chirurgia
estetica o alla vasta gamma di tonalità delle tinture per i capelli. Per utilizzare
pienamente questo potenziale occorrono moltissime informazioni costantemente
aggiornate, e antenne sempre molto sensibili, naturalmente oltre a un conto in
banca e varie carte di credito.
Enorme è la massa di conoscenze necessarie anche solo per essere uno fra i tanti: la
vertiginosa varietà di nomi, marchi e loghi che occorre memorizzare, per poi essere
pronti a dimenticarli non appena le nuove schiere di celebrità-idoli, di guru del
design e negozi alla moda irrompono dal nulla sulla scena, marciando a passo di
fanfara per svanire subito dopo. «Vi sarete accorti che quando vanno a una prima, o
in altre occasioni del genere, le celebrità non indossano il cappotto», avverte Jess
Cartner-Morley. «Ciò non dipende dal fatto che nella zona di Leicester Square
regni un qualche microclima segreto, tipo Corrente del Golfo, ma accade soltanto
perché i cappotti non vanno più di moda». L'avvertimento è seguito da rassicuranti
consigli: «L'autunno-inverno è stato dominato dal blu e dal color senape
dell'assortimento di Marni. Ora è la volta di Raf Simon, con i suoi colori pesca e
menta». In un supplemento speciale Capodanno 2004, Tamsin Blanchard, Dee
O'Connell e Polly Vernon mettono in guardia i propri lettori: «Il parrucchiere delle
modelle, James Brown, spera che il 2004 porti con sé la fine delle pettinature
omogenee e stirate, di quelli che lui chiama ‘capelli alla idolo pop?... Lo stile che
introdurrà per i Vip di cui si prende cura sarà tipo quello di Glenn Close in
Attrazione fatale. Adoro lo scompiglio. Evviva!». Nemmeno all'altro sesso è
consentito di prender fiato. «Diciamo addio al ciuffo alla Beckham... Tagliamolo di
netto, teniamo i capelli lisci e corti, o lasciamoli scendere come Justin Hawkins dei
Darkness». «Prepariamoci al ritorno dell'eleganza anni Cinquanta con un twist —
pensiamo al Jude Law del Talento di Mr Ripley e ai suoi calzoni bianchi
10
Quotidiano britannico
10
immacolati... Salutiamo i combattimenti e lo stile militare del 2003. Meglio i
caffettani, le tuniche ricamate, i pantaloni ampi e lo strano disegno Paisley». Ed
ecco il colpo finale: «Per finire: buttate via il blu navy» ed «esplorate una gamma
di colori più ampia».
Appena scocca l'ora in cui dobbiamo essere da un'altra parte, dunque, ci occorre
sapere che succede, dove siamo e cosa dobbiamo fare. Si tratta di una conoscenza
che richiede di essere aggiornata ogni settimana; altrimenti gli altri, coloro che ci
guardano, non riusciranno più a valutare «chi siamo», e noi stessi non avremo idea
di quali ingredienti utilizzare per ricomporre la nostra immagine esterna di
conseguenza. La risposta alla domanda sulla nostra identità non è più «sono
ingegnere alla Fiat (o alla Pirelli)» o «faccio l'impiegato statale» o «il minatore» o
«il gestore di un negozio Benetton», ma — in base al metodo usato di recente da
uno spot pubblicitario per descrivere la persona che avrebbe indossato quella marca
prestigiosa — sono uno che «ama i film dell'orrore, beve tequila, possiede un kilt,
tifa per il Dundee United, ama la musica anni Ottanta e gli arredi anni Settanta, va
pazzo per i Simpson, coltiva girasoli, preferisce il grigio scuro e parla con le
piante». Nel numero successivo della rivista viene presentata un'altra persona che
preferisce la stessa marca di abbigliamento: «suona le cornamuse, tiene un serpente
in casa, amai film di Hitchcock, possiede quindici paia di jeans, usa ancora la
macchina per scrivere, legge libri di fantascienza». Entrambi i «certificati
d'identità» portano alla stessa conclusione: «I dettagli sono tutto». E, nemmeno a
dirlo, tutti i dettagli nominati nello spot, e qualsiasi altra cosa nominabile, si
possono trovare in commercio.
