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A MEZZANOTTE
CIRCA
Sei storie raccontate in chiave jazz
di
MARCELLO PERUCCA
Circolo Familiare di Unità Proletaria
Cineforum del Circolo
Viale Monza, 140 - Milano
[email protected]
www.cineforumdelcircolo.it
aprile - maggio 2008
Premessa
C
inema e jazz: due espressioni artistiche nate quasi contemporaneamente verso la fine del XIX secolo e
che da subito hanno dato vita a un connubio
che dura con successo ancora oggi.
Numerosi sono i film che parlano di jazz, ne
raccontano la storia, i personaggi o, semplicemente, utilizzano il jazz come colonna
sonora portante (come meglio evidenziato
nel precedente ciclo Cinema & jazz, a cura
del Cineforum del Circolo, nov. 2004, e
reperibile sul sito www.cineforumdelcircolo.it).
Fra i numerosi film che hanno utilizzato o si
sono rifatti al jazz, alcuni sono entrati a far
parte della storia del cinema. Si tratta di
biografie di grandi musicisti come, ad esempio, Glenn Miller (La storia di Glenn
Miller, Anthony Mann, 1954); Bud Powell
(‘Round Midnight, Bertrand Tavernier,
1986); Charlie Parker (Bird, Clint
Eastwood, 1988). In altri casi si tratta di
biografie di personaggi di fantasia, anche se
ispirati a personaggi reali, come nel caso del
delizioso film di Woody Allen Accordi e disaccordi (1999), che si rifà alla vita del
grande chitarrista europeo Django
Reinhardt.
Il jazz-film spesso ha narrato delle storie
ripercorrendo le tappe della storia del jazz.
È il caso di film come La città del jazz
(Arthur Lubin, 1947); Cotton Club (Francis
Ford Coppola, 1984), Pretty Baby (Louis
Malle, 1978); Kansas City (Robert Altman,
1996).
Infine molti musicisti hanno fornito le loro
note per la realizzazione di molte colonne
sonore. Tra i casi più celebri vanno ricordati
Miles Davis, che ha musicato Ascensore per
il patibolo di Louis Malle (1957); Charles
Mingus che ha messo a disposizione il suo
contrabbasso per Ombre (1960), opera
prima del regista americano, ma di origini
greche, John Cassavetes; Gato Barbieri,
sassofonista argentino che ha legato il suo
nome a Ultimo tango a Parigi (1972), il censuratissimo film di Bernardo Bertolucci con
Maria Schneider e Marlon Brando. O, ancora, Duke Ellington che ha contribuito a rendere celebre il thriller di Otto Preminger
Anatomia di un omicidio (1959). Lo stesso
Ellington, in questo film, appare in un breve
cameo mentre si esibisce al piano accanto a
James Stewart.
Ma il “Duca” non è certo l’unico jazzista
che si esibisce davanti a una macchina da
presa. Altri hanno recitato, spesso interpretando la parte di se stessi. Tra questi uno dei
più assidui è stato Louis Armstrong che
compare almeno in una decina di film. Tra i
più famosi ricordiamo, oltre ai già citati La
città del jazz (dove, per altro, compare anche
nella sua unica apparizione cinematografica
la cantante Billie Holiday) e La storia di
Glenn Miller, I cinque penny (Melville
Shavelson, 1959); Hello Dolly (Gene Kelly,
1969); Venere e il professore (Howard
Hawks, 1948) qui insieme ad altri musicisti
del calibro di Benny Goodman, Tommy
Dorsey, Charlie Barnet, Lionel Hampton.
Il breve ciclo di sei film che presentiamo,
vuole essere un modo per ricordare questo
mondo, con le sue atmosfere spesso notturne, i suoi personaggi spesso tormentati e,
soprattutto, con la sua musica che ha fatto e
continua a far sognare milioni di appassionati in ogni parte del mondo.
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'ROUND MIDNIGHT - A MEZZANOTTE CIRCA
('Round Midnight)
Regia di Bertrand Tavernier
Con Dexter Gordon, François Cluzet, Gabrielle Hacker,
Sandra Reaves-Phillips, Lonette McKee, Herbie Hancock
Usa-Francia, 1986, 130'
Trama
I
l film è ispirato - e dedicato - alla vita di due fra i più importanti musicisti della storia del jazz: il pianista Bud Powell e il tenor-sassofonista Lester Young. Il film narra
di un'amicizia: quella fra Dale Turner, geniale sassofonista (interpretato dall'altrettanto geniale sassofonista Dexter Gordon), in tournée nella Parigi degli anni '50 e Francis
Borier, un giovane illustratore parigino che tenterà, invano, di salvarlo dalla schiavitù
della droga.
La storia narrata nel film di Tavernier, ripercorre quella reale di Bud Powell e del suo
amico francese Francis Paudras.
Il titolo riprende quello di una delle più famose composizioni del pianista Thelonious
Monk. Da ricordare, infine, le apparizioni di celebri musicisti. Oltre a Dexter Gordon, suonano Herbie Hancock, Bobby Hutcherson, Billy Higgins, John McLaughlin, Pierre
Michelot, Wayne Shorter, Freddie Hubbard, Cedar Walton.
Rassegna stampa
Peccato che non sia più fra noi Arrigo Polillo, "alligatore" d'epoca e grande storico del jazz: quanto gli sarebbe piaciuto questo Dexter Gordon,
ribattezzato Dale Turner
tanto per la forma, compunto
e traballante con il suo sax
davanti alla ristretta platea
parigina del "Blue Note".
Storia di sbornie e decadenza che ricorda i
tristi casi di altri grandi musicisti espatriati
come Bud Powell e Lester Young, l'odissea
del protagonista di Round Midnight è la più
bella celebrazione cinematografica della
passione jazzistica che travolse i giovani
europei dopo il '45: Bertrand Tavernier, che
ne fu contagiato, la rievoca con tenerezza
come una storia d'amore. Gli eroi, infatti,
sono due: il vecchio e il giovane, l'americano e il francese, il nero e il bianco, il musiciIl tenor sassofonista Dexter Gordon, inteprete
del film di Tavernier ‘Round Midnight
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sta e il "fan". Scandito sapientemente su una serie di esecuzioni musicali, il film racconta
una resurrezione artistica che culmina in un'apoteosi, una specie di morte e trasfigurazione
nel Pantheon della musica. Tradito da qualche lentezza e da un pizzico di commozione non
trattenuta, il regista ha trovato quasi sempre la semplicità, la concretezza e la grazia connaturale al tema. E Dexter Gordon, sia quando suona che quando recita (ma il termine recitare è improprio, siamo ai limiti del cinema-verità), si rivela paziente, sapiente e inafferrabile come ogni artista autentico. Incomprensibilmente ignorato dalla giuria della Mostra di
Venezia, il film ne rappresenta uno dei momenti memorabili: non solo per una qualità che
conferma le doti del piccolo maestro di Una domenica in campagna, ma per il valore di
documento di storia della cultura. In tutto questo si inserisce con intatta autorità l'impegno
strumentistico di un "tempo man" come Gordon, al quale proprio "Arpo" nel suo libro Jazz
(Mondadori) riconosce di essere stato "fra i primissimi a mettere a punto, sul sassofono
tenore, un linguaggio davvero boppistico".
Tullio Kezich, da Il filmnovanta: cinque anni al cinema: 1986-1990, Mondadori,
Milano, 1990
Intorno a mezzanotte, sulla mezzanotte, verso mezzanotte (dite come volete, ma non "a mezzanotte circa" come i barbari traduttori del titolo inglese),
nelle boites parigine degli ultimi anni Cinquanta c'è grande animazione.
Jazzisti negri venuti dall'America suonano il bebop, si beve e si fuma. Alla
"Blue Note" di Saint Germain si esibisce fra gli altri il sax-tenore Dale
Turner, già ben noto per i dischi che ha inciso ma ormai sulla via del tramonto, tarato dall'alcool e dalla droga. Il poveraccio andrebbe alla deriva, benché una
mammy lo tenga d'occhio e gli amministri il salario, se Francis, un grafico francese specializzato in cartelloni cinematografici, non pendesse dal suo sassofono. Turner è per Francis
un idolo da venerare, il suo jazz è un dono del cielo. Perciò ne diventa con gioia l'angelo
custode. Cerca di farlo smettere di bere (e ci riesce), lo salva dalla polizia e dall'internamento in ospedale, lo ospita in casa, lo porta al mare e a Lione, gli restituisce il coraggio
di vivere e di comporre. Dopodiché lo riaccompagna a New York, dove a Turner si riaprono le vie del successo. Ma dove Turner torna a essere inghiottito da un ambiente in cui la
violenza prevarica sull'amicizia, sicché Francis, anni dopo, riceve a Parigi la notizia che
l'uomo è morto. Un concerto in suo onore, con grande concorso di folla, e i filmini che
Francis girò, medicano un po' la malinconia...
Scritto dal regista Bertrand Tavernier e da David Rayfiel prendendo spunto dal rapporto che
appunto legò il pianista Bud Powell e il francese Francis Paudras, e dai casi di tanti altri
musicisti di colore venuti a cercare un rilancio in Europa (già Paris blues, di Martin Ritt,
nel '61 toccava quel tema), Round
midnight è il grande sconfitto dell'ultima mostra di Venezia, dove
ebbe soltanto premi minori. A
ripensarci, senza giustizia: perché
almeno
l'interprete
Dexter
Gordon, un sassofonista che fu a
sua volta esule in Europa fra il
Una scena tratta da
1962 e il 1976, e nel cui perso- ‘Round Midnight
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naggio confluiscono soprattutto le memorie del sax-tenore Lester Young - a lui e a Powell
il film è dedicato - si guadagnò l'applauso più entusiasta. L'argomento addotto per negargli
il premio fu che Dexter Gordon non è da considerarsi un attore, qui limitandosi a essere se
stesso. Motivazione dissennata, dacché proprio la recitazione di Gordon, governata dal
regista, è la fune portante di un film per altri versi non privo di difetti, quali una certa prolissità e certi pleonasmi. A loro volta tuttavia derivati dalla grande passione con cui
Bertrand Tavernier rende omaggio al jazz, alla Parigi così ospitale nei confronti di musicisti emarginati dalla società americana, e dunque alla cultura europea, tanto più sensibile ai
valori di libertà e di poesia allora custoditi dal bebop e oggi dalla tradizione civile.
Round midnight può pertanto peccare d'un eccesso di mitologia, oltreché d'un ossequio
troppo sentimentale a quel tipo di jazz che qualche temerario può anche apparentare con la
lagna, ma non per questo ci si sottrae alla fascinazione del protagonista, uno spilungone di
voce roca e andatura barcollante, un gigante buono nel quale Tavernier ha simbolizzato la
solitudine dello sconfitto, il suo totale identificarsi con la musica, la memoria dei torti subiti in patria, la vanità fanciullesca, e la sorpresa di sentirsi amato. Dal confronto tra la sua
sconsolatezza di ubriacone stanco e il devoto soccorso recatogli da Francis, il quale per
restargli vicino rinuncia a rappacificarsi con la moglie, da quel tanto di tragico che sprigionano i dolci singhiozzi del sax, dal profilo d'una generazione adombrato nella leggenda,
Tavernier ha tratto momenti di struggente emozione, sorretti da un pathos figurativo che
supera il senso storico (per cui non duole che quasi tutto il film sia girato in studio, sulle
scenografie del veterano Alexandre Trauner), trasmesso anche a qualche figura di fianco:
le figlie giovinette dell'uno e dell'altro, la cantante negra, i compagni di lavoro di Turner, ai
quali fa da controcanto lo spicciativo e loquace impresario di New York impersonato da
Il pianista Bud Powell, al quale
il film di Tavernier è ispirato e
dedicato
5
Martin Scorsese.
Non siamo fra coloro che vanno in giuggiole per le musiche di Round midnight (a quella
del celebre tastierista Herbie Hancock, cui Antonioni fece ricorso per Blow up, si aggiungono brani di non meno famosi jazzisti), né ci pare che il giovane attore francese François
Cluzet regga il paragone con Dexter Gordon, ma siamo con quanti amano il film, intitolato come un pezzo di Thelonious Monk, il maestro del bebop morto nel 1982. È un nuovo
saggio dell'intelligenza e del fervore che guidano uno dei maggiori registi europei. Sino a
ieri se ne parlava come dell'autore di L'orologiaio di Saint Paul, di Colpo di spugna, di Una
domenica in campagna. Da oggi è il Tavernier di Round midnight.
Giovanni Grazzini, da Il Corriere della Sera, 11 ottobre 1986
Ispirato alle vite del pianista Bud Powell e del sassofonista Lester Young, è
la storia di un jazzista nero che negli anni '50 a Parigi viene praticamente
adottato da un giovane bianco che cerca di salvarlo dalla droga. Tutto giocato, con brevi schiarite, sul registro della disperazione e della malinconia,
questo film notturno sul jazz è anche una riflessione sulla musica in sé stessa, sul mistero della creazione artistica. Scene del vecchio Alexandre
Trauner. Camei di Martin Scorsese e Philippe Noiret.
Morando Morandini, da Il Morandini 2006
Rilettura di un momento importante della cultura americana - la diaspora
dei suonatori di bebop in Europa - ma rivista con occhi europei (dietro la
trama della pellicola c'è la storia simile di Francis Paudras e Bud Powell),
il film, sceneggiato dal regista con l'ex moglie Colo O'Hagan e David
Rayfield è la storia di un debito e di un risarcimento morale ("è stata la
musica di Dale a farmi superare le prove della guerra d'Algeria", spiega
Francis) e un atto d'amore totale per il jazz e per i suoi musicisti, dei quali racconta in sottotono l'ansia musicale ed esistenziale per il nuovo e l'ignoto (come le improvvisazioni del
bebop). Indovinatissima la scelta di Dexter Gordon, autentico maestro del jazz, così come
sono tutti veri suonatori i musicisti che si esibiscono in diretta sul palcoscenico del locale
parigino Blue Note di rue d'Artois o al Birdland newyorkese (oltre ad Hancock e
Hutcherson, suonano Billy Higgins, John McLaughlin, Wayne Shorter, Freddie Hubbard,
Cedar Walton). Imperdibile per gli amanti del jazz, lo è altrettanto per gli amanti del cinema per capire come si debbano rappresentare sullo schermo la musica e i musicisti.
Il titolo originale è derivato da una composizione di Thelonious Monk, Hanno piccole parti
i registi John Berry (Ben) e Martin Scorsese (Goodley), gli attori Philippe Noiret (Redon)
ed Eddy Mitchell (il cliente ubriaco), il produttore Alain Sarde (Terzina) e il critico Noël
Simsolo (il portiere dell'hotel).
Oscar alla miglior colonna sonora (a Herbie Hancock). Il film è "rispettosamente" dedicato a Bud Powell e Lester Young.
Paolo Mereghetti, da Il Mereghetti, Dizionario dei film 2008, Baldini Castoldi Dalai
editore.
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Bud Powell
Pianista. Nacque a New York il 24 settembre
1924. Il suo vero nome era Earl Powell ed
era figlio d'arte: il nonno era stato un bravo
chitarrista di flamenco e il padre un pianista
di stride-piano.
