commerci transoceanici e equiano
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commerci transoceanici e equiano
Commerci transoceanici tra Seicento e Settecento Tra la fine del Seicento e il Settecento l’egemonia sulle principali rotte commerciali passa alla Francia e soprattutto all’Inghilterra, che sostituiscono la supremazia sui mari di Spagna, Portogallo e Olanda dando vita a una competizione non solo economico-commerciale, ma anche politico-militare che vedrà vincitrice l’Inghilterra, in particolare in India e America del Nord. I circuiti globali dei commerci si diramano sostanzialmente 1) verso le Indie Orientali, dove il commercio non è più incentrato sulle spezie, ma su tessuti di cotone, tè, caffè; 2) in forma triangolare verso Africa e Americhe. Con l’aumento delle zone di insediamento coloniale nelle Americhe aumenta infatti anche la richiesta di beni prodotti in Europa (prodotti in metallo come chiodi, utensili, armi, ma anche bottoni, fibbie, tessuti), mentre dalle colonie si esportano in Europa caffè, zucchero, tabacco e poi anche cotone, mentre diminuisce l’esportazione di metalli preziosi. L’Africa entra in scena come mercato ove procurarsi schiavi da impiegare come manodopera nelle piantagioni americane e caraibiche: nel corso del Seicento si parla di più di un milione di schiavi deportati, nel Settecento di poco meno di quattro milioni. Gli schiavi, generalmente prigionieri di guerra o giovani rapiti da mercanti locali, vengono acquistati da mercanti europei sulle coste occidentali dell’Africa (in cambio di perline, armi rudimentali e tessuti colorati) e trasportati verso le Americhe (in particolare il Brasile, i Caraibi e la Virginia), dove vengono rivenduti ai proprietari delle piantagioni in appositi mercati. Qui le navi vengono caricate dei beni richiesti in Europa, da dove poi riprende il circuito triangolare. Una delle testimonianze più interessanti sulla vita degli schiavi è la prima autobiografia di uno schiavo pubblicata a Londra nel 1789 da Olaudah Equiano. Oltre ai neri africani, tra Seicento e Settecento subiscono le conseguenze della violenza coloniale le popolazioni indigene delle Americhe del Nord, dopo quelle del Centro e Sud America: al momento dell’arrivo degli europei si contavano circa 5 milioni di abitanti originari di quelle terre, ridotti a circa 600.000 unità verso il finire del Settecento. Tale sterminio, da alcuni studiosi definito un vero e proprio genocidio, è dovuto in parte agli effetti dell’imperialismo ecologico, poiché le popolazioni indiane non disponevano di difese immunitare contro molte malattie di origine europea (vaiolo, peste, difterite, malaria, morbillo, varicella, polmonite…), in parte alla aggressività dei colonizzatori. Le “guerre indiane” che accompagnano l’espansione europea nelle Americhe non risparmiano violenze da ambo le parti. La contrapposizione con “altri” etnicamente connotati (indiani, neri) costituisce un elemento di marcata coesione delle comunità inglesi, rafforzata dalla presenza di parlamenti provinciali con diritto di voto riservato ai maschi bianchi e abbienti. Restano immuni dall’intrusione europea Cina e Giappone, che respingono gli europei, e l’interno del continente africano, del quale si conoscono solo alcune aree costiere. Vecchie e nuove colonie Spagna Continua a controllare la Nuova Spagna (Florida, California, Messico e Centro America), buona parte dell’America meridionale (Nuova Granada, Perù, La Plata), le Filippine occupate verso la fine del Cinquecento. Portogallo I portoghesi si espandono in Brasile, conservano l’enclave di Goa in India, alcune basi costiere nell’Africa del sud Olanda Intorno alla metà del Seicento gli olandesi hanno sostituito i portoghesi come principali dominatori dei traffici commerciali in Indonesia grazie a un solido controllo politico e militare sull’area, i cui traffici sono controllati dalla Compagnia delle Indie orientali. Inghilterra Respinti dagli olandesi in Indonesia, gli inglesi si insediano in India assicurandosi un solido controllo politico e amministrativo su vaste aree ed estromettendo i francesi. Ciò è reso possibile dall’implosione dell’Impero Moghul, una dinastia di origine turco-mongola di credo Cina