I territori dell'identità che si fa e si disfa continuamente non sono gli unici che la
sindrome del consumatore ha conquistato al di fuori del proprio mondo fatto di vie
dello shopping e centri commerciali. Gradualmente, ma inesorabilmente, quella
sindrome assume il controllo anche sui rapporti e legami interpersonali. Perché le
relazioni dovrebbero fare eccezione rispetto alle regole che valgono nel resto della
vita? Per funzionare bene e dare la gratificazione promessa e attesa, una relazione
richiede attenzione costante ed estrema dedizione, e quanto più essa dura, tanto più
cresce la difficoltà di mantenere alta l'attenzione e offrire la necessaria disponibilità
quotidiana. Ai consumatori, avvezzi a beni di consumo che invecchiano in fretta e
vengono velocemente rimpiazzati, tutto ciò finirà per apparire come una scomoda
perdita di tempo, e se pure decidono di continuare si troveranno a corto delle abilità
e delle abitudini necessarie a tal fine. I matrimoni, scrive Phil Hogan, hanno sempre conosciuto periodi no e fasi critiche più o meno gravi; ma la questione ormai è
«per quanto resisteremo. La soglia dei sette anni, di cui si parlava una volta, è
ormai lontana. Secondo gli ultimi dati, la durata ottimale prima di staccare la spina
al matrimonio è ormai scesa a diciotto mesi-due anni». E aggiunge: «È difficile
rimanere davvero scioccati da queste notizie. Non solo esse appaiono in linea con
le moderne nozioni d'impegno e abnegazione (è difficile attendersi che una nazione
esortata ad accettare le novità infinite del mercato del lavoro flessibile sia poi
disposta a lavorare a lungo su una relazione), ma rendono anche l'idea di quale sia
ormai la nostra nozione di pazienza». La drastica riduzione della durata della
pazienza conduce ormai a preferire una conclusione rapida e radicale delle
relazioni incriminate. Ma neanche ciò è esente da problemi: per la maggior parte di
noi dire a un partner di andarsene perché non ci fornisce più i beni che vogliamo o
perché essi non ci interessano più, può rivelarsi, in ultima analisi, molto più
straziante che sbarazzarsi di una vecchia auto o di un computer obsoleto. Alla
maggior parte dei consumatori, ben istruiti nell'arte di passare indenni tra turbini di
acconciature colorate, tuniche e pantaloni, le istruzioni che chi trova faticoso e
tormentoso rompere una relazione riceverà da qualche consigliere spirituale
appariranno come insperate cinture di salvataggio. Relate (un ente non profit che
offre assistenza nelle relazioni sentimentali) propone un corso della durata di una
11
giornata su «ciò che non ha funzionato nella relazione e come evitare di ripetere gli
stessi errori [...]. Si pone l'accento soprattutto su come trasformare un'esperienza
negativa in qualcosa che segni un nuovo, positivo inizio». Come essere sorpresi se
una delle maggiori catene di supermercati vende dei «kit fai-da-te per la
separazione» al prezzo scontato di 7 sterline e 49 pence?
(da Z. Bauman “La vita liquida”, Laterza, 2006, estratti pag. VII-XVIII, 3-32, 86-94)
… In qualunque modo venga postulata nella nostra epoca e comunque affiori nelle
nostre riflessioni, l'identità non è una «faccenda privata» o una «preoccupazione
privata». Che la nostra individualità sia un prodotto sociale è ormai una verità
banale, ma il rovescio di tale verità merita di essere ribadito più spesso: la forma del
nostro socializzare, e di conseguenza della società che condividiamo, dipende a sua
volta dal modo in cui il compito dell'individualizzazione viene contestualizzato e
svolto. …
Come ha sottolineato Ulrich Beck11, non esistono soluzioni biografiche delle
contraddizioni sistemiche, anche se sono soluzioni del genere che siamo spinti o
persuasi a scoprire o inventare. Non ci può essere una risposta razionale alla
crescente précarité della condizione umana fintanto che tale risposta deve essere
confinata all'agire individuale; è impossibile sfuggire all'irrazionalità delle possibili
risposte se si pensa che l'ambito della politica della vita e quello del sistema di forze
che ne determina le condizioni sono, puramente e semplicemente, incommensurabili
ed enormemente sproporzionati.
Se non sei o non ti senti in grado di fare quello che veramente importa, ti dedichi a
cose che hanno minore o nessuna importanza, ma che puoi o credi di poter fare; e
rivolgendo la tua attenzione e le tue energie a cose del genere puoi riuscire persino a
dar loro importanza, almeno per un po'. Dice Christopher Lasch: “Abbandonata la
speranza di migliorare la vita in modo significativo, la gente si è convinta che quel
che veramente importa è il miglioramento del proprio stato psichico: aderire alle
proprie sensazioni, nutrirsi con cibi genuini, prender lezioni di ballo o di danza del
ventre, bagnarsi nel mare della saggezza orientale, fare del jogging, imparare a
«entrare in rapporto», a vincere la «paura del piacere». Questi obiettivi, in sé
innocui, se elevati alla dignità di programma e impastati nella retorica dell'autenticità
e della consapevolezza implicano di fatto il ritiro dalla politica”12.
Esiste tutta una gamma crescente di «passatempi sostitutivi», sintomatici del
passaggio dalle cose che importano, ma per le quali nulla si può fare, alle cose che
importano meno o per nulla, ma sono affrontabili e gestibili. Tra queste ha un posto
importante l'impulso irresistibile a fare acquisti. A differenza dei «carnevali» di
Michail Bachtin13, che venivano celebrati all'interno del territorio in cui negli altri
periodi si conduceva la «vita di routine» e permettevano, pertanto, di mettere a nudo
le alternative normalmente occultate dalla vita quotidiana, le puntate ai centri
11
Ulrich Beck, nato nel 1944, è uno dei più importanti sociologi tedeschi contemporanei. Insegna a
Monaco, Londra e Harvard. Si occupa principalmente di globalizzazione e di trasformazioni sociali.