Bud fece il suo esordio a soli diciassette anni
al seguito di Thelonious Monk e, nel 1943,
entrò a far parte dell'orchestra di Cootie
Williams, ex trombettista di Duke Ellington.
Fu lo stesso Williams ad impedirgli di partecipare, qualche anno più tardi, al complessino di Dizzy Gillespie e Oscar Pettiford che,
sulla 52ma strada di New York, avrebbe
dato origine al movimento musicale noto
con il nome di bebop.
L'appuntamento con questo stile, per Bud
Powell, fu però solo ritardato. Anche a causa
della malattia mentale che lo fece entrare per
la prima volte in una clinica psichiatrica nel
1945 e che, lo avrebbe accompagnato per
tutta la sua esistenza.
I suoi problemi psichici erano acuiti anche
dalla droga e dall'alcool. Si ubriacava spesso e, a causa di ciò, diventava estremamente
aggressivo e provocatorio o, in alternativa,
restava in un angolo chiudendosi per ore in
un mutismo inquietante.
Il suo talento era, in ogni caso, indiscutibile.
Molti jazzmen già affermati che gravitavano
intorno alla 52ma strada se ne resero conto e
lo inserirono nei loro gruppi.
Come scrivono Brian Case e Stan Britt nella
loro Enciclopedia illustrata del jazz: "fra il
1947 e il '53 fu il più grande pianista prodotto dal movimento bop. Il suo slancio esecutivo, al pari di quello di Parker, lo portava
a delineare cavalcate solistiche travolgenti,
squassanti".
Purtroppo le sue performance furono ostacolate dalla malattia mentale. Tuttavia, nei
momenti in cui poté dare il meglio di se, fu
uno dei più importanti protagonisti della
musica jazz del dopoguerra e sicuramente
tra i migliori pianisti di ogni epoca. La sua
bravura la si percepisce soprattutto sui tempi
veloci, dove al movimento della mano sinistra impegnata a tracciare un accompagnamento fatto di accordi duri e isolati, si contrappone quello della mano destra che traccia linee melodiche spezzettate, che si rinnovano di continuo.
Nella sua carriera Powell ebbe modo di collaborare con numerosi, grandi musicisti
quali Dexter Gordon, Sonny Rollins, Fats
Navarro, Charlie Parker, Dizzy Gillespie,
Charles Mingus, Max Roach e molti altri.
La sua stella iniziò a declinare dopo il 1953
e dopo una serie di gravi crisi che lo costrinsero spesso a entrare in ospedale.
Nel 1959 si trasferì a Parigi insieme alla sua
seconda moglie, Buttercup e al figlioletto
Earl, installandosi a suonare al Blue Note,
famoso locale della Rue d'Artois. Quello
parigino fu un periodo felice per lui che,
però, ebbe termine a causa di una grave
forma di tubercolosi che lo colpì durante il
soggiorno parigino. Fu proprio a Parigi che
Francis Paudras, un giovane disegnatore
francese appassionato di jazz, gli divenne
grande amico aiutandolo nei momenti di difficoltà.
La voglia di ritornare in America, anche per
vedere la figlia Clelia che non aveva mai
conosciuto, lo riportò nel 1964 a New York,
dove riprese a suonare al Birdland, il locale
che aveva lasciato per la sua avventura europea. Ma la droga, che si era lasciato alle
spalle venendo in Europa, era in agguato e lo
portò ben presto verso la fine. Morì il 31
luglio 1966, dopo un ennesimo ricovero in
una clinica psichiatrica, a Brooklyn.
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Dexter Gordon
Tenorsassofonista. Nato nel 1923 a Los
Angeles, Dexter Gordon si impose quasi
subito come uno dei migliori sax tenori del
bebop. Il suo apprendistato si era svolto nell'orchestra di Lionel Hampton, affiancando
un altro tenorsassofonista di talento quale
Illinois Jacquet.
Lasciata l'orchestra di Lionel Hampton,
Gordon rimase a suonare per circa un anno
in vari locali di Los Angeles, entrando successivamente a far parte dell'orchestra di
Louis Armstrong e, in seguito, in quella di
Billy Eckstine, nella quale già suonavano
artisti del calibro di Dizzy Gillespie e Sonny
Stitt.
Nel 1945 si trasferì a New York, dove divenne uno dei protagonisti della scena musicale
della 52ma Strada. Qui collaborò con numerosi artisti dell'area bop: Bud Powell, Dizzy
Gillespie, Tadd Dameron, Leo Parker.
Tornato sulla costa pacifica, la sua arte
venne in parte oscurata dall'emergente trombettista Miles Davis, che aveva appena pubblicato Birth Of The Cool. Tornò in auge più
tardi, con l'affermarsi, sulla scena musicale,
dello stile denominato hard bop.
Nel 1962 si trasferì in Europa, stabilendosi a
Copenhagen, dove visse sino al 1976.
Nel 1986 il regista francese Bertrand
Tavernier lo volle protagonista nel suo film
'Round Midnight, ispirato alla vita del pianista Bud Powell. Con questo film, presentato
al Festival del Cinema di Venezia, Dexter
Gordon sfiorò la vittoria come miglior interprete protagonista maschile. La giuria gliela
negò con la scusa meschina che Gordon non
poteva essere considerato un attore e che nel
film si limitava a recitare la parte di se stesso.
Morì a Filadelfia nel 1990.
IL REGISTA : Bertrand Tavernier
Nasce a Lione nel 1941. Inizia la sua carriera nel mondo del cinema come critico per i Cahiers du Cinéma. Passa dietro la macchina
da presa realizzando alcuni episodi di film collettivi, sino ad approdare, nel 1974, al suo primo lungometraggio, L'orologiaio di St.
Paul, tratto da un romanzo di Georges Simenon, con protagonista
Philippe Noiret che diventerà il suo attore feticcio.
Tra i temi prevalenti che ritornano in molte sue opere vi sono l'analisi della vita di provincia, la descrizione del rapporto generazionale
e i richiami autobiografici.
Dopo il suo primo lungometraggio realizza numerosi film di successo, come Che la festa
cominci (1975), Colpo di spugna (1981), entrambi con Philippe Noiret; Una domenica in
campagna (1984), 'Round Midnight (1986), sino ai più recenti Ricomincia da oggi
(1998), Laissez-passer (2001) e La piccola Lola (2004).
Filmografia essenziale:
L'amore e la chance (La chance et l'amour, 1964) (registi vari)
L'orologiaio di St. Paul (L'horologer de Saint-Paul, 1974)
Che la festa cominci (Que la fête commence, 1975)
Il giudice e l'assassino (Le juge et l'assassin, 1976)
I miei vicini sono simpatici (Des enfants gâtés, 1977)
La morte in diretta (La mort en direct, 1980)
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Una settimana di vacanze (Une semaine de vacances, 1980)
Colpo di spugna (Coup de torchon, 1981)
Mississippi Blues (Mississippi Blues, 1983) (coregia con Robert Parrish)
Una domenica in campagna (Une dimanche à la campagne, 1984)
'Round Midnight - A mezzanotte circa ('Round Midnight, 1986)
Quarto comandamento (La passion Béatrice, 1987)
Daddy Nostalgie (Daddy Nostalgie, 1990)
Legge 627 (L. 627, 1992)
Eloise la figlia di D'Artagnan (La fille de D'Artagnan, 1994)
L'esca (L'appât, 1995)
Capitan Conan (Capitaine Conan, 1996)
La vita e niente altro (La vie et rien d'autre, 1989)
Ricomincia da oggi (Ça commence aujourd'hui, 1998)
Laissez-passer (Laissez-passer, 2001)
La piccola Lola (Holy Lola, 2004)
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PIANO SOLO
Regia di Riccardo Milani
Con Kim Rossi Stuart, Michele Placido, Jasmine Trinca, Paola
Cortellesi, Sandra Ceccarelli, Corso Salani, Mariella Valentini,
Roberto De Francesco, Claudio Gioè, Konrad Podolny
Italia, 2007, 104'
Trama
I
l piccolo Luca Flores trascorre l'infanzia in Africa, dove la famiglia si era trasferita
al seguito del padre, geologo di fama internazionale. A causa di un incidente stradale
dovuto a una disattenzione, la madre muore e la famiglia Flores tornerà in Italia stabilendosi a Firenze. Qui Luca diventa uno dei più apprezzati pianisti emergenti della scena
jazz italiana, affiancando musicisti di fama internazionale. Ma roso dai sensi di colpa per
aver causato la morte della madre, andrà lentamente verso una fine tragica e prematura.
Il film è tratto dal libro di WalterVeltroni Il disco del mondo.
Rassegna stampa
Dalla storia vera di un jazzista geniale e tormentato, Luca Flores, Walter
Veltroni aveva scritto un libro (Il disco nel mondo, ora rieditato nei tipi
BURextra), dal quale Riccardo Milani - con la complicità degli sceneggiatori Ivan Cotroneo, Claudio Piersanti e Sandro Petraglia - ha ricavato questo Piano, solo, opera drammatica intinta nel jazz, e tutta interiorizzata
come la voce di Chet Baker che per qualche attimo si ascolta. Un musicista di talento e un senso di colpa che lo consuma, anno dopo anno, fino alla tragica decisione di togliersi la vita. Una materia incandescente, irta di trappole, che Milani e Rossi
Stuart (protagonista fin troppo perfetto) denudano, spogliano, asciugano, minimalizzano,
preoccupati di cadere nel melò e nelle passioni da cui poi è difficile emanciparsi. Piano,
solo è un film che si lascia vedere ma che è fondamentalmente sbagliato: scontato nella sua
programmatica scelta di andare dalla parte opposta rispetto al percorso di Flores, purtroppo televisivo nella sua incastonata medietà, timido e poco audace nella sua messa in scena.
Concentratissimo, invece, sugli attori, molto aderenti ai personaggi, dove spicca la splendida caratterizzazione di Michele Placido. Qualcuno, prima o poi, dovrà cominciare a riflettere sul rullipetraglismo che blocca i copioni di molto cinema italiano contemporaneo. Un
sistema di scrittura paragonabile a un lavoro impiegatizio, una catena di montaggio di perbenismo dello sguardo che ha azzerato qualsiasi voglia rivoluzionaria.
Aldo Fittante, da FilmTv, 2007
II pianoforte, unica ragione di vita. Pochi sapevano suonarlo come Luca
Flores, cui è dedicato Piano, solo, di Riccardo Milani. Tutto è già deciso fin
dall'infanzia, da quei magici momenti su una spiaggia africana dove, bambino, trascorre momenti straordinariamente felici con la madre e i fratelli.
La famiglia è lì al seguito del padre, geologo di fama internazionale. I
suoni, la luce, la stupefacente bellezza dei luoghi esercitano un fascino
10
profondo sul piccolo Luca, quasi sopraffatto da una natura così "assoluta". Poi, improvvisa, la tragedia: un incidente stradale, in seguito a una banale disattenzione, la morte dell'amatissima madre. E dunque il ritorno in Italia, la passione per il pianoforte, che inizia suonando musica classica. L'incontro con il jazz è casuale, grazie all'intraprendenza di due giovani che, con lui, fonderanno il primo gruppo. Ma l'anima di Luca è rosa dai sensi di colpa,
da pensieri alieni che gli rovinano sempre più la vita. La contrastata storia d'amore con
Cinzia, i rapporti irrisolti con i fratelli fanno il resto: contro il buio della mente nulla si può
fare.
Luigi Paini, da Il Sole-24 Ore, 30 settembre 2007
Arriva il primo film della stagione tratto da scritti di Walter Veltroni (…).
Piano, solo è tratto da Il disco del mondo - vita breve di Luca Flores, musicista (Rizzoli): il titolo indica una partitura musicale scritta esclusivamente per pianoforte. Luca Flores era un giovane pianista italiano bravissimo
che aveva scelto di suonare in gruppi jazz e di esibirsi in piccoli locali evitando la cerimoniosità dei concerti classici; un uomo sensibile, ferito per
sempre dalla morte della madre in un incidente d'auto durante l'infanzia trascorsa in Africa.
Dopo l'abbandono di una ragazza amata, si ammalò di nervi e alla fine si uccise trentenne,
impiccandosi. L'ampia parte musicale del film, spesso composta ed eseguita da Luca
Flores, è molto bella. Ma la vicenda sembra troppo esile per nutrire il film; non sono sufficienti flash back e visioni, paesaggi dei luoghi più ammalianti di Firenze, memorie della
dispersione della famiglia, album di foto e film domestici. Piano, solo esiste grazie alla
bravura di Kim Rossi Stuart.
Lietta Tornabuoni, da La Stampa, 21 settembre 2007
Nella luce d'una spiaggia africana, davanti al verde d'un mare perfetto, e in
un tempo anch'esso perfetto: così inizia Piano, solo (Italia, 2007) Con la
madre Jolanda (Sandra Ceccarelli), in quell'incanto volentieri si perde il
piccolo Luca. Torneranno come nostalgia, quel mare e quel tempo, nel film
che Riccardo Milani ha tratto da un libro di Walter Veltroni. Ma ne sarà
diversa la luce, e
diverso sarà il senso di quella perfezione lontana.
È difficile raccontare una vita, soprattutto la vita di chi, come il jazzista
Luca Flores, abbia deciso di morire a
meno di 40 anni. Il rischio è che i fatti
si sommino ai fatti e finiscano per
nascondere le emozioni, o che le emozioni pretendano di farsi esemplari. E
può accadere che il film ceda alla tentazione di "illustrare" i conflitti fra la
grandezza dell'artista e le debolezze Kim Rossi Stuart nella parte del giovane pianista
dell'uomo. A questi rischi si sottrae Luca Flores
11
Piano, solo. Il Luca di Milani e dei suoi cosceneggiatori lvan Cotroneo, Sandro Petraglia e
Claudio Piersanti non è esemplare di alcunché. È invece se stesso, e lo è per intero, sia
quando suona o compone, sia quando soffre la sua malattia dell'anima.
Di questa malattia, dunque, c'è un sospetto doloroso già nel piccolo Luca. È chiuso e insieme è in attesa, quel ragazzino cui il bravo Konrad Podolny sa dare un viso intenso e smarrito. Rifiuta l'immediatezza degli affetti, ma poi tenta di ritrovarla. Così fa con il padre, da
cui fugge e che poi invano rincorre. E così fa con la madre, al cui sguardo sempre si sottrae, in un gioco fitto di allontanamenti e di ritorni nascosti. In un certo senso - e per paradosso, data la sua età -, a guidare le sue emozioni è la nostalgia. Sembra cioè che per lui
valgano gli affetti perduti e rimpianti, più ancora di quelli vissuti e goduti.
C'è però un momento, in Piano, solo, nel quale gli occhi di Luca non fuggono via da quelli della madre. Con la sorella Baba (Beatrice Maione), il ragazzino sta sul sedile posteriore dell'auto guidata da Jolanda, e la guarda attraverso lo specchietto retrovisore. Difeso e
protetto da questa "mediazione", non teme più di mostrarsi e di aprirsi. Ora infatti nello
specchio le sorride, e da quello stesso specchio ne riceve in cambio un sorriso. Un attimo
dopo l'auto sbanda, ed è come se la vita gli confermasse il timore che già da sé coltiva: per
lui non c'è amore possibile nel presente, ma solo in un passato denso di colpa e inutilmente rimpianto.
