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Redazione e Amministrazione: L.go Corsia Dei Servi 3 - 20122 Milano. Tel 02/771295.1
ANNO XIII NUMERO 148 - MARTEDÌ 3 GIUGNO 2008
L’America e gli ayatollah
Disinvestire dall’Iran.
McCain vuole applicare
il modello anti apartheid
Il candidato repubblicano spiega il suo
piano per fermare il nucleare iraniano.
Ahmadinejad: “Via Israele dalla mappa”
I dittatori ospiti della Fao
New York. Alla conferenza annuale dell’Aipac, la più importante lobby filo israeliana d’America, John McCain ha spiegato il suo
piano per fermare l’avanzata nucleare iraniana, dopo che ieri Mahmoud Ahmadinejad
ha ribadito di voler cancellare Israele dalla mappa. Il
candidato repubblicano ha
criticato il suo probabile avversario Barack Obama, ridicolizzando l’idea che gli
iraniani stiano facendosi la
bomba perché Bush non
vuole sedersi a un tavolo
con Ahmadinejad. McCain
ha indicato una strada internazionale, con o senza l’O- M. AHMADINEJAD
nu, per imporre sanzioni politiche ed economiche sempre più forti e, soprattutto, per lanciare una campagna internazionale di disinvestimenti dall’Iran, sul
modello di quella che ha aiutato il Sud Africa a liberarsi dell’apartheid. Domani toccherà a Barack Obama e Hillary Clinton non
essere da meno.
(articolo nell’inserto I)
Risky business
Così le sanzioni, l’inflazione e
il fallimento della redistribuzione
alzano il rischio paese dell’Iran
Roma. “Chiunque voglia investire in Iran
– spiega al Foglio un ex consulente della
Shell, Ethan Chorin – deve fare i conti con
una situazione interna preoccupante. L’inflazione è al 30 per cento, la politica della redistribuzione delle entrate che derivano dall’industria petrolifera è fallita e nelle strade
aumenta il malcontento verso il regime”. Il
rischio paese dell’Iran è alto. La compattezza sull’ultimo round di sanzioni (con il voto
favorevole della Russia) mostra che questo
rischio è destinato a crescere. Anche se le
aziende private, orientate al profitto, sono riluttanti a lasciare un mercato tanto ricco. In
più c’è l’effetto di sostituzione delle compagnie occidentali che va a favore di Mosca e
Pechino, e gli affari iraniani restano floridi.
Basta andare nell’isola di Kish, nello stretto
di Hormuz.
(articolo nell’inserto I)
Il dissenso in cella
“Attentato alla sicurezza nazionale”
Così i giovani iraniani diventano
“pericolosi” e incarcerati a Evin
Roma. Manifestavano davanti a un istituto tecnico di Teheran, poi sono arrivate le
Guardie rivoluzionarie e la protesta “è stata dispersa”. Manganellate e arresti. E poi,
quando l’affronto è eccessivo, è “pericoloso
per la sicurezza nazionale”, si finisce dritti
alla prigione di Evin, il carcere dei detenuti politici che inghiotte ogni forma di dissenso. Tre degli studenti che, alla fine del
2006, affrontarono Mahmoud Ahmadinejad
al Politecnico di Teheran gridandogli “dittatore” sono scomparsi. Uno di loro è andato a Evin. Non se ne sa più nulla. Behnoud
Shojaii e Saiid Jazi, per i quali l’Ue aveva
chiesto clemenza, saranno impiccati l’11
giugno a Evin. Mohammad Fadaii salirà
sul patibolo due settimane dopo. Quando
il reato fu commesso, erano ancora mino(articolo nell’inserto I)
renni.
Giuliano Amato ha
detto addio alla politica. Lo ha ribadito
in un’intervista ad
Aldo Cazzullo in cui
Cazzullo gli chiede
che effetto gli faccia
vedere oggi Di Pietro in Parlamento e
lui risponde: “E’ un personaggio estroverso, che si impunta. Ha qualità politiche”.
Senza aggiungere altro. E il ’92?, gli domanda Cazzullo. “Ho fatto quello che era giusto
fare”. E Craxi? “Craxi sarà ricordato come
un grande statista e un grande politico. In
calce alle innovazioni degli anni Ottanta il
suo nome c’è sempre”. E Mani pulite? “Il
veto opposto da un gruppo di magistrati
della procura di Milano alla disposizione
legislativa che intendeva depenalizzare il
finanziamento illecito fu un episodio riprovevole”. Giudizio particolarmente apprezzabile, quest’ultimo, dal momento che, arrivando dopo diciotto anni, non può essere
accusato di essere stato formulato a caldo,
vale a dire in preda al fuoco fuorviante
della passione politica. Giuliano Amato si
conferma sottile pensatore, lasciando la
politica quando la politica aveva già lasciato lui. Comunque, bravo, è arrivato di nuovo secondo.
quotidiano
* * *
In Italia
* * *
Nel mondo
ONU E VATICANO CRITICANO L’ITALIA PER IL REATO DI CLANDESTINITA’.
L’alto commissario delle Nazioni Unite per
i diritti umani, Louise Arbour, nel corso di
una riunione del Consiglio sui diritti a Ginevra ha detto: “Le politiche repressive, così come gli atteggiamenti intolleranti contro l’immigrazione irregolare sono una seria preoccupazione. Esempi di queste politiche sono rappresentati dalla decisione
del governo italiano di rendere reato l’immigrazione illegale”. L’ambasciatore Giovanni Caracciolo di Vietri, rappresentante
della delegazione italiana, ha espresso
“stupore” e ha ricordato che il relativo progetto di legge deve essere ancora esaminato dal Parlamento. Anche il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha detto: “Il ddl è davanti al Parlamento”. Per
monsignor Agostino Marchetto, segretario
del pontificio Consiglio della pastorale per
i migranti, “nessuno straniero irregolare
può essere privato della libertà personale
o soggetto a pena detentiva a causa di
un’infrazione amministrativa”.
Anna Finocchiaro, capogruppo del Pd
in Senato: “Il governo tenga conto dei rilievi avanzati dall’Onu e dal Vaticano”.
LA GERMANIA CONTRO L’INGRESSO
DELL’ITALIA NEL 5+1 DELL’ONU. Il governo tedesco ha frenato sull’ipotesi di un ingresso dell’Italia nel cosiddetto 5+1, il gruppo dei membri permanenti del Consiglio di
sicurezza dell’Onu più la Germania che
conduce i negoziati sul nucleare iraniano.
Il formato, che già include tre paesi europei (Francia, Gran Bretagna e Germania)
“ha dato buoni risultati” e il governo di
Berlino non prenderà in considerazione
una sua modifica, ha detto un portavoce del
ministero degli Esteri tedesco nel corso di
una conferenza stampa. Ogni singolo passo
deciso dal 5+1 viene concordato all’interno
dell’Unione europea, ha aggiunto il portavoce dell’esecutivo federale, Ulrich
Wilhelm. Era stato il ministro degli Esteri
italiano, Franco Frattini, a annunciare il favore degli Stati Uniti all’ingresso di Roma
nel gruppo diplomatico.
Israele “verrà presto eliminato dalle carte geografiche”. Lo ha detto il presidente
iraniano, Mahmoud Ahmadinejad, poche
ore prima di partire per Roma, dove oggi
parteciperà al vertice della Fao sulla crisi
alimentare. “Il regime sionista criminale e
terrorista – ha proseguito – ha una storia di
60 anni di saccheggi, aggressioni e crimini.
Il tempo delle potenze tiranniche è finito e
con la vigilanza e la solidarietà tra i popoli, gli Stati Uniti e tutte le potenze sataniche se ne andranno e la giustizia arriverà”.
* * *
Bruxelles promuove i conti italiani, Tremonti: “In tre anni deficit ripianato”. Il presidente dell’Eurogruppo, Jean-Claude
Juncker, commentando il piano di risanamento sottoposto dal ministro dell’Economia Tremonti: “Apprezziamo sia le misure
già prese, sia quelle prospettate per il futuro”. Il piano italiano prevede una manovra
da 10 miliardi nel 2009 e un intervento
triennale per la stabilizzazione dei conti
pubblici entro il 2011. Interrogato dai cronisti sul caro petrolio, Tremonti ha detto:
“Tassare i petrolieri? Perché no”.
Secondo una rilevazione della Comunità
economica europea, in Italia il prezzo della
benzina, nell’ultima settimana, è aumentato di 6,1 centesimi in più rispetto alla media europea.
* * *
“Per Alitalia ci vuole l’esorcista”. Così il
presidente di Air France, Jean-Cyril Spinetta, smentendo nuovi contatti per l’acquisto della compagnia italiana.
L’International air transport association
(Iata) prevede che il trasporto aereo nel
2008 perderà 2,3 miliardi di dollari a causa
dei costi del carburante.
* * *
Cannavaro non giocherà agli Europei, si è
lesionato i legamenti della caviglia sinistra.
Il capitano della Nazionale è uscito in barella dopo un scontro in allenamento.
José Mourinho è il nuovo allenatore dell’Inter, ha firmato un contratto di tre anni.
* * *
Borsa di Milano. S&P/Mib -1,53 per cento.
L’euro chiude in rialzo a 1,56 sul dollaro.
* * *
Nucleare, la Siria apre agli ispettori dell’Aiea. Damasco ha accettato la visita del
personale delle Nazioni Unite per verificare se un sito bombardato da Israele nel
2007 contenesse un reattore nucleare non
dichiarato. Gli Stati Uniti hanno affermato
di avere le prove che la Siria sta tentando
di costruire un reattore nucleare nel deserto con l’obiettivo di produrre armi nucleari. Washington ritiene che Damasco sia sostenuta dalla Corea del nord.
* * *
Abu Mazen incontra il premier Olmert. Dopo il vertice, a Gerusalemme, Olmert ha lasciato Israele per Washington, dove sarà ricevuto da George W. Bush, padrino dei negoziati di pace in medio oriente rilanciati nel
novembre scorso ad Annapolis.
* * *
Ted Kennedy è stato operato al cervello. Il
senatore democratico è stato sottoposto a un
intervento chirurgico al Duke University
Medical Center della Carolina del nord per
rimuovere il tumore maligno al cervello che
gli era stato diagnosticato due settimane fa.
* * *
L’Osce boccia le elezioni in Macedonia. Per
gli osservatori dell’Unione europea, domenica “gli standard internazionali fondamentali non sono stati rispettati”.
Questo numero è stato chiuso in redazione alle 21
Divergenze parallele in Intesa
Bazoli è meno interventista di Passera su Alitalia, ma la banca ha due
buone ragioni per essere della partita. L’ad e Colaninno non si sono visti
a Bankitalia: sono già al lavoro? Intanto Spinetta sta a bordo campo
Milano. Il capo di Air France, eterna promessa sposa di Alitalia, Jean-Cyril Spinetta,
ha rievocato, citando l’ex amministratore delegato Maurizio Prato, “l’esorcista” come unica soluzione per la compagnia aerea italiana. Poi ha detto che le trattative si possono
sempre riaprire, ma che ora pare proprio
difficile, se non impossibile. Oggi, invece, il
consiglio di amministrazione di Alitalia darà
il mandato di advisor a IntesaSanpaolo. La
banca guidata da Corrado Passera sarà chiamata a effettuare una ricognizione nei conti
della compagnia di bandiera finalizzata alla
stesura di un nuovo piano industriale. La
due diligence, secondo i piani e le attese del
ministero dell’Economia, dovrà essere molto
veloce: al massimo tre settimane.
Rispetto ad alcuni mesi fa, quando Intesa
Sanpaolo mostrava un fortissimo interessamento alla partita, da giocare a fianco di Air
One, oggi in Ca De’ Sass si respira maggiore
scetticismo, tanto che è stato escluso, almeno per il momento, il coinvolgimento diretto. Ciononostante ai vertici di IntesaSanpaolo sanno che la partita Alitalia ha una valenza importantissima per lo status futuro della banca nello scacchiere del potere italiano. Nel recente passato il presidente del
consiglio di sorveglianza, Giovanni Bazoli,
aveva espresso più di una perplessità sul
possibile coinvolgimento della banca. Fonti
bene informate hanno raccontato di riunioni piuttosto agitate nel corso delle quali è
stato rinfacciato a Passera di essersi spinto
troppo in avanti con il sostegno a Toto (Air
One). Oggi la situazione è ancora più critica,
a causa del protrarsi della situazione di stallo e delle incognite sollevate dall’aumento
dei carburanti sul futuro del settore del trasporto aereo. Secondo la Iata (International
Air Transport Association), il comparto nel
2008 perderà 2,3 miliardi di dollari, se il
Brent da qui a fine anno avrà un prezzo medio di 107 dollari il barile e 6,1 miliardi con
il barile a 135 dollari. La complessità dello
scenario rende la sfida quasi irrinunciabile.
Da un lato perché IntesaSanpaolo ha la vocazione e l’ambizione di essere la banca per
il paese, quindi è quasi fisiologico che faccia
questo genere di scelte. In secondo luogo,
perché riuscire a orchestrare il risanamento di Alitalia le permetterebbe di ridurre il
gap nei confronti di Mediobanca nell’investment banking e di ridimensionare ulteriormente le ambizioni di Unicredit Mib, che sta
affrontando un momento particolarmente
delicato.
Le asprezze che hanno caratterizzato il
rapporto tra Bazoli e Passera nel recente passato ora si sono attenuate, ma l’atteggiamento dei due nei confronti del dossier è in parte divergente. Entrambi sono estremamente
cauti, ma Passera è maggiormente interventista, mentre Bazoli, come ha detto a margine
dell’assemblea della Banca d’Italia, è più
propenso a immaginare per la banca un ruolo soltanto da consulente. IntesaSanpaolo ha
anche un interesse diretto a che Alitalia si
salvi, possibilmente con il coinvolgimento di
Air One. La banca è esposta nei confronti di
entrambe le compagnie aeree: un matrimonio che soddisfi tutte e due sarebbe benefico
anche per l’istituto di credito.
In ambienti finanziari milanesi si sottolinea come Corrado Passera abbia già iniziato a lavorare al dossier. In molti hanno notato la sua assenza all’assemblea di Bankitalia, al pari di quella di Roberto Colaninno.
Entrambi – raccontano fonti bene informate
– di solito tengono molto ad ascoltare le considerazioni finali del Governatore. Il fatto
che entrambi non fossero presenti ha rilanciato le indiscrezioni su un coinvolgimento
di Colaninno nel dossier. L’imprenditore
mantovano è molto vicino a IntesaSanpaolo,
banca di riferimento di Immsi e Piaggio. Da
tempo, in ambienti finanziari, si parla della
sua voglia di imbarcarsi in nuove avventure
imprenditoriali, dopo il risanamento della
Piaggio di Pontedera. Inoltre chi lo conosce
bene sottolinea come Piaggio sia una dimensione troppo piccola per soddisfare il suo
palato, reso ancora più esigente dopo l’avventura Telecom. Da tempo Colaninno si rifiuta anche soltanto di parlare di Alitalia.
Questo rifiuto, secondo più di un osservatore, è un indizio importante dell’attivismo
dietro le quinte.
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DIRETTORE GIULIANO FERRARA
La Giornata
DENTRO
L’INFORMAZIONE
Autobomba all’ambasciata
OGGI, ORE 20, IN PIAZZA
DEL CAMPIDOGLIO PER
DIRE NO AD AHMADINEJAD
L’attacco antidanese in
Pakistan svela lo scontro
tra talebani e al Qaida
QUESTA SERA APPUNTAMENTO davanti al Comune di Roma per la manifestazione promossa dal quotidiano Il
Riformista contro la presenza in Italia
del presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad per la Conferenza della Fao
sulla “Sicurezza alimentare”
(adesioni a [email protected])
Almeno sei morti. La rete di Bin Laden è
contro le trattative avviate col governo
Festa alla marcia contro le vignette
L’ascesa di Beitullah Mehsud
L’ultima metamorfosi
“L’establishment c’est moi”
Il Cav. sdogana se stesso
Plausi, dubbi e preoccupazioni. Parlano
Berselli, Menichini, Sansonetti
Roma. Cominciato nel ’94 con lo “sdoganamento” di Msi e Lega – la “costituzionalizzazione delle estreme”, come dicono i
politologi – il quindicennio berlusconiano
si chiude con l’ultimo miracolo: il Cav. sdogana se stesso, indossa i panni dello statista, inaugura un nuovo stile sobrio e misurato, ma soprattutto incassa in sequenza –
dopo quella di Confindustria – tre benedizioni che pesano: Vaticano, presidenza della Repubblica e Banca d’Italia. I giornali di
ieri che celebravano la sua personale parata ai giardini del Quirinale sono solo l’ultimo esempio, tanto della metamorfosi quanto del suo successo.
Il nuovo Silvio Berlusconi, di conseguenza, spiazza. Innanzi tutto l’opposizione. “Ci
impone di crescere – dice Stefano Menichini – perché l’opposizione al ‘Cavaliere nero’ sappiamo come farla, ci siamo abituati,
mentre questo suo nuovo profilo ci costringe a uscire dai vecchi schemi”. Dunque, secondo il direttore di Europa, il new Cav. potrebbe rivelarsi la migliore garanzia contro
un riflusso del Pd verso le posizioni del
vecchio antiberlusconismo a vocazione irresistibilmente minoritaria. “Ma rassegnarsi alla gloria di Berlusconi, da parte dell’opposizione, sarebbe perlomeno prematuro, soprattutto se per gloria intendiamo l’apoteosi quirinalizia di cui si parla”.
Di parere diametralmente opposto è Edmondo Berselli, editorialista per Epresso e
Repubblica, che nel “nuovo clima”, più che
il segno di quella maturazione di cui parla
Menichini, vede al contrario “una ventata
di conformismo” assolutamente insopportabile. “Sembra di assistere a un grande sospiro di sollievo collettivo, come se dopo
mille fatiche si fosse deciso che il berlusconismo è in realtà la coperta che copre meglio le pieghe del nostro paese… la mia impressione è che l’Italia sia divenuta una
specie di cabaret in cui tutti si sganasciano
dalle risate prima ancora di aver sentito la
battuta”. Dinanzi alla linea di Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti, che riassume in
un’assicurazione a tutte le categorie che
non verranno toccate, che i loro interessi
saranno integrati “in una visione corporativa e nazionalista”, la domanda di Berselli è questa: “Dov’è finita l’Agenda Giavazzi?
Dove sono finiti tutti i fautori delle liberalizzazioni e dell’apertura al mercato?”.
Con ben altre domande in testa, Piero
Sansonetti parte però dalla stessa, preoccupata, premessa. “Non avevo mai visto – dice il direttore di Liberazione – un inizio di
legislatura così fortemente segnato dalla
maggioranza”. Ma la conclusione, va da sé,
non è certo la nostalgia per le campagne liberiste. “La novità è data dal fatto che oggi
Berlusconi sembra capace di rappresentare una parte molto più ampia del paese e
dell’opinione pubblica, anche oltre quella
parte, già maggioritaria, che ha votato per
lui… ma questo accade perché manca l’opposizione”. Il governo ombra del Pd si limita a ripetere, con un po’ di ritardo, quel che
dice il governo. “Fa l’ombra: riflette, leggermente deformata, specie verso l’ora del tramonto, la figura del berlusconismo”.
