Prefazione di Guido Salvetti Questo è un libro molto speciale, in cui

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Prefazione di Guido Salvetti Questo è un libro molto speciale, in cui
Prefazione
di Guido Salvetti
Questo è un libro molto speciale, in cui si parte dalle grandi idee su cui è nata la
regia d’opera e poi, attraverso un percorso sempre più specifico sul ‘mestiere’
registico, si arriva alla fine (in Appendice) a documentare singole esperienze
didattico-teatrali: insomma, dalla discussione filosofico-metodologica alla
documentazione più concretamente empirica. Una simile scelta presuppone, per
essere feconda, una costante circolarità. Intendo: un continuo rimando
all’esperienza, e, rispettivamente, una vigile e unificante coscienza ‘estetica’
quando si compiono persino le piccole operazioni dell’allestimento scenico. E
presuppone anche una vastità di riferimenti teorici e, contemporaneamente, una
casistica molto differenziata e aggiornata: due presupposti che mi sembrano
ampiamente soddisfatti nelle pagine che seguono e che ne costituiscono la sostanza
didattico-informativa.
Non è, ciononostante, un libro compilativo, per il semplice fatto che è animato da
un caldo approccio alla materia trattata: una scelta convinta, che rimane ben salda
anche di fronte allo sperimentalismo e al destrutturalismo giunti fino all’interno del
nostro millennio non del tutto pacificati e risolti. Per scelta non si intende, qui,
adesione a questo o a quello schieramento. È ben chiaro che sia il più tradizionale
dei realismi scenici, sia il più radicale degli sperimentalismi tecnologici non sono
di per sé garanzia di qualità. Anziché una posizione preconcetta favorevole o
sfavorevole a questo o a quell’altro versante, ben più produttivo appare, in questo
libro, questo costante soppesare le ragioni e questo cogliere la specifica qualità
delle specifiche esperienze.
Questo criticismo apparentemente agnostico tende ad escludere i due estremi di
una regia che sia semplice ‘illustrazione’, totalmente in subordine rispetto alle
didascalie del libretto, o che, al contrario, sia totalmente e volutamente arbitraria
nella sua separatezza nei confronti della musica. Evitati questi due estremi, si apre
una vasta area di possibili scelte, applicabili a tante diverse componenti dello
spettacolo operistico: da quelle minute legate all’attrezzeria scenica, su su fino alla
prossemica, alle luci, alla scenografia e, ammesso che sempre esista, all’idea
interpretativa unificante delle scelte particolari.
“Idea interpretativa”, quindi.
È questa la chiave per capire la posizione
dell’autrice: la convinzione – che ella spesso deriva da quello che ha scritto e fatto
Giorgio Strehler, sopra tutti – per compenetrare le scelte di regia nelle ragioni
profonde della musica, cioè, a sua volta, nell’idea unitaria che lega la musica alla
‘sua’ dimensione visiva.
Una simile posizione comporta alcune qualità troppo spesso assenti nel panorama
attuale della regia d’opera italiana e internazionale. Esse sono l’amore – o almeno
il rispetto o persino soltanto l’interesse – per l’opera d’arte musicale; e lo sforzo di
comprenderne la complessità attraverso i forti strumenti ermeneutici che il
Novecento ha ricevuto da Husserl, Peirce, Freud, Eco e non pochi altri. Anche
questo è un ambito dove ogni ‘vera’ scelta del regista deve nascere dalla capacità
di penetrare nelle intersezioni e nelle ambivalenze dei significati. Ma per far questo
occorrono, ancora una volta, conoscenza dell’opera e amore per la musica; cioè il
contrario di quanto sia ragionevole sperare da tanti registi tout court che,
destrutturando, possono fare a meno, appunto, di conoscenza e soprattutto di
amore. Il caso più clamoroso degli ultimi anni: è quello delle regie nel ‘tempio’
wagneriano di Bayreuth, dove allignano registi prestati occasionalmente dal
cinematografo e autolesionisticamente impegnati a divulgare l’odio – o almeno il
disprezzo – per la cultura tedesca.
In questo libro non c’è spazio, quindi, per le ragioni del marketing: quelle di chi si
accontenta di essere considerato alla moda, o addirittura si illude di poter ancora
“scandalizzare i borghesi” con le divise naziste per una storia d’amore, con le
corsie di un manicomio per una festa nuziale, con la coprofagia o con l’onanismo.
Dicevamo che la chiave di questo libro è il concetto di interpretazione; questo
sforzo di reperire l’”idea”, che agisce sulle membra sparse dello spettacolo
musicale, o per compenetrarle in unità, o per dare ad ognuna – surrealisticamente –
una vita autonoma. Nasce da qui l’importanza di decidere se il regista è un re
assoluto, capace di operare senza mediazioni anche nell’ambito di scene e costumi;
oppure se è un primus inter pares rispetto al costumista, al regista delle luci e delle
proiezioni, allo scenografo, al direttore d’orchestra e agli esecutori; oppure se il
regista deve saper coordinare in un progetto unitario tante diverse competenze. A
una tale domanda non è possibile trovare una risposta unica. L’importante, ancora
una volta, è che il lettore acquisti coscienza di quanti e quali siano gli ambiti nei
quali si decide la qualità di uno spettacolo.
Di fronte a tutte queste tematiche sorge spontanea la domanda di quale sia il
destinatario ideale di un simile ‘manuale’. Forse in prima istanza l’autrice ha
pensato davvero a un manuale per i corsi di conservatorio: esecutori (direttori
d’orchestra e cantanti, soprattutto) interessati a rendersi coscienti delle tecniche e
delle problematiche della regia d’opera; o interessati ad affrontare, sulla base della
loro competenza musicale, la professione del regista d’opera. Rispetto a queste
finalità credo che il libro possa svolgere bene la sua funzione: lo potrà svolgere
ancor meglio (sto pensando ai primi capitoli, concettualmente più densi) se sarà
possibile attivare una mediazione di insegnanti validi tra il libro e lo studente.
Eppure la panoramica delle tematiche qui contenute permette di individuare una
finalità più ampia e, a mio parere, ancor più pressante nel mondo musicale odierno:
la platea di un pubblico in non poca difficoltà nel capire e nel giustificare proposte
disparate, spesso di difficile decifrazione. Questo pubblico non è molto aiutato
dall’odierna critica musicale giornalistica, da un lato propensa ad accettare come
interessante la più evidente delle corbellerie, purché in odore di modernità;
dall’altro schierata contro qualsiasi soluzione che suoni come troppo
‘sperimentale’. Chissà mai che questo libro possa contribuire ad abbattere questi
steccati, educando al discernimento critico, che significa anche la morte delle mode
e dei vari conformismi (anche quello dell’anticonformismo, naturalmente).
Questo pubblico dell’opera italiana è particolarmente frammentato, per ragioni
geografiche, sociologiche, generazionali. A tutto questo potrebbe ovviare una
presenza della musica nella scuola italiana che non si limiti a canti o pifferi stonati,
ma che voglia strutturare esperienze musicali, anche complesse, che, nel caso
dell’opera, possono diventare più accattivanti se rafforzate dall’esperienza visiva
ad esse collegate. Chi predispone all’ascolto di un’opera si limita troppo spesso a
raccontarne la trama, o al massimo a segnalarne i passi musicalmente notevoli. Un
esame delle soluzioni registiche (per esempio analizzate con l’ausilio di un DVD)
potrebbe essere allora la porta migliore per entrare negli aspetti della drammaturgia
musicale e, attraverso quella, nelle ragioni unificanti della musica. E questo libro
potrebbe fornire buoni strumenti per questa auspicabile assunzione di competenza.