Francia islamico che si era insediata in India dal XVI secolo sottoponendo la popolazione indù e sikh a numerose vessazioni. All’inizio del XVIII secolo rivolte di indù e sikh determinano un vuoto di potere accentuato da una crisi dinastica, determinando lo sfaldarsi dell’Impero in principati indipendenti indù o musulmani. La Compagnia delle Indie orientali ottiene poteri amministrativi e monopoli commerciali (ad esempio nel commercio del tè), imponendo tributi alla popolazione. Nelle Americhe si insediano nell’area a est dei Grandi Laghi arrivando nel Settecento a contare 13 colonie sulla costa atlantica Nel corso del Settecento vengono troncati i contatti con i missionari cattolici (soprattutto gesuiti) e il cristianesimo viene bandito nei territori dell’Impero. Le èlite cinesi si chiudono a contatti economici e culturali. L’unico porto che resta aperto agli scambi è Canton, controllato da funzionari imperiali che riscuotono dazi e selezionano pochi mercanti cinesi e stranieri. Gli inglesi riescono a vendere tessuti indiani stampati acquistando tè, seta e porcellane da esportare in Europa. Più rigorosa la chiusura del Giappone, che ammette un solo emporio commerciale a Deshima dove operano pochissimi mercanti olandesi. Nel Seicento i francesi si insediano in Canada (poi conquistato dagli inglesi) e Louisiana (che passerà nel 1763 alla Spagna). Anche in India verranno estromessi dagli inglesi. vedi MAPPA a pag. 142 L'autobiogafia di Olaudah Equiano: alle origini della letteratura africana L’incredibile storia di Ouladah Equiano, o Gustavus Vassa, detto l’Africano, pubblicata in Inghilterra nel 1789, è un libro a cui mettono mano tre continenti: l’Africa in cui nasce il protagonista e da cui viene deportato come schiavo; i Caraibi e il Nord America, dove vive il tempo della sua servitù (e dove tornerà, liberato, come marinaio e come commerciante); l’Inghilterra, dove vive i suoi primi anni di schiavo e dove si stabilisce negli ultimi anni della sua vita di uomo libero e attivista della causa antischiavista. Se uno cercava un soggetto della globalizzazione ante litteram, ce l’avevamo sotto mano da due secoli e mezzo, ma, come spesso accade ai grandi libri non canonici, è stato a lungo dimenticato e, in Italia, viene tradotto solo oggi (peraltro, accuratamente e affettuosamente), per merito di Giuliana Schiavi, delle edizioni Epoché, e del progetto Slave Route dell’Unesco (solo un paio di capitoli erano stati pubblicati in italiano nel 1999 anni fa, in Libri parlanti. Scritture afro-atlantiche, a cura di un gruppo di studio dell’università La Sapienza). Il protagonista del libro nasce in Africa, viene catturato ancora bambino nell’ambito di una guerra locale e venduto schiavo a una nave negriera inglese. Il percorso dal suo luogo di nascita nell’interno fino alla costa è l’inizio di uno sradicamento linguistico e culturale, in cui la schiavitù africana come forma di servitù domestica familiare si trasforma gradualmente nella schiavitù euro-americana come riduzione della vittima a uno stato di umanità negata. L’arrivo sulla costa è uno di quei momenti narrativi che dovrebbero far parte del bagaglio di tutti noi: è la prima narrazione scritta in cui noi “bianchi” europei veniamo guardati con lo stupore e il terrore dell’africano prigioniero. Equiano bambino si sente trasportato in ”un mondo di spiriti maligni” e si domanda “se non saremmo stati mangiati da quegli uomini bianchi dall’aspetto terrificante, con la faccia rossa e i capelli sciolti”. Non è solo il rovesciamento dell’etnocentrismo – sono gli europei a sembrare mostruosi e cannibali – ma anche la fondazione di tutta una tradizione afro-americana in cui noi bianchi, con la nostra pelle diafana, appariamo come spiriti e fantasmi (fino agli “uomini senza pelle” della nave negriera di Amatissima di Toni Morrison, che questo libro lo conosce bene). Stupore e terrore sono le tonalità del viaggio di Equiano sulla nave negriera – da un lato, gli orrori del trasporto, l’ammassamento nella stiva, il fetore, le frustate, i morti gettati in mare. Dall’altro, le domande sulla “magia” europea che fa muovere la nave, lo spettacolo dei pesci e degli uccelli sconosciuti che accendono la fantasia feconda