“Why Berlusconi is the best to lead Italy”
Eppure questo nuovo clima – la “nuova
stagione” – il Pd lo rivendica come un proprio successo, come un segno di quella maturazione del sistema politico che Walter
Veltroni ha avviato rompendo con le “coalizioni coatte”, con il vecchio bipolarismo
rissoso e ideologico. “Sarebbe un successo
da rivendicare – replica Berselli – se ci fosse stato un grande confronto sulle politiche,
ma il problema del Pd è che non ha avuto
neanche il tempo di costruirsi una sua cultura, una sua idea e un suo progetto per il
paese su cui qualificarsi… di conseguenza,
il rischio di questa fase tutta ‘pappa e ciccia’ è una deriva consociativa, come se il Pd
non si fosse convinto di aver perso le elezioni e pensasse di collaborare al governo”.
Conformismo, assenza o merito dell’opposizione che sia, Menichini invita a non
perdersi d’animo. “In questi anni abbiamo
visto ascese e cadute molto rapide – osserva – sia nel consenso popolare sia nell’apprezzamento dell’establishment”. Ma intanto, in attesa di una nuova copertina dell’Economist (“Why Berlusconi is the best to
lead Italy”, suggerisce qualcuno), ce n’è abbastanza per riflettere. Soprattutto a sinistra, dove fino a non molto tempo fa l’accusa ai dirigenti troppo cedevoli verso il Caimano era di “legittimare Berlusconi”. E oggi è invece di cedere sui principi per “farsi
legittimare da Berlusconi”. Una differenza
senza dubbio significativa.
YSL
Fu il primo sarto a esporre al
Metropolitan Museum. Tra le sue
opere d’arte, il giardino Majorelle
I
l giardino si chiama ancora Majorelle.
Per gli appassionati di parchi e giardini è una meta interessante. Per gli ospiti
di Marrakech, città imperiale del MarocIL
PROFUMO DELLA RIVOLUZIONE DI
(INSERTI II
E
YVES
III)
co, è una visita inevitabile. Il giardino si
chiama ancora Majorelle, perché a crearlo fu, tra le due guerre, Jacques Majorelle. Majorelle fu un pittore africanista, oggi un po’ dimenticato. La data della sua
morte, 1962, coincise con la riscoperta e
con il nuovo trionfo dell’Art nouveau. Il
padre di Jacques si chiamava
Louis. Era il celebre ebanista
della scuola di Nancy che molti annoverano tra i padri del
modernismo. La fama rinverdita del padre oscurò quella del figlio. A Nancy nacque l’Art nouveau, a
Nancy nacque Jacques. A Nancy avrebbe
potuto nascere anche Yves Saint-Laurent. Quando, dopo la guerra del 1870, i
prussiani occuparono l’Alsazia e la Lorena, ma non Nancy, molti alsaziani che
non volevano diventare sudditi tedeschi
si trasferirono a Nancy. I Saint-Laurent,
alsaziani cospicui, giudicarono la città
troppo vicina alla frontiera. Scelsero invece l’Algeria, terra di Francia oltre il
mare. Così Yves nacque a Orano, il 1° agosto del 1936. Nel 1962, l’anno in cui morì a
Marrakech Jacques Majorelle, Yves
Saint-Laurent fondò a Parigi la casa di
moda che portava il suo nome. Era giovane, ma era già famoso. A diciassette anni
aveva cominciato a lavorare con Christian Dior, a ventun anni ne aveva raccolto l’eredità. Per quasi vent’anni il giardino di Majorelle andò in rovina, mentre
Marrakech ospitava una società internazionale ricca ed eccentrica sempre più
folta. Il 1983 fu un grande anno per Yves
Saint-Laurent. Il Metropolitan Museum
di New York organizzò una grande mostra dei suoi lavori. Era la prima volta
che a un sarto vivente veniva concesso un
simile riconoscimento. Il Metropolitan
non era il Moma, il museo d’arte moderna, disposto ad accogliere nelle sue collezioni il minimo oggetto significativo che
portasse i segni del suo tempo. Era il tempio della grande arte di tutti i tempi. Yves
Saint-Laurent, amico, mecenate, soggetto
dei più celebri degli artisti, veniva riconosciuto come grande artista. Per lui cadeva anche l’ultima sottile parete divisoria tra arte e arti applicate. Scompariva
quella divisione dei compiti, teorizzata
da alcuni e accettata da molti, per cui toccava all’arte sperimentare e trovare nuove strade e alle arti applicate appunto applicare a oggetti d’uso le nuove forme immaginate dall’arte maggiore. Nel 1980
Yves Saint-Laurent aveva acquistato con
il suo socio e compagno Pierre Bergé la
casa e il giardino Majorelle. L’ambizione
dei residenti stranieri di Marrakech era
di restaurare antiche case arabe e imbottirle di tende, tappeti, cuscini. La villa
Majorelle era l’opposto: un edificio razionalista, ispirato da Le Corbusier, ambientato in un giardino severo di palme e di
cactus. Il pittore, che nelle sue tele aveva
celebrato i bruni e gli ocra delle architetture di terra dell’Atlante, nella casa e nel
giardino aveva usato il più raro dei colori africani, un blu più profondo e più luminoso del lapislazzuli, meno cupo e meno opaco degli antichi manti dei tuareg.
Ancora oggi sono in molti a considerare
il giardino il capolavoro di Majorelle.
Saint-Laurent restaurandolo ne fece il
capolavoro del suo stile. Come in un quadro di Mondrian, che già gli aveva ispirato una collezione, oppose al blu Majorelle il giallo limone, ripopolò il giardino di
specie rare di piante, ne fece un’opera
d’arte in cui passeggiare, lo aprì al pubblico. Riservò a sé e ai suoi amici la villa,
vi sistemò la collezione di arte islamica
raccolta con Bergé.
Islamabad. Un’auto minata vicino al
muro dell’ambasciata danese in Pakistan.
Cinquanta chili di esplosivo. Un cratere
profondo tre metri. Sei morti, secondo alcuni otto, tutti di nazionalità pachistana,
una ventina di feriti. In Pakistan rispuntano gli attentatori suicidi, dopo che il governo ha chiuso una tregua dietro l’altra
con i talebani annidati nelle aree tribali
al confine con l’Afghanistan. Gli accordi
prevedono il ritiro dell’esercito dalle roccaforti degli integralisti pachistani, che in
cambio dovrebbero fermare i terroristi
suicidi e non concedere più ospitalità agli
“stranieri” di al Qaida. Washington aveva
previsto che i negoziati con i talebani non
avrebbero certo risolto il problema del
terrorismo. La dimostrazione è arrivata
ieri con l’esplosione davanti all’ambasciata danese ad Islamabad. L’alta colonna di
fumo provocata dall’attentato era visibile
in gran parte della capitale. Le schegge e
lo spostamento d’aria hanno mandato i
frantumi le finestre della zona, comprese
quelle della vicina ambasciata indiana.
“Da quando sono state pubblicate le vignette (del profeta Maometto, ndr) sui
giornali danesi viviamo nella paura. Ci aspettavamo qualcosa
del genere” ha spiegato alla
Reuters, Sana Khalid, che
vive nella zona. Nella città
di Multan, dove era in corso una sparuta
manifestazione
contro le vignette
danesi, circa
200
persone
hanno cantato vittoria gridando “Allah o akbar”
(Dio è grande). “Chiunque commetta atti di blasfemia contro il profeta Maometto
subirà conseguenze ben peggiori” ha annunciato il prete islamico Intizar Hussein,
che guidava la manifestazione. “Se è un
attacco suicida, chi lo ha compiuto si trova in Paradiso”. Il governo danese si è riunito d’urgenza e il premier Anders Fogh
Rasmussen ha dichiarato: “La Danimarca
non cambierà la sua politica a causa del
terrorismo. Non cediamo ai terroristi.
Proseguiremo sulla nostra strada sia in
politica estera sia sul tema della sicurezza”. L’ambasciata norvegese, che si trova
nella zona dell’attentato, è stata chiusa,
altre rappresentanze diplomatiche potrebbero decidere di sospendere le attività. Almeno fino a quando non rientrerà
l’allarme che da giorni segnalava un’offensiva, in vari punti del paese, contro interessi occidentali.
I talebani delle zone tribali sono responsabili di gran parte degli attacchi suicidi che dall’estate scorsa hanno insanguinato il Pakistan colpendo soprattutto le
forze di sicurezza di Islamabad. Ieri si sono affrettati a smentire un loro coinvolgimento. La tattica utilizzata per l’attentato
e la mancanza di rivendicazione porta ad
al Qaida. I terroristi di Osama bin Laden
sono legati ai talebani pachistani, ma non
apprezzano gli accordi di tregua con il governo di Islamabad. L’esercito ha cominciato a ritirarsi dal Waziristan meridionale e dalla valle di Swat in cambio dell’impegno, da parte dei talebani locali, di non
concedere più rifugio agli “stranieri” di al
Qaida. La tregua sta rafforzando Beitullah
Mehsud, capo del movimento Tehrik-e-Taliban Pakistan. Le cellule di al Qaida temono di essere scalzate da Mehsud e dai
suoi luogotenenti. Fra questi spicca Qari
Hussein, la vera mente del movimento talebano in Pakistan. Un estremista cresciuto nel sanguinario gruppo antisciita Laskar e Jhangvi. Nel nord e sud Waziristan
è stato Hussein a espandere la base dei
militanti, utilizzando spesso metodi brutali come l’eliminazione dei capi tribali
troppo freddi nei confronti della “guerra
santa”. La sua scuola per terroristi suicidi, distrutta una prima volta dall’esercito
pachistano, è rinata in una zona più sicura del Waziristan, arruolando anche bambini di dieci anni pronti a immolarsi per
il jihad.
Il controllo delle aree tribali
I contatti con al Qaida sono garantiti da
Sirajuddin Haqqani, figlio del leggendario Jalaluddin, il comandante dei
mujaheddin che combattè contro i sovietici diventando ministro delle Aree di
frontiera durante il regime talebano.
Mehsud ha ribadito che continuerà ad
aiutare i talebani afghani nella guerra
contro la Nato, ma l’obiettivo principale è
il controllo delle aree tribali. Le sue avanguardie sono state segnalate alla periferia
di Peshawar. Il piano non si basa soltanto
sulla forza delle armi, ma prevede di mobilitare 300 mila giovani, circa uno per
ogni famiglia, per costruire ponti e strade
pagandoli 200 dollari al mese. Mehsud si
è rafforzato dopo la prima tregua del 2005
voluta da Pervez Musharraf, oggi impegnato in un duello con il nuovo governo
pachistano a lui ostile.
ANNO XIII NUMERO 148 - PAG 2
Le due sinistre
Quella a tendenza iperlaicista e
quella iperstatalista giocano la loro
partita anche in Italia. Ecco come
e tendenze radicali potrebbero acquisiL
re nuovo spazio e per un certo periodo
nella sinistra europea. In Gran Bretagna
Gordon Brown affonda, e l’area blairiana e
modernizzante del Labour prima di riprendersi dovrà subire l’iniziativa dei settori
più legati alle Trade union, finendo così
per far accompagnare con una svolta sindacal-corporativa del loro partito la probabile vittoria dei conservatori guidati da quel
pesce lesso di David Cameron.
In Francia l’ala liberale del Psf, con quel
bel cervello di Dominique Strauss-Kahn sarebbe facilmente battuta dalla ultramitterrandiana Ségolène Royal se non intervenisse nella partita il sindaco di Parigi Bertrand Delanoë che ha dalla sua molte carte
da giocare. Di fatto l’alternativa alla sinistra supersindacalizzata e statalista, è rappresentata dal radicalismo libertario iperlaicista alla Delanoë. L’esempio più evidente della tendenza è la Spagna di José Luis
Rodríguez Zapatero, dove il leader dello
Psoe è abbastanza liberista, spara sugli immigrati ma insieme mette nel gabinetto ministre incinte, sposa tutti con tutti (donne
con donne, uomini con uomini e così via) fa
durare i matrimoni anche pochi secondi e
altro ancora.
E’ dalla Germania invece che vengono
segni di vitalità della classica sinistra sindacale e statalista. D’altra parte in tempi di
inflazione settori di lavoratori possono essere spinti verso questi esiti, soprattutto
quando vivono in economie in ripresa come quella tedesca. Inoltre Die Linke, la sinistra d’opposizione ad Angela Merkel, che
tanto spaventa e condiziona i socialdemocratici orfani di un vero leader, è guidata
da un politico abile, già governatore della
Saar, già presidente della Spd, già ministro
delle Finanze. Oskar Lafontaine non è un
demagogo tipo Achille Occhetto, è un uomo
di governo dalle posizioni massimaliste ma
con salde radici nei sindacati tedeschi. E
“l’altra parte” della sua Linke non è la
smarrita erede di una Democrazia proletaria bensì della terribile Sed, il partito che
– via spionaggio – dominava la Germania
dell’Est: forza dal passato tragico e detestabile. Ma non inefficiente.
Le “due tendenze” europee (l’iperlaicista e l’iperstatalista) giocheranno la loro
partita anche in Italia, con il terzo incomodo di un leader modernizzante alla Blair
(più Clinton e Obama), interpretato però da
un personaggio di modesta levatura culturale come Walter Veltroni.
La tentazione “laicista” fa parte delle
carte che un Massimo D’Alema messo ai
margini nel Partito democratico, potrebbe
finire per usare. Secondo lo stile dell’uomo, svincolato dopo la fine del comunismo
da ogni pensiero strategico e attento solo
al proprio potere, le grandi scelte di principio saranno determinate dai suoi spazi
tattici. Se la situazione evolverà verso certi esiti, si potrà assistere a simil-compromessi storici con lo spaesato Pier Ferdinando Casini, altrimenti si cavalcherà la
deriva laicista e in questo senso ci si incontrerà con la tendenza massimalista ormai
allo sbando dopo la catastrofe della cosiddetta Sinistra arcobaleno.
La “tentazione” sindacal-statalista, invece, da noi stenta a emergere: si era aperto
uno spazio quando la maggioranza della
Cgil aveva scelto di non entrare nel Partito
democratico. Persino Guglielmo Epifani
aveva fatto questa scelta. L’uomo forte della sinistra cigiellina Paolo Nerozzi aveva
trovato un accordo con il leader dei metalmeccanici Gianni Rinaldini. Si cercava di
costruire uno spazio di massimalismo sostanzialmente laburista (era stata un po’ l’idea di Sergio Cofferati nella fase della sua
follia estremista) che preparasse una successione a Epifani. La scelta era stata benedetta da Fausto Bertinotti, vecchio esponente di un sindacalismo massimalista proprio di questo tipo. Poi l’operazione era saltata innanzi tutto grazie all’abilità di Cesare Damiano nell’intrappolare i vecchi colleghi sindacali (che tanto l’avevano perseguitato quando era alla Fiom) e in parte
grazie alla mossa di Romano Prodi di “comprarsi” il pubblico impiego. Nerozzi si era
così candidato nel Pd, Fabio Mussi era restato senza base sociale, Franco Giordano
per conto di Bertinotti aveva guidato la
campagna elettorale più stolta del secolo,
finita in una incredibile disfatta.
Antagonisti allo sbando
Ora la sinistra “antagonistica” è del tutto allo sbando. Potrebbe contare sulla
sponda della Fiom, ma non c’è nessun ex
Pci come Gianni Rinaldini (che infatti cerca di ricucire un po’ con Epifani) e persino
come Giorgio Cremaschi, che si farà mai
davvero comandare da ex di Democrazia
proletaria (tipo Paolo Ferrero o Giovanni
Russo Spena) o da vecchi arnesi stalinisti
come Claudio Grassi, eredi degli antichi
secchiani all’opposizione nel Pci dagli anni Cinquanta poi riciclati in Rifondazione
(con vendetta finale nei suoi confronti) da
Armando Cossutta. In Germania Lafontaine quando vuole, mette becco con autorevolezza nel dibattito della Spd o della Dgb.
Da noi Bertinotti pur un po’ snobbato (si
consideri anche il ruolo del Manifesto in
questo senso) era stato almeno un dirigente (quasi) di primo piano della Cgil. In
realtà in Italia avviene l’opposto di quel
che capita in Germania, e sono gli ex comunisti ora Pd che pesano tra gli “antagonisti”
e non viceversa. E’ D’Alema che guida Nichi Vendola – già da lui contrastato come
governatore della Puglia ma pur sempre
della “sua” Fgci come Giordano, Pietro Folena, Augusto Rocchi e tanti altri – anche
nell’ottica di preparare un possibile sbocco iperlaicista della sinistra. Lo stesso in
parte fa Veltroni rivolgendosi soprattutto
all’area giusti zialista – tipo Claudio Fava –
dell’estremismo, per tante ragioni poco attratta dal dalemismo.
Lodovico Festa
IL FOGLIO QUOTIDIANO
MARTEDÌ 3 GIUGNO 2008
A LEI TOCCA LA SALVAGUARDIA DEL SACRO, SE DISER TA SONO GUAI
La scomparsa della pia donna e la turbo-secolarizzazione
PARLA CALLUM BROWN, STORICO INGLESE LAICO E PROGRESSISTA CHE HA ISPIRATO IL VESCOVO ANGLICANO NAZIR-ALI
Roma. E’ Callum Brown l’autore di “The
Death of Christian Britain”, lo studio del
2001 citato dal vescovo di Rochester Michael Nazir-Ali nel suo intervento pubblicato domenica nel Foglio. E’ lui lo storico
delle religioni che ha offerto un nuovo
quadro della secolarizzazione in Gran Bretagna, spingendone il termine sino agli anni Sessanta. E certo, da studioso laico e
progressista, non si aspettava tanta attenzione. “E’ sempre bello quando una ricerca trova risonanza ben oltre il mondo accademico”, dice al Foglio il professore, che
oggi insegna all’Università di Dundee, in
Scozia. “Il mio libro era incentrato sulla
Gran Bretagna, ma negli ultimi sette anni
ho ricevuto da tutta Europa messaggi di
lettori che mi segnalavano temi comuni
nell’esperienza dei loro paesi”.
Il vescovo di Rochester, in particolare, ha
ripreso la tesi di Callum Brown sulla fine,
improvvisa e catastrofica, del ruolo del cristianesimo nella società inglese, dovuta alla rivoluzione culturale degli anni Sessanta.
“Nel mio libro – spiega il professore – sostenevo che la secolarizzazione della Gran
Bretagna non è avvenuta lentamente negli
ultimi due secoli (come pensava la maggior
parte dei miei predecessori), ma nel corso
di un periodo brevissimo, iniziato negli anni Sessanta. Ho usato come fonti la cultura
popolare, giornali, riviste, canzoni, necrologi, le memorie della gente comune, la storia
orale fatta di interviste e autobiografie, per
dimostrare che fino agli anni Sessanta la religione cristiana ha rappresentato una forza vitale, in grado di plasmare per molte
persone la comprensione della propria vita
e di quella degli altri. La moralità cristiana
ha dominato la vita politica e personale, e
una cultura cristiana, promossa soprattutto
dalle donne, ha costituito il cuore religioso
della nazione. Negli anni Sessanta, però, è
cambiata la natura della religiosità cristiana. L’attenzione, fino allora riservata al rispetto delle donne, alla correttezza sessuale, è stata improvvisamente messa al bando
dalla rivoluzione sessuale e dalla liberazione delle donne. E’ per questo che le donne
hanno rappresentato l’elemento centrale
nella morte improvvisa della cultura cristiana, che fino agli anni Sessanta era stata la
tradizione dominante nel Regno Unito”.