Questa è la malattia dell'anima del Luca Flores di Milani. Su di essa regia e sceneggiatura
costruiscono un racconto commosso e controllato, pudico. Commossa e colma di pudore è
anche la recitazione di Michele Placido (sempre molto bravo, quando non cede alla volgarità di una parte cospicua del cinema italiano), così come quelle di Ceccarelli e di Paola
Cortellesi. E sopra tutti spicca Kim Rossi Stuart, che sa rendere consapevole e disperato lo
smarrimento antico del piccolo Luca.
Per ritrovarlo, quello smarrimento, e nel tentativo di guarirne, il musicista torna poi in
Africa, e nella spiaggia su cui il film si apre. Ma non c'è più la luce di tanti anni prima, non
c'è più quell'incanto. Per lui, ora, anche la nostalgia è un'emozione perduta. Quello che non
ha afferrato in quel tempo lontano, la memoria si dimostra incapace di restituirgli. Solo noi,
in sala, ne abbiamo sentore. Ci accade quando, alla fine di Piano, solo, passano le immagini di un piccolo film girato su quella stessa spiaggia dal padre di Luca. Nelle sue immagini dai colori incerti e piene di graffi torna il verde di quel mare, torna quella perfezione.
E ci sembra sia diventata nostra, la nostalgia impossibile di Luca Flores.
Roberto Escobar, da Il Sole-24 Ore, 30 settembre 2007
Dimenticare Veltroni (e il suo romanzo II disco del mondo) è il primo consiglio; tanto per evitare il rischio del vile encomio o del politico oltraggio.
E poi un libro è un libro e un film è un film, ce lo hanno insegnato da piccoli. La seconda trappola emotiva nasce dal dettaglio che la storia di Luca
Flores, jazzista bravo e dannato, che morì giovane perché di volare non
aveva più voglia, è dolorosamente vera. Milani è un regista serio, e smorza
la retorica. Peccato che la sceneggiatura sia statica, le visioni di Firenze (la città in cui Luca
si mosse) facili, la compagnia di attori non sempre all'altezza. Così il bravo protagonista
Kim Rossi Stuart resta davvero troppo solo, e a tratti sembra compiaciuto della sua severa
fragilità.
Claudio Barabba, da Corriere della Sera Magazine, 4 Ottobre 2007
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Una storia di quelle che vale la pena raccontare. Perché parla di un ragazzino normale, di una famiglia normale, di una vita normale, che improvvisamente il destino fa esplodere. Una storia come altre, quindi paradigmatica. È quella di Luca Flores, che Walter Veltroni raccontò in un libro qualche anno fa (Il disco del mondo, Rizzoli) e che oggi arriva sugli schermi per
mano di Riccardo Milani con il titolo di Piano, solo (01 distribution).
Il film si sviluppa cronologicamente. Luca piccolo sulle spiagge infinite di Lourenco
Marques (Mozambico) che gioca con i tre fratelli e la mamma; Luca che fa un dispetto alla
sorella Baba (Barbara), Luca che va a letto senza bacio della buonanotte, Luca in macchina con la mamma verso la città, Luca che esce dallo sportello della macchina che ha sbandato, Luca che vede la mamma morente tra i rottami. Da lì, la vita sembra scorrere normale, per questo giovane illuminato dal talento e che della madre ha serbato soprattutto l'amore per la musica, la tenacia nell'esercizio sulla tastiera, gli esami al conservatorio e poi
l'incontro con un paio di ragazzi che lo convincono a lasciare la classica e a darsi al jazz.
Luca è un ragazzo un po' malinconico, spesso assente, ma con la voglia di vivere. Le voci
iniziano ad abitarlo improvvisamente: gli dicono che è sua la colpa della morte di Chet
Baker, che è lui il mostro di Firenze e forse anche l'assassino di sua madre. Le voci non
stanno mai zitte e Luca lentamente, inesorabilmente, perde il senno.
A dare volto e corpo a questo uomo morto suicida nel 1995 e alle sue inquietudini un Kim
Rossi Stuart che maneggia bene il mestiere. A 14 anni dalla sua ansia di prestazione in
Senza pelle, ora l'attore maturo si permette di lavorare sul disagio psichico senza scosse,
con lucidità e determinazione usando anche qualche facile escamotage artigianale (la voce
bassa e farfugliante nei momenti di maggiore difficoltà) senza farci male. Al loro posto i
personaggi di contorno (la sorella Barbara
interpretata da Paola Cortellesi, il fratello
con la faccia di Corso Salani, gli amici
Roberto De Francesco e Claudio Gioé, la
madre Sandra Ceccarelli) su cui si distinguono, in basso, Jasmine Trinca (la sua "fidanzata" non ha un goccio di passione vera) e, in
alto, il padre-Michele Palcido che ormai è un
vero re mida del cinema: trasforma in oro
qualsiasi personaggio tocchi.
Assistito dalla fotografia forte e ravvicinata
di Arnaldo Catinari e da una sceneggiatura
iper-professionale (Ivan Cotroneo, Claudio
Piersanti, Sandro Petraglia), Riccardo Milani
entra ed esce dall'emozione, a volte riesce a
far combaciare la sua regia con l'intensità del
materiale, a volte - più spesso - lo raffredda
con una rigidità di linguaggio. Nessun passaggio sbava, la regia mai trema di fronte
alla forza dell'immagine rimandata, qualche
colpo di coda si coglie nella prima parte
(dove del resto è la musica a comandare) ma
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ogni fantasia scompare nella seconda. Un compito ben fatto per una storia (ed anche per
degli interpreti, per una musica, per una passione) che, come si dice, meritava di più.
Roberta Ronconi, da Liberazione, 21 settembre 2007
Il senso di solitudine di Piano, solo di Riccardo Milani dedicato al jazzista
Luca Flores è la sua nota dominante. Più del jazz che dovrebbe essere uno
dei punti centrali del racconto, più della malattia mentale del protagonista
che pure sembrerebbe la chiave amara del film fin dalle prime scene quasi
ad aspettare la drammatica conclusione, è l'isolamento di un musicista
geniale a essere raccontato. Il bambino Luca Flores è appartato e sensibile,
ogni evento familiare lo segna, un tragico episodio lo devasterà. L'adolescente Flores è un
ragazzo che ha affinato le sue capacità musicali al massimo livello, ma non si lascia invadere dal mondo esterno, è di poche parole. L'uomo Flores, raggiunge il successo, suona con
i più grandi ed è travolto dalla malattia incontrollabile, quasi un percorso alla rovescia di
quello che fu Shine (la malattia e poi il risveglio, la musica come filo conduttore che tiene
insieme la personalità). Qui dalla felicità del gioco con i fratelli sulle spiagge africane dove
trascorse l'infanzia con la famiglia, si aggiungono elementi che contribuiscono a spiegare
la malattia: la morte della madre avvenuta in un incidente, che il bambino ritiene di aver
causato. La rimozione dell'episodio alimenta
nel profondo la sua musica e la sua malattia.
Walter Veltroni ha scritto Il disco del mondo
(vita breve di Luca Flores, musicista) per
raccontare la vita del jazzista che poteva
interloquire con Chet Baker, simili nei loro
abissi di dolore. Riccardo Milani lo ha ripensato per lo schermo, non senza quell'inevitabile piccolo tocco kitsch che ormai è strettamente legato al cinema italiano collegato
alla tv: sottolineare varie volte le cose perchè
si capiscano proprio bene, profusione di
primi piani, volti conosciuti da tutti, emotività tenuta sempre alta, poche incursioni in
zone considerate di élite (e il jazz è una di Un’immagine del giovane pianista Luca Flores
queste). Prende rigorosamente spunto dalle
lettere e appunti del musicista, ma ne enfatizza elementi che servono a sottolineare non tanto la genialità musicale, quanto l'obiettivo
del film, raccontare un percorso umano (e anche se si sa che Angela era uno dei suoi brani
preferiti si insiste sulla musica di Tenco perchè suggerisce il suicidio). Gli attori sono veramente bravi, da Kim Rossi Stuart (il protagonista) a raggiungere alte vette di malessere, a
Jasmine Trinca (la fidanzata) a riportarlo su un terreno reale, a Sandra Ceccarelli, Michele
Placido (i genitori) e Paola Cortellesi, Corso Salani, Mariella Valentini (i fratelli) nel creare un particolare clima familiare sospeso. La scena realmente inquietante è la performance
di Chet Baker, interpretato dal jazzista Alan King. E chi lo vide rimettersi a suonare "dopo
la caduta" non può non provare brividi.
Silvana Silvestri, da Il Manifesto, 21 settembre 2007
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È la storia di un geniale pianista italiano di jazz, Luca Flores, morto suicida non ancora quarantenne. Lo spunto, il bel libro che gli ha dedicato
Walter Veltroni, Il disco del mondo, rielaborato da una sceneggiatura scritta, fra gli altri, da Sandro Petraglia, con il contributo di lettere private e di
filmini amatoriali messi a disposizione dalla famiglia. Si comincia in
Africa, dove lavorava il padre di Luca, noto geologo. Un'infanzia felice,
funestata dalla morte in un incidente della madre; da cui un trauma che segnerà per sempre
l'esistenza di Luca. Poi, tornati tutti in Italia, il pianoforte, prima la musica classica quindi
il jazz, con un successo dietro l'altro perfino in collaborazione con Chet Baker. Presto, però,
nonostante l'amore di una ragazza e l'affetto di tutti i familiari, padre, sorella, fratello, le
prime turbe psichiche, delle ombre nere che, fra alti e bassi, incidenti e tentativi di riprendersi, condurranno alla tragedia finale. Con una corda al collo. L'impresa di rappresentarci
questa vita e i drammi che l'attraversano se l'è assunta Riccardo Milani (…).
Doveva raccontarci una storia buia, così, come precisa ricerca stilistica, ha chiesto alla fotografia di Arnaldo Catinari di evitare, salvo nelle prime pagine in Africa, le immagini limpide e dilatate, mirando, al contrario, a restringerle il più possibile attorno al personaggio
centrale non solo fasciandole sempre di luci scure ma tenendo spesso il suo volto e le sue
espressioni per metà quasi in ombra; con evidenti intenzioni simboliche. Privilegiando, a
loro sostegno, dei colori fra l'ocra e il nero, con effetti spesso quasi plumbei. E affidandole a ritmi più indirizzati a seguire l'evolversi degli stati d'animo che non la progressione dei
fatti. Si perviene a questi risultati grazie all'interpretazione ancora una volta straordinaria
di Kim Rossi Stuart che riesce a far trasparire dalla sua maschera segnata l'itinerario angosciante del protagonista dalla lucidità alla pazzia. Con una misura, un equilibrio, una precisione frutto, sempre, di sfumature meditate. Da non dimenticare, però, al fianco, Michele
Placido, il padre, Jasmine Trinca, la fidanzata, Paola Cortellesi, la sorella. Con rigore non
dissimile.
Gian Luigi Rondi, da Il Tempo, 22 settembre 2007
Luca Flores
Pianista. Nasce a Palermo nel 1956 e presto
si trasferisce con la famiglia in Mozambico,
al seguito del padre Giovanni, famoso geologo. Qui la vita dei Flores sarà funestata da
un grave incidente automobilistico che
costerà la vita alla madre di Luca.
Tornato in Italia nel 1970 Luca si stabilisce
a Firenze. Sarà in questa città che prende
l'avvio la sua carriera, dapprima come pianista classico, poi come jazzista.
Luca Flores, nella sua breve vita, ha collaborato con quotati musicisti italiani, quali
Tiziana Ghiglioni, Gianni Cazzola,
Massimo Urbani, Tullio De Piscopo, Bruno
Tommaso, Enrico Rava, Paolo Fresu e star
internazionali del calibro di Chet Baker, Lee
Konitz e Dave Holland, con i quali ha intrapreso vari tour internazionali che lo hanno
portato a suonare in molti paesi europei.
Dotato di una grande personalità a livello
musicale, Luca Flores visse tormentato dal
rimorso e dal rimpianto per la morte della
madre. Ciò gli causò una grave forma di
disagio mentale che lo condusse verso una
tragica fine. Morì suicida nella sua casa di
Montevarchi il 29 marzo 1995.
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IL REGISTA: Riccardo Milani
Nato a Roma, debutta nel cinema come assistente di registi famosi
come Nanni Moretti, Daniele Luchetti e Mario Monicelli.
La sua prima regia è datata 1997, Auguri professore, con Duilio Del
Prete, Silvio Orlando e Claudia Pandolfi, a cui segue, nel 1999, La
guerra degli Antò tratto da un romanzo di Silvia Ballestra.
Interessato a descrivere la vita delle classi più "basse", contrapponendosi a molto cinema italiano di oggi dove, ad essere raccontata
è soprattutto la classe media, Milani realizza nel 2003 Il posto dell'anima, con Silvio
Orlando e Michele Placido, storia della lotta di un gruppo di operai contro la chiusura della
loro fabbrica di pneumatici decisa dalla proprietà multinazionale.
Del 2007 è Piano, solo, interpretato, fra gli altri, da Kim Rossi Stuart, Michele Placido e
Paola Cortellesi. Tratto dal romanzo di Walter Veltroni Il disco del mondo, è la storia tormentata e tragica del pianista jazz Luca Flores.
Filmografia essenziale
Auguri professore (1997)
La guerra degli Antò (1999)
Il posto dell'anima (2003)
Piano, solo (2007)
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ASCENSORE PER IL PATIBOLO
(Ascenseur pour l'échafaud)
Regia di Louis Malle
Con Jeanne Moreau, Maurice Ronet, Georges Poujouly
Francia, 1957, 92'
Trama
S
pinto dall'amante Florence a uccidere il marito della donna, Tavernier, un ex-parà
reduce dall'Indocina, resta bloccato in ascensore e, contemporaneamente, viene
accusato dalla polizia di un altro delitto che in realtà non può aver commesso.
Non vedendolo arrivare all'appuntamento Florence inizierà a vagare senza meta per
Parigi alla ricerca dell'amante.
Alla fine, liberato grazie all'aiuto della donna, Tavernier verrà scagionato dal secondo
delitto avendo un ottimo alibi, essendo rimasto chiuso in ascensore al momento dell'omicidio. Non potrà però servirsene senza autoaccusarsi del primo omicidio, quello da lui
effettivamente commesso.
