OTTAVIO MISSONI, Da Zara a Trieste

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OTTAVIO MISSONI, Da Zara a Trieste
OTTAVIO MISSONI, Da Zara a Trieste: la storia dietro la griffe
Una vita lunga, ricca, piena di vita. Come sta Missoni? “Ben ben, anche se la voce xe spenta, ogi no
xe giorno de cantar”. Il padre del zig zag cromatico, la tavolozza di colori che negli anni è diventata
un marchio globale per vestiti, accessori, profumi, addirittura alberghi, non ha mai abbandonato il
suo vecchio dialetto. E sì che è successo tutto tanto, tanto tempo fa. Ragusa, Zara, Trieste, il mare, il
sole, l’esodo. Quella di Missoni prima di Missoni è una storia incredibile, che non ci si stanca mai
di ascoltare: “Mio padre era marittimo, anzi capitano de mar. Girava il mondo con i bastimenti della
N.L.A., la Navigazione libera triestina da noi ribattezzata Naviga lavora e tasi. Stavamo a Ragusa,
ma quando mio fratello più grande finì le scuole elementari ci trasferimmo a Zara dove c’erano le
medie italiane: non avevo nemmeno sei anni”. Alle soglie dei novanta, Ottavio Missoni detto Tai
ripercorre con il solito brio le vicende che lo portarono dal sole della Dalmazia alle brume del
varesotto, da una giovinezza da speranza dell’atletica a una vecchiaia da patriarca della moda
italiana. Oggi Missoni spa è un gruppo da 100 milioni di fatturato annuo e guarda con orgoglio a
una storia aziendale iniziata con le prime creazioni del 1953, proseguita con la mitica sfilata del ’67
che fece scandalo per un eccesso di trasparenze, lievitata con la consacrazione degli anni Settanta,
rilanciata dall’espansione creativa e commerciale delle ultime stagioni. Ma Ottavio non è più in
trincea e ha tempo per far affiorare i ricordi: “A Zara passavamo il tempo al mare e allo stadio. Feci
le prime gare in nazionale a sedici anni e mezzo: a tutt’oggi sono la più giovane maglia azzurra
dell’atletica leggera italiana”. Sportivo, artista, stilista: la vita di Missoni sarebbe storia anche senza
la storia. E invece il Novecento la ha risucchiata nel suo tragico frullatore: “Sono uno dei 360mila
istriani e dalmati costretti ad andarsene dopo il ’45. Non emigranti, esuli: l’emigrante la sera,
quando beve un bicchiere di vino e batte carte con gli amici fantastica di tornare prima o poi al suo
paese. Noi non abbiamo potuto nemmeno sognare”.
Che città era Zara negli anni Trenta?
“Bella, serena, sempre in festa. A Zara feci l’ultimo Natale nel ’41 prima di partire militare: un
bacio alla mamma e via. L’avrei rivista solo quattro anni dopo a Trieste”.
In mezzo una guerra e l’esodo degli italiani di Dalmazia.
“Le guerre non bisogna farle, e se le fai non bisogna perderle. L’Italia è stata due volte stupida, ma
cosa c’entravamo noi? La realtà è che istriani e dalmati hanno pagato per tutti”.
Non per niente dal 2004 è stata istituita la Giornata del ricordo
“Sì, ma il silenzio è durato decenni. Non occorre dire bugie, la verità puoi mistificarla anche
tacendo. Spesso mi chiedono se sono contento di questo risarcimento a sessant’anni di distanza:
dico che se aspettavano ancora un po’ non c’era più nessuno cui chiedere scusa”.
Prima dell’esodo lei aveva già pagato con la prigionia seguita alla battaglia di El Alamein.
“Oh El Alamein… da una parte io, dall’altra l’impero inglese, come volevi che finisse. Non ho
combattuto, non ho sparato, io riparavo linee telefoniche. A un certo punto sento un ‘come on’ e
vedo un neozelandese che fa cenno di muoversi: mi arresi e mi fecero prigioniero. Certo, non è stato
il Club mediterranée ma mi piace dire di aver passato quattro anni ospite di Sua maestà britannica.