La cosa singolare è che oggi a professare
una tesi che in molti paesi d’Europa potrebbe rischiare di venire bollata come reazionaria sia un eccentrico studioso postmoderno di scienze sociali, come lo storico di Dundee, che ammette di aver scoperto il nuovo
approccio al problema del declino della religione dopo aver incontrato e sposato una
storica femminista. Ma come giustifica sul
piano del metodo questa libertà di tono?
“Alla fine degli anni Novanta, avevo maturato un’esperienza di 25 anni come storico
delle religioni. All’epoca, si riteneva che il
lungo e lento declino della cultura cristiana
fosse iniziato a causa della Rivoluzione industriale e dell’Illuminismo settecentesco,
che aveva secolarizzato la testa e la vita dei
lavoratori”. Brown non lo dice, ma ha in
mente di sicuro gli studi del francese Michel Vovelle sulla decristianizzazione. E infatti aggiunge: ”Gli storici fondavano le loro
tesi sul venir meno, dal 1750 in poi, del controllo da parte della chiesa sullo stato e sulla vita della gente. Personalmente, però,
questa teoria mi lasciava insoddisfatto per
PREGHIERA
di Camillo Langone
Che sia consegnato a
Massimiliano Fuksas il premio Enrico IV. Il noto architetto, intervistato dal sito www.papa
news.it, ha dichiarato: “Grazie a Benedetto XVI mi sono convertito al cristianesimo”. Questa sì che è una notizia. “Dedicherò proprio a lui la mia nuova chiesa di
Foligno”. Fantastico. “Ho scelto un’architettura verticale anziché orizzontale, anche per aiutare il corretto svolgimento
della liturgia. Le chiese circolari concentrano quasi tutta la visibilità sull’assemblea, mentre quelle verticali ti portano a
concentrarti sull’altare. Personalmente ritengo che il rito per eccellenza sia quello
tridentino, con il sacerdote di spalle ai fe-
l’incapacità di spiegare come mai la religione cristiana sia stata vitale sino al 1960. E’
stato solo dopo il 1960 che il declino ha colpito la devozione cristiana, l’appartenenza
alla chiesa, il battesimo, il rito stesso del
matrimonio religioso. E’ stato solo dopo il
1960 che la gente ha smesso di parlare della propria vita in termini di peccato e redenzione, secondo i canoni del racconto cristiano. Per mettere in luce questi cambiamenti, ho usato la decostruzione analizzando il modo in cui la cultura cristiana tra il
1850 e il 1950 è stata dominante nella cultura popolare ‘rispettabile’”. E a quali risultati è arrivato? “Ho capito che quel modo consisteva in una particolare concezione della
devozione religiosa, fondata sul genere, in
cui la fede cristiana delle donne era una
priorità rispetto a quella degli uomini, grazie all’esempio trasmesso dall’immagine
della madre, dalla purezza della vergine.
Viceversa, gli uomini rappresentavano l’opposto, erano i ‘pagani’ delle città industriali; potevano ubriacarsi, darsi al gioco, menare le mani e trascurare le famiglie. Persino le persone dabbene (e in particolare i
preti) venivano rappresentati, nella cultura
popolare, come soggetti a questi peccati. Aldeli”. Caspita, quest’uomo sembra avere
imparato a memoria “Introduzione allo
spirito della liturgia” di Joseph Ratzinger.
Dopo aver letto tali entusiasmanti dichiarazioni sono corso a vedere il progetto della chiesa folignate. Ebbene, è un cubo.
Avete capito bene: un cubo. Sulle riviste
di architettura il cubo di Foligno è stato
definito “un monolite criptico chiuso all’intorno, quasi inaccessibile, astratto”.
Criptico, inaccessibile, astratto: i tre aggettivi escludono che il cubo sia cattolico. La
stessa identica definizione potrebbe essere usata per descrivere la Kaaba, luogo sacro islamico, meta dei pellegrinaggi alla
Mecca. In pratica Fuksas dedicherà al
Santo Padre la filiale italiana del Tempio
della Pietra Nera. Bravo Massimiliano, un
cantiere val bene un’intervista.
l’epoca, erano gli uomini il problema della
società, le donne invece erano la soluzione.
Tutto questo è cambiato radicalmente negli
anni Sessanta, quando l’ideale della devozione cristiana femminile è stato rifiutato in
massa dalle giovani donne, sia perché è cresciuta la sperimentazione sessuale da parte
delle donne stesse, sia perché c’è stata una
liberazione in termini di educazione, professione, salari e destini. Io non ho fatto che
ricostruire questo cambiamento nella cultura popolare e nel modo in cui la storia orale e l’autobiografia hanno interpretato la vita umana senza una concezione religiosa
fondata sul genere. Il concetto della pia
donna, che sin dal Settecento ha dominato
l’Europa cristiana, si è visto improvvisamente mancare di sostegno e di rispetto nella nostra cultura”. La sua analisi vale solo
per il Regno Unito? “No, potrebbe estendersi all’Europa occidentale. Svezia, Norvegia, Danimarca, Olanda, e in parte Belgio e
Francia, hanno registrato un grave crollo
della cultura cristiana tra il 1960 e il 1975,
mentre sospetto che il cambiamento in Italia, Spagna e Portogallo sia avvenuto negli
anni Settanta, quando anche i cattolici praticanti inglesi iniziarono a disertare la messa. Il fattore critico fu la Humanae Vitae,
l’enciclica che bandì il controllo delle nascite, ma ci vollero dieci anni prima che avesse un impatto di massa sui cattolici osservanti. Quando le donne persero interesse a
andare a messa, smisero di farlo anche gli
uomini. Non penso che la Gran Bretagna abbia un ‘ruolo guida’: anche se negli anni Sessanta diede un grosso contributo alla musica leggera e alla moda, le idee femministe
nel Sessantotto spuntarono a Parigi e Roma
come a Londra e New York”. Quanto al rischio di nichilismo e alla minaccia rappresentata dal multiculturalismo, Callum
Brown dà un giudizio avalutativo. “La secolarizzazione fa parte del processo di liberalizzazione e democratizzazione in Europa. I
paesi postcoloniali capirono che dovevano
abbracciare il multiculturalismo. Non sarebbe successo senza il declino della cultura cristiana”.
Marina Valensise
TUTTO IL MALE CHE SI PUO’ DIRE DI CECILIA IN “SARKOZY E LE DONNE”
In libreria a Parigi la rivincita maldicente del club delle prime mogli
ra che Cécilia, la seconda moglie, ha
sposato il pubblicitario del cuore, RiO
chard Attias, con cerimonia esagerata, tre
giorni di festeggiamenti a New York, invitati sceltissimi a cui requisire il telefonino all’entrata, lei che offre ai fotografi la sua faccia nuova e liscia, l’abito di Versace, la spalla scoperta e il bacio appassionato da finalista di reality show, è arrivato il tempo della
rivincita maldicente per il club delle prime
mogli: Marie-Dominique Culioli, che sposò
Nicolas Sarkozy quasi trent’anni fa, che fu
tradita e lasciata per Cécilia, che non si è
mai risposata e anzi si è dedicata all’insegnamento della religione, che durante la
campagna elettorale si rifugiò in un villaggio
corso per fuggire dai giornalisti scocciatori,
poi tornò, gli telefonò dopo un secolo e gli
disse: “Ciao, lo sai per chi ho votato vero?”,
e lui: “Lo so, sei stata carina” (ma Nicolas
era ancora sotto l’effetto devastante di Cécilia, completamente perso, non poteva capire la grandezza del gesto), insomma la prima
moglie per eccellenza, quella che l’ha amato quando lui era un consigliere comunale
ambiziosetto che la portò a vivere in un appartamento sopra la casa della suocera,
adesso finalmente si vendica, parlando ai
giornalisti di Cécilia (in un libro, “Sarkozy e
le donne”, che uscirà in Francia giovedì
prossimo): “Cécilia era la mia migliore amica. Ha fatto tutto quel che poteva per diventare mia amica intima in modo da arrivare a
mio marito”. Cécilia era la sua migliore amica, Cécilia è il peggior incubo di ogni donna:
ragazza capace di infilarsi nei segreti di famiglia, nelle confidenze coniugali, nelle vacanze e nei litigi, negli scambi di vestiti e di
scarpe, fingendo sorellanza con lei e facendo gli occhi dolci a lui (solo gli occhi della
migliore amica possono dire: ti capisco, non
è facile stare con lei, io invece ti renderei
molto felice). Si conobbero, loro quattro, al
matrimonio di Cécilia con Jacques Martin
(Sarkozy era sindaco e celebrava, Cécilia era
incinta e nelle foto sembrava un uovo di Pa-
squa ma lo fulminò ugualmente), divennero
amici per la pelle: le ragazze crescevano insieme i figli, gli uomini le portavano a cena,
insieme, nei migliori ristoranti di Parigi. Ci
sono le foto: Cécilia e Marie-Dominique con
i bambini piccoli in braccio, i mariti sorridenti accanto, e Cécilia ha quello sguardo
da predatrice incontentabile. Fino alla settimana bianca del 1988, quando andarono a
sciare tutti insieme, in due appartamenti poco distanti: Marie-Dominique suonò alla porta di Cécilia, la sua migliore amica, per fare
due chiacchiere, per lamentarsi delle assenze di Nicolas, non le venne ad aprire nessuno ma sentì un rumore dentro casa, e per
terra, nella neve, vide le impronte di
Sarkozy. Dopo vent’anni, Marie-Dominique
ha perdonato tutto a quel marito sbruffone,
ma non ha perdonato Cécilia (perché i mariti tradiscono, scappano, sperano in Carla
Bruni sempre, ma l’amica del cuore è la delusione assoluta, la pugnalata alla schiena,
la città delle donne che crolla per sempre: il
tradimento con la migliore amica è un cliché, ma dolorosissimo, perché pieno di particolari, di ricordi, di pezzetti di vita insieme
da allineare nella memoria per secoli, mettendo insieme il romanzo del grande inganno, fino a quella visione, terribile, in diretta
mondiale: la migliore amica che fa la passerella all’Eliseo, con tuo marito e i tuoi figli
accanto). Dopo vent’anni, allora, almeno togliersi la soddisfazione di spiegare che, se
Sarkozy è un po’ burino, con Ray ban, Rolex,
vacanze in barca, se il mondo lo critica per
questo, la colpa è di Cécilia e della sua
“aspirazione al lusso”. Cécilia, unita ad Attias anche “dall’amore per gli oggetti, dal gusto raffinato per le cose belle”, come ha detto lei aprendo ai fotografi una casa non bellissima a Neully, ha avuto tutto: una migliore amica a cui rubare il marito, un secondo
marito presidente, un terzo marito con cui
ricominciare, ma adesso sarà per sempre,
grazie alla vendetta di Marie-Dominique,
soltanto la seconda moglie bling bling.
LA DOLCE VITA DELLA POLITICA
La felicità del Cav. e i turbamenti del giovane W., aspettando Concita
La felicità del Cav. / 1 - Con l’inconfondibile falcata da pony di scuola viennese (citazione: Fortebraccio su Fanfani), il Cav. attraversa i Fori. Fosse per lui, si capisce, avrebbe preferito sfilare, piuttosto che stare a
morire di pizzichi sul palco delle autorità.
In cima a un autoblindo, pure di corsa tra i
bersaglieri, magari galante tra le ausiliarie
– e infatti, assicurano le agenzie, “Berlusconi allegrissimo, tra smorfie e applausi a giovani soldatesse e crocerossine” – invece deve istituzionalmente contenersi. Cosa difficilissima, per il Cav., al momento una sorta
di cuor contento a Palazzo Chigi. E infatti,
prima della fanteria ha percorso lui i Fori
imperiali, tra signore che gli cantavano “O
sole mio” sotto la pioggia, chi gridava “Santo subito!”, la mamma che lo mostrava orgoglioso alla bimba, “domani lo puoi raccontare alla maestra a scuola”, le fanciulle che
se lo mangiano con gli occhi, “giovani e in
assoluto delirio”, a leggere i resoconti della
storica camminata. “Cori, grida, delirio,
pioggia, ombrelli, spinte, non importa” (Repubblica.it) – un parapiglia, manco W. con
Di Caprio a Torbellamonaca. A un certo
punto, “sale sul predellino”. Ormai, come
gli capita l’occasione monta sul predellino,
pure quando non è il suo: basta lasciare una
portiera aperta e lui s’inerpica. Un premier
molto felice, dalla scalata molto facile.
La felicità del Cav. / 2 - A proposito: nessuno, come Concita De Gregorio sa raccontare
questa governativa felicità berlusconiana,
un misto di Helzapoppin e di Rio Bo. Se andrà a dirigere l’Unità, quel giornale darà
delle soddisfazioni al Cav. Bastava scorrere
il mirabile resoconto del ricevimento al
Quirinale. Praticamente, Silvio pareva la signora Clio Napolitano: accoglieva gli ospiti,
lodava i musicisti, prendeva “le misure del
giardino” (il tycoon si è buttato nel ramo vi-
vai?), candidava Letta, diceva bene di Floris, salutava corazzieri – per inciso, la sua
chioma quasi oscurava la criniera sull’elmo
di questi. E mentre Concita dava conto del
grande show berlusconiano a Palazzo, W.
che la vuole saggiamente direttora del giornale acquistato da Soru – per la cura: Concita più mirto – al Quirinale non si è visto.
I turbamenti del giovane W. / 1 – A proposito. Una volta arrivata al posto che fu di Mino Fuccillo, a Concita toccherà mettere mano al complicato dossier che riguarda proprio il leader del Pd e la redazione di via
Benaglia. Da un lato – nientemeno nella
collana “Le chiavi del tempo. Classici di ieri e di oggi per capire il mondo in cui viviamo” – il prossimo 6 giugno allegato al giornale ci sarà un libro di Veltroni, quello su
Bob Kennedy, “Il sogno spezzato”. Dall’altro, l’inserto satirico della stessa Unità è
tutto un continuo sfottimento di Veltroni
stesso. Nel programma della prossima Festa democratica, ecco i suoi impegni: per cominciare, W. “saluta Padellaro e Colombo e
li accompagna al taxi”, poi nell’open space
“John & Bob” rilegge brani del suo libro su
Bob, quindi nell’area “Yes We Can” s’annuncia il dibattito sul tema “Ma che l’ho
detto io?”, con lo stesso W. Concita farà pure bene a non lavare questo sangue, ma certo a quest’onta, giornalisticamente, deve
porre rimedio. Magari allegando in autunno
il bel libro di Veltroni sugli anni Sessanta.
I turbamenti del giovane W. / 2 - Perché
sennò finirà col provvedere Polito. Il suo
Riformista, che doveva essere salutare e dalemiano, un ricostituente per il dibattito a
sinistra, ieri era un’assoluta citazione veltroniana, avvolto nelle figurine dei calciatori – anche se non c’avevano né Cuccureddu
né l’album Panini. E attenzione, se sfida
sarà, c’è pure un libro di W. sul calcio…
S C O M P A R S O L’ A U T O R E D E L L A “ S T O R I A D E L L E D E M O C R A Z I E P O P O L A R I ”
Addio a François Fejtö, testimone centenario della fine degli imperi
irigeva nel 1945 l’ufficio stampa dell’ambasciata ungherese a Parigi. Era un
D
buon posto per un esule reduce dal maquis.
Era anche il riconoscimento di un lungo impegno. Nel 1945 Fejtö Ferencz, come lo
chiamavano all’ambasciata, prima il cognome e poi il nome, o François Fejtö, come lo
chiamavano i suoi amici francesi, era un
piccolo eroe del socialismo.
Era nato nel 1909 a Nagykanizsa, suddito
del re di Ungheria e imperatore d’Austria
Francesco Giuseppe. Aveva sentito rimbombare i colpi di pistola di Sarajevo, aveva vissuto i contraccolpi della Prima guerra mondiale nella provincia ungherese, aveva visto
passare per le strade le bandiere rosse della Repubblica sovietica di Bela Kun, aveva
assistito alla riconquista dell’Ungheria, in
nome di una monarchia che non esisteva
più, da parte di un leggendario eroe di guerra, l’ammiraglio Miklós Horty.
Fejtö aveva studiato lettere all’università
di Pecs, all’università di Budapest. Avrebbe
potuto continuare l’attività del padre, editore agiato. Organizzò un circolo di studenti
marxisti, fu condannato a un anno di carcere. Si iscrisse al Partito socialdemocratico,
conobbe Attila Józséf, grande poeta. Con lui
fondò Szép Szó, una rivista pronta ad attaccare sia il fascismo sia lo stalinismo, a pubblicare pensatori occidentali sospetti, come
Jacques Maritain, Emmanuel Mounier,
Jean-Paul Sartre, pronta a dichiarare un’aperta avversione alla politica filotedesca
del Reggente.
Socialista ed ebreo, nel 1938 Fejtö riuscì
a venir via dall’Ungheria giusto in tempo.
Giusto in tempo arrivò a Parigi per farsi
coinvolgere nella lotta politica, per assistere alla sfilata dei soldati del Reich sui
Champs Elisées. Per arruolarsi nella resistenza.
Dirigeva finalmente nel 1945 l’ufficio
stampa dell’ambasciata della Repubblica
ungherese a Parigi, quando si trovò a dover
giustificare l’arresto e la condanna del suo
amico d’infanzia Laszlo Rajk. Scappò dall’Ungheria un’altra volta, scappò dallo stalinismo. Dedicò gli anni a venire a scrivere.
Nel 1952 uscì un libro che fece chiasso. Nel
1952 a Parigi gli intellettuali, molti intellettuali, erano comunisti. All’Urss e a Stalin riconoscevano il merito di avere sconfitto il
nazismo, riconoscevano le attenuanti dello
stato di necessità all’eventuale peccato di
totalitarismo. Il libro si intitolava semplicemente “La storia delle democrazie popolari”. Fejtö vi criticava in modo documentato
e senza mezzi termini il mito della superiorità morale e politica dell’Unione sovietica,
dell’uomo nuovo, della cultura e della tecnica sovietica. Salutava la rinascita nelle
democrazie popolari dello spirito nazionalistico. Stalin era ancora vivo. Vivissimi, e
potenti nell’industria culturale, erano i suoi
adoratori francesi. Ci vollero quattro anni
perché molti capissero che cosa Fejtö intendeva. Scoppiò nel 1956 la rivolta in Ungheria.
Poiché non potevano credere ai loro occhi né non credere ai loro miti, gli intellettuali comunisti presero per oro colato la
spiegazione sovietica: la rivolta era il sussulto di forze reazionarie che non volevano
rassegnarsi alla vittoria delle forze del pro-
gresso. La rivista Esprit, che era stata di
Emmanuel Mounier, pubblicò il testo di un
discorso tenuto da Fejtö proprio nel momento in cui partiva l’attacco finale contro
gli insorti di Budapest.