Film noir con atmosfere estremamente cupe, famosa la camminata di Jeanne Moreau nella
notte parigina, il film di Malle, tratto da un romanzo di Noël Calef vinse il Premio Delluc
1957. Colonna sonora realizzata da Miles Davis.
Rassegna stampa
Ascensore per il patibolo è anzitutto un album di splendide inquadrature, e
splendide senza effettismi, per la perfetta, calibratissima fusione di sottili
suggestioni fotografiche e sonore. C'è la lezione di Bresson, s'intende, e il
suo amour du style, ma non soltanto: c'è a esempio il miglior cinema americano, e la lunga passeggiata notturna della protagonista Florence ricorda
quella patetica dì Julie Thompson - attrice Audrey Totter - nel non dimenticato Stasera ho vinto anch'io di Robert Wise. Ma oltre al regista c'è anche un film? Qui i
dubbi sono legittimi. Del romanzo che ha ispirato Malle, mediocre "giallo", non è il caso
nemmeno di parlare. Un uomo ha commesso un delitto perfetto, al dodicesimo piano di un
grattacielo adibito a uffici, ma resta bloccato subito dopo nell'ascensore, fermo dal sabato
al lunedì. Più conformista e banale, fra l'altro, è la conclusione nel film di Malle rispetto al
testo di Calef: mentre nel romanzo il protagonista, liberatosi dall'ascensore e fatte sparire
con cura tutte le tracce del delitto, verrà incriminato per un delitto ancora più atroce commesso da un ragazzo che nella notte fatale si è impossessato della sua auto, senza essere in
grado di dimostrare la verità per la stessa "perfezione" del proprio omicidio, nel film la
polizia scopre al finale, e piuttosto meccanicamente, un rullo fotografico che permette di
fare giustizia al cento per cento.
Ma altre "variazioni", e di diversa portata, sono state imposte da Malle e dal suo collaboratore alla sceneggiatura - un altro giovanissimo, Roger Nimier - al romanzo di Noël Calef.
Julien Tavernier, il protagonista, non è più il Julien Courtouis del testo, mediocre "intral17
lazzista" mantenuto dalla moglie Géneviève; è un trentacinquenne che ha fatto la guerra e
ricevuto un'educazione sentimentale" nel famigerato corpo dei parà. Né uccide un qualsiasi usuraio, bensì Monsieur Carala, il suo principale e marito della donna da lui amata,
Florence (che a sua volta prende il posto dell'isterica Géneviève). Monsieur Carala è uno
dei più grossi industriali di Parigi, un profittatore di guerra: il colpo di rivoltella di Julien,
preceduto da taglienti e significative parole (e “Rispettate le guerre, signor Carala: sono le
risorse della famiglia") è qualcosa di più di un delitto passionale, della consueta soluzione
di un consueto "triangolo". E il giovane "bruciato" che ruba la fuoriserie di Julien e trascorre nel motel il suo tragico week-end con la devota e patetica Véronique non uccide una
coppia di turisti brasiliani, ma un grosso industriale tedesco più soddisfatto di sé, più potente e più allarmante di quelli de La ragazza Rosemarie.
In una storia cosi sordida, dominata da un "destino" cosi generico e invano forzato da atti
di una violenza gratuita, in personaggi cosi sgradevoli nella loro apparente "civiltà", dobbiamo cercare una critica di costume o, come vorrebbe Raymond Borde, "les phantasmes
chers aux petits jeunes gens de droite"? Probabilmente né l'una cosa ne l'altra. Manca, del
resto, una qualsiasi valutazione critica dei personaggi, del loro mondo e delle loro vicende:
alla loro mancanza interna di prospettive fa riscontro una mancanza totale di partecipazione attiva da parte del regista, se non sul piano della perfetta "immaginazione" e resa calligrafica. Ed è significativo, per non dire allarmante, che il più giovane cinema francese, nel
suo ripudio dei moduli naturalistici ormai fradici, non sappia rompere se non sul piano della
"lingua" - una "lingua" che vuole essere stile, e per mancanza di una fibra non lo è - le vecchie convenzioni care al pessimismo letterario dei Carné e dei Duvivier. Julien prigioniero
nell'ascensore non è praticamente più moderno di Pépé le Moko prigioniero sulla banchina, nelle ultime inquadrature de Il bandito della Casbah. E Louis Malle, rifiutandosi a una
commozione e a un qualsiasi engagement: evidentemente démodé, rischia di rimanere come un Astruc e, su un piano più orecchiato e apparentemente intemperante, un Vadim nel deserto di cactus degli "uomini vuoti" di cui T. S. Eliot ci parlò nel 1925.
A sinistra: Jeanne
Moreau in una
scena del film;
a lato: l’attrice
con Miles Davis,
autore della
colonna sonora.
18
In questo senso ancor più significativo è il successivo film di Louis Malle, Les amants: un
vicolo cieco, un vuoto assoluto, senza storia e in fondo senza personaggi. Per il suo appoggiarsi a giustificazioni narrative ancora esterne, non escluse quelle del film poliziesco,
Ascensore per il patibolo sembra un po' il Cronaca di un amore dì Malle; ma del film di
Antonioni non ha il rigore morale - frutto evidente del neorealismo - né la struttura inquietante dei personaggi principali. Belle, ma a ben vedere più suggestive che belle, sono le
sequenze dedicate a Florence, un'ennesima moglie adultera e uxoricida divisa fra l'amore,
il denaro e la paura: nelle rilucenti e crude immagini di Decaé, il volto espressivo della
brava Jeanne Moreau è una presenza innegabile, affascinante. A questo punto, Ascensore
per il patibolo parrebbe ridursi a un saggio formalistico: a un esercizio di stile, come pare
l'abbia definito l'autore stesso. Ma con le pagine felici, e i pregi di una narrazione elegante, non mancano elementi da ricordare sul piano del costume, anche se presentati acriticamente. E questo giovane regista, che dichiara con palese snobismo di considerare unica arte
del nostro secolo la pubblicità, e di non avere alcuna voglia di aderire al proprio tempo,
potrebbe essere il più qualificato a esprimere, attraverso la crisi di una generazione, il dramma di una nazione che per forza d'inerzia si è arresa alla dittatura.
Guido Fink, da Cinema Novo, 1959
Opera prima di Malle, ha già alcune qualità che faranno lo stile della
Nouvelle Vague: rompendo con la tradizione pseudorealista del giallo francese, il film cerca di imporre un universo autonomo, fatto di immagini,
musiche (gli assolo di Miles Davis, improvvisati durante la registrazione),
silenzi e scelte di regia. Più della trama gialla (tratta da un brutto romanzo
di Noël Calef sceneggiato da Roger Nimier e dal regista) interessa l'analisi dei sentimenti fra uomo e donna (indimenticabile la camminata notturna della Moreau
attraverso una Parigi inedita)), un tema che verrà approfondito dal regista nel successivo
Les Amants. Particolare l'uso della pellicola in bianco e nero, trattata da Henri Decaë in
modo tale da esaltarne i contrasti e le tonalità.
Paolo Mereghetti, da Il Mereghetti. Dizionario dei film 2008, Baldini Castoldi Dalai
editore
Brillante esordio di Malle con un film noir in cui più che l'azione, pur tesa
come un cavo dell'energia elettrica, contano l'atmosfera (fotografia di H.
Decaë, stupenda colonna musicale jazz di Miles Davis) e l'analisi dei sentimenti. D'antologia la camminata di J. Moreau nella notte parigina. Premio
Delluc 1957.
Morando Morandini, da Il Morandini 2006
Nel film si intrecciano varie suggestioni poliziesche. Dal giallo di stampo
classico, che fa leva sul più convenzionale dei moventi, al racconto
d’enigma alla Boileau & Narcejac; c’è persino l’espediente della camera
chiusa dall’interno che fa tanto preistoria del poliziesco (Gaston Leroux).
Malle non ha paura di sporcarsi con il genere, nel senso che l’intrigo non
è un pretesto per una sperimentazione linguistica. Il suo scopo è la sus19
pence. Solo che per raggiungerlo esce in strada a e applica ai personaggi – specie a
Jeanne Moreau (Florence) – una specie di tecnica del pedinamento che da una parte serve
a definire meglio un personaggio disorientato, dall’altra apre la scena al contesto. Una
Parigi non fittizia irrompe nelle inquadrature quasi senza controllo. Florence cammina e
tutto ciò che la circonda accade senza che il regista possa intervenire. Rifiutando spesso
di ricorrere alle riprese in studio e lavorando con una troupe leggera, quasi mimetizzata
fra la gente, Malle davvero anticipa la libertà espressiva che i teorici della Nouvelle
Vague identificheranno nella caméra stylo e in una manciata di “dogmi” quali il suono in
presa diretta, la macchina da presa instabile, il ritorno ad una verità impedita dal lavoro
negli studi e dall’esaltazione spettacolare della finzione. È chiarissimo come in Ascensore
per il patibolo la messa in scena si faccia linguaggio, non ha dunque la sola funzione di
illustrare il testo letterario di riferimento. Ed è la stessa consapevolezza estetica che sarà
alla base della Nouvelle vague. (…) Proprio nella mancanza di via di scampo per tutti i
protagonisti, al tempo stesso vittime e carnefici, stanno lo specifico noir del film e il suo
principale motivo di fascino. Mina vagante nel tessuto del polar, Ascensore per il patibolo diventa di culto anche per una delle colonne sonore più straordinarie della storia del
cinema. Secondo la leggenda, infatti, l’autore Miles Davis la compose improvvisando
mentre alcune scene gli venivano proiettate sopra il muro di uno studio. Che la circostanza sia vera o meno poco importa. Anche la musica però contribuisce alla disinvoltura creativa con cui Malle affronta il testo , dato che non è semplicemente commento alle situazioni. Ma un vero e proprio “linguaggio nel linguaggio”, autonomo e significativo. Le
dissonanze create da Davis traducono in suono quello che le immagini suggeriscono:
ansia , confusione, paura.
Mauro Gervasini, da Cinema poliziesco francese, Le mani ed., 2003, pagg. 149-150.
A sinistra: un’intensa immagine del trombettista
Miles Davis;
sopra: copertina del disco con la colonna sonora
del film
20
Miles Davis
Trombettista. Nato ad Alton, Illinois, il 6
maggio 1926 da una famiglia della borghesia nera (il padre era un dentista, proprietario terriero e allevatore).
Ricevuta in dono la sua prima tromba all'età
di 13 anni, Miles si trasferì ben presto a New
York dove ebbe, come maestri, musicisti del
valore di Charlie Parker, Dizzy Gillespie,
Thelonious Monk e altri, con i quali iniziò a
frequentare i locali della 52ma Strada.
La sua prima grande occasione arrivò nell'autunno 1945, quando Charlie Parker lo
invitò a entrare nel suo quintetto che si esibiva al Three Douces di New York.
Miles Davis percorse tutta una serie di stili
musicali che lo portarono a passare dal
bebop, suonato in quei primi anni del dopoguerra, al rock elettronico di fine carriera,
passando per il cool jazz quando entrò in
contatto con Gerry Mulligan e Gil Evans e,
succesivamente, per l'hardbop e la fusion.
A segnare l'inizo della musica cool di Miles,
sicuramente uno fra i periodi fondamentali
delal sua carriera artistica, fu uno dei suoi
dischi più importanti, Birth Of The Cool,
registrato fra il 1949 e il 1950 e pubblicato
nel 1954.
Verso la fine degli anni '50 organizza un
sestetto che entrerà nella storia del jazz, in
cui, oltre allo stesso Davis alla tromba, comparivano Julian "Cannonball" Adderley al
sax alto, John Coltrane al sax tenore, Red
Garland al piano, Paul Chambers al basso e
Philly Joe Jones alla batteria. Garland e
Jones vennero poi sostituiti, rispettivamente,
da Bill Evans e Jimmy Cobb. Da questa collaborazione nacque quello che da molti cri-
21
tici è considerato uno dei più bei dischi di
tutta la storia del jazz: Kind of Blue (1959).
Verso la metà degli anni '60 la fama di Davis
aveva toccato livelli elevatissimi. È di quegli anni un'altra svolta fondamentale della
musica di Davis, quando il trombettista crea
un quintetto con Wayne Shorter al sax alto e
tenore, Herbie Hancock al piano, Tony
Williams al basso e Ron Carter alla batteria.
A poco a poco Davis introdusse nella sua
musica strumenti elettrici, suonati da musicisti quali il chitarrista John McLaughlin e i
pianisti Hancock, Chick Corea e Joe
Zawinul. Anche la tromba di Miles si modifica, con l'introduzione di amplificazioni
elettroniche e pedali wah-wah che ne alteravano il suono.
Gli anni '70 sono caratterizzati da un progressivo peggioramento della salute di
Davis. Soffriva di diabete, aveva grossi problemi di artrite e ulcera. Era ritornato all'uso
della droga (dalla quale ne era uscito con
grande forza di volontà negli anni '50).
Questo peggioramento fisico si ripercosse
anche sulla qualità della sua musica (spesso
i suoi concerti venivano stroncati dai critici).
Arrivò a ritirarsi dalle scene per alcuni anni,
per poi farvi ritorno nel 1981, con un nuovo
gruppo e nuovi progetti.
Davis, che aveva sempre avuto un carattere
pessimo, irascibile e scostante con tutti,
continuò a suonare fino alla fine. Morì il 28
settembre 1991 a causa di due colpi apoplettici che si susseguirono a distanza ravvicinata. Dopo la sua morte uscì postumo il suo
ultimo album, con il quale Miles si era avvicianto a un nuovo genere musicale: l'acid
jazz.
IL REGISTA: Louis Malle
Nasce nel 1932 in Francia, a Thumeries, dove i genitori possedevano la
più grande fabbrica di zucchero della Francia e dalla quale si trasferisce
a Parigi con la famiglia, all'epoca dell'invasione nazista.
Studia presso istituzioni religiose, iscrivendosi, successivamente, alla
Sorbona e, contemporaneamente, all'Institut des Haute Études
Cinématographiques, che gli permette di rispondere a una chiamata di
Jacques Cousteau che cerca un aiuto-operatore per le sue riprese sottomarine e collaborando, così, alla realizzazione de Il mondo del silenzio (1956)
Esordisce nel lungometraggio con Ascensore per il patibolo (1957), dopo essere stato assistente di Robert Bresson in Un condannato a morte è fuggito (1956).
Ascensore per il patibolo reca con se già i "germi" di quello che, di lì a poco, sarebbe stato
conosciuto come il movimento della Nouvelle vague francese e permette a Jeanne Moreau,
interprete protagonista, di emergere e di essere conosciuta dal grande pubblico. La stessa
Moreau sarà la protagonista del secondo film di Malle, Les amants (1958), una storia di
adulterio che svela la povertà di un ambiente provinciale e borghese.
Completamente differenti saranno i temi della sua terza opera, Zaziè nel metro (1959), tratto dall'omonimo romanzo di Raymond Queneau e ambientato in una Parigi fantastica e
grottesca.
Malle realizzerà successivamente numerose opere, prima di emigrare negli Stati uniti. La
cultura americana segnerà profondamente il suo modo di fare cinema. Sposatosi con l’attrice Candice Bergen, realizzerà il suo primo film americano nel 1978. Si tratta di Pretty
Baby (1978), che narra gli ultimi momenti di vita del famoso quartiere a luci rosse
Storyville, a New Orleans. In America realizzerà alcuni film di successo, tra cui i più famosi sono Atlantic City (1980) e Alamo Bay (1985). Tornerà in Francia per realizzare una
delle sue opere più significative, a forte connotazione autobiografica: Arrivederci ragazzi
(1987), ambientato in un collegio religioso, è la storia di un amicizia fra due ragazzini ebrei
durante l'occupazione nazista e finita a causa della denuncia di uno dei due alla Gestapo da
parte di uno sguattero della scuola. Il film gli valse il Leone d'Oro a Venezia.
