Pier Paolo Pasolini. Il mio cinema

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Pier Paolo Pasolini. Il mio cinema
Pier Paolo Pasolini. Il mio cinema
Sabato 12 dicembre 2015, presso la Biblioteca dell’Archiginnasio, Marco Antonio Bazzocchi
(docente presso la Facoltà di Lettere a Bologna) e Roberto Chiesi (critico cinematografico e
responsabile del centro studi-Archivio Pasolini della Cineteca di Bologna) hanno presentato il libro
“Pier Paolo Pasolini. Il mio cinema”. Il volume è una ricca antologia di interviste, racconti, appunti
di diario, testi preparatori, pagine di soggetti e sceneggiature dove lo stesso Pasolini racconta la
genesi dei suoi film e ne suggerisce le chiavi di lettura. Il volume, edito dalla Fondazione Cineteca
di Bologna e curato da Graziella Chiarcossi, filologa e cugina di Pasolini, presenta cinque testi
inediti: una dichiarazione sulla prima trasmissione televisiva di Uccellacci e Uccellini nel 1973; il
trattamento originale di La terra vista dalla luna, dal titolo provvisorio di Comica; il soggetto di
Teorema; il testo di difesa scritto da Pasolini contro le otto denunce subite da I racconti di
Canterbury; un testo di presentazione dell’edizione definitiva di Le mura di Sana’a (1974).
L’ultima sezione del libro presenta alcuni scritti sui più importanti progetti non realizzati tra cui Il
padre selvaggio, la cui realizzazione fu impedita a causa del processo per vilipendio del 1963, il
complesso e innovativo progetto degli Appunti per un poema sul Terzo Mondo e infine San Paolo e
Porno-Teo-Kollosal, non terminati a causa dell’improvvisa e violenta morte dell’autore avvenuta il
2 novembre 1975 a Ostia.
Il volume è supportato da un vasto corredo fotografico. Sono presenti non solo foto scattate da
Pasolini durante la realizzazione dei suoi film, ma anche da altri fotografi e da piccole troupes (la
cui presenza era piuttosto rara all’epoca). In particolare, molte foto presenti nel libro, che
documentano le varie fasi di esecuzione di alcuni suoi film come Mamma Roma (1962) o Il
Vangelo secondo Matteo (1964), sono a colori.
Pasolini non è “un regista che fa film”, ma un’intellettuale che inventa un nuovo linguaggio per il
cinema. Questa sua necessità nasce dal bisogno di esplorare la decadenza dei valori della società
contemporanea post-moderna e di comunicare ad un pubblico più ampio rispetto a quello della
narrativa e della poesia. Sono rari gli intellettuali che si dedicano alla cinematografia: infatti, ad
eccezione di Jean Cocteau, Pier Paolo Pasolini è sicuramente uno dei più grandi esempi di poeta che
decide, a partire dal 1961 con la realizzazione di Accattone, di dedicarsi al cinema. Nella
formazione giovanile di Pasolini non c’è il cinema, egli non è un cinéphile, ma è spinto dalla sua
voglia di esplorare nuovi orizzonti culturali. Per ogni suo film sperimenta nuove tecniche e affina le
sue tecniche di regia con l’esperienza sul campo. Le sue inquadrature sono asciutte, in alcuni casi
sembrano persino grossolane (basti pensare agli effetti del bianco e nero nelle inquadrature degli
spaccati paesaggistici delle borgate romane, o all’intensità dei primissimi piani di Accattone, Medea
(1970), o Il Vangelo secondo Matteo (1964). Pasolini ricerca tutte le possibili combinazioni di
immagini, colori, suoni e voci. Il cinema del poeta-regista tende, da un punto di vista tecnico, a un
ritmo molto veloce, fatto di inquadrature e sequenze brevi e ad un frequente uso della mimica per
sottolineare gli stati d’animo dei personaggi. La sua passione per la pittura senese del ‘400 e il
Manierismo lo portò poi a importanti contaminazioni tra il mondo pittorico e le scelte registiche. Si
dice che sul set non fosse solito parlare di cinema, ma di disegni e dipinti, evocando sempre
immagini di sacralità.
Scorrendo la filmografia di Pier Paolo Pasolini, da Accattone a Salò, si può notare come nella scelta
degli attori egli abbia avuto una certa propensione per la non-professionalità. La ragione della
preferenza di attori non professionisti deriva dalla concezione tutta personale di Pasolini rispetto al
cinema, quale cinema di poesia, il quale si fonda sulla soppressione delle regole decodificate e
sull’inevitabile trasgressione stilistica. Pasolini chiede ai propri attori non una collaborazione, ma
un totale abbandono, di modo che possa plasmare le figure presenti nel film secondo la propria
visione. L’attore non professionista garantisce, quindi, la completa libertà artistica del regista nel
cinema di poesia. Tuttavia egli si rivolge anche ad attori professionisti (la Mangano, Girotti,
Terence Stamp, Laura Betti) soprattutto per rappresentare realtà borghesi. Egli reinventa gli attori; a
lui si deve il merito di avere scoperto il Totò autentico, non quello dei film da consumo di massa,
ma quello impegnato in una comicità di alto livello culturale.
Già alla fine degli anni sessanta, dato che in Italia la borghesia condannava il sesso e gli atti osceni,
finendo quasi per sprofondare, a suo dire, nell’ottica che vi era nel Medioevo, Pasolini decise di
realizzare tre film Il Decameron, I racconti di Canterbury e Il fiore delle Mille e una notte. Essi
costituivano La Trilogia della vita o Trittico della vita. Il regista decise di cercare il sacro nella
sessualità e nell’erotismo, il suo scopo era quello di formulare un inno alla vita, che esaltasse la vita
dell’uomo libero senza freni, incentrata sulla ricerca del piacere e del diletto in un’atmosfera
parallela e fantasiosa. Tuttavia, il 15 giugno 1975 egli decise di abiurare La Trilogia della vita,
nonostante egli abbia ammesso di non essersi pentito di averla realizzata. La principale causa
dell’abiura fu la strumentalizzazione da parte del potere dell’eros, come ha voluto dimostrare con
Salò.