Fejtö tornò sulla questione su altre riviste di ispirazione socialista. Commentò per
l’agenzia giornalistica France-Presse gli avvenimenti nei paesi dell’ Europa orientale.
La sua lucidità contribuì a creare una frattura insanabile tra socialismo e comunismo.
Scrisse e riscrisse della tragedia ungherese, scrisse della primavera cecoslovacca,
intonò il requiem per l’impero sovietico,
sancì la fine delle democrazie popolari, insegnò all’Istituto di studi politici di Parigi.
Si occupò in un saggio storico della figura duplice di Giuseppe II imperatore, che
perseguitava i gesuiti e emancipava gli
ebrei. Meditò sul significato di essere ebreo
in Ungheria, meditò sulla conversione.
Andò a cercare il diavolo negli orrori della storia e non lo trovò. Ripercorse un intero secolo nella sua autobiografia. E’ morto
lunedì 2 giugno.
Stato della musica
X-Factor premia la versione
paesana di celebrità altrui,
Bob Iver riesce a stregarci
In fondo c’era qualcosa che ti teneva incollato a vedere X-Factor, per quanto la grana
del prodotto fosse dura da buttar giù – ma gli
istrionismi di Morgan, i modi di Dj Francesco avevano un che di nazionale e simpatico
che faceva tollerare il versante baracconesco
dell’impresa, almeno per un po’. Così da lontano l’abbiamo tenuta d’occhio, ma distrattamente e non ci è mai capitato di vedere e
ascoltare quella che a giochi fatti stanno lì a
lodare come la vera novità, la voce nuova, il
talento genuino lanciato dalla trasmissione
di RaiDue, questa Giusy Ferreri, in arte solo
Giusy perché da noi va così, basta solo il nome perché siamo tutti “Amici”. Per farla breve, quando abbiamo ascoltato Giusy, nella serata finale, ci sono cadute le braccia e ci è venuta la rabbia: non per la sua buona volontà,
per la sua incredulità di fronte al carrozzone
sul quale forse le permettevano di montare,
e neppure per la sua ugola inconsapevole.
No, ci ha fatto incavolare la triste manipolazione a cui Giusy è stata sottoposta e a cui si
è assoggettata. In sostanza i produttori e gli
arrangiatori del programma (adesso si fanno
chiamare coach, vocal coach, musical coach,
chissà perché, quella è roba buona per il basket, materia più seria di questa) insomma
gli espertoni di X-Factor si son fatti due conti: cos’è che presso le pigre orecchie italiche
negli ultimi mesi ha destato attenzione, forse perfino una parvenza di reazione? Facile:
Amy Winehouse, che con droghe e stravizi ci
ha messo del suo a rispolverare il vecchio
format della stella effimera e maledetta. E
allora Giusy, a dispetto di questo nomignolo
che fa tanto bottega padana, mettiamola in
pista come la Winehouse nostrana. In pratica le hanno insegnato quel vibratino (già
spesso innaturale e sopra le righe nella versione originale-Winehouse, che discende dalla Holiday passando per Brenda Lee), quell’impostazione miagolante, le hanno inculcato di fare la voce di gola e le hanno messo come basi accompagnamenti scanditi e ipnotici come quelli di Amy. Il risultato è penoso.
Più penoso di quando i Dik Dik rifacevano i
Mamas & Papas senza cambiare di una virgola e cantando “Sognando la California” invece di “California Dreamin”. Qui siamo nel
2008, ma si copia, si scimmiotta, ci si guarda
bene dallo scommettere su qualcosa che non
abbia l’avallo del consenso (o della demenza,
o della banalità). Un’operazione (ripetuta in
diversi degli altri “protagonisti” di X-Factor,
a loro volta versione paesana di celebrità altrui) che rende il programma la celebrazione del pensiero debole e dell’arte di arrangiarsi. Il tutto in un campo che un tempo faceva sognare i ragazzi, non perché pensassero di avere il fattore-X, ma perché non potevano farne a meno, seguendo fili invisibili,
mica i consigli di una che musicalmente la sa
davvero lunga, tipo la Ventura.
Il ragazzo barbuto
Detto questo, siamo incavolati e ci chiudiamo nell’eremo. Ma dal momento che qui
tutto è virtuale, anche il successo (lo insegna
X-Factor, no?), allora che sia virtuale anche
il nostro eremo. Per cui invece di andare sugli Appennini ci limitiamo a comprare il
nuovo disco di Bon Iver, uno che ha realizzato l’opera più bella e affascinante di questo
2008, almeno fin qui. Il suo vero nome è Justin Vernon (Bon Iver è il riadattamento
pressapochistico di Bon Hiver, “buon inverno” in francese). E’ del remoto Wisconsin, dove vive a Eau Claire, un posto di taglialegna
di ascendenze scandinave come lui, dove di
inverni ne sanno qualcosa. A un certo punto
questo barbuto ragazzo dallo sguardo profondo se n’è andato a vivere in un casetta di legno tra le foreste e lì ha scritto e registrato
“For Emma, Forever Ago”, che è al tempo
stesso una raccolta di meravigliose canzoni,
una nuova indagine ben dentro il segreto
dell’assoluto esoterico americano, tutto cristallizzato nei suoi spazi interstiziali (gli stessi adorati da David Lynch), un inno alla purezza. Vi stregherà, come fa con chiunque,
per come sa aggirarsi nella solitudine e per
come riconsidera dignitosamente l’ipotesi di
una vita elementare, ascetica, contemplativa,
eppure soddisfatta, calma, consapevole, in
questo mondo di cui è ancora possibile prendere le misure e guardarlo col distacco necessario, per quella gabbia semplice e meccanicistica che nella maggior parte dei casi
si rivela essere.
Stefano Pistolini
PICCOLA POSTA
di Adriano Sofri
Dal programma radiofonico
“Condor” di ieri pomeriggio ho
appreso dell’operato di un ennesimo coleottero – il dendroctonus ponderosae Hopkins, nome comune: scarafaggio
del pino – che sta distruggendo le meravigliose foreste di pino della British Columbia, in Canada. L’invasione è addebitata all’inverno mite. L’autore di un drammatico
studio pubblicato su Nature (si chiama
Kurz) documenta il danno devastante prodotto dalla mancata produzione di ossigeno e dall’enorme rilascio di anidride carbonica. La prognosi è sostanzialmente infausta. Secondo Kurz: “Gli insetti si riproducono solo all’interno degli alberi più
grandi e presto il 90 per cento di questi saranno distrutti. Può darsi che allora i coleotteri comincino a cibarsi gli uni degli
altri portando l’intera popolazione al collasso”. Chi pensa che non si possa vivere
senza un nemico, può trovare in rete tutte
le informazioni che gli servono. La strategia è meno esaltante. Un tempo ispirò da
noi l’atteggiamento dello stato nei confronti delle mafie e delle rispettive famiglie in
guerra fra loro. Qualcuno lo penserà di
nuovo a proposito dei casalesi. Ma non
funziona. Il clima non fa che riscaldarsi, e
c’è sempre un nuovo territorio nel quale
infiltrarsi a succhiare la linfa vitale: l’immensa foresta di conifere dell’estremo
nord del Canada è lì che aspetta e trema.
ANNO XIII NUMERO 148 - PAG 3
EDITORIALI
Il professionista
Gli appelli di Napolitano a restaurare l’autorità mostrano che ci sa fare
I
l modo con cui il Quirinale sta interpretando il suo ruolo di garanzia, soprattutto dopo il radicale mutamento del
panorama politico determinato dall’esito elettorale, è considerato ineccepibile
da quasi tutti gli osservatori. C’è stato un
tempo non lontano nel quale si attribuiva al capo dello stato la funzione, a ben
vedere piuttosto limitativa, di “contrappeso”, cioè di forza legata alla continuità
istituzionale (interpretata in modo conservatore), una voce ascoltata solo per
frenare e condizionare le velleità riformiste delle formazioni esterne al vecchio establishment quando conquistavano la direzione del governo. Giorgio Napolitano ha mostrato di non essere prigioniero di questa visione, ha promulgato a tempo di record i decreti emessi dal
governo nel corso della sua prima riunione operativa, ne ha anche difeso l’applicazione contro chi si ribella, come ha
detto, all’esecuzione delle decisioni legittimamente assunte dagli organi dello
stato democratico. Questo atteggiamento di limpida collaborazione, riconosciuto da Silvio Berlusconi, getta una luce
retrospettiva anche sui ripetuti appelli
al dialogo che Napolitano aveva lanciato durante la breve esperienza della
maggioranza di centrosinistra, la stessa
alla quale doveva la sua elezione all’al-
ta carica. Non si trattava di una richiesta
di disarmo dell’opposizione, allora, come ora i suoi appelli a ricostruire la coesione nazionale, a parti rovesciate, non
rappresentano una limitazione alla dialettica politica e alla fisiologica competizione tra forze alternative. L’indicazione di temi sui quali è opportuno che la
discussione si concentri sul modo per
perseguire risultati comunemente considerati necessari, ormai è già piuttosto
consistente. Va dalla sicurezza dei cittadini al contrasto alla criminalità organizzata, fino alla lotta contro fenomeni
di violenza e di intolleranza, ma passa
anche per l’esigenza di restaurare l’autorità dello stato nei confronti di spinte
localistiche e per la considerazione
tutt’altro che scontata dell’ineluttabilità
di un processo di decentramento che
porti al federalismo fiscale. Si tratta di
un aiuto al governo, che su questi temi
deve trovare soluzioni efficaci, spesso
ostacolate cavillosamente da settori della magistratura oltre che da manifestazioni estremistiche, ma anche all’opposizione, che si sta faticosamente disincagliando dalle tentazioni della contrapposizione pregiudiziale. Il professionismo di Napolitano, in questo modo, stimola tutti gli attori a svolgere al meglio
il ruolo assegnato dagli elettori.
Summers of love
Saggi principi per un nuovo ordine bancario, nel giorno dell’eurofesta
R
iflettere sui sei principi per un
nuovo ordine bancario esposti da
Lawrence Summers sul Financial Times è un buon esercizio nel decennale dell’Unione monetaria europea e
della Bce. Il primo di questi saggi canoni è che non vanno moltiplicate le
autorità di controllo perché ciò favorisce lo “shopping” dove le regole appaiono più comode. Il secondo canone
è che ogni regola dovrebbe basarsi sui
dati di bilancio: non si ammettono attività fuori bilancio. Il terzo canone è
che non si possono basare le regole
sulla capacità dei regolatori (come le
Banche centrali) di prevedere correttamente il futuro perché ciò è illusorio. Il quarto canone è che non si devono considerare le pratiche prudenziali dei singoli operatori, ma la prudenza dei parametri patrimoniali per
il credito nel complesso, perché quando un operatore fa una cosa prudente
dal suo punto di vista, come ridurre il
credito a un debitore troppo esposto,
crea un circolo vizioso: dovrà ridurre
i suoi finanziamenti, generando rischi
diffusi di insolvenza. Tutto ciò porta al
quinto canone, antico come il mondo,
secondo cui chi fa prestiti a lungo termine, finanziandosi a breve termine,
corre un rischio elevato. Deve perciò
essere protetto da adeguati parametri
patrimoniali, per i suoi prestiti in rapporto alla loro alea. Il sesto canone,
che chiude il cerchio, consiste nel fare in modo che chi sbaglia possa pagare, senza che ciò generi, per il sistema
nel complesso rischi insopportabili,
perché altrimenti diventano inevitabili i salvataggi a favore del singolo per
evitare un danno alla comunità incolpevole.
Summers ammette che i suoi canoni
sono più facili da enunciare che da attuare. Non si può non essere d’accordo. Per alcuni canoni, come il rifiuto
di moltiplicare i controllori, mettere
tutto a bilancio, valutare i coefficienti
di patrimonio in rapporto al sistema, il
precetto è chiaro, ma l’applicazione
urta contro le resistenze degli interessati. Rimane poi aperta la questione
delle giuste misure dei vari coefficienti di patrimonio. Quali siano è discutibile. Ma che i parametri attuali vadano aumentati non lo è. Per prestare
soldi ci vuole il risparmio.
Se non è emergenza questa
In Campania è in gioco il ritorno dello stato. Bruxelles ne tenga conto
H
a fatto bene il ministro Frattini a rispondere all’euroburocrazia sui rifiuti: basta voci, aspettiamo le valutazioni ufficiali. L’atteggiamento di Bruxelles
è curioso. Chiede all’Italia di risolvere
presto e bene il problema, pena procedure d’infrazione, poi, quando l’esecutivo decide di fare in fretta – con il premier Berlusconi che è già stato due volte a Napoli per accorciare i tempi –
avanza dubbi ufficiosi sulla derogabilità
di alcune norme ambientali e non solo.
Il commissario ad hoc, il greco Dimas, fa
sapere che è giusto che l’Europa, se ha
preoccupazioni, le manifesti prima della conversione in legge del decreto, salvo aggiungere che non ha ancora valutato le norme. Mentre a Bruxelles si valuta, la crisi resta. Se un’emergenza è un’emergenza va affrontata con strumenti
particolari, tempi rapidi, efficacia d’azione. Certo, non bisogna abusarne; tutto va
fatto nel rispetto dello stato di diritto.
Ovviamente dev’essere un’emergenza
reale, ma se non è emergenza questa,
che cosa è un’emergenza?
In Campania chi collabora con la giustizia viene ucciso, le famiglie minacciate. La criminalità pare controllare il ter-
ritorio meglio delle autorità. La questione rifiuti è irrisolta da anni perché nei
tempi lunghi e nelle incertezze decisionali s’insinuano le cosche, s’incancreniscono i problemi, fioriscono i profitti delinquenziali. Le discariche sono bloccate anche da manifestazioni a rischio di
concorso esterno di stampo camorristico.
La situazione è così caotica che in Campania è in gioco il ritorno o no dello stato, come a dire che finora hanno agito un
po’ tutti i poteri, tranne quello costituito.
“Se un’organizzazione mafiosa è costretta a uccidere, lo fa per non aver saputo
in altro modo far fronte alla crepa che si
è aperta”, ha scritto ieri Giuseppe D’Avanzo su Repubblica. In questa crepa deve passare il ritorno dello stato, con rapidità, decisione, proteggendo le persone
che sono parte della soluzione e mettendo quelle che sono parte del problema
in condizioni di non nuocere.
L’Europa valuti l’imbroglio napoletano, ma sarebbe ora che Bruxelles iniziasse a mostrare un po’ più di attenzione verso i tempi e i contenuti della decisione politica, che è fatta di una prudenza diversa dalla procedura burocratica e
dal principio di precauzione.
IL FOGLIO QUOTIDIANO
MARTEDÌ 3 GIUGNO 2008
Perché al compleanno dell’euro non tutti possono festeggiare
LA SCADENZA PER IL PAREGGIO DI BILANCIO SLITTA AL 2012. VIA LIBERA AI PIANI DI TREMONTI. I GUAI FRANCO-ITALO-IBERICI
Bruxelles. Jean-Claude Trichet, Angela
Merkel e i ministri delle Finanze della zona
euro ieri hanno festeggiato i dieci anni della
Banca centrale europea e celebrato la moneta unica. Per il presidente della Bce e la cancelliera tedesca l’euro è un indiscutibile
“successo”. Nell’ultimo decennio 15 paesi – a
cui si aggiungerà la Slovacchia il 1° gennaio
2009 – hanno beneficiato di un’inflazione e
tassi di interessi rimasti storicamente bassi e
una crescita economica relativamente stabile. Sostituendosi al marco tedesco, l’euro si è
affermato come moneta forte, tanto da sfidare il ruolo del dollaro di valuta di riferimento e di riserva: il 60 per cento delle esportazioni dell’Ue e quasi il 50 per cento dei bond
internazionali oggi sono in euro. Merito di
una politica monetaria rigorosa e dell’indipendenza di una Bce sorda agli appelli dei
politici nazionali. Lo shock dell’11 settembre
2001 è stato superato nonostante la minor
flessibilità rispetto alla Federal Reserve. La
crisi dei mutui subprime del 2007 è stata arginata con colossali iniezioni di capitali, che
hanno alleggerito la morsa nel settore creditizio europeo. “Ci sono anche immensi vantaggi interni”, spiega Ernest-Antoine Seillière, presidente di Businesseurope, la confindustria europea: “Le imprese possono operare in un mercato di 320 milioni di persone
senza rischi di cambio, meno costi transfrontalieri e più trasparenza”. Tutto a beneficio
dei consumatori, anche se “non sempre lo riconoscono”, dice Seillière. Nel 2002 l’inflazione percepita durante il changeover con le
vecchie monete nazionali è stata molto più
alta di quella registrata dalle tabelle ufficiali. Allo stesso modo oggi, con le rate dei mutui in crescita, i prezzi dei prodotti alimentari ai massimi e l’esplosione dei costi dell’energia, i consumatori faticano a convincersi
del successo dell’euro. Soprattutto, se la Germania ride perché la sua economia continua
a correre e a esportare, gli altri grandi paesi
festeggiano solo a metà: in Francia, Spagna e
Italia la crescita langue, l’inflazione è alta, i
deficit incombono e gli economisti più pessimisti intravedono la stagflazione.
Sintomo che la festa non è per tutti, ieri il
presidente dell’Eurogruppo, il premier lussemburghese Jean-Claude Juncker, ha annunciato che la scadenza per raggiungere il
pareggio di bilancio slitta al 2012. Nell’aprile 2007 a Berlino i paesi dell’eurozona avevano fissato il 2010 come data inderogabile entro cui azzerare il deficit, ma l’Eurogruppo
ha dovuto prendere atto delle difficoltà di bilancio di alcuni paesi (Francia, Italia e Portogallo) determinate dal rallentamento economico e dalle minori entrate fiscali. “Le
riforme dei deficit strutturali presupponevano condizioni cicliche favorevoli. Non è più
il caso”, ha spiegato il presidente dell’Eurogruppo. La revisione al rialzo delle stime per
Eurolandia del Fondo monetario internazionale – più 1,75 per cento contro l’1,4 nel 2008,
ma l’1,25 per cento nel 2009 – non basta a
scongiurare il rallentamento. Juncker ha dato la sua benedizione ai piani di politica economica di Giulio Tremonti, inclusa l’abolizione dell’Ici, anche perché il ministro dell’Economia ha confermato l’obiettivo del pareggio
di bilancio nel 2011. Ma gli obiettivi “sono solo obiettivi”, spiegano fonti italiane al Foglio
e, nonostante il solito appello di Juncker a
“continuare il consolidamento”, Tremonti
potrà beneficiare di un po’ più di tolleranza
da parte di Bruxelles. Come il presidente
francese, Nicolas Sarkozy, che per primo un
anno fa mise in discussione il pareggio nel
2010 per poter affrontare due anni di riforme
strutturali con un significativo margine di bilancio. Il 2012 è la “data ultima” in cui “tutti
gli stati dell’Eurozona dovranno avere il pareggio indipendentemente dalle condizioni
del ciclo economico”, è stata la rassicurazione di Juncker in direzione dei paesi che difendono l’intransigenza del Patto di stabilità.