Malle, successivamente realizzerà un film sulle giornate del maggio francese (Milou a
maggio, 1989) e chiuderà la sua carriera nuovamente negli Stati uniti, realizzando Vanya
sulla 42ª Strada (1994), tratto da Cechov. Morirà quattro anni dopo per un tumore.
Filmografia
Ascensore per il patibolo (Ascenseur pour l’échafaud), 1957
Les amants (Les amants), 1958
Zazie nel metrò (Zazie dans le métro), 1959
Vita privata (Vie privée), 1962
Fuoco fatuo (Le feu follet), 1963
Viva Maria (Viva Maria), 1965
Il ladro di Parigi (Le voleur), 1966
Tre passi nel delirio,1967 (coregia con Roger Vadim e Federico Fellini)
Calcutta (Calcutta), 1968-69
Soffio al cuore (Le souffle au cœur), 1971
Cognome e nome: Lacombe Lucien (Lacombe Lucien), 1974
22
Luna nera (Black Moon), 1975
Pretty Baby (Pretty Baby), 1978
Atlantic City U.S.A. (Atlantic City), 1980
La mia cena con André (My Dinner with André), 1981
I soliti ignoti made in USA (Crackers), 1984
Alamo Bay (Alamo Bay), 1985
Arrivederci ragazzi (Au revoir les enfants), 1987
Milou a maggio (Milou en mai), 1989
Il danno (Damage), 1992
Vanya sulla 42ª strada (Vanya on 42nd Street), 1994
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BIRD
(Bird)
Regia di Clint Eastwood
Con Forest Whitaker, Diane Venora, Michael Zelnike, Samuel
E. Wright, Keith David, Michael McGuire, James Handy,
Morgan Nagler
Usa, 1988, 160'
Trama
È
la storia di Charlie Parker, detto Bird, suonatore di sassofono, innovatore della
musica jazz che, insieme a Dizzy Gillespie, fu tra i propulsori del nuovo movimento bebop, sorto dopo la Seconda guerra mondiale. Bird morì a soli 35 anni senza
soldi e distrutto dalla droga e dall'alcol. Il film di Eastwood ne ripercorre la vita, anche se
il film non procede in ordine cronologico. Vediamo gli inizi della carriera, la sua amicizia
con Dizzy Gillespie, quella con il trombettista Red Rodney, la paura di Parker nel vedere
che, per emulazione, Rodney aveva imboccato la sua stessa strada di autodistruzione.
Eastwood ci conduce, attraverso le vicende sentimentali di Bird, tutte più o meno disastrose, ad assistere alla sua drammatica fine, stroncato da un infarto nella casa della sua benefattrice, la baronessa Nika De Koenigswarter.
Il film vinse in Oscar per il suono e Forest Whitaker vinse il premio come miglior attore
protagonista al Festival di Cannes.
Alcune critiche piovvero dai puristi del jazz per la colonna sonora, dove agli assoli originali di Parker sono stati sovraincisi pezzi realizzati da un gruppo di musicisti contemporanei.
Rassegna stampa
Ciò che più piacque in Bird ("Uccello", soprannome del sassofonista negro
Charlie Parker), all'ultimo festival di Cannes, e a parere di alcuni avrebbe
dovuto procurargli la Palma d'oro anziché il solo premio per l'attore Forest
Whitaker, fu la devozione mostrata verso la musica jazz da Clint Eastwood.
Ciò che invece a molti dispiacque, e noi fummo tra quelli, fu paradossalmente una sorta di negligenza didascalica: il suo dare per sapute le ragioni della grandezza storica di Charlie Parker, di cui soltanto uno specialista può valutare il
talento innovativo. Con questa riserva - e nella speranza che il recente documentario Bird
now di Marc Huraux colmi il vuoto, - il tredicesimo film dell'Eastwood regista viene a collocarsi fra le pregevoli biografie prodotte da Hollywood per genuflettersi al mito antico dell'artista chiamato dal destino ad autodistruggersi. Come reagisca la generazione cresciuta
col rock non sappiamo. Quella che comprese il jazz, e in particolare il be-bop, fra le più alte
espressioni della creatività contemporanea sarà invece toccata dal ritratto di Parker, morto
appena trentaquattrenne, nel 1955, e già beatificato nel '67 dal film Sweet love, bitter diretto da Herbert Danska. Sebbene vada troppo per le lunghe (dura oltre due ore e mezzo), e
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sacrifichi molto alla formula
"genio e sregolatezza", Bird ripercorre con caldi accenti alcuni scorci di quella vita tribolata, apertasi a
Kansas City e chiusasi a New York,
per una crisi cardiaca, in casa di
una baronessa che proteggeva le
nuove arti.
La strada scelta dallo sceneggiatore Joel Oliansky, e condivisa da
Eastwood, non prevede un ovvio
sviluppo cronologico. In carattere
con gli strappi e i singhiozzi del
personaggio, il racconto va avanti e
Charlie Parker e Dizzy Gillespie, rispettivamente interindietro nel tempo. E dunque subipretati da Forest Withaker e Samuel E. Wright nel film
to ci presenta Parker già adulto,
Bird, di Clint Eastwood
corpulento e massiccio, sposato
con la sua quarta donna, sofferente di ulcera e di disturbi psichici sino a tentare il suicidio
e a provare la clinica. Poi ne rievoca la carriera e i prodigi in fumose cantine, gli attacchi
di disperazione e le serenate a Chan, la moglie futura, su un cavallo bianco, retrocede ai
suoi amori con una bionda, ai difficili esordi, alle crisi di follia sofferte per la mancanza di
droga, e balza a Parigi, dove sul finire degli anni Quaranta Bird fu coperto di fiori da fans
deliranti (un decennio più tardi toccherà a Dale Turner, come ci ricordò Bertrand Tavernier
in Round midnight). Respinto il consiglio di restare in Europa, il nostro va in tournée negli
States del Sud col trombettista Red Rodney, fatto passare per un negro albino, apre il suo
locale a New York, ma non cessa né l'alcol né l'eroina, per cui ha anche noie con la giustizia e, perduta una bimba, prova ad uccidersi. Fin quando, respinto ai margini perché inaffidabile e perché nuove mode sopraggiungono, si ripiega su se stesso.
Affascinato da quell'"angelo del sassofono" che
applaudì personalmente una quarantina d'anni fa (e la
sua passione per la musica fu detta sin dall'esordio nella
regia con Brivido nella notte), Clint Eastwood ha prudentemente scelto lo stile tradizionale per celebrare un
rivoluzionario. Nonostante il vai e vieni del racconto,
Bird procede infatti sulle rotaie del cinema celebrativo
senza chiederci troppi sforzi. Trascura molti capitoli
della biografia di Parker e non si trattiene a sufficienza
sul contesto, concentrandosi sul lamento per il precoce
bruciarsi del genio, ma ciò che dice lo dice con una
commozione sincera e un gusto visivo nei quali si traduce la sensibilità di un Eastwood assai più ricco di vita
interiore di quanto facessero sospettare le avventure di
Callaghan. Siano girate nei club, per le strade o nelle
camere d'albergo, ovunque la fotografia di Jack N. Il trombettista bianco Red Rodney
25
Green raccolga l'ombra che avanza e le scenografie del veterano Edward Carfagno reinventino un'epoca, molte scene sono efficacemente distese nel drammatico e nel tenero (particolarmente riuscito è il rapporto fra Bird e la moglie Chan, interpretata da Diane Venora),
il ritmo stesso del film qua e là riecheggia quello della musica, e il valore del sogno talvolta
emerge dall'inferno dell'eroina.
Ne vanno rese grazie anche all'interprete, il Forest Whitaker che vedemmo fra l'altro nel
Colore dei soldi e in Platoon, il quale qui gonfia le gote e muove le dita, come gli hanno
insegnato, col lodevole risultato di restituirci una probabile immagine di Parker. Rilevante
sarà comunque giudicato l'apporto del sassofonista Lennie Niehaus, che aiutato dall'elettronica è riuscito a isolare gli "a solo" di Bird, a suo tempo incisi su disco, più qualche inedito, e a inserirli in nuove cornici, orchestrate per l'occasione. C'è chi si commuove e chi
invece protesta - magari a ragione - per quanto di abusivo e arbitrario tutto ciò ha comportato.
Giovanni Grazzini, da Il Messaggero, 25 settembre 1988
Sembrava il film ideale per vincere il festival di Cannes: americano, segnato dal carisma di un grande di Hollywood, intellettuale e jazzistico. E invece la giuria l'ha liquidato con il premio a Forest Whitaker come miglior
attore (una performance straordìnarìa, quando suona sembra vero), mentre
sul mercato USA (e di conseguenza anche da noi) Bird ha fatto fiasco. Ma
è facile prevedere che tra pochi anni sarà un cult movie per la sua capacità
di fondere rigore e grande spettacolo. Dopo tante prove discutibili dietro la macchina da
presa, Eastwood si rivela un autentico pop-artista capace di applicarsi a un tema alto e sgradevole: il ritratto del sassofonista chiamato "il Picasso dell'arte afro-americana", morto a 34
anni in un delirio autodistruttìvo. Un "film noir" che non fa pesare le quasi tre ore della sua
durata, arricchito dalle improvvisazioni originali del musicista miracolosamente restaurate
e integrate da un complesso moderno. Fotografia ineffabile, interpreti fantastici e una rivelazione: Diane Venora nella parte di Chan la compagna del protagonista, una giovane attrice di inconsueto talento. Destinato a colpire al cuore i vecchi "alligatori" in ogni parte del
mondo, anche perché rinfocola la polemica tra i puri del jazz e i rockettari, il film appare
un'opera curiosamente e forse scandalosamente elitaria. Un ardito modello di cinebiografia
che potrebbe diventare un punto di riferimento.
Tullio Kezich, da Il filmnovanta: cinque anni al cinema: 1986-1990, Mondadori,
Milano, 1990
Thelonious Monk, parlando di Charlie Parker, lo definì "un graffio dell'anima". Il film è per l'appunto il racconto di un'anima graffiata. Graffiata dal
talento, persino esagerato. Graffiata da una disperata voglia di autodistruzione, Bird è la storia di una vita sfondata da dentro. La storia di un genio
morto poco più che ragazzo a trentaquattro anni. Clint Eastwood ha girato
un film strano, inusuale per lui. Una grande biografia, cupa, che non ebbe
il successo che si meritava. Un film scomodo, inquietante, dark. L'ultima cinematografia di
Eastwood sembra cercare il buio, sembra voler stanare le notti dei protagonisti. Da Il cavaliere pallido a Gli spietati le storie di Eastwood sembrano attraversate da un grande disagio, da un'assenza di luce. Qui si racconta la discesa agli inferi dell'uomo che cambiò la sto26
ria del jazz. C'è una vita spericolata, fatta di sesso, droga e bebop. È
un film di grande fascino che Tullio
Kezich giustamente scrisse sarebbe
diventato nel tempo un cult.
L'attore, Forest Whitaker, fu premiato a Cannes per la migliore
interpretazione. È in effetti è di rara
intensità il modo in cui si distrugge.
La musica è stata ricostruita per
Clint Eastwood con
consentire l'uso della stereofonia.
Lennie Niehaus,
Gli assolo di sax sono però di
sassofonista che è
riuscito a ricreare,
Parker che, come è successo a Nat
ripulendole, le
King Cole, si ritrova nella stessa
sonorità di Charlie
musica con persone forse nate dopo
la sua morte. È una bellissima
occasione per vedere un film strano e affascinante. Cupo come una vita infelice.
Walter Veltroni, da Certi piccoli amori. Dizionario sentimentale di film, Sperling &
Kupfer Editori, Milano, 1988
Charlie Parker
Altosassofonista. Era nato a Kansas City il
29 agosto 1920. La sua infanzia fu segnata
dall'abbandono del padre, un guitto di vaudeville, mentre era ancora in tenera età.
Crebbe per le strade del ghetto negro della
Kansas City lato Missouri, accompagnandosi sempre con gente poco raccomandabile e
frequentando i cabaret notturni.
L'origine del suo soprannome, Bird (uccello) o Yardbird (uccello da cortile), non è
certa. Alcuni dicono che fosse dovuta all'episodio in cui, girando in auto con i membri
della band e avendo per sbaglio investito un
pollo, Charlie lo raccolse e lo cucinò, obbligando poi tutti a mangiarlo. Sta di fatto che
il giovane Charlie, recatosi a New York, si
fece ben presto notare per lo stile personalissimo con cui suonava il sax (dapprima il
tenore, per poi passare all'alto). Proprio a
New York conobbe Dizzy Gillespie, nella
cui orchestra venne assunto e insieme al
quale divenne uno di principali suonatori di
bebop sulla scena.
La sua vita fu tormentata dall'abuso di alcol
e droghe, che lo portarono a essere più volte
ricoverato in clinica psichiatrica. La cartella
clinica conservata all'ospedale psichiatrico
di Camarillo lo descrive come "un uomo di
intelligenza superiore" e con "tendenze
paranoiche", "fantasie sessuali" e personalità "estremamente evasiva".
Ebbe una vita sentimentale travagliatissima.
Si sposò più volte e convisse anche con due
donne contemporaneamente. Una di questa
era Chan Richardson, alla quale rimase legato sino alla fine dei suoi giorni.
Fu un musicista geniale, paragonabile per il
suo livello di innovazione a Louis
Armstrong e Duke Ellington. Nei suoi gruppi suonarono numerosi musicisti di grandissimo livello: Miles Davis, Chet Baker, Fats
Navarro, Dexter Gordon, Milton Jackson,
John Lewis, Bud Powell, Charles Mingus,
Max Roach, Art Blakey e molti altri.
Miles Davis, nella sua autobiografia, descrive così il suo rapporto con Bird: "Suonare
con lui mi piaceva, ma non potei imparare
27
molto dal suo modo di suonare perché era
troppo originale. Non si poteva imitare a
meno di copiarlo e non si poteva copiarlo a
meno di essere dei sassofonisti. Ma neanche
i più grandi ce la fecero (…). Non c'era nessuno che sapesse suonare come Bird allora,
e neanche oggi c'è".
Purtroppo la sua fama e il suo modo di suonare indussero anche molti musicisti a imitarne lo stile di vita, sperando in tal modo di
imitarne anche lo stile musicale. Famoso è il
caso del valente trombettista bianco Red
Rodney, che divenne grande amico di Bird
ma che, purtroppo, imboccò il tunnel della
droga proprio a causa dell'esempio negativo
dato da Parker.
Bird morì il 12 marzo 1955, nell'appartamento di una ricca ereditiera appassionata di
jazz, la baronessa Nica Rothschild de
Koenigswarter. Vi era arrivato da alcuni
giorni, stava male e Nica gli impedì di
lasciare l'appartamento. Dopo tre giorni fu
colto da un'improvvisa crisi cardiaca. Spirò
quasi all'improvviso sul divano della baronessa, mentre guardava la televisione. Il
mondo del jazz aveva perso uno dei più
grandi solisti di tutti i tempi, straordinario
innovatore, in grado di inventare originalissime soluzioni musicali che avrebbero cambiato per sempre quella musica.