Quattro anni a leggere e dormire: le passioni della mia vita”.
E l’arrivo a Trieste come fu?
“Quando tornai dalla prigionia i miei si erano già trasferiti. Per noi Trieste era come Zara, solo più
in grande. Non è un caso che dalmati e triestini siano così simili: quando Maria Teresa istituisce il
porto franco e la città si anima di commerci, i sonatori di violino vengono da Graz e Salisburgo ma
la gente di mare viene tutta dalla mie parti. E si porta dietro questo nostro dialetto veneto che si
parla ancora oggi”.
Cosa ricorda della Trieste di allora?
“Eravamo sempre all’Ausonia. Da febbraio ci piazzavamo nel nostro angoletto battuto dal sole e
non ci schiodavamo più fino all’autunno. Che meraviglia: si stava tanto bene che l’avevamo
ribattezzato California”.
Bella vita insomma
“Oh sì, con i triestini sono sempre andato d’accordo: buon carattere, tanta voglia di vivere e
pochissima di lavorare. Proprio come me”.
Be’ Missoni, lei non è diventato famoso per i suoi tuffi all’Ausonia…
“Guarda, arrivato a Trieste per prima cosa andai all’ufficio emigrazione. Me lo consigliavano tutti
perché ero profugo, ero stato prigioniero, mi avrebbero inserito nelle liste preferenziali. Si poteva
partire per il Canada o per l’Australia. Esclusi subito il Canada per il freddo, mentre l’Australia mi
faceva gola: sai, tutte quelle belle mule a prendere il sole anche a Natale… Ma ebbi l’accortezza di
chiedere al funzionario cosa avrei fatto una volta arrivato. Mi rispose: Missoni, in Australia c’è
lavoro. Roba da matti: ma se devo lavorare, ti pare che vado fino in Australia!”
E quindi restò a Trieste
“Sì, a fare le prime maglie in società con Giorgio Oberweger. Noi due presidenti e suo cugino Livio
Fabiani a lavorare. Uno schema fantastico che ho replicato anni dopo con mia moglie: io presidente
e la Rosita a lavorare”.
Come nascono i famosi tessuti Missoni?
“Il mio segreto è che non ho mai frequentato scuole d’arte o di moda. Giocando con i colori ci
vennero fuori queste maglie che allora non esistevano: è sempre così, se segui le regole puoi fare
cose belle ma non di rottura. Noi invece ce ne fregavamo di quello che c’era in giro e sfondammo
con un prodotto che non si era mai visto”.
Quanta Dalmazia c’è nei suoi colori?
“È così difficile contabilizzare l’ispirazione… probabilmente se fossi nato in Svezia non avrei
creato le stesse cose, ma in fondo i colori li trovi dappertutto: pensa che una volta feci i
complimenti al designer Marco Zanuso per una sua bella penna. Si lamentò che erano vent’anni che
tutti gliela copiavano. Capirai, risposi, cosa dovrei dire io che sulle Ande mi copiano da duemila
anni! Ma sbagliavo: la Rosita ha fatto un viaggio in Egitto, ha visitato le tombe e i musei e dice che
da quelle parti ci copiano da tremila anni!”.
La sua è una carriera costruita sui colori
“Certo, ma pensa a quante melodie si possono comporre con sette note. Non c’è nulla di strano che
uno possa essere originale per anni usando gli stessi colori”.
Cosa le piace di Trieste?
“Il dialetto e le osterie. Una volta ho scritto anche un raccontino sulle mie dodici ore in osteria: da
mezzogiorno a mezzanotte a bere grappa e mangiare uova sode e radicchietto. E poi il mare, ovvio.
Peccato che gli amici se ne stiano andando e che Trieste non sia più il porto d’Europa che era una
volta: povera città, le hanno portato via tutto”.
È ancora sindaco del libero comune di Zara in esilio?
“No, lo sono stato per vent’anni. Ma si trattava solo di ricordi. La mia Zara è sparita con la guerra”.