Il problema dell’ortodossia del Trattato di
Maastricht è il disaccoppiamento di fatto delle economie della zona euro. Oggi la Germania cresce ben oltre le aspettative (più 1,5
per cento nel primo trimestre del 2008, il
doppio delle previsioni), mentre la Francia
rallenta significativamente, l’Italia è sull’orlo della stagnazione e il miracolo della Spa-
Così oggi paghiamo dazio alle dittature
Molti si chiedono se basterà una recessione combinata con aggiustamenti tecnologici per riportare i costi energetici sotto la soglia del contagio inflazionistico. Questa è
SCENARI DI CARLO PELANDA
stata recentemente superata nell’eurozona
e negli Stati Uniti, oltre che in Cina e quasi
dappertutto nel mondo. Da un lato, lo shock
dei prezzi è “lento” e ciò alimenta la speranza che vi sia più tempo per assorbirlo e
riequilibrare il sistema economico. Dall’altro, i dati proiettati di produzione e consumo fanno sospettare che se anche la domanda di petrolio si ridurrà in occidente, quella complessiva globale aumenterà trainata
da Cina, India e altri paesi emergenti. Pertanto c’è un serio rischio di stagnazione/recessione combinato con inflazione crescente, cioè di “stagflazione”. Per l’Europa sarebbe grave sia perché il deficit di concorrenza interna non può compensare via efficienza l’inflazione – in questo l’America è
messa meglio – sia perché i salariati chiederebbero adeguamenti degli stipendi, amplificando l’inflazione stessa. Al momento, pur
l’Economist sposando l’ipotesi ottimistica,
non c’è un dato dirimente che permetta di
scommettere se riusciremo a riequilibrare
lo shock, evitando il caso peggiore, o no. Prova ne è che le Banche centrali europea e
americana tengono i tassi fermi perché non
riescono a decidere con quanta recessione
curare l’infezione. I governi vedono il pericolo enorme all’orizzonte, ma per ora reagiscono con soluzioni minime, restando in
una posizione di “aspetta e vedi”. Questa rubrica, invece, segnala che il pericolo maggiore non è dato dalla tendenza di per sé,
ma dal non correggerla in tempo utile. Come? Il problema dell’inflazione è più
(geo)politico che economico. Il dollaro basso, in buona parte scelta politica combinata
con scoordinamento entro l’occidente, incentiva il rialzo del prezzo del petrolio. La
rinazionalizzazione delle produzioni petrolifere e il loro uso strategico non sono stati
contrastati. Non chiamatela, pertanto, “inflazione”, ma “tassa” (circa 2 trilioni di dollari/anno) che le democrazie stanno pagando ai regimi autoritari perché l’impero occidentale si è frammentato e non li tiene più
sotto controllo, così diventandone tributario. Il ministro Giulio Tremonti certamente
saprà attutire l’impatto inflazionistico interno, ma la soluzione è sul piano della governance mondiale. L’Italia, più vulnerabile di
altri all’inflazione energetica, ha il prioritario interesse nazionale a ricostruire il potere globale occidentale contribuendo alla
compattazione dell’Unione europea, di questa con l’America, e del G8. In tal senso la
giusta reazione italiana all’inflazione
dev’essere una grande politica estera.
gna si è infranto contro la bolla immobiliare.
Il petrolio a 130 dollari il barile peggiora le
aspettative nel sud Europa, mentre aiuta le
esportazioni tedesche verso i paesi produttori come la Russia e il medio oriente. “Tutti i
membri del Consiglio dei governatori prendono le loro decisioni tenendo conto degli interessi di tutti i paesi dell’area euro. Noi non
consideriamo nessuno stato particolare”, ha
detto ieri Trichet. In realtà, nell’ultimo decennio, grazie a una crescita relativamente
omogenea di Eurolandia, la politica monetaria della Bce si è sottomessa soprattutto ai
bisogni economici della Germania, locomotiva dell’economia europea. A un’inflazione
tedesca molto moderata e a quattro anni di
stagnazione in Germania, Trichet ha risposto
con tassi di interesse al 2 per cento che hanno permesso a Berlino di attraversare un
lungo periodo di riforme strutturali impopolari. Ora che la crescita della Germania è tornata solida – più 1,5 per cento nel primo trimestre del 2008, il doppio delle previsioni –
la Bce usa il rischio inflazionistico tedesco
per irrigidire la sua politica monetaria, indipendentemente dalle conseguenze sul rilancio economico di Francia, Spagna e Italia. Ieri Trichet ha ribadito di voler rimanere “fedele” alla missione di garantire la stabilità
dei prezzi, ma il suo rifiuto di abbassare i
tassi di interesse scoraggia gli altri governi
europei nell’intraprendere la strada di riforme strutturali costose e impopolari. Allo
stesso modo, se i continui appelli di Trichet
alla moderazione salariale possono valere
per la Germania, non corrispondono alle necessità di un paese come l’Italia, dove gli stipendi medi sono la metà di quelli tedeschi.
“Attualmente la Bce è tra l’incudine” delle
pressioni inflazionistiche e “il martello” dell’economia del resto della zona euro che vacilla, spiega Howard Archer economista di
Global Insight. Al direttore del Center for
European Studies, Daniel Gros, “queste disparità piacciono, perché distribuiscono il rischio: se avessimo una Spagna gigante ci troveremmo in un grande pasticcio”. Ma anche
la Germania, alla lunga, potrebbe smettere
di festeggiare: ad aprile le vendite al dettaglio sono inaspettatamente calate dell’1,7 per
cento. Wolfgang Munchau, columnist del Financial Times, dice di essere “ottimista sull’economia del mondo occidentale nel lungo
periodo e relativamente pessimista nel breve periodo”, mentre per la Germania “è il
contrario”.
Veltroni affida a Damiano la pratica Cgil, prima che esploda
Roma. Al loft sono convinti – non a torto
– che la Cgil versi in un grave stato confusionale, per questo si deve correre ai ripari e
dunque inviare l’ex ministro del Welfare,
Cesare Damiano, a risolvere l’inghippo. All’autore degli accordi di luglio – quelli che
ingabbiarono la Cgil – è stato conferito l’incarico di viceministro ombra del Welfare.
Damiano lavorerà facendo sponda sulla destra Fiom di Fausto Durante e probabilmente si spenderà per la nascita di un sindacato d’ispirazione riformista che – si dice
– potrebbe sorgere dalla fusione tra i chimici e i tessili della Cgil.
Il sindacato di Guglielmo Epifani, in poco più di un anno ha abbandonato la linea
del Piave tracciata al congresso del 2007,
quando venne deciso l’irremovibile rifiuto
dello scalone e della legge Biagi. Pochi giorni fa è stato Gianni Rinaldini, segretario
Fiom, a farlo notare parlando di “sbandamento” e tracciando il ritratto di un’organizzazione che ha buttato a mare la propia
linea programmatica. Fallito l’abbraccio
mortale tra la Cgil e Romano Prodi, scomparsa la Sinistra Arcobaleno (e soprattutto
naufragati i voti del pubblico impiego verso
il centrodestra) la guida di Epifani ha perso
la rotta. Non pochi osservatori fanno fatica
a interpretare le sue parole (“non saremo
né un’opposizione senza senso, né subalterni”) se non come la conferma dello sbandamento descritto da Rinaldini.
Il Pd aveva affidato il ministero ombra
del Welfare a Enrico Letta, un’esplicita scelta di apertura nei confronti della Cisl, sindacato sul quale il loft punta immaginando
una strategia riformista ma al contempo
d’opposizione. Adesso, di fronte all’afasia
denunciata dalle ultime indecisioni della
Cgil, Veltroni ha fatto una scelta diversa: dare un ruolo di peso a Damiano, affindandogli il compito di mettere ordine all’interno
dei guai cigiellini. E non è roba da poco. Abbastanza – dicono al loft – da sminuire l’incarico affidato a Letta. D’altra parte Damia-
no è stato per vent’anni nel “covo” massimalista della Fiom e sa dove mettere le mani. Da sindacalista non riuscì a mitigare il
massimalismo dei metalmeccanici, tuttavia,
da uomo di governo, è riuscito a far accettare gli accordi di luglio ingabbiando la Cgil.
Meriti che adesso gli vengono riconosciuti.
Damiano si trova a che fare con una Cgil
in guerra tra i fedelissimi a Epifani e i sodali dell’ex segretario confederale – ora senatore del Pd – Paolo Nerozzi. Gran parte della confusione in cui il sindacato versa è dovuta proprio all’impasse che lo scontro provoca nel proprio elefantiaco apparato. Sono
in ballo le nomine dei nuovi segretari confederali e, nel lungo periodo, la successione
a Epifani. Anche su questo punto il segretario della Fiom, Rinaldini, nella sua requisitoria contro la dirigenza sembrava averci
azzeccato, quando ne criticava l’eccesso
agonistico sulla distribuzione degli incarichi (l’ultima mossa è stata la nomina da parte di Epifani di Carla Cantoni alla segrete-
ria dei pensionati). L’attuale leader della
Cgil, non è un mistero, vorrebbe in segreteria Enrico Panini, mentre Nerozzi spinge
per Carlo Podda, l’uomo cresciuto nella funzione pubblica. L’elezione di un nuovo
membro in segreteria è un passo fondamentale per gli assetti che dovranno decidere il
segretario generale. E anche in questo caso
circolano dei nomi, due donne di area socialista: la nerozziana Nicoletta Rocchi e
l’epifaniana Susanna Camuso.
Il ruolo precipuo di Damiano sarà quello
di mediare e ricostruire una linea. Al suo
fianco e in opposizione alle intransigenze
del massimalismo, avrà Alberto Moselli e
Agostino Megale, i segretari riformisti dei
chimici e dei tessili Cgil. Se poi – come sostiene qualcuno – le due categorie dovessero unirsi, allora per la prima volta nella storia ci sarebbe un grande sindacato riformista. Con questo e la sponda della destra
Fiom, Damiano potrebbe anche riuscire nel
tentativo di salvare la Cgil da sé stessa.
DaChiaianoaVicenza,ilsindacoPdcontrolabaseUsaecontroW.
Vicenza. Non ha più spazio sui giornali,
perché oggi la cronaca è Napoli, Chiaiano,
la monnezza e i serpentoni (10 mila, 5 mila,
2 mila, chissà) che sfilano in piazza offrendo
alle telecamere le parole ultime dell’incazzatura antidiscarica: “Jatevinne! Jatevinne!”. Ma spostando il dito un po’ più in là,
centrando la cartina dell’Italia un po’ più a
nord, c’è un’altra città che nel giro di un mese potrebbe diventare una nuova Chiaiano e
che, per ragioni diverse dalla spazzatura,
potrebbe mettere in imbarazzo centrodestra
e centrosinistra, aprendo una ferita tra la segreteria del Pd e le amministrazioni locali
del partito. Vicenza e la sua base militare
come Chiaiano e la sua discarica comunale?
Il rischio c’è. “Questa è una battaglia per la
democrazia uguale a quella di Vicenza!”, ha
detto domenica a Napoli il compagno disobbediente Luca Casarini, alla testa di un corteo che accanto agli “anti discarica” e agli
“anti Tav” ospitava anche le bandiere bianche e rosse dei “No Dal Molin”. Tra i due caamericani sono famosi soprattutto per l’“esportazione della democraIzia”,neocon
ma il loro è un pensiero a tutto campo. In materia di economia e stato sociale
hanno formulato una proposta di mediazione tra le contrapposte insufficienze
dell’assistenzialismo e del laissez faire
tradizionali. Flavio Felice, docente di
Dottrine economiche e politiche alla Pontificia Università Lateranense, traccia un
albero genealogico che affonda le sue radici in quell’economia sociale di mercato
posta dal democristiano Erhard a fondamento della ricostruzione tedesca nel secondo dopoguerra. E in quell’Ordoliberalismus delineato da Wilhelm Röpke per
individuare “i principi di un liberalismo
costruttivo, di un umanesimo economico,
o – ben prima che la formula tornasse a
comparire nel dibattito politico odierno –
di una terza via tra il controllo diretto dello stato e la competizione economica senza regole né freni”. C’è anche l’enciclica
di Pio XI, “Quadragesimo anno”: “Ma deve tuttavia restare saldo il principio im-
si il collegamento esiste e non soltanto perché i “no” alla Tav, alle discariche e alle basi militari sono ormai diventati un fronte
unico nell’evoluzione delle “resistenze” no
global. Ma anche perché, dalle parti di Napoli così come a Vicenza, c’è una certa spaccatura interna all’opposizione e non a caso
non sono pochi i sindaci del Pd che usano
parole molto diverse dai dirigenti del partito. A Marano, a pochi chilometri da Napoli,
il sindaco Salvatore Perrotta (Pd) si è schierato con il fronte anti discarica di Chiaiano,
attaccando il suo stesso partito che non è
contrario a quella discarica. A Vicenza, invece, a proposito dell’allargamento della base militare americana (la Dal Molin), succede una cosa simile: il sindaco Achille Variati eletto ad aprile con il Pd, l’allargamento
non lo vuole. Il Pd invece sì.
L’ampliamento della base americana, tra
l’altro, è stato anche uno degli argomenti
con cui Veltroni ha declinato la sua “politica del fare”. Negli ultimi mesi, il segretario
LIBRI
Flavio Felice
WELFARE SOCIETY
Rubbettino, 228 pp, euro 12,50
portantissimo nella filosofia sociale: come
è illecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le forze e l’industria propria per affidarlo alla comunità,
così è ingiusto rimettere a una maggiore e
più alta società quello che dalle minori e
inferiori società si può fare”. Oggi si dice
sussidiarietà.
Si parte dunque dalla crisi del Welfare
State, verso cui la critica neocon è analoga a quelle liberista e libertarian: il paternalismo statalista è una perversione dell’autentico spirito americano, e comporta
lo ha ripetuto un paio di volte e lo ha scritto
anche tra le pagine del suo programma elettorale. L’ex sindaco di Roma è convinto che
“la base americana si deve fare” e a quanto
pare, la notizia è delle ultime ore, l’ampliamento della Dal Molin comincerà già dalla
fine di giugno, quando una lunga striscia di
terreno vicentino passerà dalla competenza
dell’aeronautica italiana a quella americana. A quel punto, spiega al Foglio lo stesso
sindaco di Vicenza, “i lavori potrebbero cominciare” e c’è da scommettere, come Variati sa perfettamente, che nel giro di poche
settimane a Vicenza cominceranno a esserci molte delle bandiere che oggi sventolano
tra le strade di Chiaiano. Ma con una differenza rispetto al 2007, quando contro l’ampliamento della base sfilarono 150 mila manifestanti, pochi giorni prima che il governo
Prodi cadesse sulla politica estera. Oggi il
primo cittadino è del Pd, non più di Forza
Italia, e alle ultime elezioni, mentre W. spiegava come ampliare la base, Variati veniva
il rischio di corrompere la democrazia liberale in una democrazia sotto tutela. Da
ciò i libertarian traggono però una critica
radicale all’idea stessa di stato. Come i liberali classici, invece, i neocon ritengono
che esso debba fare il minimo, proprio
perché questo minimo è talmente importante da dovervi concentrare tutte le attenzioni. In più, dal federalismo e dalla
dottrina sociale cattolica traggono l’idea
di mettere tra stato e individuo la ricca
gamma di corpi intermedi di cui si parla
diffusamente nel secondo capitolo: vicinato, famiglia, religione, associazionismo. Il
terzo capitolo si sofferma sull’underclass
americana: quel sottoproletariato marginale in nome del quale è stato creato gran
parte del Welfare State, ma le cui condizioni sono invece peggiorate per colpa
della deresponsabilizzazione che questo
ha comportato. Infine, al quarto capitolo,
considerazioni e prospettive: progetti e
modelli della società civile, modello relazionale, ragioni logiche ed economiche
della sussidiarietà.
eletto anche grazie ai 5 mila voti raccolti
dalla lista “Dal Molin”. E’ anche per questo
se sulla base di Vicenza il Pd dovesse dare
il suo appoggio al governo (favorevole all’ampliamento), in piazza con i “no Dal Molin”, e contro il Pd, ci sarà anche il sindaco
della città. Sindaco che per il prossimo settembre ha già convocato una consultazione,
con cui la città esprimerà il suo giudizio sulla base. “Qui non si tratta di essere ‘nimby’,
non si tratta di dire no nel mio giardino e
non si tratta di essere anti americani. Quello che forse il Pd non comprende – dice al
Foglio Variati – è che qui c’è un popolo che
riguardo alle decisioni del suo territorio
non vuole essere scavalcato da nessuno. Certo, su queste questioni il mio interlocutore è
il governo, non il loft. Ma se il Pd non vuole
perdere terreno al nord mi auguro che su
argomenti come questi anche Veltroni cominci a pensarla come me. Perché prendere decisioni contro la città in questo momento per il Pd potrebbe essere rischioso”.
IL FOGLIO
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ANNO XIII NUMERO 148 - PAG 4
IL FOGLIO QUOTIDIANO
MARTEDI 3 GIUGNO 2008
I pellirossa della Sapienza, Università ideocratica già da lungo tempo estinta
Al direttore - C’è un nuovo uomo più veloce
del mondo. Ma non è Giuliano Amato.
Maurizio Crippa
Al direttore - Sarebbe così gentile da dirmi
dove posso trovare subito Camillo Langone?
Dopo aver letto la sua recensione al libro di
Eugenio Scalfari, devo assolutamente abbracciarlo.
Francesco Cortesi, Forlì
Al direttore - Uno “Herrschaftsapparat”, un
decisionismo alla Schmitt, proclamato dalla
Reggia di Franceschiello? Abbiamo appena celebrato la Repubblica italiana “una e indivisibile” il giorno dopo che Bossi ha invocato da
Pontida il “federalismo fiscale”. Qualcosa, nel
quadro, non torna. Cordialmente
Angiolo Bandinelli
Al direttore - Scoperta tribù di “uomini rossi”
in Italia, nell’area dell’Università La Sapienza
di Roma. Gli studiosi stanno approntando delle
soluzioni possibili per questa tribù, perché pare
che ogni minimo contatto con la civiltà possa
causarne l’estinzione. Alcuni vorrebbero chiudere l’intera area della Sapienza e dichiararla
area protetta per etnia in via di estinzione. Altri
scienziati, pur dichiarandosi addolorati, preferirebbero il rischio perché – dicono – fa parte dell’evoluzionismo e adducono l’esempio dei dinosauri: non erano in grado di vivere il presente e
la loro scomparsa era inevitabile.
Luciano Pietrosanti, via Web
Un’Università che non è in grado di ricevere il Papa perché i suoi professori non
ne sanno leggere i discorsi su Galileo, che
autorizza e poi proibisce assemblee su te-
mi storici come le foibe, che rumoreggia in
situazione di minaccia e assedio di fronte
agli uffici del preside di una facoltà, che si
dà un tono indiano metropolitano trentuno
anni dopo il 1977, che si definisce chiassosamente antifascista per bocca dei suoi docenti senza specificare se si tratti di antifascismo democratico o di altra specie: una
Alta Società
Restaurant Jules Verne di Alain Ducasse sopra la Tour Eiffel. Jean Marie Colombani commenta con pochi amici il suo
saggio, appena uscito, su Sarkozy. Titolo
azzeccato: “Un américain à Paris”.
Il presidente lo ha già letto.
tale Università è già estinta.