IL REGISTA: Clint Eastwood
Compare negli anni ‘50 in alcune parti secondarie di B-movies nei quali
non viene nemmeno accereditato. La carriera cinematografica dell’attore californiano (nato a San Francisco il 31 maggio 1930) ha una
improvvisa svolta con il telefilm di ambientazione western Rawhide.
Negli anni ’60 viene notato dal regista italiano Sergio Leone che gli
affida il ruolo di protagonista in alcuni suoi film. Eastwood diventa,
così, famoso al grande pubblico con alcuni “spaghetti-western” quali
Per un pugno di dollari, Per qualche dollaro in più e Il buono, il brutto e il cattivo, impersonificando il personaggio del cowboy gelido e spietato.
Da questo momento, tornato in America, può considerarsi, a tutti gli effetti, una star. Alla
fine degli anni ’60 fonda una sua casa di produzione, la Malpaso Company con la quale
produrrà tutti i suoi film successivi. In quegli stessi anni incontra Don Siegel, già affermato regista, con il quale girerà cinque film fra i quali il primo della serie dell’ispettore
Callaghan, Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo (1971). Soprattutto, con Don Siegel,
Eastwood stabilirà un rapporto di profonda amicizia e la collaborazione con lui gli permetterà di apprendere lezioni che risulteranno fondamentali per la sua nascente carriera di regista.
Esordisce, infatti, dietro la macchina da presa con un film giallo, ricco di suspence, dal titolo Brivido nella notte (1971). Da questo momento abbinerà la sua carriera di attore a quella di regista, comparendo come protagonista in quasi tutti i suoi film. Verso la fine degli
anni ’80 realizza Bird (1988), storia del sassofonista Charlie Parker, uno dei suoi film (dove
Eastwood non compare come attore) più affascinanti ma che non hanno avuto il successo
meritato anche se, con gli anni è divenuto un vero e proprio cult movie, soprattutto per gli
appassionati jazzofili.
Da questo momento in poi le opere di Clint Eastwood raggiungono spesso vette qualitative assai elevate, toccando tutti i generi, dal western (Gli spietati, del 1992, con cui vince
l’Oscar), al poliziesco (Debito di sangue, 2002). Eastwood si cimenta persino con il genere
28
romantico con I ponti di Madison County (1995), affiancando una intensa Meryl Streep.
Negli ultimi anni realizza un successo dopo l’altro. Suoi sono Mystic River (2003; Million
Dollar Baby (2004) e il dittico dedicato alla battaglia di Iwo Jima: Flags of our Fathers
(2006) e Lettere da Iwo Jima (2007).
Filmografia (solo regie)
Brivido nella notte (Play Misty for Me), 1971
Breezy (Breezy), 1973
Lo straniero senza nome (High Plains Drifter), 1973
Assassinio sull’Eiger (The Eiger Sanction), 1975
Il texano dagli occhi di ghiaccio (The Outlaw - Josey Wales), 1976
L’uomo nel mirino (The Gauntlet), 1977
Bronco Billy (Bronco Billy), 1980
Firefox volpe di fuoco (Firefox), 1982
Honkytonk Man (Honkytonk Man), 1982
Coraggio... fatti ammazzare (Sudden Impact), 1983
Il cavaliere pallido (Pale Rider), 1985
Gunny (Heartbreak Ridge), 1986
Bird (Bird), 1988
Cacciatore bianco, cuore nero (White Hunter, Black Heart), 1990
La recluta (The Rookie), 1990
Gli spietati (Unforgiven), 1992
Un mondo perfetto (A Perfect World), 1993
I ponti di Madison County (The Bridges of Madison County), 1995
Potere assoluto (Absolute Power), 1996
Mezzanotte nel giardino del bene e del male (Midnight in the Garden of Good and Evil),
1997
Fino a prova contraria (True Crime), 1999
Space Cowboys (Space Cowboys), 2000
Debito di sangue (Blood Work), 2002
Piano Blues (Piano Blues), 2003
Mystic River (Mystic River), 2003
Million Dollar Baby (Million Dollar Baby), 2004
Flags Of Our Fathers (Flags Of Our Fathers), 2006
Lettere da Iwo Jima (Letters From Iwo Jima), 2007
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KANSAS CITY
(Kansas City)
Regia di Robert Altman
Con Jennifer Jason Leigh, Miranda Richardson, Harry Belafonte,
Michael Murphy, Dermot Mulroney, Steve Buscemi
Usa-Francia, 1996, 115'
Trama
A
Kansas City, nel 1934, per uno sgarro un piccolo malavitoso viene fatto prigioniero
da un boss delle case da gioco (interpretato da Harry Belafonte). La moglie, per
liberarlo, sequestra la consorte drogata di un consulente del presidente degli Stati
uniti Franklin D. Roosevelt, del quale vuole sfruttare le conoscenze nell'ambiente della
malavita. Contemporaneamente, allo Hey-Hey Club, si svolgono delle jam session che mettono di fronte due dei più famosi jazzisti del momento: Lester Young e Coleman Hawkins i
quali si produrranno in sfrenate e lunghissime performance.
Rassegna stampa
Evviva Robert Altman, che ieri ci ha fatto provare la sensazione più rara in
un festival cinematografico, quella di andare al cinema: alla proiezione di
Kansas City ho dimenticato di essere un critico e di stare là per obbligo.
Insomma, sull’onda della più bella colonna di revival jazzistico da anni, me
la sono goduta a vedere Jennifer Jason Leigh che a un certo punto diventa
bionda come Jean Harlow, Miranda Richardson in una personalissima versione della dark lady, Harry Belafonte padrino nero dalla voce rauca e dall’abito gessato,
Steve Buscemi grande elettore col manganello; e la Ford vecchio modello, gli agguati, le
sparatorie, le lacrime su Baby Lindbergh, le barzellette d’epoca e una schiera di favolosi
musicisti che simulano di essere Lester Young e Coleman Hawkins, impegnati in una storica “Battle of Jazz”; e ancora Count Basie, Jimmy Rushing e perfino il giovanissimo
Charlie Parker. I “Ragazzi scimmie del jazz”, di cui parla la canzone di Paolo Conte, sono
avvertiti; l’appuntamento è da non perdere. E, soprattutto, non badate a quelli che diranno:
è un Altman minore. Certo, Kansas City non è Nashville, ma si provi un altro regista a imbastire un film così.
Sull’arco di ventiquattro ore, a cavallo di una giornata elettorale, si svolge il rapimento di
Miranda, moglie imbottita di laudano di un consigliere del Presidente Roosevelt, prelevata
pistola alla mano da Jennifer introdottasi in casa sua come manicure nel colmo di una notte
di tempesta. Ciò che vuole l’improvvisata sequestratrice è un intervento del potente uomo
politico per salvare il marito Dermot Mulroney dalle grinfie della banda di Belafonte,
annidata nello Hey Hey Club, dove si va avanti a suonare tutta la notte. Dermot ha fatto una
scemenza (lo apprendiamo da una serie di flashback) travestendosi da nero per derubare un
ricco cliente della bisca e vive un tempo sospeso in attesa della sentenza.
Vivido e appassionato come certi incunaboli della Metro che si rivedono in Tv (viene cita30
to Hold Your Man, ovvero
L’uomo che voglio, con la
Harlow fra le braccia di Clark
Gable), Kansas City lascia
emergere dalle suggestioni
romanzesche una storica mappa
del potere: tra il ‘26 e il ‘36 il ras
democratico Tom Pendergast,
sotto braccio con il gangster
John Lazio, fece il bello e il
brutto tempo in città, rastrellando consensi per il suo partito,
liberalizzando alcool e gioco e
proteggendo la musica dei
transfughi da New Orleans.
Altman ci racconta l’illusione di
un uomo e una donna nati sul
versante sbagliato, che cercano
Harry Belafonte in una scena del film di Robert Altman
di forzare le regole a proprio
Kansas City
favore e finiscono come devono
finire. Forse il teorema è troppo
premeditato, ma i personaggi della minitragedia acquistano ugualmente un patetico risalto.
Quanto alla musica, vera protagonista, entra ed esce nelle situazioni, sottolinea, contrasta,
lega e accompagna, da un motivo all’altro di una jam session lunga due ore. L’ultimo
“tune” è l’immortale Solitude di Duke Ellington, che affiora quando la falsa Jean Harlow è
travolta dal prevedibile finale di morte. Tipici dell’ironia di Altman, i suggelli sono una
cinica battuta di Miranda al coniuge ritrovato (“Oggi ho fatto di tutto, tranne che votare”)
e l’immagine di Belafonte che imperterrito conta le mazzette accanto al palco dell’orchestra. Obiezioni? I personaggi minori si perdono, la trama svela la sinopia e sullo schermo
succedono le cose che uno si immagina. Ma ce ne importa poi tanto di fronte a un tale
esempio di cinema-cinema tutto americano?
Tullio Kezich, da Il Corriere della Sera, 13 maggio 1996
Jimmy Rushing, il vocalist di Count Basie, cantava con una potenza tale
che lo si poteva sentire a dieci isolati di distanza, e senza microfono. Così
la grande pianista nera Mary Lou Williams ricorda il blues shouted, “urlato”, e il jazz aggressivo di Kansas City. Negli anni della Grande
Depressione, la città era controllata dal gangster Tom Pendergast, considerato il padrino del futuro presidente Harry Truman. Così la ricorda, appunto, la Williams: cinquanta cabaret tra la diciottesima e la dodicesima strada,
la maggior parte frequentata da politicanti e delinquenti, si beveva, si giocava d’azzardo, si
suonava, «c’era musica dappertutto»... A Kansas City, immerso nelle sue sonorità, è nato e
cresciuto Robert Altman, che nel 1934 aveva nove anni. Del jazz che allora si faceva nella
sua città il regista ormai più che settantenne fa quasi il modello di Kansas City (1996). Un
po’ come se s’ispirasse alla tecnica del riff - allo schema d’origine africana di “chiamata e
31
risposta”, sulla base d’una frase musicale di due o quattro battute, ossessivamente ripetuta
dal solista e (soprattutto) dall’orchestra -, Altman introduce nel suo film il tema “minimo”:
Johnny O’Hara (Dermot Mulroney) che, con il viso sporco di nerofumo, rapina un “cliente”
dell’Hey Hey Club, il locale di Seldom Seen (Harry Belafonte).
Attorno a questa bravata, di per sé insignificante, si sviluppa poi una jam session d’attori
solisti, ognuno impegnato in un “confronto” il cui fine non è però esclusivamente personale ma anche d’insieme (proprio com’era nello stile dei musicisti neri di Kansas City, e
come nel film fanno per esempio Craig Handy, Joshua Redman e James Carter, nei ruoli e
nello stile di Coleman Hawkins, Lester Young e Ben Webster). Anche con un uso raffinato
del flashback, Altman ha appunto cura di dare via via spazio e scena a Blondie O’Hara, a
Carolyn Stilton, a Henry Stilton, a Seldom Seen e agli altri personaggi minori, intrecciandone gli assolo, opponendoli, riconducendoli alla coralità del film.
Nei panni di Henry Stilton, dunque, Michael Murphy sviluppa il tema iniziale fino a disegnare i contorni gelidi, cinici e inquietanti d’un potere apparentemente lontano dalla
vicenda del film, e che invece si rivela onnipresente, pervasivo. In ciò, il suo assolo è rinforzato da quello, breve ma essenziale, di Steve Buscemi nel ruolo di Johnny Flynn, piccolo e cinico anello di congiunzione nei rapporti tra politica e gangsterismo. Alle loro spalle
si intravede così l’America che sta tentando d’emergere dalla crisi del 1929, l’America del
proibizionismo e della corruzione. Un’America, ancora, che reinventa se stessa e il proprio
mito ma, insieme, conosce e vive quelle disperazioni e quelle solitudini che, tra gli altri,
anche Altman ha raccontato in Gang (come ora il jazz, in quel film del ‘74 era la radio a
segnare la continuità del racconto, in giro per le miserie e i sogni della provincia americana). Belafonte, invece, gioca il suo assolo a partire dal nerofumo con cui Johnny si é
mascherato da “negro”, un po’ come - ricorda - accadeva con certi personaggi radiofonici
allora in gran voga, paternalistiche caricature bianche di stereotipi di colore. Il suo Seldom
Seen (alla lettera “visto di rado”) è tutto sviluppato dentro la musicalità dell’Hey Hey Club,
Di lato:
Coleman
Hawkins;
a destra:
Lester Young.
32
come se in lui la violenza non ne fosse che un doppio metaforico. E infatti arriva alla scelta
della punizione (efferata) di Johnny O’Hara solo attraverso una serie fitta di variazioni sul
tema, di rinvii, d’improvvisazioni, quasi fosse interessato, più che alla decisione, ai ritmi
della sua invenzione. Ma è tra Carolyn e Blondie, tra la compagna raffinata d’un uomo ai
vertici del potere di Washington e la piccola donna d’un piccolo bandito, che il confronto
soprattutto s’approfondisce fino a creare il senso musicale complessivo dell’orchestrazione. Annoiata, colma di piccole e umanissime illusioni: imita Jean Harlow, Hold your
Man, 1933, Sam Wood, L’uomo che voglio (1940), gangsterismo e sentimentalismo. Alla
fine di Il lungo addio (1973) Gould s’allontana suonando il leitmotiv del film; qui invece
il colpo di pistola segna la fine della musicalità, un silenzio terribile ed esplicito.
Roberto Escobar, da Il Sole-24 ore
Robert torna da vecchio nella sua città natale lasciata da ragazzo, e la rivisita in un periodo speciale: pare che nel 1934 Kansas City fosse l’unica
negli Stati Uniti ad essersi sottratta alla Grande Depressione economica, a
rimanere un paradiso dei soldi dove si trovava il gioco, il crimine, la polizia
corrotta e la politica legata alla malavita, le donne più ardite, il jazz più
bello coi suoi musicisti migliori. Una condensazione, quindi, dell’America
sognata al cinema dagli europei, dell’immagine stereotipata del Paese sognata in Italia
anche dall’americano di Roma Alberto Sordi. Più che alle memorie d’infanzia, Altman
sembra rifarsi in Kansas City alla grande maniera del cinema americano classico: il risultato è uno dei suoi film più compatti e meno destrutturati, ricco di romanticismo nero,
amarezza e struggimento, molto bello. La storia è esemplare ed è insieme quasi un pretesto
per percorrere la città. Un ladruncolo bianco rapina un ricco giocatore d’azzardo nero.
Viene identificato e preso dai gangster del boss nero Harry Belafonte: il rapinato è un
cliente della sua bisca, il bianco che s’é azzardato a
derubarlo verrà punito a morte. Jennifer Jason-Leigh,
moglie innamorata del ladro, rapisce la moglie d’un
leader politico importante e propone uno scambio: suo
marito contro quella moglie che è la meravigliosa
Miranda Richardson. Durante le trattative le due donne
continuano a girovagare in automobile per Kansas City,
febbrile alla vigilia delle elezioni politiche truccate dai
brogli, eccitata per una grande jam session durante la
quale pure Charlie Parker ragazzino assiste allo storico
duello al sassofono tra Coleman Hawkins e Lester
Young. Il vagabondaggio definisce anche i due personaggi femminili. La rapitrice è appassionata, energica,
aggressiva, modellata sulle eroine nere del cinema, imitatrice delle star dure e sfacciate Jean Harlow e Joan
Crawford nate a Kansas City, sentimentale e violenta.