dell’involontario viaggiatore. In Inghilterra, in omaggio a un sarcastico uso di dare agli schiavi nomi altisonanti di grandi uomini e cancellare il loro nome africano, viene imposto a Equiano il nome del re guerriero di Svezia, Gustavus Vassa. A seguito del suo padrone si imbarca sulle navi che combattono le guerre anglo-francesi, e a mano a mano si familiarizza con questo nuovo mondo, scopre che gli europei non sono maghi ma esseri umani con conoscenze che la sua società d’origine non possiede, e comincia a considerarsi “quasi” un inglese. Ovviamente, tutto sta in quel “quasi”: è ancora schiavo, non è bianco, e non ha ancora accesso a quelle conoscenze (e d’altronde, lo dice fin dal titolo, dove l’attributo The African figura accanto al suo nome, e dalla prima pagina: “se mi ritenessi un europeo potrei affermare che i miei patimenti furono grandi”, ma nonostante tutto non lo è diventato del tutto, e allora rispetto a tanti altri suoi connazionali le cui voci non sentiremo mai può dirsi fortunato). Un paio di episodi sono destinati a restare canonici in tutta la narrativa afroamericana e afroeuropea. Il primo è quando Equiano si accorge che la faccia di una bambina sua coetanea, lavandola, diventa rosea; si affanna a cercare di fare lo stesso ma il nero della sua pelle non va via (un episodio analogo apre, per esempio, l’autobiografia afro-franco-italiana di Nassera Chohra (Volevo diventare bianca, 1993). Il secondo è quando si accorge che i libri “parlano” al suo padrone; cerca di farli parlare anche a sé, o di metterci dentro la sua voce, ma il libro non gli risponde. Per il critico afroamericamo Henry Louis Gates, Jr., questa è la metafora fondante di tutta la letteratura afroamericana, che ritroviamo in tutte le autobiografie di ex schiavi della stessa epoca: l’incontro non paritario fra la voce della cultura orale africana e la scrittura della cultura europea (e la storia rinvia ancora più indietro, all’incontro fra Pizarro e l’Inca Atahualpa: quando questi getta a terra la Bibbia, dicendo che il libro “non gli dice niente”, gli spagnoli approfittano del “sacrilegio” per saltargli addosso e farlo prigioniero, dando inizio così alla colonizzazione dell’America meridionale). La figura del “libro parlante” sta alla base di tutto questo libro: non a caso, il titolo originale comprende anche la clausola Written by Himself, scritta da se stesso. Come tutte le grandi autobiografie afroamericane, questa è anche la storia delle condizioni della sua stessa scrittura: come il deportato ha saputo impadronirsi degli strumenti culturali dei suoi padroni fino a prendere lui stesso la parola in-scrivendosi in quell’universo delle lettere da cui (come ricorda Gates) i grandi filosofi dell’illuminismo – da Hume a Kant a Hegel – sostenevano che gli africani fossero ontologicamente incapaci di accedere. Ed è anche l’inizio di un processo di liberazione e trasformazione in cui Equiano mette insieme quanto basta a comprarsi la libertà, torna in Inghilterra, si battezza nella chiesa metodista, studia matematica e musica, lavora in navi mercantili (anche, brevemente, commerciando schiavi), impianta una piantagione in Nicaragua, si impegna nella causa dell’abolizione del commercio degli schiavi – e scrive questo memorabile libro. Ma questa non è solo un’avventurosa storia di liberazione personale – non a caso, e a differenza da quasi tutte le altre autobiografie di ex schiavi, il libro non finisce con l’emancipazione ma continua con la sua storia da uomo libero. Scritto fra la rivoluzione americana e la rivoluzione francese, nell’Inghilterra della rivoluzione industriale, il libro di Equiano – merce che si fa mercante - è anche un sorprendente documento delle grandi rivoluzioni borghesi del diciottesimo secolo. Addetto ai commerci del suo padrone, Equiano può fare piccoli traffici per conto suo, che gli permetteranno di accumulare la somma necessaria a comprarsi la libertà. Ma in più di un’occasione si accorge che la sua condizione di schiavo interferisce col commercio: come altri suoi contemporanei (per tutti, Venture Smith, che scrive in Nord America qualche anno prima), si accorge che i bianchi possono costringerlo ad accettare moneta falsa, rubargli la merce, non