12
Christopher Lasch, sociologo e storico statunitense, prematuramente scomparso nel 1994, La sua opera
più importante è un saggio sociologico del 1979, che gli ha dato fama mondiale: La cultura del
narcisismo. In questo saggio Lasch offre una severa e corrosiva analisi dei modelli culturali dominanti
nella società americana dagli anni Settanta in avanti, condizionata da un individualismo esasperato che si
diffonde a livelli di massa e trasforma stili e comportamenti della vita quotidiana.
13
Michail Michailovič Bachtin (1895 –1975) è stato un filosofo, critico letterario e storico russo. È stato
autore di opere molto influenti sulla teoria letteraria, retorica e della critica. Autore di L'opera di Rabelais
e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale (1965).
12
commerciali sono spedizioni verso un altro mondo nettamente diverso dal resto della
vita di ogni giorno, verso quell'«altrove» dove si possono sperimentare brevemente
la fiducia e l'«autenticità» che si cercano invano nelle occupazioni della routine
giornaliera. Lo shopping colma il vuoto lasciato dai viaggi che l'immaginazione non
compie più verso una società alternativa, più sicura, umana e giusta.
Un altro dei passatempi sostitutivi è l'attività, onerosa in termini di tempo ed energie,
di costruzione, smontaggio e riassemblaggio della propria identità. Tale attività,
come abbiamo già visto, si svolge in condizioni di insicurezza acuta: gli obiettivi
dell'azione sono precari quanto sono incerti i suoi effetti. Gli sforzi sfociano nella
frustrazione abbastanza spesso da far sì che la paura della sconfitta finale avveleni la
gioia dei trionfi temporanei. Non sorprende che una tentazione costante, alla quale
molti solitari «costruttori di identità» trovano difficile resistere, sia quella di
stemperare le paure personali nella forza del numero, renderle impercettibili nel
baccano di una folla rumorosa. Ancor più forte è la tentazione di fingere che la
somiglianza tra le paure individuali componga una «comunità» e che si possa quindi
trovare compagnia nella solitudine.
Come ha osservato di recente Eric Hobsbawm, «la parola "comunità" [...] non è mai
stata usata in maniera tanto vuota e indiscriminata quanto in questi decenni, nei quali
le comunità in senso sociologico sono difficilissime da trovare nella vita reale»;
«Uomini e donne cercano gruppi ai quali appartenere con sicurezza e per sempre, in
un mondo dove tutto il resto si muove e cambia, dove null'altro è certo»14. Jock
Young chiosa con poche e sentite parole: «Quando la comunità crolla, viene
inventata l'identità»15. L'identità deve l'attenzione che suscita e le passioni che genera
al fatto di essere un surrogato della comunità: di quella presunta «casa naturale» che
non è più disponibile nel mondo rapidamente privatizzato, individualizzato e in via
di globalizzazione, e che per lo stesso motivo può essere tranquillamente immaginata
come un rifugio accogliente che infonde sicurezza e fiducia, e come tale è
ardentemente desiderata. Il paradosso è, però, che per offrire anche solo un pizzico
di sicurezza e dunque per svolgere il suo ruolo curativo l'identità deve smentire la
propria origine, negare la sua natura di surrogato, e soprattutto evocare un fantasma
di quella stessa comunità che è venuta a rimpiazzare. L'identità germoglia sulla
tomba delle comunità ma prospera grazie alla sua promessa di far risorgere i morti.
L'«età dell'identità» è piena di urla e furore. La ricerca dell'identità divide e separa, e
tuttavia la precarietà dell'impresa solitaria di costruzione dell'identità spinge coloro
che la intraprendono a cercare appigli ai quali appendere tutte insieme le paure e le
ansie individuali e a svolgere riti esorcistici in compagnia di altri individui altrettanto
intimoriti e ansiosi. È opinabile che queste «comunità di appiglio» diano veramente
quello che si spera da loro, un'assicurazione collettiva contro i rischi affrontati
individualmente; ma erigere una barricata in compagnia di altri offre sicuramente
una tregua momentanea dalla solitudine. Qualcosa, a prescindere dalla sua efficacia,
dev'essere fatto, e quanto meno ci si può consolare per il fatto che i colpi non
vengono incassati mentre la guardia è bassa.
(da Z. Bauman, “La società individualizzata”, Il Mulino, 2002, pag. 188-192)
14
Eric John Ernest Hobsbawm (1917 – 2012) è stato uno storico e scrittore britannico di formazione
marxista. Tra i suoi testi Il Secolo breve (1914-1991) è un ponderoso saggio in cui vengono analizzate le
svolte storiche di un secolo - il ventesimo - la cui estensione temporale è racchiusa, per lo storico, in due
date: 1914-1991
15
Jock Young è un sociologo e un criminologo britannico.
13