La rapita è confusa, atona, estenuata come la sua ricca
classe sociale, umiliata dall’indifferente disamore co- Tom Pendergast, politico e boss
niugale: ma sarà lei a uccidere l’altra sul cadavere orri- incontrastato della Kansas City
bilmente sventrato del marito rapinatore, con un gesto degli anni Trenta
33
che forse è di pietà o forse di riassunzione di potere. Le due attrici sono bravissime, il jazz
che si ascolta è bellissimo, ed è assolutamente contemporaneo il tema che domina il film,
quello della dipendenza: dalla cocaina, dal laudano, dalla vanità, dal cinema, dall’amore,
dalla politica (per i criminali), dalla criminalità (per i politici).
Lietta Tornabuoni, da La Stampa, 22 Dicembre 1996
(...) Altman (sceneggiatore con Frank Barhydt) , mescolando tempi e storie,
cerca di cogliere le contraddizioni di un’America violenta e corrotta, specchio di quella odierna, ma senza trovare una vera sintesi. E il film resta
spaccato tra l’elegia dei perdenti (bianchi)e la celebrazione della musica
(nera). Ben delineati, comunque, i personaggi, senza il cinismo tipico dell’ultimo Altman. Accanto a Craig Handy e Joshua Redman - che ricreano il
duello di Coleman Hawkins e Lester Young – compaiono molti jazzisti di valore come i
sassofonisti James Carter (nella parte di Ben Webster) e David Murray, il clarinettista Don
Byron, i bassisti Ron Carter e Chris McBride, i pianisti Cyrus Chestnut (nella parte di
Count Basie) e Geri Allen, il batterista Victor Lewis. Belafonte è doppiato da Carlo
Croccolo.
Paolo Mereghetti, da Il Mereghetti . Dizionario dei film 2008. Baldini Castoldi Dalai
editore.
Kansas City
Nel 1929 il crollo della Borsa di Wall Street
gettò in una profonda crisi economica gli
Stati uniti.
Nonostante le rassicurazioni della classe
politica, presidente Hoover in testa, il numero di disoccupati crebbe a dismisura nel giro
di pochi mesi. Addirittura, nel 1932, quando
venne eletto a presidente Franklin Delano
Roosevelt, il presidente della ripresa, si
toccò la cifra di 12 milioni di senza lavoro e
molti questi erano persone di colore.
Ovviamente la Grande depressione ebbe
ripercussioni pesantissime anche sul mondo
del jazz. Molti locali di New York e
Chicago, le città più importanti dal punto di
vista musicale, dovettero chiudere e migliaia
di musicisti si trovarono da un giorno all'altro senza lavoro. Soprattutto Chicago scontò
la crisi, a causa anche della corruzione del
sindaco Big Bill Thompson, legato a filo
doppio con Al Capone. L'era del jazz a
Chicago stava tramontando per sempre e
molti jazzisti, da Gene Krupa a Eddie
Condon, da Benny Goodman a Bud Freman,
si riversarono in Times Square a New York,
cercando in qualche modo di sbarcare il
lunario.
Ma se la situazione per i bianchi era grama,
per i musicisti neri era addirittura disperata,
aggravata da difficoltà legate ai pregiudizi
razziali. Molti artisti di colore finirono per
abbandonare l'attività dedicandosi ad altro,
come, ad esempio, Kid Ory, finito ad allevare galline, o Sidney Bechet, che aprì un'umile bottega a Harlem.
Ma se il jazz era in declino nelle grandi città
dell'est, non lo era nel sud ovest e, in particolare a Kansas City nel Missouri, dove prosperava proprio nel momento in cui stava
declinando altrove. Ciò fu possibile grazie a
due fattori. Alla posizione geografica strategica della città che le aveva permesso di
diventare il maggior centro commerciale del
sud ovest e al particolare clima instaurato a
quel tempo da Tom Pendergast, politicante
locale e boss incontrastato, possessore del
potere politico e controllore di ogni sorta di
34
racket, da quello degli alcolici a quello dei
locali notturni.
L'atmosfera a Kansas City è ben descritta
nel film di Altman con i musicisti che si sfidano in lunghissime jam session. I migliori
suonatori dell'epoca si confrontarono in
interminabili sfide all'ultima nota. Negli
anni fra il 1933 e il 1936 era facile incontrare nei locali Lester Young, Coleman
Hawkins, Ben Webster, Charlie Parker, allora giovanissimo, la pianista e arrangiatrice
Mary Lou Williams. Spesso questi "monumenti" della musica afroamericana venivano
svegliati in piena notte e chiamati per risolvere sfide difficili.
Con il finire della cosiddetta "era
Pendergast", il jazz a Kansas City scomparve quasi del tutto, per rifiorire a New York
contemporaneamente al New Deal instaura-
to dal nuovo presidente Roosevelt. Era giunto il momento di abbandonarsi al divertimento. Nacque lo swing, una musica adatta
al ballo, alla festa.
Bianchi e neri erano tutti accomunati nel
realizzare una musica il cui scopo era quello
di far dimenticare i giorni cupi della depressione. Gli appartenenti a entrambe le razze
si accalcavano sulle piste da ballo per ascoltare la medesima musica. Questo non voleva
certo dire che la discriminazione razziale era
superata. I neri che si stiravano e si impomatavano i capelli o i jazzisti di colore che
vestivano eleganti marsine, non erano un
omaggio alla superiorità dei bianchi bensì,
piuttosto, una sorta di mimetismo necessario
per sopravvivere in una società che continuava a tenere i neri nelle stanze di servizio.
IL REGISTA: Robert Altman
Robert Bernard Altman nasce il 20 febbraio 1925 a Kansas City, nello
stato del Missouri. Educato in un istituto dei gesuiti, si arruola a 18 anni
e parte per la Seconda guerra mondiale.
È del 1953 il suo primo film The Delinquents, mai stato distribuito in
Italia.
Per molti anni Altman lavora senza particolare fortuna, accumulando
esperienze nelle serie televisive Alfred Hitchcock presenta e Bonanza ma
spesso, a causa di divergenze con la produzione, viene cacciato dai set.
Nel 1970, finalmente, la fortuna gli arride. È di quell’anno, infatti, il film M.A.S.H., irrisoria parodia antimilitarista ambientata in un ospedale militare da campo durante la guerra di
Corea. Il film gli varrà la Palma d’oro al Festival di Cannes e sei nomination agli Oscar.
Altre due nomination gli arriveranno dal suo film più famoso: Nashville (1975), cronaca di
un festival della musica country.
Derisorio, beffardo, amante della parodia, Altman si segnala come uno dei registi più originali, irriverenti e critici del cinema. Le sue opere anno spesso riscosso critiche estremamente positive, oltre che grande successo di pubblico.
Ricordiamo, oltre ai film già citati, titoli quali Il lungo addio (1973), tratto dall’omonimo
romanzo di Raymond Chandler, con il personaggio dell’investigatore Philip Marlowe,
interpretato da uno scanzonato Elliot Gould; Buffalo Bill e gli indiani (1976); Un matrimonio (1978); Jimmy Dean Jimmy Dean (1982); Streamers (1983), film in cui tutti gli
interpreti vinsero collettivamente il premio per la miglior interpretazione alla Mostra del
Cinema di Venezia, e poi i più recenti America oggi (1993); Kansas City (1996); Gosford
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Park (2001) sino all’ultimo Radio America, film del 2006 che fu anche l’anno in cui, all’età
di 81 anni, il grande regista si spense a Los Angeles.
Altman, vinse anche la Palma d’oro al Festival di Cannes con il film I protagonisti (1986)
e ricevette due importanti riconoscimenti alla carriera: il Leone d’Oro e l’Oscar.
Filmografia essenziale
La storia di James Dean (The James Dean Story), 1957
Conto alla rovescia (Countdown), 1968
Quel freddo giorno nel parco (That Cold Day in the Park), 1969
M.A.S.H. (M*A*S*H*), 1970
Anche gli uccelli uccidono (Brewster McCloud), 1970
I compari (McCabe and Mrs. Miller), 1971
Images (Images), 1972
Il lungo addio (The Long Goodbye), 1973
California Poker (California Split), 1974
Gang (Thieves Like Us), 1974
Nashville (Nashville), 1975
Buffalo Bill e gli indiani (Buffalo Bill and the Indians, or Sitting Bull's History Lesson),
1976
Tre donne (3 Women), 1977
Un matrimonio (A Wedding), 1978
Quintet (Quintet), 1978
Una coppia perfetta (A Perfect Couple), 1979
Popeye - Braccio di Ferro (Popeye), 1980
Jimmy Dean, Jimmy Dean (Come Back to the Five & Dime, Jimmy Dean, Jimmy
Dean), 1982
Streamers (Streamers), 1983
Follia d'amore (Fool For Love), 1985
Non giocate con il cactus (O.C. & Stiggs), 1987
Terapia di gruppo (Beyond Therapy), 1987
Aria (Aria), 1988
Vincent e Theo (Vincent et Théo), 1990
I protagonisti (The Player), 1992
America oggi (Short cuts), 1993
Prêt-à-porter (Prêt-à-porter - Ready to Wear), 1994
Kansas City (Kansas City), 1996
Conflitto di nteressi (The Gingerbread Man), 1998
La fortuna di Cookie (Cookie's Fortune), 1999
Il dottor T e le donne (Dr. T & the Women), 2000
Gosford Park (Gosford Park), 2001
The Company (The Company), 2003
Radio America (A Prairie Home Companion), 2006
36
ACCORDI E DISACCORDI
(Sweet And Lowdowns)
Regia di Woody Allen
Con Sean Penn, Samantha Norton, Anthony LaPaglia, Uma
Thurman, Brian Markison, John Waters
Usa, 1999, 95'
Trama
B
iografia immaginaria di Emmet Ray, chitarrista jazz degli anni Trenta, "il più grande, se solo non fosse esistito Django Reihnardt". Personaggio estroverso e geniale,
vanesio e mammone, gran bevitore e dongiovanni al quale tutte le donne cadevano ai
suoi piedi, Emmett Ray rimase legato a una lavandaia muta. Una riflessione divertente e
divertita che Woody Allen, qui al suo 30° film, fa sull'eterno secondo.
Rassegna stampa
(…) Il titolo inglese è traducibile come: dolce e basso (disonesto, indegno),
in linea con l’ambivalenza del personaggio, interpretato da un S. Penn perfetto, attendibile nel suo approccio alla chitarra. 30° film di W. Allen – e il
10° senza Allen attore che pur vi compare tra altri sedicenti esperti e
biografi di Emmet – è una commedia dolcissima, di malinconica delicatezza, grazie anche alla sommessa figurina della muta Hattie, una S. Norton
che qua e là gelsomineggia con discrezione. Luci e colori del cinese Zhao Fei (Lanterne
rosse), scene dell’abituale S. Loquasto, raffinata colonna musicale con brani celebri di
Reinhardt (e altri perfettamente imitati da Howard Allen) e Duke Ellington. Successo tiepido: non fa ridere; la concisa grazia del suo ritegno è stata scambiata per freddezza.
Morando Morandini, da Il Morandini 2006
Il più grande chitarrista jazz del suo tempo dopo Django Reinhardt: questo
è orgoglioso d’essere Emmet Ray (uno straordinario Sean Penn). Tuttavia,
insieme con l’orgoglio, s’avverte in lui un’amarezza cupa. Per quanto le sue
dita s’affatichino, la genialità di Reinhardt resta un modello irraggiungibile.
D’altra parte, si può essere davvero grandi, senza esserlo dopo qualcun
altro, specchiandosi in lui come in un “doppio” ideale? Questo è il cuore di
Accordi e disaccordi, questo interrogarsi discreto di Woody Allen attorno alla creazione
artistica, alla sua ricchezza e alla sua miseria. Non si pensi, però, che Emmet sia da intendere come un calco più o meno esatto del suo autore. Lo si lasci, questo modo ricorrente
d’avvicinarsi a un film di Allen, ai pettegoli della cultura. Accordi e disaccordi non è più
autobiografico di Prendi i soldi e scappa (1969) o di Zelig (1983), di cui condivide anche
la struttura a inchiesta (un personaggio di fama incerta viene indagato e per così dire
riesumato nella memoria d’un piccolo gruppo di testimoni diretti o di “esperti”). Se ha e
per quanto ha senso distinguere gli autori in paranoici e schizoidi, certo Allen deve essere
ascritto ai secondi. Ben lontano dal mettere un Io intero e dominante - ammesso che non si
37
tratti d’una contraddizione in
termini - al centro della
creazione, piuttosto vi dissemina frammenti di Io.
Meglio: vi dissemina calchi
dichiaratamente artificiali e
costruiti - scritti, girati, interpretati - di Io minimi e transitori, di personaggi “eventuali”
che di volta in volta abitano la
sua propria creatività. L’Io
minimo e transitorio, il personaggio eventuale attorno a
cui Accordi e disaccordi è
Sean Penn nella parte di Emmet Ray, geniale chitarrista
costruito, e appunto un uomo
“secondo solo a Django Reinhradt”
la cui vita è tutta orientata alla
creazione. Il che non implica
affatto quella che ogni tanto i benpensanti chiamano grandezza morale, immaginandola
inseparabile dalla grandezza artistica. Emmet è un uomo piccolo, un meschino frequentatore di bar e di bordelli, pronto a vivere alle spalle di qualche signora compiacente e arrendevole. Anche sul palcoscenico la sua statura è spesso minima. Ne sono prova i vestiti pacchiani e l’inaffidabilità in quanto a impegni d’orario. Per non dire d’una terribile falce di
luna dorata, a cavallo della quale vorrebbe entrare in scena facendosi calare dall’alto (salvo
poi spaventarsi fino a caderne rovinosamente).
Tuttavia, la sua miseria umana è attraversata, a tratti trasfigurata da una passione, addirittura da una sofferenza necessaria che, come una necessità appunto, si manifesta comunque.
Non ne contraddicono la grandezza gli egoismi ricorrenti o le presunzioni ottuse, e nemmeno il rifiuto continuo di manifestare sentimenti che - così pare - si celano in un silenzio
impaurito e difensivo. In ogni caso, a tenerla ben viva è il confronto continuo con il suo
“doppio”. Senza Django Reinhardt, senza l’orgoglio di potersi specchiare in lui e senza
l’angoscia di non poterne mai raggiungere il fantasma, Emmet sarebbe un ometto di cui
nessuno si prenderebbe la briga di recuperare nella memoria la vita incerta e l’incerta fama.