Al direttore - Sul suo adorato giornale leggo
molti articoli (di alcuni sono anche stato l’indegno autore) sulla giustizia penale e sui difficili rapporti tra potere giudiziario e potere politico. Però quell’epoca è finita. La “vera” emergenza non è la giustizia penale, pur con i tanti problemi che ancora presenta, ma la giustizia civile. E non è solo una questione di civiltà,
ma anche un problema economico. L’ottanta
per cento dei quasi cinque milioni di cause civili pendenti ha contenuto direttamente monetario. Si tratta di questioni economiche che
vengono sospese per gli oltre otto anni medi di
durata delle cause, con vantaggio della parte
resistente e in torto, e un guaio per chi ha ragione. Il danno alla certezza economica, cioè
della benzina che muove il paese, è enorme.
Per uscirne, ha ragione Italo Ormanni, non c’è
bisogno di grandi riforme, come hanno invece
teorizzato, fallendo, tutti i ministri della Giustizia del passato. Ma di aggiustamenti mirati
che contrastino gli incentivi a ricorrere in giudizio. Faccio due esempi: uno, il tasso di interesse che la parte perdente paga a fine processo è inferiore al tasso reale, di conseguenza
conviene resistere in giudizio, tenere il denaro
presso di sé e farlo fruttare. Due, il cumulo di
garanzie su cui si fonda la procedura, prolungano a dismisura il procedimento, allontanano il pagamento di chi ha torto, e costituiscono un danno certo alla parte che ha ragione, a
quella parte cioè per la quale in primis le garanzie dovrebbero esistere. Batta Alfano dove
il dente duole. Mi scuso per la lunghezza, con
ossequio e intatto affetto
Antonello Capurso
Voci da Napoli
La foruncolosi della monnezza
quotidiana ha coperto il tumore
di rifiuti ben più pericolosi
Al direttore - In un pezzo accorato dedicato alla “munnezza” napoletana, Lei invita Napoli a “farsi viva, sennò è molto morta”, chiedendosi anche se ci sia almeno “un
napoletano di grido, uno straccio di scrittore, di professionista, di magistrato, di accademico, un capopopolo, un filosofo, un armatore, un poliziotto”, che abbia tentato in
questi anni, se non “di prendere in mano la
città, fuori controllo da secoli, almeno il discorso sulla città”. Per lei “l’impudico disastro di Napoli, inquietante e osceno, non è
il fatto che non si risolvano i problemi, bensì il fatto che la città ha perso la voce, non
fa più nemmeno rumore, trasmette l’onda
piatta e decerebrata della morte urbana,
della fine della fantasia, pure quella in discarica come tutto”. Ecco, mi permetterà di
contraddirla. L’impudico disastro di Napoli
è proprio il fatto che da anni, troppi, non si
risolvono i problemi, non il presunto silenzio della città. Quanto all’alibi dei secoli,
non lo darei francamente a nessuno, né per
il passato, né per l’immediato presente; sa
troppo di mani messe avanti a tutela dell’ennesimo possibile fallimento di stato. A
Napoli il discorso sulla città che lei invoca
non manca da anni, fatto su tutta la stampa
locale da non pochi rappresentanti di tutte
le categorie che lei cita, della cosiddetta società civile, e dalla chiesa di Napoli, da tempo anch’essa in prima fila sul tema. Altro
che silenzio decerebrato! Il fatto è che questo discorso si continua a non ascoltarlo, a
non dargli rilievo nazionale, limitandosi ad
inventare un silenzio locale di discorsi critici e autocritici. Invenzione, che ancora
una volta contribuisce alla logica delle attenuanti generiche della classe dirigente indigena (tutti colpevoli, anche la società civile per mancata vigilanza!) e a sgravare la coscienza del paese. Di un paese da più di
quindici anni inerte su ogni grande problema che riguardasse la sua modernizzazione,
tra cui la modernizzazione della gestione
dell’ambiente e del ciclo dei rifiuti a livello
nazionale, di cui la Campania è stata il ventre molle e fetido. Quando si farà una storia
meno emotiva e meno letteraria della
“munnezza” napoletana (ma a dir la verità
un buon documento tra cronaca e letteratura è già “Gomorra” di Saviano) si potrà tranquillamente argomentare che per alcuni decenni – con la complicità della camorra e di
una classe politica locale che sul ciclo
emergenziale della mondezza e sull’economia deviata che ha rappresentato ha costruito parte delle sue fortune, fin quando
ovviamente il bubbone non è scoppiato – la
Campania è stata la pattumiera dei rifiuti
tossici d’Italia, ai cui delittuosi vantaggi economici hanno partecipato non poche imprese del nord, oltre ovviamente chi quei traffici rendeva possibile in loco. Anzi la costante emergenza della gestione dei rifiuti
quotidiani è ben servita a distogliere lo
sguardo dall’imperterrito continuare dei
traffici tossici e dalle mancate bonifiche,
per cui ovviamente non c’era mai tempo. La
foruncolosi diffusa sul territorio della
“munnezza” quotidiana ha coperto per anni il tumore diffuso di “munnezza” ben più
pericolosa, e in molta parte non indigena.
Assoluzione dunque della classe dirigente
indigena colpevole quanto meno della cecità disastrosa dell’inerzia? Assolutamente
no. Chi Le scrive non è certo un napoletano
di grido, ma per caso almeno uno straccio di
filosofo ( fino a qualche settimana fa ero
preside della facoltà di Lettere alla Federico II ), che da anni con tanti altri ha denunciato tutto ciò di cui da qualche tempo la
stampa nazionale sembra avere scoperto, facendone anche argomento di una battaglia
politica interna alle primarie del Pd, che lo
ha portato oggi a essere deputato del Pd. (…)
Chi scrive ha la presunzione del copyright
sull’exit strategy, con cui si poteva e si doveva uscire dall’emergenza dei rifiuti; e quest’exit strategy prevedeva un coté politico
una rilegittimazione tramite il voto dell’Istituto regionale, perché potesse con recuperata credibilità agli occhi dei campani sostenere l’azione dello stato centrale sul fronte della mediazione sociale della politica necessaria a risolvere in modo non traumatico l’emergenza. Coi tempi della politica, con l’affidamento ancora una volta, dopo il quinquennio 2001-2006 (è il quinquennio in cui Berlusconi nomina Bassolino Commissario ai rifiuti), alla ditta B&B della gestione dell’emergenza campana, questa posizione sembra oggi già essere una profezia del passato,
e può ben essere che in questo momento sia
prevalente la necessità di sostenere in tutti
modi, senza intralci elettorali prima del 2009,
l’azione del sottosegretario Bertolaso (che
già molti di noi difesero contro il ministro
dell’Ambiente Pecoraro Scanio).
Ma non ci si dica che Napoli tace. Le dia
piuttosto voce, direttore, anche ospitando
questa mia lunga comunicazione sul servizio
civile prestato, inascoltato a livello nazionale e finora certo politicamente minoritario,
che non pochi napoletani hanno comunque
svolto. Napoli rischia di essere la metafora
dell’impossibilità del paese di riformare se
stesso. Se questo malauguratamente accadesse, anche il governo Berlusconi farebbe
l’amara esperienza di quanto sia breve, in
mancanza di soluzioni, il passo dalla luna di
miele con il paese alla luna di fiele. E non ci
saranno discorsi su Napoli a compensare il
disastro di tutti.
Eugenio Mazzarella, deputato Pd
INNAMORATO FISSO
DI MAURIZIO MILANI
Comunico l’uscita del nuovo libro di Giovanni Rana.
Il primo titolo: Parlar male di Zelig e Smemoranda
(edizioni Uomo Cisterna).
Il secondo libro scritto da
Francesco Amadori: Smemoranda – Zelig Shock
(Pinguin Edition). In Italia nessuno vuole tradurlo.
ANNO XIII NUMERO 148 - PAG I
IL FOGLIO QUOTIDIANO
MARTEDÌ 3 GIUGNO 2008
TEHERAN E’ LA NOTTE
Mr Hezbollah
Chi è lo 007 tedesco che fa da
mediatore tra Israele e il Partito
di Dio per la restituzione dei corpi
colleghi lo chiamano Mr. Hezbollah. E’
l’agente dei servizi segreti tedeschi
I(Bnd)
Gerhard C. che, da due anni, secondo lo Spiegel, si adopera come mediatore
per un nuovo scambio tra i miliziani filo
iraniani e Gerusalemme. Grande esperto
dell’area – ha collaborato anche allo scambio del 2004 – non ha mai avuto cedimenti, nemmeno durante la grave crisi libanese di un paio di settimane fa. E così, finalmente, settimana scorsa Mr. Hezbollah
portava buone notizie sia a Berlino sia a
New York. L’accordo era praticamente fatto. Notizia con la quale il settimanale tedesco è uscito proprio il giorno, questa domenica, in cui si apprendeva che Hezbollah consegnava una cassa con i resti di soldati israeliani caduti durante il conflitto
israelo libanese dell’estate 2006. Qualche
giorno prima Israele aveva rilasciato il miliziano Nassim Nasser, dopo che questi
aveva scontato una pena di sei anni per
spionaggio: il gesto di Hezbollah potrebbe
ricollegarsi alla liberazione di Nasser e
non strettamente con il piano dello 007.
Stupisce però il fatto che i giornali tedeschi si siano limitati a riprendere la dichiarazione del ministro degli Esteri,
Frank-Walter Steinmeier, il quale, in visita a Beirut, ha detto di augurarsi che la restituzione delle spoglie sia un primo passo verso una normalizzazione dei rapporti, senza nemmeno ipotizzare una correlazione. Il masterplan tedesco prevede la liberazione da parte del governo israeliano
di quattro miliziani di Hezbollah catturati nell’estate di due anni fa; restituzione
anche delle spoglie di altri dieci libanesi
morti durante quel conflitto così come i
resti di vittime di scontri precedenti; infine consegna delle mappe sui campi minati nel sud del Libano redatte dagli israeliani. A queste richieste se ne aggiunge
poi un’ultima, altrettanto spinosa: il rilascio del druso Samir Kuntar condannato
per la brutale uccisione, durante un assalto terroristico del 1979, di quattro israeliani. In cambio Hezbollah consegnerebbe le
salme dei due soldati israeliani Eldad Regev e Ehud Goldwasser, il cui sequestro
scatenò il conflitto nel 2006. Fino a oggi
non vi è conferma della morte dei due militari, ma negli ambienti dell’intelligence
la danno per certa.
Israele, ed è questa la moneta di scambio per Kuntar, vuole poi sapere anche del
destino di Ron Arad, pilota ed eroe nazionale, abbattuto nel 1986 mentre sorvolava
il Libano. E’ probabile che Arad sia stato
catturato e portato in Iran, dove poi sarebbe morto, ma gli israeliani vogliono un
rapporto dettagliato. I miliziani di Hezbollah sembrano piuttosto sicuri di riuscire
da qui a poco a riportare Kuntar in patria.
Ma non è detto.
Il coinvolgimento di Hamas
Sempre stando a Spiegel il piano di
scambio tedesco prevede anche una seconda parte assai più difficile da onorare.
Almeno per Olmert, sempre più sotto pressione per gli scandali di corruzione, e sempre più solo (il partner di coalizione Ehud
Barak ha chiesto le sue dimissioni, il ministro degli Esteri Tzipi Livni auspica elezioni anticipate). La seconda parte prevede, infatti, la liberazione di 450 palestinesi, in cambio del rilascio del sottoufficiale
Gilad Shalit in mano a Hamas. Includere
nel pacchetto anche Hamas è stata indubbiamente una mossa astuta del leader di
Hezbollah, Hassan Nasrallah, che così può
presentarsi come interlocutore strategico
nell’area. Ma fa venire in mente pure il
commento dell’ex ministro degli Esteri tedesco, Joschka Fischer, riguardo al conflitto israelo-libanese: “Una guerra su procura strumentalizzata da Hamas e che fa gli
interessi di Siria e Iran”.
Anche per questo firmare la seconda
parte dell’accordo potrebbe essere particolarmente indigesto per Olmert, come
scrive lo Spiegel: 450 palestinesi in cambio
di due cadaveri e un militare vivo? Forse
con quella cassa consegnata agli israeliani domenica, forse, dando la possibilità di
seppellire i soldati israeliani nella loro
terra, si vuole rendere più facile la firma
di Olmert sul masterplan tedesco?
Come contro l’apartheid. La ricetta di McCain per l’Iran
ettemila persone, ieri mattina, hanno applaudito l’intervento di John McCain alS
l’Aipac, l’American Israel Public Affairs
Committee. L’Aipac è la più importante
lobby filo israeliana d’America, alla cui conferenza annuale di Washington partecipano
i candidati presidenziali e i leader congressuali democratici e repubblicani. La conferenza si è aperta con il discorso di McCain e
si concluderà domani con l’intervento di Barack Obama e Hillary Clinton, in mezzo parlerà il gotha della politica e dei centri studi
americani e israeliani (c’è anche il premier
Ehud Olmert). Il punto centrale, come l’anno scorso, è l’Iran, nelle parole di McCain “il
principale sponsor mondiale del terrorismo
nonché minaccia destabilizzatrice dell’intero medio oriente, da Bassora a Beirut”.
L’Aipac, con una lettera, ha invitato i partecipanti a “trattare con calore, deferenza,
rispetto e apprezzamento” gli interventi degli oratori, perché “come ci comporteremo
durante la conferenza, individualmente e
collettivamente, sarà una questione di grande importanza”. Difficile che l’avvertimento
riguardasse un’improbabile reazione scomposta al discorso di McCain. L’Aipac, piuttosto, teme che Obama e la sua proposta di voler incontrare senza condizioni Ahmadinejad possa essere accolta male.
McCain ha cominciato col ricordare la relazione speciale tra Stati Uniti e Israele, iniziata con la decisione del presidente democratico Harry Truman sessant’anni fa. Nessuno, in America, mette in dubbio la difesa
di Israele, ma sullo sfondo c’è la partita presidenziale su come affrontare la ricorrente
minaccia iraniana, reiterata ancora ieri dal
presidente Mahmoud Ahmadinejad e dal
neo speaker del Parlamento Ali Larjani.
La polizia carica alcuni studenti durante una manifestazione a Teheran (foto Reuters)
McCain ne ha approfittato per giudicare
sbagliata, illusoria e ingenua la proposta di
Obama e per ricordare la sua opposizione
all’emendamento, approvato da tre quarti
del Senato, che ha definito “organizzazione
terroristica” la Guardia Rivoluzionaria iraniana. Obama ha replicato accusando McCain di voler continuare la politica di George W. Bush, sottolineando però di essere
impegnato a difendere Israele. McCain ha
ridicolizzato l’idea che gli iraniani stiano
facendosi la bomba perché Bush non vuole
sedersi a un tavolo con Ahmadinejad: “Come se non ci avessimo pensato”. Gli europei, ha ricordato McCain, sono in trattative
con Teheran da molti anni e varie Amministrazioni americane hanno provato a parlare con gli ayatollah, a cominciare da quella
Clinton. Ci sono state aperture, proposte di
normalizzazione dei rapporti, allentamenti
delle sanzioni e le scuse pubbliche di Madeleine Albright, “ma l’Iran ha rifiutato,
anche con Khatami – un uomo meno radicale dell’attuale presidente”. Un vertice
con Ahmadinejad, secondo McCain, non
porterebbe a nulla se non a trovare “un
pubblico mondiale per le chiacchiere antisemite di un uomo che nega l’Olocausto e
ne vuole cominciare un altro”.
Uno spettacolo di questo tipo, secondo il
candidato repubblicano, danneggerebbe i
moderati e i dissidenti iraniani, assicurando
rispettabilità ai radicali e ai falchi del regime. Obama è stato criticato anche per aver
scommesso sul fallimento della nuova strategia irachena di David Petraeus, un cavallo
di battaglia di McCain, specie ora che tutti,
anche i giornali liberal, si accorgono che sta
funzionando. McCain crede che la sicurezza
di Israele e la deterrenza nei confronti di
Teheran passino dal successo in Iraq, dove
gli iraniani sostengono gli estremisti sciiti
che uccidono gli americani e gli iracheni.
“La continua ricerca iraniana di armi nucleari – ha detto McCain – pone un rischio
inaccettabile, un pericolo che non dobbiamo
permetterci”. Il senatore non ha parlato di
intervento militare, ma ha indicato una via
internazionale, con o senza l’Onu, per imporre progressivamente sanzioni politiche ed
economiche sempre più forti e, soprattutto,
per lanciare una grande campagna di disinvestimenti dall’Iran, sul modello di quella
che ha aiutato il Sud Africa a liberarsi dell’apartheid: “Se le persone, le aziende, i fondi pensione e le istituzioni finanziare di tutto il mondo disinvestiranno dalle società
che fanno affari con l’Iran, le élite radicali
che guidano il paese diventeranno ancora
più impopolari di quanto lo siano adesso”.
Perché l’occidente farebbe meglio a evitare il risky business dei pasdaran
Roma. Sull’isola di Kish, a poche miglia
di mare dallo stretto di Hormuz, la striscia
di mare che separe l’Iran dalla penisola
arabica, i turisti non mancano mai. Sono
vacanzieri e uomini d’affari venuti dall’Europa, dalla Russia e dall’estremo
oriente. Visitano l’acquario appena costruito non lontano dalla piazza Kabir, fanno shopping nei negozi del centro e dormono in alberghi dai nomi esotici come il
Venus o il Flamingo. Oppure al Dariush,
primo hotel al mondo che funziona solamente ad energia solare. Kish non è una
provincia degli Emirati ma l’oasi fiscale
iraniana voluta, a metà degli anni Novanta, dal governo di Teheran. Un modo semplice per attirare gli investimenti stranieri senza incorrere nelle sanzioni appena
varate negli Stati Uniti dall’Amministrazione Clinton. Da allora l’isola è la porta
d’ingresso per i dollari e i rubli che finanziano il regime dei pasdaran e il controverso programma nucleare iraniano. Per
molti è stato l’affare del secolo: nelle acque del Golfo Persico ci sono le maggiori
riserve di gas e petrolio dell’intero pianeta. Ma i rischi del business non sono da
meno, dice al Foglio Ethan Chorin, senior
fellow al Center for strategic studies & international studies di Washington. Non è
soltanto un fatto di sanzioni: “Chiunque
voglia investire nell’Iran dei giorni nostri
– spiega – deve fare i conti con una situazione interna assolutamente preoccupante. L’inflazione è vicina al trenta per cento, la politica della redistribuzione delle
entrate che derivano dall’industria petrolifera è fallita e nelle strade aumenta il
malcontento verso il regime. Credo sinceramente che qualcosa cambierà a Teheran
nel giro di un anno e mezzo. La guida del
paese, l’ayatollah Khamenei, ha compreso
la situazione e non ha evitato di scontrarsi con il presidente della Repubblica,
Mahmoud Ahmadinejad. La fresca nomina di Ali Larijani alla guida del Parlamento è l’ennesimo segnale della situazione”.
Secondo Chorin, già consulente della
compagnia petrolifera Shell in medio
oriente, le società occidentali che lavorano
in Iran sono sottoposte a grande pressione
su tutti i fronti. “C’è quella sul versante
pubblico che deriva dalla cattiva reputazione dell’Iran sulla scena internazionale.