rispettare i patti, senza che lui abbia strumenti legali per difendersi. La mancanza di eguaglianza giuridica fra i contraenti, insomma, interferisce sulla certezza dei contratti: è un vero e proprio apologo che spiega che cosa veramente significa l’odierno vangelo liberista della relazione fra capitalismo e democrazia. La grande trasgressione di Equiano infatti consiste nel fatto che questo schiavo non pensa come vuole il padrone, ma pensa come il padrone, e in questo modo afferma, rivendica e cerca la propria parità di diritti. Se uno legge i capitoli iniziali in cui Equiano descrive i costumi del suo paese d’origine in parallelo con certi passi dell’autobiografia di Benjamin Franklin, si accorge che le virtù che Equiano attribuisce agli africani sono sostanzialmente le stesse virtù di sobrietà, moderazione, castità, risparmio che Franklin cerca di interiorizzare per costruirsi come soggetto rivoluzionario borghese. Equiano non poteva conoscere il libro di Franklin che fu sì scritto negli stessi anni di Equiano, ma non sarà pubblicato che dopo il 1860; quindi la somiglianza fra questi due self-made men è un segno straordinario dello spirito del loro tempo e della costruzione della nuova identità morale rivoluzionaria borghese. Equiano conclude con uno straordinario passo che anticipa il passaggio dalla schiavitù al neocolonialismo, e intuisce certe idee pre-keynesiane sull’economia dell’offerta. La fine del commercio di schiavi, suggerisce, converrà ai grandi interessi industriali della nostra Inghilterra. Quando si accorgeranno che invece di usare l’Africa come cava di manodopera si guadagnerà di più vestendo gli ignudi africani (all’uopo “civilizzati” e cristianizzati) con i prodotti dell’industria tessile di Manchester, il turpe mercato avrà fine. Certo, aggiunge con un sarcasmo degno del suo contemporaneo Jonathan Swift, alcuni settori dell’economia saranno danneggiati: in particolare, i fabbricanti di “gioghi, collari, catene, manette, ceppi, ruote, schiacciapollici, museruole di ferro e bare, sferze, staffili e altri strumenti di tortura usati nel commercio degli schiavi”. Ho una sola perplessità rispetto a questa benvenuta e ben fatta traduzione. La curatrice scrive nella breve postfazione che un apparato critico lo avrebbe ridotto a un “reperto letterario” e “museale”, mentre leggerlo senza alcun corredo “restituisce voce e attualità” a questo “frammento della nostra storia umana”. Anche se la traduzione arriva solo adesso, tuttavia su Equiano, non solo in Inghilterra, Stati Uniti e Africa, ma anche in Italia, esistono almeno trent’anni di studi tutt’altro che museali. Farci in qualche modo i conti avrebbe potuto aiutare. Per esempio, in questa edizione si dà per scontato che la vita di Equiano sia andata esattamente come lui ce la racconta. Ma sulle autobiografia è sempre bene stare in guardia. Un documentatissimo libro di Peter Carretta (Equiano, the African: Biography of a Self-Made Man, 2005) sostiene, per esempio, che Equiano non era affatto nato in Africa: esistono registri in cui c’è scritto che era nato in South Carolina, in Maryland; e praticamente tutto quello che lui dice sull’Africa era desumibile dalle pubblicazioni coeve degli esploratori europei. Io su questa tesi ho ancora dei dubbi, ma certo non la possiamo ignorare. Perché se così fosse, allora non si tratterebbe solo di una “testimonianza”, livello a cui viene sistematicamente ridotto il lavoro narrativo dei subalterni (anche un paio dei primi romanzi scritti da immigrati in Italia sono stati pubblicati come autobiografie: ai subalterni non si riconosce il diritto a immaginare), ma di un’opera in cui esperienza, ricerca, immaginazione si intrecciano, anticipando sotterraneamente anche la nascita di quel romanzo afro-americano-europeo che non sarebbe emersa prima di un altro mezzo secolo. Insomma: il titolo originale era The Interesting Narrative; la traduzione si intitola L’incredibile storia. Con i sinceri e dovuti ringraziamenti a chi l’ha fatta e a chi l’ha resa possibile, credo che offrire un po’ di strumenti ulteriori di lettura forse avrebbe aiutato il lettore a trovare questa storia meno incredibile, e ancora più interessante. A L E S A N D R O P O R T EL I |