Qualcuno, nel film, gli suggerisce che la sua arte sarebbe più grande, se solo fosse capace
d’aprirla ai propri sentimenti. Ma si potrebbe obiettare che, così, verrebbero meno la passione e la sofferenza che, alimentate dal silenzio emotivo, pretendono di trasfigurarne il
vuoto nella creazione artistica. O, almeno, ne verrebbe meno la tensione continua, la necessità che non si lascia vincere da alcuna opera, e che in ognuna vede solo un riflesso
inadeguato della genialità di Django Reinhardt. Questo infatti accade nella splendida
sequenza conclusiva. In uno scatto d’ira che è il suo primo momento di sincerità interiore,
Emmet “conosce” la propria miseria: la conosce a tal punto, da decidersi a mandare in frantumi la chitarra. Dopo d’allora, dicono i testimoni e gli esperti, se n’è perduta la memoria,
salvo per il fatto che, durante un breve periodo, avrebbe composto e inciso le musiche più
belle. Ed è ora che, in platea, riaffiora ancor più forte l’emozione d’una sequenza precedente. Dopo averla gettata via come gran parte della sua vita, Emmet torna a cercare Hattie
(Samantha Morton) . La trova seduta di fronte al mare, muta come sempre. Alle sue spalle
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sta un mondo la cui possibilità di gioia è suggerita dalla presenza incombente e “totale” di
un enorme ottovolante. Lui tenta di riaverla per se, con la disperata speranza di ridar vita a
quello che il suo silenzio egoista ha ucciso. E lei - così immagina Allen, in un grande
momento di cinema - gli sorride inesorabile, forte d’una felicità che lo esclude. Che cosa
mai potrà lenire il dolore di Emmet per la radicalità di questo abbandono? Certo, non il paio
d’anni durante i quali, forse, la sua genialità è stata degna di Django Reinhardt.
Roberto Escobar, da Il Sole 24-Ore, 11 giugno 2000
Se lo conosci lo eviti. Meglio tenersi alla larga da un tipo come Emmet Ray.
Il protagonista di Accordi e disaccordi, di Woody Allen, umanamente parlando è un vero disastro. Egocentrico fino al parossismo, spudorato,
amorale, beone: accumula tanti difetti in un colpo solo da far spavento.
Però ha anche un pregio, un enorme pregio: la chitarra come lui non la
suona nessuno. O meglio, nessuno tranne uno zingaro che vive in Europa,
tale Django Reinhardt, il migliore di tutti, senza alcun dubbio. Ma a questo punto è
doveroso scoprire le carte: Allen gira un “documentario”, ci racconta cioè la “verità” su un
personaggio totalmente inventato (Emmet Ray, appunto, interpretato da Sean Penn) rendendo così omaggio, di riflesso, al genio esistito davvero, quel Reinhardt che tra gli anni
Trenta e Quaranta diventò un mito della chitarra jazz. Sta tutto qua il gioco. Emmet vaga
per l’America suonando in modo meraviglioso, bevendo come una spugna e comportandosi
come peggio non si può. Si fa licenziare in continuazione, spende il doppio o il triplo di
quanto guadagna, tratta da cani la dolce Hattie (Samantha Morton), una giovane donna
muta che accetta di vivere al suo fianco. Se la tiene vicina finché gli fa comodo, e poi la
lascia senza tanti complimenti, salvo pentirsi qualche anno dopo, quando ormai è troppo
tardi. Quanto basta per mandarlo per sempre al diavolo; eppure quella maestria assoluta nel
pizzicare le corde della chitarra gli fa perdonare ogni peccato. Si intenerisce il gangster, ne
resta affascinata una scrittrice fatalona e un po’ vanesia (Uma Thurman).
L’arte è mistero, il talento si incarna negli esseri più strambi: a loro (suggerisce il regista,
e non è certo la prima volta che lo fa) deve essere concesso un metro di misura molto diver-
Una scena di Accordi e disaccordi, di
Woody Allen
39
so da quello che si applica a noi comuni mortali.
Luigi Paini, da Il Sole 24-Ore, 11 giugno
2000
Per quei vari pastrocchi che
alla Cecchi Gori chiamano
strategie distributive, il film
di Woody Allen Accordi e
disaccordi, presentato in
anteprima mondiale alla
Mostra del cinema 1999, arriva a uscire in
Italia con quasi un anno di ritardo, contemporaneamente all’uscita negli Stati Uniti del
nuovo film Small Time Crooks, una storia di
ladri. Per fortuna Accordi e disaccordi è così
divertente, intelligente e nostalgico che sarà
valsa la pena di aspettarlo: quasi come Zelig,
Il chitarrista Django Reinhardt
è costruito alla maniera di una finta biografia
televisiva con interventi di testimoni, saggisti, musicisti, che evoca la figura d’un ipotetico chitarrista jazz degli Anni Trenta, secondo per eccellenza soltanto a Django Reinhardt. Da anni Woody Allen desiderava fare un
film sul suo idolo Sidney Bechet, con il cui cognome ha battezzato l’ultima sua figlia.
Progetto troppo costoso. Così ha ripiegato su un chitarrista d’invenzione, ispirato a Django
Reinhardt “dal feeling unico, dal virtuosismo folle... un genio immenso”: un inno alla
genialità di Reinhardt attraverso un musicista che lo idolatra, un racconto condotto fuori
campo dalla voce di Woody Allen. Del personaggio si raccontano aneddoti comici,
strazianti: appunto la venerazione per Reinhardt, così intensa che a sentirlo suonare cade-
Tipico carrozzone zingaro
di quelli utilizzati da
Django Reinhardt
40
va svenuto; la fissazione per la luna, la cleptomania, l’attività secondaria di sfruttatore di prostitute, l’abitudine di
portare addosso la pistola e i divertimenti prediletti (contemplare i treni al passaggio, sparare ai topi delle discariche). Si raccontano il suo amore con la ragazza muta
Samantha Morton e il suo matrimonio con la bionda traditrice Uma Thurman; la sua vanità per i vestiti e le automobili, le sue pretese di superiore autosufficienza d’artista.
Lo si ascolta suonare la chitarra: e anche se non c’è alcun
nesso tra la musica e le dita del musicista, i pezzi sono bellissimi (l’esecuzione di Parlez-moi d’amour è dolcemente
irresistibile). Alla fine, sparisce: come svanito. Ma intanto
il film rievoca il mondo di quei musicisti di jazz che,
rifacendosi a Reinhardt, usavano strumenti a corda: meno
noti degli esecutori che adoperavano strumenti a fiato, però
altrettanto vitali, raffinati, caotici. Rievoca i locali popolari
Django Reinhardt e Stephan
Grappelli ai tempi dell’Hot Club o lussuosi in cui lavoravano, la Grande Depressione ecode France
nomica che si trovavano ad affrontare, l’importanza dominante dell’Ego e dell’arte, il rapporto di necessità e di
insofferenza con le donne. Rievoca un’epoca in America: un gangster dal nome italiano, Al
Torrio, condensa come Al Capone i tic dei Trenta, crimine e cinema, mentre Uma Thurman
rappresenta lo snobismo smorfioso e futile di certe donne intellettuali del tempo. Non sembra invece avere una speciale rilevanza la sindrome dell’eterno secondo, la frustrazione del
numero due di fronte alla leggenda del più bravo in assoluto, del primo: i mancamenti del
protagonista di fronte a Django Reinhardt paiono, più che raptus dell’invidia o folgorazioni
della propria inferiorità, estasi devote come di fronte a una divinità. Accordi e disaccordi è
produttivamente perfetto, incantevole. Il ritratto, fotografato meravigliosamente da Zhao
Fei, il cinese direttore della fotografia di Lanterne rosse che per la prima volta lavora con
Allen, sarebbe nulla senza Sean Penn, davvero bravissimo: il suo mix di genuina grossolanità e di tenerezza, di volgarità e idealismo, ne fanno un gran protagonista.
Lietta Tornabuoni Da La Stampa, 26 Maggio 2000
Django Reinhardt
Chitarrista. Jean-Baptiste Reinhardt, detto
Django, era nato a Liverchies, in Belgio, il
23 gennaio 1910 da genitori zingari in viaggio con una carovana.
Fu sicuramente il più grande chitarrista che
l’Europa espresse, anche se mai si integrò
con il mondo del jazz. Fu piuttosto un
geniale strumentista capace di fondere a suo
modo la musica afroamericana con le
sonorità tipiche della sua gente.
Django in gioventù si guadagnava da vivere
suonando la chitarra e il banjo alle feste paesane. Un grave incendio divampato nella
roulotte in cui viveva, e al quale scampò
miracolosamente, gli provocò una grave
menomazione, paralizzandogli il mignolo e
l’anulare alla mano sinistra. Ciò lo costrinse
a elaborare una tecnica tutta sua e molto particolare, per poter continuare a suonare.
Trasferitosi a Parigi divenne oggetto di
ammirazione da parte dei musicisti di quella
41
scena musicale. Fra questi il violinista
Stéphane Grappelli, con il quel Django
formò, nel 1934, un quintetto che prese il
nome di Quintette de l’Hot Club de France e
costituito da soli strumenti a corda. Il
Quintette durò sino allo scoppio della seconda guerra mondiale; nel corso della sua vita
il gruppo compì tournée in vari paesi
d’Europa (Spagna, Olanda, Belgio,
Scandinavia e Inghilterra).
Durante la guerra Reinhardt suonò molto,
soprattutto a Parigi, dove arrivò anche ad
aprire un locale tutto suo: la Roulotte, in
Rue Pigalle.
Il successo di Django arrivò alle stelle, tanto
che, dopo la Liberazione, si esibì
all’Olympia insieme a Fred Astaire, in uno
spettacolo per le truppe americane.
Nel 1946 andò in America, dove si esibì con
l’orchestra di Duke Ellington.
Tornato in Europa si riunì diverse volte con
Grappelli, sino a quando una rapida quanto
inesorabile malattia, pose fine alla sua vita.
Morì a Fontainebleu il 16 maggio 1953.
IL REGISTA: Woody Allen
Il suo vero nome è Allan Stewart Konigsberg ed è nato a New York il 1°
dicembre 1935 da una famiglia di ebrei americani ma con discendenze
dell’Europa dell’est.
Da giovane non era quello che si definirebbe uno studente modello e i suoi
insuccessi universitari lo spinsero verso il mondo dello spettacolo, dove
iniziò a lavorare come comico nei night club, intraprendendo, successivamente, la carriera cinematografica prima come attore nel film di Clive
Donner Ciao Pussycat (1965), farsa erotica da lui sceneggiata e, successivamente come
regista.
Esordisce dietro la macchina da presa girando alcune scene di Che fai rubi? (1966) e, successivamente, realizzando il suo primo lungometraggio dal titolo Prendi i soldi e scappa
(1969).
Saranno proprio i primi film, girati su un registro comico e grottesco a dargli fama mondiale. Bananas (1971), Io e Annie (1977) e Provaci ancora Sam, film del 1972 in cui, per
altro, appare solo come attore e sceneggiatore, essendo stato girato da Herbert Ross, sono
diventati film culto. In essi, come nella maggior parte delle sue opere successive, Allen
recita la parte dell’uomo della media borghesia newyorkese, intellettuale, nevrotico e fobico quanto basta per sviluppare tutta una serie di manie che lo rendono celebre.
Dopo il primo periodo in cui Io e Annie risulta essere il vertice più alto della sua produzione, abbandona il registro comico in senso stretto per realizzare opere più intense e
profonde, ma sempre con una vena autobiografica. (Manhattan, 1979; Zelig, 1982; Radio
Days, 1987). Questo autobiografismo verrà superato a partire dagli anni Novanta quando
realizza film che esulano dalle tematiche consuete. È il caso di Ombre e nebbia, 1991,
chiaramente ispirato all’espressionismo tedesco; dello pseudo-poliziesco Misterioso omicidio a Manhattan (1993) e di Pallottole su Broadway (1994), una commedia che dietro ai
buffi retroscena del teatro degli anni Venti, si concentra sulla perdita dell’ispirazione poetica.
Spesso nei suoi film si percepiscono riferimenti a quelli che sono stati i suoi grandi idoli
cinematografici: Fellini, Antonioni e Bergman, nonché a quella che è la sua passione, cioè
42
la musica jazz. Così amata da far da colonna sonora a quasi tutti i suoi film e da averlo
indotto a entrare, come clarinettista, in un gruppo di dixieland che ha intrapreso numerose
tournéè anche in Europa.
Filmografia (solo regie)
Che fai, rubi? (What’s Up, Tiger Lily?), 1966 (coregia con Senkichi Taniguchi)
Prendi I soldi e scappa (Take the Money and Run), 1969
Il dittatore dello stato libero di Bananas (Bananas), 1971
Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso ma non avete mai osato chiedere
(Everything You Always Wanted to Know About Sex (But Were Afraid to Ask), 1972
Il dormiglione (Sleeper), 1973
Amore e guerra (Love and Death), 1975
Io e Annie (Annie Hall), 1977
Interiors (Interiors), 1978
Manhattan (Manhattan), 1979
Stardust Memories (Stardust Memories), 1980
Una commedia sexy in una notte di mezza estate (A Midsummer Night’s Sex Comedy), 1982
Zelig (Zelig), 1982
Broadway Danny Rose (Broadway Danny Rose), 1984
La rosa purpurea del Cairo (The Purple Rose of Cairo), 1985
Hannah e le sue sorelle (Hannah and Her Sisters), 1985
Radio Days (Radio Days), 1987
Settembre (September), 1987
Un’altra donna (Another Woman), 1988
Crimini e misfatti (Crimes and Misdemeanors), 1989
Edipo re-litto (ep.di New York Stories), 1989
Alice (Alice), 1990
Ombre e nebbia (Shadows And Fog), 1991
Mariti e mogli (Husbands and Wives), 1992
Misterioso omicidio a Manhattan (Manhattan Murder Mystery), 1993
Pallottole su Broadway (Bullets over Broadway), 1994
La dea dell’amore (Mighty Aphrodite), 1995
Tutti dicono I love you (Everyone Says I Love you), 1996
Harry a pezzi (Deconstructing Harry), 1997
Celebrity (Celebrity), 1998
Accordi e disaccordi (Sweet And Lowdown), 1999
Criminali da strapazzo (Small Crime Crooks), 2000
La maledizione dello scorpione di giada (The Curse of the Jade Scorpion), 2001
Hollywood Ending (Hollywood Ending), 2002
Anything Else (Anything Else), 2003
Melinda e Melinda (Melinda And Melinda), 2004
Match Point (Match Point), 2005
Scoop (Scoop), 2006
Sogni e delitti (Cassandra’s Dreaming), 2007
Vicky Cristina Barcelona (Vicky Cristina Barcelona), 2008
43
Indice
2
Premessa
3
3
3
7
8
8
‘ROUND MIDNIGHT- A MEZZANOTTE CIRCA
Trama
Rassegna stampa
Bud Powell
Dexter Gordon
Il regista: Bertrand Tavernier
10
10
10
15
16
PIANO, SOLO
Trama
Rassegna stampa
Luca Flores
Il regista: Riccardo Milani
17
17
17
21
22
ASCENSORE PER IL PATIBOLO
Trama
Rassegna stampa
Miles Davis
Il regista: Louis Malle
24
24
24
27
28
BIRD
Trama
Rassegna stampa
Charlie Parker
Il regista: Clint Eastwood
30
30
30
34
35
KANSAS CITY
Trama
Rassegna stampa
Kansas City
Il regista: Robert Altman
37
37
37
41
42
ACCORDI E DISACCORDI
Trama
Rassegna stampa
Django Reinhardt
Il regista: Woody Allen