C’è quella sul versante interno, data la situazione di instabilità che regna a Teheran. E c’è quella politica esercitata in primo luogo dagli Stati Uniti attraverso le
sanzioni unilaterali in vigore ormai da più
di dieci anni”. Sanzioni alle quali si avvicinano con maggiore compattezza anche i
paesi dell’Onu. A marzo, persino la Russia
ha sottoscritto le misure restrittive contro
Bank Melli e Bank Saderat, due forzieri
dei pasdaran che, dice il Tesoro americano, finanziano il programma nucleare iraniano e numerosi gruppi terroristici in medio oriente, Afghanistan e Pakistan. “Quel
modello di coesione – dice Chorin – dovrebbe essere lo stesso a guidare le prossime mosse dell’occidente. Ma quando si
passa a parlare di imprese private il discorso cambia. Le multinazionali non sono
associazioni benefiche, puntano al profitto
e in Iran le possibilità sono tante. E’ difficile, se non impossibile, ricondurre la loro
azione a un piano politico appoggiato dalla comunità internazionale”.
Tanto che, nel 2007, quando le sanzioni
occidentali hanno raggiunto un livello senza precedenti, il flusso di valuta straniera
in Iran è arrivato al massimo storico: 10,2
miliardi di dollari, dice l’American Enterprise Institute, che prevede un trend in
ascesa per il 2008. Non è un caso che il paese, sotto Ahmadinejad, abbia abbassato le
restrizioni agli investimenti internazionali.
La fetta più grande è quella del settore
energetico. Qui, le multinazionali russe e
cinesi stanno rapidamente occupando i
banchi vuoti lasciati dalle compagnie europee e americane. A South Pars, il principale gas field del medio oriente, nelle acque
fra Iran e Qatar, Gazprom sta per sostituire
Shell e Repsol, che hanno lasciato un affare da dieci miliardi di dollari a causa delle
sanzioni dell’Onu e delle pressioni americane. A Kish, però, i charter non hanno
smesso di portare politici e affaristi europei.
La Svizzera ha siglato un accordo di fornitura energetica con l’Iran, un gruppo tedesco,
Mrk, costruirà la linea metropolitana di Ahvaz, un colpo da due miliardi e mezzo di euro. Una banca di Berlino, Eihbank, ha aperto una filiale a Teheran: è la prima volta che
accade dal 1979. E dalle parti di piazza Kabir, da febbraio, non c’è soltanto l’acquario,
c’è anche la Borsa iraniana del petrolio.
“Pericoloso per la sicurezza”. Così si finisce (dimenticati) nel carcere di Evin
accusa è sempre la stessa: “Attentato
contro la sicurezza nazionale”, che poi
L’
è la formula classica di tutte le dittature. Solo che basta davvero poco in Iran, a ventinove anni dalla rivoluzione khomeinista, per
passare dalla parte dei sobillatori. E’ sufficiente essere un bahai, ossia un seguace della principale minoranza religiosa del paese,
con trecentomila adepti apertamente osteggiati dalle autorità fin dall’arrivo al potere
degli ayatollah. Che lo stile di vita dei bahai
preveda “la ricerca della pace mondiale e la
difesa dei diritti umani” sembrerà forse
un’aggravante, agli occhi di un giudice di
Teheran. Così, quando qualche giorno fa sei
appartenenti alla setta (cinque uomini e una
donna) sono stati arrestati e tradotti nel supercarcere di Evin, la prigione dei detenuti
politici, nessuno s’è stupito più di tanto. E
nessuno deve aver creduto troppo alla trita
formula della sicurezza nazionale violata, la
stessa utilizzata per giustificare l’anno di detenzione al quale è stato condannato ieri un
giovane iraniano di 21 anni, Amir Yaghoub
Alim, per aver partecipato alla campagna
“Un cambiamento per l’uguaglianza” volta a
modificare le leggi che tuttora discriminano
le donne nel paese.
Erano “un pericolo per la sicurezza nazionale”, d’altro canto, pure i convertiti al
cristianesimo che sono stati arrestati a metà
maggio all’aeroporto internazionale di Shiraz mentre cercavano di imbarcarsi su un
volo diretto all’estero. Secondo il racconto
dell’agenzia Compass Direct i sospetti di
apostasia “sono stati sottoposti a diverse ore
di interrogatorio, tutto incentrato sulla loro
fede e le attività delle loro chiese domestiche”. Per loro, come per i sei bahai, il rischio è di terminare il soggiorno nella prigione degli oppositori con una condanna a
morte per impiccagione. Ne sono state eseguite quattro, all’inizio del mese scorso e
venticinque nel complesso in meno di venti
giorni tra la fine di aprile e la metà di maggio. Nelle prossime ore è attesa anche l’esecuzione della pena capitale per tre giovani
che al momento di commettere i crimini a
loro attribuiti erano minorenni. L’esecuzione della sentenza di morte per Behnoud
Shojaii, Mohammad Fadaii e Saiid Jazi, secondo quanto si legge sul sito degli studenti del Politecnico Amir Kabir di Teheran, è
stata già fissata e avverrà, come di consue-
to, per impiccagione. Behnoud Shojaii e
Saiid Jazi, per i quali la presidenza di turno
dell’Unione europea aveva chiesto clemenza, saranno impiccati l’11 giugno nel carcere di Evin, mentre Mohammad Fadaii salirà
sul patibolo due settimane dopo. Colpevoli
di aver ucciso un coetaneo in una rissa
quando erano ancora minorenni, i tre sono
soltanto i primi di una lunga teoria di cento
adolescenti iraniani che aspettano di incontrare il boia.
Che la repressione della Repubblica
islamica presieduta da Mahmoud Ahmadinejad abbia nei giovani il proprio bersaglio
preferito è un dato di fatto avallato dalle
cronache degli ultimi mesi. E’ tra gli studenti, universitari e liceali, che il risentimento verso il regime clericale di Teheran
cova sempre più forte. Tre degli studenti
che, alla fine del 2006, affrontarono Mahmoud Ahmadinejad al Politecnico di Teheran gridandogli “dittatore” sono scomparsi.
Uno di loro è andato a Evin. Non se ne sa
più nulla. E’ andata meglio a Babak Zamanian: un paio di giorni fa il giudice d’appello ha commutato in una multa da cinque
milioni di rial (circa 500 euro) la sentenza
di primo grado che lo condannava a un anno di carcere. L’accusa, come al solito, parlava genericamente di “attentato alla sicurezza nazionale”. Ma l’isolato atto di clemenza – a pochi giorni dall’apertura della
conferenza internazionale della Fao alla
quale prenderà parte lo stesso ex sindaco
di Teheran – sembra più che altro un segnale del regime alle critiche dei governi stranieri e delle organizzazioni umanitarie,
un’escamotage per allentare la pressione
sul capitolo dei diritti umani mentre ce n’è
un altro, quello sul nucleare, più aperto
che mai. Che la politica dell’Iran nei confronti degli studenti e dei dissidenti non sia
cambiata lo dimostrano i pestaggi subiti dai
ragazzi degli istituti tecnici Shariati, Vali-eAsr e Shamsipour di Teheran, che lo scorso 5 maggio sono stati dispersi dai militi
delle unità speciali della Guardia rivoluzionaria. Gli stessi che, lo scorso 30 aprile,
hanno malmenato fino a ucciderli tre giovani di Ivan-e-Gharb, nella provincia occidentale dell’Ilam. Avevano 12, 16 e 17 anni, ma
questo non ha impedito a Said Hashemi, vicedirettore locale agli Affari politici e alla
sicurezza, di definirli “hooligan”.
Mr non gradito
Arriva a Roma anche Mugabe
grazie all’extraterritorialità.
Il sistema dell’Onu è impotente
Roma. Non dite a Robert Mugabe che il
palazzo della Fao (Food and agricolture organization) fu progettato da Benito Mussolini per ospitare il ministero delle Colonie
fascista, prima di essere regalato all’Onu
nel 1951. L’ottantaquattrenne dittatore dello Zimbabwe ci è affezionato, non mancò
neanche al precedente vertice del 2005 per
il sessantennale dell’agenzia dell’Onu. Allora scandalizzò il mondo con un paragone
ardito: “Bush e Blair, come Hitler e Mussolini, si sono alleati per attaccare un paese
innocente”. Il presidente venezuelano Hugo Chávez si alzò per abbracciarlo. Allora
come oggi Mugabe era “persona non gradita” in Europa. A Lisbona, lo scorso dicembre, la sua presenza al vertice euroafricano provocò la defezione del premier britannico Gordon Brown. Oggi anche la sua
legittimità formale è dubbia: ha infatti perso le elezioni del 29 marzo, soltanto altri
brogli gli hanno permesso il ballottaggio
col rivale Morgan Tsvangirai fra 24 giorni.
Lo scienziato Arthur Mutambara, 42 anni,
il secondo grande oppositore di Mugabe, è
in carcere da sabato notte solo per avere
scritto in un articolo quello che tutto il
mondo sa e dice: il despota ha ridotto alla
fame il proprio paese, che prima di lui (fino al 1980) era il granaio d’Africa.
La presenza di Mugabe a Roma è imbarazzante, scrivono i giornali internazionali. L’Italia ha fatto del suo meglio per arginarlo, così come ha fatto con il presidente
iraniano Mahmoud Ahmadinejad, premendo anche sul Vaticano affinché il Papa non incontrasse capi di stato controversi. Alla cena a Villa Madama questa sera i
due dittatori non ci saranno, anche se di
Iran si parlerà visto che Roma vorrebbe
entrare nel tavolo del negoziato sul nucleare del 5+1 ma la Germania ripete che
non è necessario. Nonostante le pressioni
dell’Italia, con la scusa dell’extraterritorialità della Fao tutti sono invitati, anzi,
come ha detto l’agenzia dell’Onu, i capi
dei 191 paesi membri erano “dovuti”. Questo è il problema: il sistema Onu non ha,
ma soprattutto non vuole avere, i mezzi
giuridici e politici per emarginare le proprie pecore nere. O almeno per non fornire loro preziosi megafoni. L’unico che ha
avuto il coraggio di dire la verità è il ministro degli Esteri australiano Stephen
Smith, che rappresenta il proprio paese al
vertice romano: “Mugabe è il responsabile della fame di cui soffre il suo popolo.
Ha usato gli aiuti alimentari a fini politici.
Il fatto che partecipi a una conferenza sulla sicurezza alimentare è francamente
osceno”. C’è chi è ancora più sincero di
Smith. Il 5 maggio il presidente Abdulaye
Wade del Senegal ha dichiarato: “La Fao
dovrebbe essere smantellata. Non serve a
niente, anzi è proprio una delle responsabili per l’aumento dei prezzi dei cereali. E’
uno spreco di soldi, un doppione di altre
agenzie dell’Onu più efficienti come l’International Fund for Agricultural Development. In passato pensavo che bastasse
spostare la sede centrale da Roma all’Africa, vicino ai problemi reali della fame.
Ma ora dico: aboliamola”.
“Aboliamo la Fao”
Queste parole provengono da un compatriota dell’attuale direttore generale della
Fao, Jacques Diouf. “Attuale” si fa per dire, perché i capi della Fao hanno la spiacevole tendenza a rimanere incollati per
periodi interminabili alla propria poltrona. Diouf è in carica dal 1994, e due anni fa
è stato confermato per il terzo mandato di
sei anni. Resterà fino al 2012. Batterà il record del suo predecessore, il libanese
Edouard Saouma, che resistette dal 1976
al 1993. Questi mandati interminabili dicono tutto sull’efficienza del pachiderma burocratico della Fao. Otto mesi fa un Rapporto di valutazione, preparato da un
gruppo di economisti internazionali guidati dal danese Leif Christoffersen, ha denunciato gli eterni difetti dell’Onu e delle
sue agenzie: sprechi, sovrapposizione di
interventi, mancanza di comunicazione e
coordinamento tra le sedi, processi decisionali lenti e costosi. La ricetta: “Snellire la burocrazia, tagliare i dipendenti, decentrare”.
ANNO XIII NUMERO 148 - PAG II
IL FOGLIO QUOTIDIANO
MARTEDÌ 3 GIUGNO 2008
IL PROFUMO DELLA RIVOLUZI
Da Orano a Parigi, così un pied-noir ha conquistato la Rive G
di
Tiziana Mian
A
Orano, muro di pietra assediato dal
mare e abbacinato dal sole, un ragazzo di tredici anni dice alle sorelle:
“Un giorno avrò il mio nome scritto in lettere di fuoco sugli Champs Elysées”.
A Orano, in Algeria, Yves Henri Donat
Mathieu-Saint-Laurent era nato il primo
agosto 1936. E’ l’anno della guerra di Spagna. L’impero coloniale francese si estende su cinque continenti mentre l’Algeria
fa parte della Repubblica una e indivisibile. Parigi rappresenta ancora la capitale incontestata della cultura, dell’arte. E
naturalmente della moda: a quel tempo è
semplicemente impensabile che quest’ultima possa dare il la altrove che qui.
Yves fu bambino dell’anteguerra, adolescente di prima della decolonizzazione,
giovane prima del Concilio Vaticano II.
Aveva in quei giorni lontani i capelli
biondi e il profilo delicato della madre di
origine alsaziana, per sempre sua complice e musa.
Il bimbo fragile dai gusti effeminati,
che a casa disegnava modelli, estasiato
in Place Vauban. L’omosessualità, che è
oggi a malapena una particolarità, era allora una colpa nei confonti della morale,
un peccato per la religione, un’ anomalia
per la legge civile. E, per la medicina,
una tara.
Situato così nella sua epoca, si capirà
come e perché quel giovane miope dagli
occhiali troppo spessi, appassionato di
moda e di teatro, alto snello e timido dagli occhi di pervinca, che ha l’aria di un
principino o di un collegiale alla sua prima uscita, abbia amato, odiato, sentito e
fatto il suo tempo, prima di schiantarvi il
talento e la stessa vita.
Per Yves naturalmente tutto comincia
a Orano, città che in quegli anni vive tempi d’oro nella vivacità cosmopolita del
Mediterraneo: sogni e fantasmi. S’impregna d’opera e operetta al teatro municipale dove si reca con la madre la domenica mattina. Il fanciullo attorniato da fate, ghiotto di feste e travestimenti, d’affetti femminili, che a quindici anni ottiene già riconoscimenti estetici dalla stampa e dal teatro locali, diventa un adolescente solitario a cui il proprio corpo rivela una predilezione per i maschi; già
sogna, sui banchi di scuola, dove si deplorano i suoi scarsi risultati, di una città
fantastica e libera, di una notte eterna e
illuminata, abitata da vedette di teatro e
di cinema, ardente e vagamente peccaminosa. Questo sogno è Parigi. La Parigi
che la rivista Vogue gli porta in casa,
quella del Ritz, degli Champs Elysées,
quella letteraria e artistica di Cocteau, la
Parigi mondana, Parigi conturbante e
Su Pierre Bergé, il compagno di
Yves, Nureïev avrà questa battuta:
“Quando cammina si ha l’impressione
di udire le sue palle urtarsi tra loro”
sfogliava Vogue e, dagli abiti smessi della madre, confezionava vestiti per le bambole delle sorelle e costumi da ballo per
quest’ultime, molto più che uno stilista
sarà l’interprete di una rivoluzione e di
una rottura con un mondo che per essere
riesumato oggi fa appello all’archeologia.
Quando nel 1958, a soli ventuno anni, il
grande couturier trionfa con la linea
Trapèze per la Maison Dior, l’anatomia di
Brigitte Bardot fa fremere il mondo; prima di andare al cinema, nel paese di
Charles De Gaulle si consulta l’“Office
catholique du cinéma”; i francesi vanno a
messa e la chiesa parla latino. Aids, mucca pazza, divieto di fumare, cintura di sicurezza… non sfiorano neppure la fantasia della fiction. Insomma i Beatles portano ancora la cravatta. Sia detto soprattutto per situare un punto importante e
drammatico nella vita di Saint-Laurent:
la sua omosessualità, che rivendicherà
Un ragazzo di tredici anni dice
alle sorelle: “Un giorno avrò il mio
nome scritto in lettere di fuoco sugli
Champs Elysées”
come tale fin dall’inizio degli anni Sessanta. Affida senza esitazioni la gestione
della Maison, creata nel 1961, della sua
fortuna e della sua vita quotidiana a Pierre Bergé, uomo d’affari decisamente anomalo, imprenditore che vive tra pittori intellettuali e politici, incontrato una sera
all’atelier Dior e divenuto subito suo amico e amante. Pierre, per Yves uomo e artista, pianta tutto. Vanno a vivere insieme
perversa che i provinciali di tutto il mondo sognano di conquistare. Trent’anni più
tardi le dedica un profumo: “Paris”. Per
lanciarlo Joséphine Baker, flacone tra le
mani, canta il suo successo degli anni folli “J’ai deux amours: mon pays et Paris”.
E’ la madre a condurlo la prima volta
nella ville lumière per ritirare il terzo
premio di un concorso lanciato dal Segretariato generale della lana. E’ il 1953 e
fa già un incontro determinante: Michel
Brunhoff, direttore di Vogue che, visti i
suoi schizzi, ne riconosce il talento pur
mettendogli davanti una priorità; torna
pure a Orano e rifai la maturità (era infatti stato bocciato).
Eccolo, maturato, nel giugno del 1954, il
giovane Mathieu-Saint-Laurent. Partecipa una seconda volta allo stesso concorso
e questa volta strappa il primo premio.
Ma lo assilla un vecchio sogno: le quinte
e le scene del teatro. Brunhoff gli facilita
l’entrata alla Comédie-Française, dove
per mesi assiste alle prove e alle scenografie annoiandosi un po’. Come durante
le lezioni di filosofia a Orano, continua a
disegnare abiti femminili. Finché un
giorno ne porta una cinquantina a Vogue.
Brunhoff, sotto choc, telefona a Edmonde
Charles-Roux, una delle vestali della
stampa della moda: “Il piccolo Saint-Laurent è arrivato ieri. A mia grande sorpresa, su cinquanta schizzi che mi ha portato, almeno venti potrebbero essere di
Dior. In tutta la mia vita non ho incontrato mai un simile talento”.
Il papa della moda lo riceve il 20 giugno 1955. Yves, in camice bianco, sarà assistente di Dior come tanti altri, ma già il
30 agosto dello stesso anno Harper’s Bazaar viene per fotografare il primo abito
del giovane oranese. Si chiama “Dovima
et les éléphants”. Nel luglio di due anni
dopo, Christian Dior annuncia: “Il momento è venuto di rivelare Yves SaintLaurent alla stampa. Il mio prestigio non
ne soffrirà”. In ottobre, un incidente cerebrale colpisce fatalmente Dior in Italia,
durante le cure termali. Comincia per
Yves un lavoro massacrante fatto di notti
insonni angosce e fobìe: a soli ventuno
anni il pied-noir dalla pelle bianca e le
mani d’oro si troverà alla testa della Maison Dior. Qui comincia la dannazione di
Yves Saint-Laurent, perché il suo male è
stato anche ciò che più ha desiderato, la
moda, il successo, la gloria. “La moda gli
ha tolto la giovinezza” dirà un giorno sua
madre. E questo mestiere gli risparmierà
per giunta ogni contatto con la realtà. Di
qualunque problema è Pierre a occuparsi. Yves non sa prendere un aereo da solo. Mette per la prima volta piede in un
supermercato quando va negli Stati Uniti. La sua delicatezza sfiora la morbosità.
Mentre su Pierre Bergé, Nureïev avrà
questa battuta: “Quando cammina si ha
l’impressione di udire le sue palle urtarsi tra loro”, di Yves una delle sue amiche
sorride: “Quando spegne la radio me lo
immagino a chiedere scusa allo speaker”.
Esige una pace assoluta, nulla lo deve
turbare. Pierre il bulimico protegge Yves
l’anoressico della realtà. Grazie a lui potrà solo essere e pensare.
Nel 1961 si trovano entrambi a creare
la grande casa di moda senza un minimo
di capitale perché all’ultimo momento
Élie de Rothschild ha rifiutato di investire. Bergé ha venduto il proprio appartamento dell’île Saint-Louis e qualche Buffet, ma non basta. Ci riuscirà: il 15 novembre J. Mack Robinson firma. Mette
l’ottanta per cento del capitale, Pierre il
resto e Yves una somma da amministratore. E’ la prima volta che un americano
possiede una casa di moda francese. Investirà settecentomila dollari in tre anni.
Yves che non è più Mathieu-Saint-Laurent, ma semplicemente Saint-Laurent,
acquista un palazzo in rue Spontini, dove
espone le sue creazioni. Il successo delle
collezioni è istantaneo, tuttavia non ha ripercussioni finanziarie immediate. Dopo
tre anni Robinson si ritira e Bergé trova
il sostituto, Richard Solomon. Ma la prima grande svolta avverrà nel 1966 con l’apertura della prima boutique Rive Gauche, il cui scopo sarà vendere collezioni
YSL in prêt à porter. Nel 1969 i negozi Rive Gauche saranno già diciannove in Europa e dieci negli Stati Uniti.
Gli anni Settanta conosceranno il regno
assoluto di Yves Saint-Laurent sulla moda. Nel 1974 abbandonano la rue Spontini
per l’avenue Marceau. Ormai una parte
importante del fatturato è data dal settore dei profumi. Nel luglio del 1977 esce
“Opium”, che piacerà subito molto e a
lungo. Dieci anni dopo sarà ancora il primo profumo francese negli Stati Uniti. Poi
viene “Kouros”, il “profumo degli dei viventi”: per lanciarlo Nureïev danza sulla
scena dell’Opéra Comique. Nel 1983 arriva “Paris” che dieci anni più tardi raggiungerà un fatturato di un miliardo di
Della delicatezza di Yves una
delle sue amiche disse: “Quando
spegne la radio me lo immagino a
chiedere scusa allo speaker”
franchi (duecento miliardi di lire).
Gli anni Ottanta sono fasti per Pierre
Bergé: l’arrivo della sinistra al governo lo
fa esultare. Il vecchio militante ne approfitta. Presidente della Camera sindacale
della moda, si fa assegnare la presidenza
dell’Opera di Parigi. Dal laboratorio americano Squibb compra per YSL i profumi
“Charles of the Ritz”. Ormai in casa SaintLaurent su 2,5 miliardi di franchi (cin-
quecento miliardi di lire) di giro d’affari,
profumi e cosmetici ne assicurano 2,2
(quattrocentoquaranta miliardi di lire).
Hanno 2.650 impiegati per quel settore
contro soli 342 per la moda. Ma Bergé nel
frattempo si è indebitato: la holding francese di Carlo De Benedetti, possiede un
terzo del capitale di Yves Saint-Laurent,
il resto appartiene a Yves e a Pierre. Dopo due ristrutturazioni, la società è introdotta in Borsa nel luglio del 1989: quattrocentomila azioni sono offerte al pubblico che ne domanda duecentotrenta
volte di più. Ma le cose cominciano a
cambiare dalla fine dell’anno.
La Francia che nel 1975 si accaparrava
ancora i tre quarti del mercato mondiale
del lusso, ne occupa soltanto la metà nel
l989. Arrivano gli italiani. Inoltre, le vendite dell’alta moda sono diminuite di molto e la verità è che l’eleganza della strada
diventa rara. Bergé si agita per controbilanciare gli effetti di tale fenomeno. Trae
profitto dalle amicizie con la gauche caviar, in particolare da Jack Lang, allora
ministro della Cultura, e François Mitterrand, per ottenere onorificenze accademiche e mediatiche senza pari. Ma nulla
frena il precipitare degli affari. Nel 1991
ANNO XIII NUMERO 148 - PAG III
IL FOGLIO QUOTIDIANO
MARTEDÌ 3 GIUGNO 2008
IONE DI YVES SAINT-LAURENT
Gauche mondiale. L’avventura dell’arbitro di tutte le eleganze
Robert Hue, capo del Partito comunista, e
si batte subito per le trentacinque ore di
lavoro settimanali, prima di tutto nell’alta
moda. Difatti Pierre e Yves non perdono
occasione ormai per dire che l’alta moda
è finita per sempre e il mestiere con lei.
Ostentano la loro presenza alle collezioni
dei concorrenti piuttosto che assistere alle presentazioni di Yves Saint-Laurent Rive Gauche. Il risultato sarà urtare Gucci e
Pinault in modo da chiudere definitivamente la Maison senza che la marca possa venir ripresa nella haute couture. E’ cosa fatta: il 7 gennaio 2002, in una dichiarazione di stile e di grande sobrietà alla
stampa Yves Saint-Laurent darà l’addio
alla professione lasciando dietro di sé un
paesaggio di rovine.
Vi fu un che di tragico nel destino di
quest’uomo che amò le donne, non come
sono ma come dovrebbero essere, che le
spogliò e vestì, che distrusse e creò. Iconoclasta di una donna in fondo sempre esistita, quella anatomica e morfologica, si
volle demiurgo di un essere nuovo senza
curve né seno, adolescente e androgina,
ma sofisticata.
Colui che ha fatto e disfatto un’epoca è
stato però fatto e disfatto dalla medesima.
Le femministe che sfilavano, i preti che
smettevano la tonaca, un po’ più tardi pillola, aborto, divorzio; côté moda, topless,
sahariana, smoking per donna e tailleur
pantaloni; liberazione ed educazione sessuale, mentre “Sexus” di Henry Miller si
vendeva come pane, Sylvia Kristel interpretava Emmanuelle, Jane Birkin cantava
69, année érotique: tutto questo fece la sua
Chiude la carriera imprecando:
“In Italia le donne si notano di più.
Sono più semplici. In Francia… vi
è un che di stravaccato nell’aria”
De Benedetti si ritira e Bergé, che ha dovuto acquistarne le azioni, si trova indebitato fino al collo. Nel settembre del 1992
al Nouvel Economiste dichiara di voler
vendere Yves Saint-Laurent. JeanFrançois Dehecq, presidente di Sanofi,
che per le feste di Natale è invitato nella
casa di campagna di Mitterrand, riceve
Bergé. Il 19 gennaio 1993 all’hotel George
V il gruppo Elf-Sanofi annuncia l’assorbimento della Yves Saint-Laurent. Il quotidiano Le Monde vi vede un’operazione
politica: “Uno della cerchia Mitterrand,
Pierre Bergé, padrone di un gruppo di
lusso fortemente indebitato, viene salvato
da Loïk Le Floch-Prigent, presidente d’un
gruppo pubblico, alla vigilia di una scadenza elettorale” . E YSL è salvata. Secondo Le Monde Yves e Pierre si prenderebbero ciascuno una plusvalenza di trecento milioni di franchi (novanta miliardi
di lire) più un tributo annuale di dieci milioni (tre miliardi di lire) in veste di consiglieri di creazione e marketing. La Maison non smentisce né conferma.
In giugno, nuova questione: la Commissione delle operazioni di Borsa afferma che un grosso pacco di azioni SaintLaurent sarebbe stato ceduto in Svizzera
fuori mercato, per un ammontare di cento milioni di franchi (trenta miliardi di lire) nell’estate del 1992, proprio alla vigilia della pubblicazione di una perdita semestrale che ha causato una caduta brutale del titolo. Il 17 giugno il Figaro garantisce che Pierre Bergé sarebbe all’origine della transazione. Quest’ultimo affare finirà in tribunale, ma Bergé otterrà
un non luogo a procedere nell’ottobre del
1995. La grande casa ha però ormai perso
la fiducia della sua casta o forse è vittima
di una vendetta contro una supremazia
divenuta a tutti insopportabile. Così già
dal 4 febbraio 1993, Bergé non è più rieletto presidente della Camera sindacale
della moda e come non bastasse due mesi dopo, fischiato, viene estromesso da
questa istituzione. Anche la poltrona di
presidente dell’Opera comincia a traballare e tra varie controversie finirà il mandato, previsto per il 1994, senza speranza
di rinnovo. Nel frattempo, dopo i licenziamenti con cui colpiva i suoi collaboratori, finisce in tribunale a causa di un incidente mortale avvenuto nel corso di
una rappresentazione, per un difetto di
materiale. Naturalmente se ne infischia,
perché il “Napoleone dell’avenue Mar-
ceau” è alla massima potenza solo in
mezzo alla bufera. Urla, ingiuria i detrattori. Il “pit bull of french fashion” è più
brutale che mai. Contrattacca lanciando
un profumo, “Champagne”. Ma va in cerca di grane, si tratta infatti di denominazione protetta. Il 7 giugno 1993 ecco di
nuovo Saint-Laurent chiamato in giudizio. Agli avvocati non resta ormai che
guadagnar tempo stiracchiando la proce-
Negli anni Ottanta l’arrivo della
sinistra al governo aiuta la Maison,
Bergé trae profitto dalle amicizie con
Jack Lang e François Mitterrand
dura, mentre le vendite aumentano. Questa volta però la giustizia è celere e il 28
ottobre dello stesso anno la sentenza vieta a Saint-Laurent di vendere il profumo
sotto quel nome. Alla fine però, neanche
questa volta la volpe dell’avenue Marceau ha mancato di fiuto, sono riusciti a
vendere 350 mila flaconi in tre mesi per
un giro d’affari di duecento milioni di
franchi (sessanta miliardi di lire).
Il regno Mitterrand volge intanto al tramonto e Pierre Bergé, dopo aver dichiarato che il Ps non è di sinistra, si prepara
a fare la corte a Chirac di cui si farà sostenitore durante la campagna elettorale.
Questo giro di boa gli offrirà qualche anno di tranquillità all’interno di Sanofi prima di trovare il futuro acquirente. Nel
1998 quest’ultima si sbarazza di Yves
Saint-Laurent, couture e profumi, mentre
Pierre Bergé tratta con François Pinault.
Ma c’è una difficoltà: il gruppo possiede
Gucci e Bergé non sopporterebbe che i
manager di Gucci mettessero il naso negli
affari suoi e di Yves. L’avenue Marceau è
dichiarata intoccabile. Infine viene trovato un accordo. Gucci si prende profumi e
boutiques, ma l’alta moda, di cui Bergé resta a capo, diventa proprietà della holding
personale di François Pinault, Artemis. A
questo punto libero da qualsiasi problema di denaro (ha incassato 68,8 milioni di
euro, oltre a mantenere l’esclusiva sugli
ordini e i diritti di proprietà intellettuale
sulla marca Saint-Laurent, in più la YSL
profumi s’impegna a versare quattro milioni di euro all’anno fino al 2016) può darsi finalmente alla politica attiva. Membro
degli amici dell’“Humanité”, si avvicina a
fortuna e in certo qual modo la sua disperazione.
Il suo sogno? Una spoglia eleganza. Ma
come poteva quest’eleganza non essere in
contraddizione con quel paesaggio? La decadenza generale coinciderà con il suo decadimento personale. Quando alla fine
della carriera si tinge i capelli di nero come una vecchia civetta, si scatena contro
la moda che non dà più valore alla donna,
contro una moda che non prende le proprie responsabilità e che ha rassegnato le
dimissioni. Giudica l’epoca “deficiente”:
“Ho nostalgia degli anni Venti” arriverà a
dire proprio lui, il trasgressore, ormai percepito dai suoi successori come una reliquia desueta di un mondo scomparso. “La
strada – impreca – è mostruosamente immonda. La gente crede che le case d’alta
moda esistano ancora, ma dopo Chanel,
Schiaparelli, Balenciaga, Givenchy, dopo
di me, io lo so che non ce ne saranno più”.
La Francia e la sua influenza continuano intanto a perdere terreno, ne è naturalmente furibondo: “In Italia e a New
York, la strada è più bella, le donne si notano di più. Sono più semplici. In Francia… vi è un che di stravaccato nell’aria”,
denuncia ancora l’arbitro di tutte le eleganze. Tuttavia se guardiamo da vicino gli
irreparabili oltraggi contro cui egli si scatena, osserviamo che assomigliano stranamente a ciò che Saint-Laurent faceva
da giovane, e sembrano discendere direttamente dalle sue innovazioni, dalle sue
tendenze e dai suoi irreparabili eccessi.
Fa la morale ai provocatori e non ha fatto
che provocare. Impreca contro il nudo
(contro Sophie Dahl, per esempio, che posa nuda per una pubblicità di Gucci per
“Opium”) d’un tratto dimentico che fu
proprio lui il primo in assoluto a posare
nudo e crudo per la pubblicità: “Rive gauche da tre anni è il mio profumo, da oggi
può essere anche il vostro”. Cronos, il dio
del tempo, divorava i suoi figli. Saint-Laurent è finito divorato dai suoi. Il primo
giugno 2008.
L’ULTIMA BIOGRAFIA
Parigi. Come è stato possibile che un giovane provinciale sbarcato a Parigi disegnando fantasmi sia riuscito a imporre uno
stile e a creare la nuova Eva? Ce lo spiega
dettagliatamente Fiona Levis nell’ultima
biografia “Yves Saint-Laurent, l’homme
couleur de temps” (Editions du Rocher, 19
euro), uscita in questi giorni in libreria.
E’ anche una storia ghiotta di incidenti
ed errori. Per molto tempo Yves SaintLaurent sposa l’assoluta tirannia dell’idea
sulla tecnica. Non conosce i tessuti, ha
snobbato la scuola di taglio, il suo disegno
tirannico non si addice a tutte. Gli inizi,
nella pratica, hanno le loro difficoltà come
Yves le sue esigenze. Vieta, per esempio,
pinces e cerniere lungo la schiena? Ebbene accade talvolta di non poter entrare
nell’abito. Oppure succede che un abito è
tanto fluido e leggero che la cucitura cede
nel bel mezzo di una serata.
Ma Yves Saint-Laurent nella sua tenacia
sa ascoltare. Gli imperativi di Coco Chanel
sono: disinvoltura, scioltezza, conforto. Yves
riceve il messaggio e saprà farne una rivoluzione copernicana. Non parte più da disegni arbitrari anche se ispirati, ma dalla
donna e dal tessuto che la avvolgerà. Si
chiede come fa Coco perché le donne si sentano così bene nei suoi abiti da dimenticarli. A forza di accanimento diventa un artigiano senza uguali. Chi lo ha visto all’opera
dice che ha le dita d’oro, che la materia gli
obbedisce come fosse un mago. In poco tempo mette fuori moda il vecchio concetto di
eleganza sostituendolo con quello di seduzione: “Un modo di vivere più che di vestire” garantiva l’unico sovversivo della moda
dopo Chanel . Il suo scopo è creare degli
abiti che, a differenza della minigonna, possano essere portati da tutte le donne e a tutte le età, dei prototipi, insomma, che non
passeranno mai di moda. Per Yves linea e
movimento sono una cosa sola, lui osserva i
gesti della donna e la desidera libera da impacci e atteggiamenti goffi.
Il primo intervento sovversivo è strapparle quella borsetta che le pende dalla
mano “ alla quale mancano solo i porri!”.
E infatti chi non è d’accordo? Il massimo
dell’eleganza è una donna senza borsa. Poi
le toglie i guanti. Il grande segreto degli
abiti di Yves? Le spalle dritte. Le rotondità sulla schiena invecchiano. Tutto stà
nell’andatura e nel portamento, più è disinvolto e più è elegante. Le tasche per
esempio sono una fonte di sicurezza: poter
affondare le mani nelle tasche del proprio
abito dà un’aria di superiorità che non ha
chi è costretta a lasciar penzolare le braccia, a incrociarle o far girare la fede al dito. Ma mettere le mani in tasca è anche
una rivolta perché anche per un uomo è
un segno di cattiva educazione. “La mia
regola essenziale è rendere le donne più
slanciate e soprattutto assottigliarle”. Tuttavia una linea che si ripete e si semplifica finisce per diventare austera e monotona. Ed è qui che gli accessori hanno un
grande ruolo, una sciarpa, una borsa a tracolla che libera le mani, una cintura morbida che accentui il movimento dei fianchi. “I miei accessori sono gesti” dirà il
maestro che si voleva visionario.
“I miei accessori sono gesti”
Così nasce Eva Saint-Laurent, da un’avversione sprezzante e assoluta per quella
che fin lì era stata la donna. Inutile sottolineare che Marilyn e Lollobrigida occupano ancora la memoria di tutte e tutti. Perché allora il ragazzo di Orano è così nemico delle rotondità, anche di quelle piacevoli? Per vari motivi ci spiega Fiona Levis.
Innanzitutto perché corrispondono a canoni “borghesi”. In secondo luogo perché come sosteneva lo stesso stilista “una donna
è facile da vestire”, è sufficiente che abbia
collo, spalle e gambe, per il resto m’arrangio io. Ma la causa principale dipende dal
tipo di seduzione che portamento e abito
esercitano su Saint-Laurent e che egli vuole fare esercitare. Per reazione alla donnadonna sviluppa così anno dopo anno una
linea ambisessuale. Mette in valore le virtù
virili della donna, in particolare la sua forza. Le modelle le vuole al limite della denutrizione, se gli pare che abbiano troppo
seno impone loro le fasce. Il grande couturier è fisicamente misogino, cerca l’ambiguità per poter amare le sue donne e perché non si infrangano contro di esse i suoi
sogni più segreti. Aveva un debole per le
acconciature sofisticate, per la bigiotteria
pesante, per un trucco violento che sembravano una parodia della femminilità su
corpi quasi maschili. La fotografia di Silvana Magnano che teneva in una nicchia
della biblioteca, come in una nicchia della
sua memoria sentimentale teneva quella
sensualità selvaggia ricordo di “Riso amaro”, non gli impediva di avere una vera
passione per Marlene Dietrich: frac e giarrettiera, la Berlino tra le due guerre gli assillarono il cervello e gli ispirarono lo
smoking femminile.
Attraverso la filigrana del tempo, Fiona
Levis racconta in maniera stringata e originale, pertinente e raffinata il dandy, l’amante del nero, il superstizioso, il depresso, il nervoso, il cocainomane, il “rivoluzionario convenzionale”, senza un soldo in
tasca, ingombro di amuleti e fobie, che
odia topi, gatti, uccelli, rose gialle, arrabbiato con l’ortografia, protetto da croci, corone musulmane e altri feticci, su cui si
poteva immaginare che non ci fosse più
nulla da dire. (tm)